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Quaderno di comunicazione

rivista di dialogo tra culture


Quaderno di comunicazione
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Segretario di Redazione Registrazione presso il tribunale di Roma


Mimmo Pesare n. 600/99 del 14/12/1999

Pubblicato con il contributo dell’Università Tutti i numeri del Quaderno


del Salento erogato tramite il sono consultabili al sito web:
Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali www.quadernodicomunicazione.com
Indice

p. 5 Questo numero (a.s.)

Vicini, lontani

p. 11 Luigi Zoja, La scomparsa del prossimo


15 Fabio Dei, Insieme con la nostra solitudine
25 Eugenio Imbriani, L’orchessa e l’antropologo
35 Pietro Clemente, Le crasi del vicino e del lontano
47 Duccio Demetrio, Nostalgia di comunità.
Anghiari e la sindrome del dono
57 Diana Salzano, Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche
dello sguardo mediatico
65 Charo Lacalle, El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo
del Gran Hermano
(traduzione di Angelo Nestore)
79 Alessio Rotisciani, Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti
delle connessioni sociali su Facebook
87 Lelio Semeraro, Il poker on-line scopre le sue carte
95 Silvia Gravili, Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto
107 Franco Martina, Intellettuali, tra “vergini idee” e “non sempre
casti appetiti”

Reset

119 Daniele Lamuraglia, Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali)


127 Luciana Dini, Comunicare la scienza.
Le biotecnologie nell’era della globalizzazione
139 Mimmo Pesare, Paideia come prassi trasformativa
145 Angelo Semeraro, Narrativa in cerca di paideia

Tessiture

159 Pulcini E., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale,
Bollati Boringhieri, Torino, 2009
160 Mancuso V., La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano, 2009
162 Martini C.M., Le ali della libertà, Piemme, Milano, 2009
(Angelo Semeraro)
163 Fiumanò M., L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento
nella contemporaneità, B. Mondadori, Milano, 2010
165 Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova
clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano, 2010
166 Mancia M., Narcisismo. Il presente deformato allo specchio,
Bollati Boringhieri, Milano, 2010
168 Siciliani De Cumis N., (a c.), A. Semënovič Makarenko, Poema pedagogico,
Edizioni Albatros, Roma, 2009
(Mimmo Pesare)
169 Lacalle C., El discurso televisivo sobre la inmigración,
Ediciones Omega, Barcelona, 2008
(Stefano Cristante)
170 Marrone G., L’invenzione del testo. Una nuova critica della cultura,
Laterza, Roma-Bari, 2010
(Cosimo Caputo)
172 Dorfles P., Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura,
Garzanti, Milano, 2010
(Stefania De Donatis)
174 Piromallo Gambardella A., La comunicazione tra incanto e disincanto,
Franco Angeli, Milano, 2009
(Diana Salzano)
175 «Alfabeta» 2. n.1, Gems, Milano, 2010
(Carlo Formenti)

177 Autori
Questo numero

Proponiamo in questo 11° fascicolo una riflessione sul tema della prossimità
e della lontananza, muovendo dalla convinzione che le categorie del Vicino e del
Lontano hanno subito trasformazioni profonde. Per millenni spazialità e tempo-
ralità hanno funzionato da paradigmi indiscussi delle relazioni interumane, ma
l’età delle tecnologie reticolari li ha modificati e sconvolti. Il concetto di prossi-
mo ad esempio, sembra essersi evaporato, anzi scomparso, ha fatto notare Luigi
Zoja, il cui provocatorio volume einaudiano ha suggestionato l’agenda di questo
monografico. Siamo sempre più connessi: dialoghiamo coi lontani, ma tendiamo
a disinteressarci di chi ci è più vicino. Fabio Dei però non è d’accordo con questa
tesi, e dal suo osservatorio antropologico sostiene che l’esplosione del Mitwelt
non cancella il mondo-ambiente, ossia la sfera della prossimità nella quale intrat-
teniamo le nostre relazioni fondamentali, e che nonostante la pervasività degli
ambient media, noi continuiamo a vivere in universi addomesticati e locali che gli
stessi mezzi di comunicazione rafforzano.
Due tesi a confronto quindi, che rimandano a una più grande questione solle-
vata dallo stesso Dei: come guardano e giudicano il mondo gli intellettuali? Come
erano gli intellettuali di ieri, e come sono quelli di oggi, i sans papier – come li
definisce Maurizio Ferraris – migrati nella grande rete? E cosa c’è alla radice del
loro eterno disagio? Il dibattito è in corso, e il tema non si poteva eludere, perciò
questo fascicolo lo segnala con un saggio meditato di Franco Martina, ma anche
con un buon grappolo di Tessiture.

Lontananza del vicino e vicinanza del lontano. Mancanza del più prossimo e
Presenza del più remoto. Presenze a rischio, direbbe ancora Ernesto de Martino,
che cercano rifugio nel metastorico per sottrarsi alla scomparsa e all’irrilevan-
za, ma anche alla durezza del principio di realtà. Il virtuale, a pensarci bene, ha
assunto le stesse funzioni magico-rituali, rifugio e recupero insieme di un’identità
minacciata.
Si lavora sulla fertilità sorprendente degli ossimori, sullo scontro dei codici:
Bausinger, qui evocato da Imbriani, parla di una vicinanza estranea, e Clemente
di lontananze vicine. Perché oggi la lontananza non è più lontana, dal momento
che la tecnica del lontano ha avvicinato cose e persone. La temporalità nuota nel
flusso lineare di un presente perenne, di un evenemenziale che si preclude sguar-
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di più lunghi, sia avanti che indietro. La distanza – afferma Diana Salzano – si è
Quaderni di comunicazione 11

compressa e ha cambiato tipo di misuratori; non si esprime più attraverso entità


metriche ma in entità temporali. Non è più la distanza fisica a definire i margini
dell’alterità, ma il flusso. Il tempo ha perciò assunto una sua centralità rispetto allo
spazio, anche se si tratta di un tempo diverso da quello ciclico, perché misurato
sulla sola durata delle connessioni; su rapporti che vivono e si consumano su cen-
tri provvisori di interesse, affinità, empatie.
Non si tratta evidentemente di questioni che riguardano la prossimità o la
distanza fisica. Le tecnologie che hanno contratto spazio e tempo sono sì strumen-
ti, ma anche fonti di relazioni che espongono ’intimità oltre la soglia di relazioni
protette. Sostiene Demetrio che esse “ottemperano ormai al bisogno di scegliere
le proprie comunità e di costruirle informandole allo spirito della più totale op-
zionalità”. Le connessioni reticolari sono esperienze di intensità pari, e fors’anche
superiore, a quelle che ci è dato vivere nei contatti reali. Spazi virtuali “acronici
e atopici” che stimolano e suscitano attrazioni, repulsioni, intrighi, seduzioni. Un
gioco dell’immaginazione che introduce una terza dimensione, accanto a quella
privata e a quella professionale e lavorativa, fonti queste ultime di infinite frustra-
zioni e insoddisfazioni. L’enorme incidenza del web 2.0 sulle nostre vite – se ne
occupa Charo Lacalle – ha aperto una partita nuova nel sistema delle relazioni re-
ticolari. Gli incontri su blog, facebook – su cui scrive Rotisciani – twitter, e-terapy
e altro ancora, si configurano qualitativamente altri rispetto al corpo a corpo della
vita attiva. In questi formati elettronici si fanno investimenti emotivi che rispetto
alle consuete forme di interazione fisicamente vicine hanno lo stesso peso delle
narrazioni letterarie. Farne esperienza diretta, piacevole o deludente che sia,
genera effetti non indifferenti, non solo in chi ha preso consuetudine di frequen-
tarli, ma anche in tutti coloro che pur essendo lontani da quei luoghi virtuali, ne
restano sia pure indirettamente coinvolti. Si tratta – spiega ancora Demetrio – di
relazioni “concrete e vive” – come direbbero i sociologi del quotidiano – che
offrono l’opportunità della finzione, laddove la sfera pubblica e quella privata
tendono a sottrarci la dimensione vitale del gioco. La vita attiva, nel lavoro, nelle
professioni, nelle istituzioni, ci sagoma per tempo a reprimere l’emotività, a do-
minare i sentimenti, a formalizzare i rapporti. Le prestazioni aziendali impongono
distanze di sicurezza e ufficialità nei rapporti tra le persone. Le emozioni non pos-
sono interferirvi. Demetrio ci conduce nei luoghi della convivenza lavorativa dove
la comunicazione ha completamento smarrito la funzione donativa che è nel suo
etimo fondativo; non funge più da collante solidale in vista del raggiungimento
di un’azione comune finalizzata al raggiungimento di obbiettivi soddisfacenti. La
comunicazione aziendale, nel sistema del management, impone adattamenti sem-
pre più stringenti a logiche indiscusse. Un come senza più un perché che alimenta
rapporti gregari, anaffettivi, conflittuali. Scrive ancora Demetrio: “Le prerogative
richieste nella gestione della lontananza emotiva dalle faccende di lavoro, corri-
spondono alla propria abilità nel riuscire a sdoppiarsi, nell’imparare rapidamente
a interpretare, bene e con successo, in copioni impostici dall’arte della versatilità
sia di ruolo che emotiva, badando bene a non confonderne i piani tra loro”. E
ancora: “I contesti di lavoro obbligano ad autogestire gli aspetti emotivi, control-
landoli e dosandoli a seconda delle circostanze e degli interessi. E il risultato è che

7
essi finiscono col trasformare uomini e donne in figure anaffetive”. Nelle comu-

Questo numero
nità virtuali l’inaridimento emotivo del corpo a corpo sociale trova una cassa di
compensazione e di sublimazione senza eguali. La ricchezza dell’offerta consente,
per chi lo voglia, generosi risarcimenti sulle perdite subìte nella vita di relazione di
prossimità.
L’espansione della rete ha senz’altro alimentato legami orizzontali, spodestando
la verticalità della comunicazione-potere. Ma la domanda è: ha aiutato a invertire
la tendenza all’allontanamento dell’altro? In realtà le cronache della vita quoti-
diana ci descrivono situazioni in cui sentiamo più vicini ai lontani e più lontani dai
vicini. La distanza è sempre stato un ostacolo alla comprensione. Ma la situazione
in cui ci troviamo è che quella distanza dell’altro che è stata annullata dai mezzi
informatici e mediatici, ha preso corpo nei rapporti di contiguità. Il fascino del
distante avvicinato è l’altra faccia di una stessa medaglia del vicino allontanato.
E l’idea di un prossimo distante, sempre più lontano, sempre più astratto, pone
senz’altro (ha ragione Zoja) interrogativi etici.
Certo, la possibilità aperta a tutti di sublimare con l’immaginazione la durezza
del principio di realtà gode, in questo momento, di un alto e crescente indice di
gradimento, e non solo tra le nuove generazioni. È il fascino, forse illusorio, del
rapporto di cui hanno sempre potuto godere le figure del doppio e delle maschere
proprie di ogni finzione narrativa.

Il vicino/lontano è indagato con diversa prospettiva in altri saggi. Silvia Gravili


esamina i due modelli imprenditoriali italiano e cinese. Un’occasione, afferma, per
“guardarci nello specchio”, con ciò rimandandoci a temi già trattati dal QC; alla
necessità dello sguardo dell’altro-diverso come forma necessaria per ogni processo
di identificazione. Il profilo del giocatore on-line analizzato da Lelio Semeraro ci
apre a un mondo nuovo in cui tutto va ripensato: dove l’imperativo “giocatore,
gioca il tuo gioco!” si allarga oltre Huizinga, Callois e Dostoevskij, richiamandoci
il valore del rischio nello spazio invalicabile della regola.

La rubrica Reset presenta altri saggi di diversa natura e aspirazione. Lamuraglia


chiede attenzioni per una comunicazione non truccata, reagendo alle provocazioni
delle parole mana dettate da un uso ammiccante delle tecnologie comunicative;
Luciana Dini presenta a sua volta un contributo di comunicazione scientifica
sulle nanotecnologie e i loro usi sociali, affrontando la questione degli OGM e dei
brevetti.
I due ultimi saggi infine riflettono sul bisogno di nuova paideia, recuperando
discorsi lontani e fili spezzati, per risollevare le sorti di una pedagogia che ha un
evidente bisogno di andare oltre se stessa.

(a.s.)
Vicini, lontani
Luigi Zoja
La scomparsa del prossimo

Tutte le grandi civiltà racchiudono aspetti


mostruosi. L’illuminismo ha avuto troppa
fretta di promettere la loro scomparsa: le
mostruosità, però, sono state identificate,
chiamate col loro nome e combattute. Non
sono propriamente scomparse, ma non sono
più state considerate inevitabili.
La nascita dei diritti dell’uomo ha fatto
invece nascere una mostruosità nuova: il
marketing dell’umanesimo. Molti orrori an-
tichi si sono attenuati, altri hanno preso vita
dietro a facciate opposte. A differenza dei
tempi passati, in cui il tiranno proclamava
il proprio potere e il proprio arbitrio, oggi
chi ha il potere o lo cerca si dichiara sempre
benefattore. Ma la dittatura del proletariato
presto trascura il proletariato, mentre la
dittatura resta. Il new deal perde rapidamente
il new, mentre conserva il deal: non è un caso che deal significhi accordo ma anche
affare. L’aratro che apre le zolle è conquista sociale, il seme che vi cresce è egoi-
smo mercantile.
I movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno due anime: una nuova solida-
rietà sociale e la liberazione del desiderio. Ma la solidarietà presto scricchiola, poi
si spacca sotto i colpi d’ariete dell’individualismo. Vince il desiderio, concepito
sempre più indiscutibilmente come desiderio personale. Esso si allea alla nuova
economia e funziona da acceleratore del consumismo.
Non si tratta, però, di complotti che rivelino una falsità delle ideologie retro-
stanti. Si tratta di un percorso sotterraneo, universale e trasversale, che investe
ogni popolo con la ipermodernizzazione, la nuova dittatura dell’economia e della
tecnologia. Acquistando oggetti e progresso, la nostra attenzione è distolta dagli
uomini, quindi riversata sugli acquisti e sulle cose. La tecnica genera (ad es. attra-
verso internet o i telefoni cellulari) rapporti prima inesistenti con chi è lontano,
ma in cambio si porta via l’affetto per chi è vicino e ci svincola dalle responsabilità
12

che esso comportava.


Quaderni di comunicazione 11

Due sono dunque le cause – profonde e irreversibili – di questa estraneazione.


La prima è l’anonimato della civiltà di massa. Fino a un secolo fa, la stragran-
de maggioranza della popolazione mondiale (ben più del 90%) era agricola: una
condizione dominante anche in Nordamerica e in Europa centro-settentrionale.
L’economia e la società erano fortemente locali: la maggioranza della gente viveva
nello stesso luogo per tutta la vita (il fascino ambiguo del servizio militare stava
in gran parte nell’essere uno dei pochi eventi che potevano portare lontano). E la
maggior parte della popolazione conosceva solo duecento, al massimo trecento
persone in tutta la vita. L’animale-uomo, del resto, si è evoluto durante gran parte
della sua storia come nomade che vagava in piccole bande su territori praticamen-
te vuoti. Il suo sistema nervoso è dunque predisposto per riconoscere, memorizza-
re e accogliere positivamente un numero ben ristretto di presenze.
Ma dal 2008, hanno detto le Nazioni Unite, più delle metà della popolazione
terrestre vive in città. È una svolta senza precedenti, più importante del passaggio
dell’egemonia mondiale dagli Stati Uniti alla Cina. Anche la Cina sarà una breve
comparsa sul palcoscenico delle epoche: altri protagonisti vi saliranno e scende-
ranno, come è capitato all’Impero Persiano e a quello di Alessandro, a Roma, alla
Spagna e all’Inghilterra. La città, invece, dice l’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite1, non cederà più il primato alla campagna. Mai più.
Nelle città, l’individuo medio, che esce in strada, usa mezzi pubblici, visita
uffici e supermercati, vede migliaia di nuovi volti anonimi: non durante la vita, ma
ogni giorno. Il suo sistema nervoso, i suoi meccanismi (animali e naturali) di allar-
me di fronte agli sconosciuti, sono costantemente mobilitati: non se ne accorge
solo perché si tratta di una condizione che non è particolare, ma permanente. Vive
in un stato (strisciante, inconscio) di stress e diffidenza continui. Non sorride più
riconoscendo i volti, come facevano i suoi antenati nel villaggio. Per riconoscere
volti, accende la televisione. I sorrisi, artificiali e anonimi, di attori e presentatori
che non ha mai incontrato, gli sono noti: sono la sua famiglia, tecnologica e pre-
confezionata.
Il secondo fattore di distanza e perdita del prossimo è infatti la tecnologia.
La tecnologia ha fatto cose meravigliose che moltiplicano le possibilità di
interagire con gli altri. Già da tempo, però, è stato lanciato l’allarme: gli uomini
non sono capaci di usarla, ne divengono dipendenti come da una droga e perdono
la capacità di comunicare anziché arricchirla. A questo fenomeno è stato dato il
nome di paradosso di internet2. Più recentemente, pubblicazioni scientifiche ci
hanno fornito dati concreti. In Gran Bretagna, nel ventennio 1987-2007 le ore
quotidiane che il cittadino medio trascorre davanti a mezzi di comunicazione elet-
tronici sono passate da quattro a circa otto. Nello stesso periodo, quelle trascorse
comunicando con persone in carne ed ossa sono scese da sei a poco più di due:
ma in seguito dovrebbero essersi contratte ancora vertiginosamente e oggi forse
non arrivano a un’ora3.
Tutto questo è morboso, in ogni senso. È ingiusto, ci suggerisce istintivamente
ogni morale laica o religiosa. È dannoso psicologicamente, come ho cercato di
argomentare in un breve saggio sulla scomparsa del prossimo4. Ma è anche così
innaturale per il nostro corpo da costituire un grave fattore patogeno: la sostitu-

13
zione dei contatti sociali con quelli elettronici può, per esempio, favorire alterazio-

La scomparsa del prossimo


ni nei leucociti e diminuire la resistenza ai tumori5. Secondo la Scuola di Medicina
di Harvard, nelle persone di oltre cinquant’anni socialmente isolate, la perdita di
memoria avanza a velocità doppia rispetto a quelle integrate6. E così via.

Avendo osservato l’accelerarsi di questi fenomeni negli ultimi decenni, aven-


done misurato le conseguenze devastanti sui propri pazienti, uno psicoanalista si
è dunque permesso di uscire dal suo ambito e rivolgere una domanda a teologi e
filosofi.
Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana:
ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche

Luigi Zoja
ha annunciato: Dio è morto.
Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È
morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comanda-
mento perché non abbiamo più esperienza di una verità che ci era trasmessa dalla
tradizione giudaico-cristiana: tanto in ebraico nel Levitico, quanto in greco nei
Vangeli, il termine prossimo significava una cosa molto semplice: “il tuo vicino”,
quello che vedi, senti, puoi toccare. Nella complessità delle tecniche e della socie-
tà urbana l’esperienza della vicinanza sembra sparire per sempre.

Note
1
United Nations Human Settlements Program (U. N. Habitat) P. O. Box 30030, State of the
World Cities 2008/2009, Nairobi, Kenya. www.unhabitat.org.
2
Kraut, R. et al., 1998, Internet Paradox: A Social Technology That Reduces Social Involve-
ment and Psychological Well-Being?, in «American Psychologist», 53, 9, 1017 1031.
3
Sigman, A., 2009, Well Connected? The Biological Implications of “Social Networking”, in
«Biologist», 56, 1, 14 20.
4
Zoja, L., 2009, La morte del prossimo, Einaudi, Torino.
5
Sigman, cit.
6
Ertel, K. A. et al., 2008, Effects of Social Integration on Preserving Memory Function in a
Nationally Representative US Elderly Population, in «American Journal of Public Health», 98
(7), 1215 1220. Questo studio è particolarmente impressionante e incontestabile, perché basato
su un campione molto vasto.
Fabio Dei
Insieme con la nostra solitudine

Il tema di questo Quaderno è il modo in cui i vari gradi della modernizzazione


comunicativa e sociologica modificano e influenzano le relazioni interpersonali. In
un mondo rimpicciolito alle dimensioni di un villaggio globale, la lontananza è un
concetto che si relativizza. Potenzialmente potrei incontrare la maggior parte degli
abitanti del pianeta viaggiando per 24 ore; e con i media elettronici potrei entrare
in comunicazione con chiunque in tempo reale. D’altra parte, queste stesse condi-
zioni possono relativizzare il concetto di vicinanza: la mediazione tecnologica del-
la comunicazione, insieme ai processi di individualizzazione della vita economica
e sociale, mutano (potenzialmente, occorre anche qui aggiungere e sottolineare) i
rapporti con le persone più prossime nella sfera esistenziale.
Questi temi, centrali nella sociologia e nell’antropologia contemporanee a
partire almeno da Max Weber, hanno dato vita a interessanti programmi di ricerca
etnografica concentrata su specifici contesti comunicativi. Per etnografia intendo
una indagine empirica che tenta di descrivere le pratiche della vita quotidiana e
di cogliere i significati che gli attori sociali attribuiscono ad esse. Ad esempio, se
voglio studiare il modo in cui la televisione modifica le relazioni familiari, oppure
verificare se e come i telefonini cellulari mutano il senso della prossimità comuni-
cativa, dovrò cominciare con l’osservare e il descrivere ciò che la gente fa con la
televisione e i telefonini in concreti contesti relazionali, e quale senso attribuisce a
queste sue esperienze.
Queste forme di ricerca sono state però spesso soffocate da un altro tipo di
discorso sul rapporto tra modernizzazione e relazioni umane. Si tratta di un di-
scorso moralista e apocalittico, forgiato a partire dal Romanticismo, che vede nelle
condizioni della modernità – principalmente la tecnologia, l’individualismo e il
disincanto – una minaccia all’autenticità spirituale e alla “umanità” delle relazioni
sociali. Questa visione si è intrecciata con alcuni importanti momenti della teoria
critica (dal marxismo alla psicoanalisi, dall’esistenzialismo alla scuola di Franco-
forte), utilizzando concetti diversi ma mantenendo inalterata una filosofia della
storia guidata da una qualche “dialettica dell’Illuminismo”: più avanza il progres-
so tecnologico più le relazioni intersoggettive si impoveriscono e l’individuo si
isola e si “aliena”, degradando verso una forma di vita meno che umana. In altre
parole, la maggiore vicinanza sarebbe solo apparente, nascondendo in realtà una
sempre maggiore distanza e incomunicabilità. Responsabile di questo processo
16

sarebbe in particolare la diffusione della cultura (materiale e immateriale) di


Quaderni di comunicazione 11

massa, il cui artificioso flusso avvolgerebbe gli individui sostituendosi all’autentico


legame sociale.
In questo articolo vorrei sostenere la necessità di disincagliare la ricerca sociale
dalle filosofie della storia di segno moralistico. Queste ultime, per quanto talvolta
suggestive, hanno la tendenza a desumere il senso dell’azione sociale (nel senso
strettamente weberiano del termine) da presupposti teorici troppo forti, che
difficilmente si prestano alla verifica etnografica. Per il tema che qui ci interessa,
ad esempio, si assume che la società capitalistica, individualista, consumista e
mass-mediale non possa che rendere gli individui sempre più soli, isolati e inco-
municanti; del che sarebbe prova la diffusione di pratiche la cui natura degradata
e alienante appare come ovvia, quali lo shopping, il guardare la televisione, dedi-
carsi al fitness, vivere in realtà virtuali della rete e così via. Un atteggiamento che
prescinde dal tentativo di cogliere i significati culturali che gli attori attribuiscono
a tali pratiche – obiettivo invece di quell’indagine che ho chiamato etnografica, o
se vogliamo esprimerci diversamente di una socio-antropologia comprendente o
interpretativa.
Comincerò dunque con l’esaminare due contributi, peraltro assai diversi tra
loro, di discorso critico-moralistico, ricavandone una fenomenologia della presun-
ta “lontananza” degli individui nel mondo della “vicinanza” globale. Proseguirò
chiedendomi se e in che misura una interpretazione di questi fenomeni come
forme di azione sociale possa suffragare la diagnosi di solitudine.

Vita liquida e solitaria

“Il contesto esistenziale che ha finito per diventare noto come ‘società dei
consumi’ si distingue per il fatto che ridefinisce le relazioni interumane a modello
e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo. Questo
fatto ragguardevole è il risultato dell’annessione e della colonizzazione, da parte
dei mercati dei consumi, dello spazio fra gli individui”. Questo passo di Zygmunt
Bauman (2007, p. 15) è tratto da uno dei numerosi volumi dedicati dal grande
sociologo alla qualità della vita nella società tardo-industriale o “liquida”. Una
società nata dalla sconfitta storica dei totalitarismi novecenteschi, che esalta la
libertà e l’autonomia degli individui ma di fatto li rende soggetti a un sistema (il
consumismo, appunto) che essi non controllano e che si infiltra nel nucleo più
intimo della soggettività e delle relazioni personali. Il tratto cruciale della società
liquida è la tendenza alla continua sostituzione dei beni e alla creazione di sempre
nuovi e artificiosi bisogni. Rispetto alla società “solida”, la relazione tra bisogni,
produzione e consumo si inverte. Non si parte più da bisogni primari che solleci-
tano la produzione e il consumo di beni per quanto possibile durevoli: al contra-
rio, sono le esigenze del mercato a dettare i bisogni delle persone.
Gli individui rappresentati nella teoria di Bauman, che in ciò è coerente erede
della Scuola di Francoforte, sono soggetti passivi e opachi: vivono in un mondo
che non solo non controllano, ma che neppure comprendono. Si illudono di sce-
gliere autonomamente ma sono in realtà “agiti” da forze invisibili. Vivono in un

17
mondo concepito come “un contenitore di potenziali oggetti di consumo”, sono

Insieme con la nostra solitudine


guidati da obiettivi di soddisfazione edonistica e voyeuristica, e dalla “comparsa
di desideri che esigono di essere appagati” attraverso il consumo (Bauman 1999,
p. 81). La stessa vita sentimentale, il rapporto con il corpo e le relazioni umane
sono piegate a questa logica: aspetti che Bauman analizza in rapporto a fenomeni
culturali quali il fitness, i talk show televisivi, le reti per la ricerca di partner ses-
suali in Internet e così via. Le persone costruiscono se stesse, la propria identità e
le proprie relazioni come prodotti, attraverso strategie di marketing. Il che spinge
Bauman ad affermare che nella società dei consumi si confondono e si annullano
le divisioni “tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro
consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano” (2007, p. 17).
Come le cose, le persone-consumatrici sono pedine di un gioco più grande di

Fabio Dei
loro, invisibile e incontrollabile. La solitudine, per Bauman, è il loro status essen-
ziale. Il consumatore è solo perché i suoi bisogni e problemi edonistici e i modi
per soddisfarli sono essenzialmente privati. Anche quando è insieme e si confron-
ta con altri, la sua condizione non cambia. A proposito delle comunità dei weight
watchers, formate da individui ossessionati dalla perdita di peso e dall’adesione
a un modello estetico imposto dal mercato, Bauman osserva ad esempio che essi
“non sono meno soli per il fatto di essere insieme”; le loro paure e incertezze e i
loro “sogni” sono radicalmente privatizzati, non si trasformano in nulla di simile a
una causa comune; al massimo, riunendosi con propri simili essi arrivano a sapere
di “non essere soli nella loro solitudine” (1999, p. 54).
Soprattutto in un libro come In Search of Politics (1999), l’approccio di Bau-
man coglie lucidamente il nesso tra la crescente privatizzazione dell’esistenza
sociale e le difficoltà della pratica politica – in particolare, con la desertificazione
dell’agorà, la sfera pubblica che dovrebbe dare sostanza alla democrazia ponendo
in connessione la politica con l’educazione e con una concezione condivisa del
bene comune. Convince meno la sua diagnosi di degenerazione antropologica
(l’isolamento e la trasformazione in merce degli individui, quindi la loro totale
alienazione dalle “vere” esigenze umane). Si potrebbe dire che la passività attri-
buita da Bauman agli attori sociali rispecchia la totale assenza della loro voce dalla
sua teoria e dal suo metodo di ricerca. Il sociologo procede esaminando fram-
menti di comunicazione pubblica (ad esempio slogan pubblicitari, siti internet,
programmi televisivi), dalla cui analisi deduce i significati che devono avere per
gli attori. Ad esempio, lo slogan di una rivista di moda, che lancia “una mezza
dozzina di look chiave…grazie ai quali sarete un passo avanti a chi fa tendenza”, è
lo spunto per molte pagine in cui si descrivono i valori, le finalità esistenziali e gli
stati di coscienza dei potenziali utenti (2007, p. 103 sgg.). Questi ultimi sono per
così dire dedotti dallo slogan stesso. Oppure, la diffusione delle pratiche di fitness
basta a giustificare una intensa discussione del rapporto reificato e mercificato
che gli individui contemporanei hanno col proprio corpo. Il punto di vista degli
attori non interessa (ad esempio, il fatto che chi va in palestra o compra abiti alla
moda possa non sentirsi affatto solo, incomunicante e mercificato); anche perché
– questo sembra un presupposto implicito della teoria – essi sono dominati dalla
falsa coscienza e non sanno quello che realmente stanno facendo. Può capirlo solo
il sociologo critico, che dall’esterno ha disvelato il meccanismo ingannatore del
18

sistema e la sua capacità di creare bolle di realtà fittizia.


Quaderni di comunicazione 11

Dove si nasconde il prossimo?

Il secondo documento che vorrei esaminare è un recente libro dello psicoanali-


sta Luigi Zoja, La morte del prossimo (2009). Lo scelgo sia perché è stato evocato
nel call for papers di questo numero, sia perché rappresenta un esempio parti-
colarmente spinto di diagnosi sulla nostra solitudine e “lontananza”, che fa ben
risaltare le differenze fra il discorso moralistico-apocalittico e una più modesta ed
etnograficamente fondata ricerca sociale.
Zoja non basa le proprie osservazioni su una grande teoria sociologica come quel-
la della modernità liquida di Bauman. La pensa tuttavia allo stesso modo sugli effetti
dei tre grandi fattori della modernizzazione, vale a dire la tecnologia, il disincanto e
l’individualizzazione della vita quotidiana. Dopo aver ucciso Dio, come annunciato
da Nietszche alla fine dell’Ottocento, essi hanno avviato un processo di isolamento
e allontanamento delle persone; finendo per uccidere anche “il prossimo” – cioè il
secondo termine del “doppio comandamento che ha retto per millenni la morale
ebraico-cristiana: Ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso” (Zoja 2009, p. 3).
Con un duplice effetto. Da un lato un progressivo allontanamento dell’altro, un
“processo di estraniazione [con cui] il prossimo si è fatto sempre più astratto e ci
ha emozionato sempre meno” (p. 125); dall’altro, un corrispondente bisogno di
vicinanza e intimità che può esprimersi solo “in forme contorte” (p. 4).
Il libro di Zoja è in effetti una specie di inventario di queste forme patologiche
attraverso le quali noi allontaniamo e astraiamo il prossimo o aneliamo in modo
“contorto” a una vicinanza ormai impossibile. Eccone alcune:
– in treno non parliamo più con i vicini di scompartimento, ma urliamo nei nostri
cellulari: non sappiamo comunicare con chi è vicino e invece lo disturbiamo
cercando il rapporto con chi è lontano (p. 8);
– nelle relazioni della vita quotidiana non cerchiamo lo sguardo degli altri, anzi lo
rifuggiamo concentrandolo sulle apparecchiature tecniche; si pensi alla cassiera
del supermercato che fissa il lettore ottico e non guarda nemmeno in faccia il
cliente (p. 11);
– il narcisismo è un sentimento prevalente, che guida la cura del corpo, ad esem-
pio attraverso pratiche di culturismo o chirurgia estetica non legate ad alcun
valore o “senso” (pp. 11-12);
– i rapporti di vicinato sono in crisi, vogliamo abitazioni sempre più isolate da
quelle dei vicini, secondo la logica di una “domanda di distanza” (p. 17);
– ascoltare musica, un tempo attività socializzante e comunicativa, è diventata
solitaria e isolante con l’uso del walkman e dell’iPod (p. 18);
– l’arte, con la sua riproduzione tecnica, si distacca dagli esseri umani che la pro-
ducono e la sua fruizione avviene al di fuori di ogni contesto relazionale (p. 23);
– lo spettacolo mass-mediale “abitua a una distanza affettiva tra osservatore e
osservato: alimenta costantemente gli occhi con immagini perfette di persone
con le quali non si ha niente in comune” (p. 36);
– in particolare i videogiochi producono un’intensa e continua eccitazione, a sca-

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pito della partecipazione e della “compassione”, che erano invece massime nel

Insieme con la nostra solitudine


teatro (p. 35); mentre i giochi di ruolo on-line cancellano le relazioni ambientali
a favore di quelle fittizie, producendo disadattamento e dipendenza (pp. 67-69);
– il bombardamento mediatico crea indifferenza morale verso le altrui sofferenze
(pp. 87-88).
E così via. Di solito le filosofie della storia scelgono una certa scala tempo-
rale e alcuni eventi di cruciale rottura. Zoja è molto chiaro in questo all’inizio
del suo libro. L’Ottocento ha ucciso Dio (a seguito della rivoluzione francese
e di quella industriale), il Novecento ha ucciso il prossimo (come conseguenza
della rivoluzione mass-mediale ed elettronica). Via via che il libro procede, la
dicotomia vicino-lontano viene però proiettata anche su altre scale. Una è quella
del rapporto tra natura e cultura (“in natura, all’interno di piccoli gruppi”, il

Fabio Dei
rapporto col prossimo è al suo massimo grado; p. 14); un’altra è quella della
civiltà “occidentale”, che sembrerebbe procedere per gradini successivi verso
la lontananza. La parola scritta allontana più di quella orale, la stampa più del
manoscritto, la comunicazione elettronica più del libro; e ancora, il cinema
allontana più del teatro, la televisione più del cinema, internet più della televi-
sione (anche se per la verità nelle pagine finali si ammettono alcune potenzialità
positive della comunicazione on-line e della rete come piazza virtuale). In ogni
caso, su ogni possibile scala temporale (dalla natura alla cultura, dalle società
arcaiche e classiche a quelle moderne, dal capitalismo solido a quello liquido), il
progresso produce degenerazione delle relazioni umane, isolamento e solitudine
degli individui.
Si può capire che lo sguardo di uno psichiatra, là dove si posa, scorga sinto-
mi e da questi risalga a diagnosi – cioè a una realtà profonda che i “pazienti”,
gli attori sociali, non possono comprendere. Ciò che accomuna questo libro ai
lavori di Bauman è che entrambi si presentano come sguardi scandalizzati di
intellettuali su un mondo complesso e degenerato, senza che si possa mai scor-
gere l’ombra di un dialogo con quei soggetti sociali le cui pratiche sono così
severamente interpretate. Sono dunque libri che ci dicono più sulla storia e sulla
condizione attuale degli intellettuali che non sulla più vasta realtà sociale che
commentano. Ma cos’hanno da dire lo spettatore televisivo, l’ascoltatore di iPod,
il body-builder narcisista, il maniaco dei telefonini, l’appassionato di videogiochi
e così via sulle loro azioni? Quali significati vi scorgono? Si sentono davvero soli?
E se no, cosa autorizza lo psichiatra o il sociologo a dire che “realmente” lo sono,
anche se non se ne rendono conto? Quali prove possono portare a sostegno della
loro interpretazione?
E ancora, si può chiedere, cosa significa vicinanza e lontananza relazionale? Nel
discorso di Zoja, questi termini si riferiscono volta per volta alla prossimità fisica,
visiva e tattile; alla capacità di dialogo diretto; ai sentimenti etici di solidarietà o
indifferenza; alla capacità di partecipazione politica. Significati diversi che rimbal-
zano in continuazione uno sull’altro, senza riferimento ad alcuna specifica teoria
del legame sociale e perdendosi dunque in un generico senso comune che non
può non ricordare la famosa battuta di Woody Allen (Dio è morto, Marx è morto
e anch’io non mi sento tanto bene”).
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Il prossimo e la categoria di persona


Quaderni di comunicazione 11

Nella tradizione degli studi antropologici, la questione del “prossimo” e della


vicinanza-lontananza nelle relazioni umane è legata alle riflessioni sulla categoria
di “persona”, aperte da Marcel Mauss in un pionieristico saggio del 1938. Obietti-
vo di Mauss era storicizzare il self: mostrare come ciò che oggi consideriamo come
la sfera più profonda, intima e autonoma del nostro essere è in realtà il frutto re-
cente di un complesso percorso storico e culturale. Per molte delle società che egli
definiva “arcaiche”, la categoria di “io”, in senso sia psicologico che morale, non
esiste: non è attraverso di essa che si pensa ai propri rapporti con gli altri e con
la società. Alla fine degli anni ’30 appaiono anche i primi studi di Norbert Elias
sul “processo di civilizzazione” – anch’essi, di fatto, centrati sulla genealogia della
soggettività contemporanea; e la stessa filosofia seguirà ampiamente nella seconda
metà del Novecento questa linea di indagine, fra l’altro con gli studi di Charles
Taylor (1989) e Ian Hacking (1995).
In una simile prospettiva, non si tratta di chiedersi se l’uomo di oggi è più o
meno solo di quello di un tempo, o se il prossimo sia più o meno vicino; piuttosto,
in che misura la tematica della solitudine (la sua stessa pensabilità) emerge in rela-
zione alla plasmazione storica di un certo tipo di individualità. E ancora, i com-
portamenti relazionali come quelli su cui Zoja indirizza l’attenzione (gli sguardi, i
contatti fra i corpi, gli scambi verbali, la manifestazione esplicita di emozioni) non
saranno da intendere come indicatori assoluti di prossimità o solitudine; occorrerà
invece comprenderli in relazione ai mutevoli codici culturali che regolano e attri-
buiscono significato agli usi comunicativi del linguaggio e del corpo. È in questo
senso che Elias, appunto, ha mostrato lo sviluppo nelle società di corte europee
di un codice distintivo di “cortesia” che tende a minimizzare nei rapporti sociali i
contatti fisici, le esplosioni di rabbia e violenza e la manifestazione esplicita delle
passioni. Quando il sociologo contrappone l’individuo moderno, controllato,
distante e freddo, all’impulsivo, diretto e umorale uomo medioevale (Elias 1988,
p. 346), non è per affermare che uno è più “solo” e l’altro più vicino al prossimo:
il punto è comprendere la costituzione storico-culturale di entrambi.
In direzione analoga possiamo leggere le analisi dei microrituali della comuni-
cazione quotidiana in Erving Goffman; o gli studi di Mary Douglas (in partico-
lare Douglas 1970) sugli usi simbolici del corpo e sulle categorie di purezza e di
rischio. Salutare gli altri in modo più o meno informale, mostrare o coprire certe
parti del corpo, incrociare o meno gli sguardi con gli sconosciuti, mostrarsi in
pubblico affascinati o arrabbiati o piuttosto dissimulare queste emozioni; tutto
questo può esser ricondotto non tanto a una condizione teologico-esistenziale
di solitudine o di “apertura-al-prossimo”, quanto a sistemi di categorie e norme
sociali che costituiscono il nucleo profondo di quanto chiamiamo “cultura”. Cate-
gorie e norme che si differenziano a seconda delle appartenenze e delle condizioni
sociali: nel senso che un certo comportamento pubblico (ad esempio portare i
capelli lunghi o corti, vestire in modo casual o ricercato, mostrarsi aperti o riser-
vati etc.) rappresenta per gli attori una strategia di distinzione sociale rispetto alla
classe, al genere, alla generazione e ad altri aspetti identitari. Ad esempio uno dei
casi più suggestivi proposti da Zoja – il fatto che “una volta” si conversava e si
offriva da mangiare e da bere agli anonimi compagni di treno, “oggi” ci si ignora

21
parlando invece nei telefonini – non riguarda maggiori o minori solitudini: riguar-

Insieme con la nostra solitudine


da semmai l’incontro-scontro fra codici di comportamento e di cortesia connessi a
generazioni, a provenienze culturali e a status sociali diversi.
In questa prospettiva, l’intera fenomenologia della “alienazione” contempo-
ranea proposta da Bauman, da Zoja e da altri critici potrebbe auspicabilmente
trasformarsi in un’agenda di indagine etnografica centrata sui significati di queste
pratiche, sui sistemi categoriali e sulle strategie di posizionamento sociale che esse
sottendono. Non si tratta di essere più o meno “teneri” nei confronti del fitness,
del tatuaggio, delle chat, dell’iPod e così via. Il punto è che se andiamo oltre la su-
perficie consumistica e edonistica di questi fenomeni, vi troveremo i soliti vecchi
esseri umani che tessono le loro ragnatele di senso, ordiscono le loro micropoli-
tiche e vivono una intensa vita sociale (almeno, non meno intensa di quanto non

Fabio Dei
accadesse nella società solida, in quella arcaica o, qualunque cosa voglia dire, “in
natura”).

Consociati e contemporanei

Vi troveremmo anche, io credo, reti di solidarietà, amicizia, partecipazione e


com-passione più ampie e solide di quanto lo stato rovinoso dell’agorà possa farci
sospettare. Naturalmente lo spazio mi consente solo di suggerirlo, non di dimo-
strarlo. Personalmente, ho cercato di approfondire questi punti sul terreno delle
culture del “dono”. Forma di scambio “personalizzata” che alimenta i legami
sociali, il dono sembrerebbe annientato dai meccanismi impersonali del mercato e
dello stato: eppure, al di sotto o negli interstizi dei sistemi istituzionali di scambio,
esso esiste e anzi prospera sotto numerose forme. Nell’età della presunta morte
del prossimo, mettersi sulle tracce del dono può essere un modo per riconosce-
re ricche e ampie reti di “prossimità” (Dei, Aria 2008). Un mondo di individui
isolati, guidati dal puro desiderio delle merci, tesi a mercificare se stessi e incapaci
di vedere i propri simili potrà anche essere il modello ideale della società liquida e
del capitalismo consumistico: ma non è certo la realtà della nostra vita quotidiana.
Dobbiamo qui toccare un ultimo punto. Nella Fenomenologia del mondo socia-
le, Alfred Schütz considerava appunto la “prossimità” come criterio distintivo di
“sfere” o “regioni” nelle quali la conoscenza degli altri (l’esperienza dei loro vissu-
ti di coscienza) si attua in modo diverso. Le “regioni” che Schütz distingue sono
quattro: a) il mondo-ambiente (Umwelt), costituito dalle persone che condividono
la quotidianità spazio-temporale di ego, che dunque stanno in relazione di prossi-
mità; b) il mondo dei contemporanei (Mitwelt), una sfera “più remota” composta
dalle persone che condividono il tempo ma non lo spazio di ego, che non inte-
ragiscono normalmente con la sua vita quotidiana; c) il mondo dei predecessori
(Vorwelt); d) il mondo dei successori (Folgewelt), composti da quelle persone
che (in un dato momento) non condividono il tempo di ego (Schütz 1960, p. 44).
Con i consociati del mondo-ambiente vi è una percezione immediata e diretta dei
rispettivi vissuti di coscienza; tanto da giungere a fondere i rispettivi vissuti in un
soggetto collettivo, un Noi attraverso il quale “possiamo cogliere simultaneamente
la mia e la tua durata con uno sguardo unitario” (Ibid., p. 315). Nei confronti dei
22

contemporanei, invece, il vissuto dell’altro non è dato immediatamente, ma solo


Quaderni di comunicazione 11

attraverso una conoscenza tipizzante che lo rende in vari gradi anonimo.


Ora, per i teorici della morte del prossimo, sembra che il mondo-ambiente sia
del tutto inaridito: vivremmo oggi esclusivamente in un mondo di contempora-
nei anonimi e sostanzialmente estranei. In effetti, le tecnologie comunicative e i
processi di globalizzazione hanno aperto enormemente il nostro sguardo rispetto
ai contemporanei, che incontriamo quotidianamente e in gran numero nelle folle
urbane, nei programmi televisivi, nei viaggi turistici e così via. Ma l’espansione del
Mitwelt non cancella certamente il mondo-ambiente – la sfera di prossimità nella
quale intratteniamo le nostre relazioni fondamentali. Nonostante le tecnologie, il
mercato e la comunicazione globale, ciascuno di noi continua a vivere in universi
domesticati e in qualche modo locali, che gli stessi strumenti di comunicazione
alimentano e rafforzano. Ad esempio, è vero che il telefono, internet, i social net-
work e la posta elettronica possono metterci in contatto con chiunque nel mondo:
ma di fatto sono usati in grandissima parte per alimentare reti di relazioni già co-
stituite e per lo più radicate localmente (Bausinger 2002). È vero che farsi tatuare,
praticare il fitness o ascoltare la musica con l’iPod possono essere attività indivi-
duali ed edonistiche: ma di fatto, come ormai molti studi dimostrano implicano
e sostengono forme di socialità, fiducia, solidarietà e associazionismo (si vedano
Sassatelli (2000) per il fitness, Truglia (2010) per le comunità di appassionati di
tatuaggio, Dei (2008) per l’ascolto e la condivisione di musica in rete).
Le diagnosi di “solitudine del cittadino globale” sembrano ignorare questa
dimensione fatta di prossimità, di relazioni faccia-a-faccia, della condivisione di
tempi e luoghi. Si prende troppo alla lettera la metafora del villaggio globale,
immaginando che l’Umwelt giunga a comprendere l’intero pianeta e tutti i con-
temporanei. Ma naturalmente, che i rapporti con i contemporanei restino anonimi
e tipizzanti non rivela alcuna patologia o mutazione esistenziale; che l’anonimato
e la solitudine invadano anche la sfera dei consociati, al di là di casi particolari,
sarebbe tutto da dimostrare. Certo è che studiare l’articolazione tra queste due re-
gioni dell’esperienza sociale all’interno del processo di globalizzazione è il grande
obiettivo dell’antropologia contemporanea.

Bibliografia

Bauman, Z., 1999, In Search of Politics, Cambridge, Polity Press; tr. it., 2008, La solitudine del
cittadino globale, Milano, Feltrinelli.
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23
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Insieme con la nostra solitudine


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Truglia, N., 2010, Il corpo delle meraviglie. Antropologia e fotografia del tatuaggio, Roma, Kappa.
Zoja, L., 2009, La morte del prossimo, Torino, Einaudi.

Fabio Dei

Steven Warburton, My communities


Eugenio Imbriani
L’orchessa e l’antropologo

Vongole

Una domanda impossibile: cos’hanno in comune l’orchessa Kāwaka, personag-


gio di un mito dei Bella Bella, e l’antropologo Claude Lévi-Strauss? Ce lo dice
lo stesso studioso: il modo di mangiare le vongole. L’orchessa fa il suo mestiere,
è cannibale e rapisce un bambino (o una bambina); un aiutante soprannaturale
spiega al bambino quel che dovrà fare per sfuggire alla terribile carceriera, e cioè
seguirla quando andrà a pesca di vongole – di cui è ghiotta –, con la bassa marea,
raccogliere i sifoni del mollusco, che essa getta via, infilarli nella dita delle mani
e puntarle contro l’orchessa per farla spaventare. “Ma perché un’orchessa”, si
chiede Lévi-Strauss, “per di più di statura gigantesca, si dovrebbe spaventare
davanti ad oggetti insignificanti ed inoffensivi quali i sifoni delle vongole, cioè
quelle piccole proboscidi molli attraverso le quali il mollusco aspira e rimette
l’acqua (in certe specie sono vistose, e comodissime per afferrare l’animaletto
cotto a vapore ed immergerlo nel burro fuso: famosa specialità di un ristorante
vicino a Times Square al tempo in cui abitavo a New York)?” (Lévi-Strauss 1984,
p. 128). La questione bisognerà consegnarla all’analisi strutturale che indagherà
sull’esistenza di altre versioni del mito, in cui elementi narrativi producano una
relazione di inversione con la prima: per esempio, presso i Chilcotin si racconta
che un bambino piagnucoloso viene rapito da Gufo, che lo impaurisce mostran-
dogli le mani armate da corna di capra in cui ha infilato le dita: artigli di mare e
artigli di terra costituiscono una coppia oppositiva e l’analisi può procedere; nei
saggi di Le regard éloigné (1983) l’autore torna più volte sui miti degli indiani della
costa americana nordoccidentale e sulle vongole, ma non sapremmo mai come vi
sia abbondanza di sifoni separati dalle stesse se non immaginassimo Kāwaka te-
nere tra le dita il mollusco appeso alla sua coda, staccarlo con un morso e gettare
il minuscolo residuo: più o meno gli stessi movimenti che Lévi-Strauss ripete al
ristorante, con in aggiunta il passaggio nel burro fuso e senza buttare nulla.
Lo sguardo da lontano permette di ricostruire le relazioni tra i mitemi e di
individuare (o stabilire) le regole di produzione del pensiero mitico; allontanare lo
sguardo consente di leggere un quadro ampio di connessioni e di trasformazioni
e di riflettere sulla natura normativa e regolativa delle strutture; e tuttavia l’avvio
dell’analisi viene determinato dai dati empirici, il che significa che bisogna cono-
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scere non solo i miti, ma anche le vongole. Anzi, nel nostro caso, un tratto biogra-
Quaderni di comunicazione 11

fico casuale, consumatosi in un contesto del tutto estraneo alla materia dell’indagi-
ne, favorisce la comprensione dei gesti di un’orchessa che porta un certo cibo alla
bocca, neanche fosse una commensale dell’antropologo.
Vicino e lontano si rincorrono nell’opera di Lévi-Strauss, quasi si intrecciano in
un andirivieni costante; e infatti, non casualmente, De près et de loin è il titolo che
ha dato alla sua biografia (Lévi-Strauss, Eribon 1988). Si può dire che in questa
espressione si condensa la vocazione più intima dell’antropologia novecentesca:
andare lontano per guardarlo da vicino e sfruttare le conoscenze che nel frattem-
po si acquisiscono per cercare di attrezzare lo sguardo in modo da osservare la
propria società con atteggiamento più distaccato, critico, distante. E in questo
movimento si trovano le ragioni di un mestiere che ti porta a fare “il giro più
lungo” per affrontare una questione, un tema sociale, di optare per la molteplicità
e la varietà delle pratiche. “Per quell’aspetto del ritorno a casa”, scrive Francesco
Remotti, “che è la riconsiderazione della propria società è come se gli antropologi
ponessero quest’ultima nel mucchio o nell’ordine che si è venuto a determinare.
Così facendo, gli antropologi manifestano spesso una tendenza, che si può defi-
nire una primitivizzazione della propria società: ‘noi come i selvaggi’ è la formula
che esprime sinteticamente questa tendenza” (2009, p. 31). Insomma, sia che gli
studiosi individuino, dopo il viaggio, un ordine generale che governa la molte-
plicità, sia che lo neghino, la società in cui vivono entra nel grande calderone tra
tutte le altre, un caso tra i tanti possibili, una tra le declinazioni dell’umanità; ma
non ci si ferma mai, perché la vita e la cultura sono soggette al mutamento, quanto
è stato osservato si rinnova e le cose dette entrano nelle discussioni, nei dibattiti,
entrano nel cumulo dei saperi, un bagaglio per nuove esplorazioni.
Vedere noi come se fossimo gli altri, questo è il principio del distanziamento
che, paradossalmente, dovrebbe aiutare ad avvicinarli, a comprenderli; non è
facile, non sempre. Solitamente, in una delle prime lezioni del corso pongo ai
miei studenti domande di questo genere: quel è quel popolo in cui, in particolari
occasioni cerimoniali, le donne si tingono i capelli e indossano calzature scomode;
oppure anche: qual è quel popolo le cui pratiche religiose più diffuse si basano sul
consumo (cannibalico, aggiungo, per produrre un maggiore effetto) della carne
del dio? Solo qualcuno intuisce e sorride, ma tutti aspettano che io risolva l’enig-
ma e spieghi che quel popolo sono loro, siamo noi; poi proseguo – il canovaccio è
abbastanza collaudato – riferendo qualcuno degli aneddoti di Nacirema:

They are a North American group living in the territory between the Canadian Creel
the Yaqui and Tarahumare of Mexico, and the Carib and Arawak of the Antilles. Little
is known of their origin […]. Nacirema culture is characterized by a highly developed
market economy which as evolved in a rich natural habitat. While much of the people’s
time is devoted to economic pursuits, a large part of the fruits of these labors and a
considerable portion of the day are spent in ritual activity. The focus of this activity is
the human body (Miner 1956, p. 503)1.

La letteratura antropologica propone altri esercizi di questo genere. Uno degli


esempi più divertenti lo fornisce l’etnomusicologo Gilbert Rouget: egli pubblica
una falsa lettera che un giovane etnomusicologo nativo del Benin scrive da Parigi

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a un suo amico rimasto in patria, nella quale paragona l’esecuzione di un’opera

L’orchessa e l’antropologo
lirica alle cerimonie di possessione:

Mio caro Agosba, che avventura! Ieri sono stato all’Opéra. Ho creduto di impazzire!
Dal momento che nessuno me ne aveva parlato, non me l’aspettavo: non ti dico la mia
sorpresa nel trovarmi in piena cerimonia di possessione! Avresti creduto di essere a
Porto Novo, in piazza Dèguè, per la festa annuale di Sakpata, oppure ad Allada per le
cerimonie di Adjahouto, o ancora a Abomey per le Grandi Usanze. Ovviamente, non
si tratta della stessa cosa. Le differenze sono enormi. Che importa! Sono convinto che
fondamentalmente una rappresentazione all’opera e una festa di Vodun nel Benin siano
per molti aspetti paragonabili. Nessuno qui sembra sospettarlo. (Rouget 1986. p. 331).

Eugenio Imbriani
Nessuno sembra sospettarlo: ma per pensare che i cantanti d’opera sembrano
dei posseduti bisogna conoscere come si comportano i posseduti, e saper tracciare
somiglianze e differenze – il giro lungo, appunto.
Pietro Clemente applica una particolare procedura di de-familiarizzazione
alla città di Siena, immersa nel mondo globalizzato, che può essere definita sulla
base di somiglianze con: gli Azande (amanti della magia, se così si può dire), i
Nuer (per la solidarietà o conflittualità fondata su relazioni di lignaggio), Manhat-
tan (per il costo delle case), gli emirati petroliferi (per la ricchezza presente), la
Svizzera (il ruolo delle banche), il Principato di Monaco (autoreferenzialità), un
quartiere intellettuale di Parigi (il tasso di fecondità), la Costa Azzurra ( il tasso
di anzianità), la ex Jugoslavia (marcare la distinzione tra le identità interne), lo
spazioporto di Guerre stellari (gente di tutti i tipi), una rete giovanile di religiosità
pagana (la passione per i riti calendariali), Pompei (flussi turistici), una cittadina
degli anni Cinquanta (passeggiate sul corso), la Cina comunista (stabilità politica).
Ho un po’ riassunto, ma non del tutto infedelmente, questa serie di comparazioni,
che hanno lo scopo di illustrare “la lontananza del vicino”:

Leggere Siena così – per produrre un effetto di “defamiliarizzazione” ironica – ne fa


vedere improvvise connessioni nel mondo globale e la mostra, anziché come una città
medievale compatta e continua nella sua civiltà antica, come un patchwork difficile
in cui la costruzione dell’unità è una elaborazione continua. Queste immagini aiutano
anche a capire meglio la dislocazione della località che caratterizza il mondo contem-
poraneo, la deterritorializzazione che Siena ha vissuto come nostalgia delle radici e
ritorno tra le mura promesse, ma ha infine elaborato con una forte ed efficace risposta
di compattamento e di governo» (Clemente 2005, p. 168-169).

Ma la città toscana è anche, emblematicamente, esempio della vicinanza del


lontano, polo di attrazione di turisti e studenti (molti meridionali), di immigrati
di vario genere, che rielabora le sue componenti, ma sperimenta costantemente il
costituirsi di legami di appartenenza.
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Fabrice a Waterloo
Quaderni di comunicazione 11

Apro il Trattato della lontananza di Antonio Prete e trovo un’osservazione che


mi pare del tutto condivisibile:

Perché oggi la lontananza non è più lontana. È prossima, transitabile, persino domesti-
ca. È infatti nelle case, sul monitor del computer, sul display dei cellulari, nel suono che
giunge agli auricolari. La tecnica del nostro tempo, la tecnica oggi trionfante, è infatti
la tecnica del lontano. L’avverbio greco tēle – lontano – che compare già nei primi poeti
greci, va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Telefono,
televisione, telematica. Tutto quel che è lontano – isole, deserti, città, avvenimenti, pae-
saggi, costumi di ignote popolazioni – viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo
spazio della lontananza. Si fa contemporaneo. Si fa superficie, schermo, suono. Diventa
il qui e ora offerto allo sguardo, all’ascolto. (Prete 2008, p. 10).

Il lontano che trovi a casa è certamente un’esperienza ricorrente nel mondo


globalizzato, anche se non proprio originale, se consideriamo come, per esempio,
tre secoli fa, le credenze e le pratiche della cultura e della pietà popolare apparis-
sero inficiate di paganesimo e, forse, di eresia, ai missionari – esperti e desiderosi
di martirio –, nelle città e nelle campagne in cui svolgevano la loro opera, nelle
Indie di quaggiù, non agli antipodi, o in Africa, o oltreoceano; e se consideriamo
le “novità” che i folkloristi hanno scoperto tra contadini, pastori, marinai, artigia-
ni a due passi da casa, o poco più in là.
Il giro lungo è un metodo, oltre che una prassi; Marc Augé, africanista e viaggia-
tore, ha eletto la metropolitana parigina, per altri versi incarnazione della routine
quotidiana, luogo esemplare di incontri con l’altro e ispiratore di riflessioni di
ampia portata: “L’altro”, egli scrive (1986, p. 31), “comincia accanto a me. Bisogne-
rebbe anche aggiungere che in numerose culture (tutte hanno costituito delle an-
tropologie, delle rappresentazioni dell’uomo e dell’umanità) l’altro comincia dall’io
senza che Flaubert, Hugo o Lacan c’entrino qualcosa: la pluralità degli elementi
che definiscono l’io come una realtà composita, provvisoria ed effimera”, offre
ampia materia agli etnologi quando si dedicano a riflettere sul concetto di persona.
“Tutti quelli che incontro sono degli altri, nel senso pieno del termine” (ivi); sa-
rebbe troppo scontato scoprire la diversità nel colore della pelle o nelle lingue: ma
quanto sono lontani i giovani da un professore ultrasessantenne?, si chiede Augé.
Inoltre, tanti uomini significano altrettante storie, e anche coloro che affermano di
appartenere a una storia condivisa declinano quello che Renan (1997)2 definiva “un
atto di volontà” più che un sentimento dalle basi più concrete:

Come quei navigatori solitari che la larghezza dell’onda nasconde tra loro ma ai quali
la radio dice che conducono la corsa quasi in parità “in un fazzoletto di mare”, noi ci
sentiamo vicini solo nella parola degli altri. Il passato che condividiamo è un’astrazione,
nel migliore dei casi una ricostruzione: capita che un libro, una rivista o una trasmis-
sione televisiva ci spieghino quel che abbiamo vissuto al momento della Liberazione o
nel Maggio ‘68. Ma chi è allora questo “noi” cui dovrebbe essere riportato il senso di
quanto è accaduto? Chi, insomma, non è Fabrice a Waterloo? (Augé 1986, p. 36).
Quel “noi” così certo di esserci, sicuro di possedere una configurazione solida

29
e definita, rivela una fondamentale molteplicità, una profonda incertezza costituti-

L’orchessa e l’antropologo
va, se gli altri sono così vicini, al di qua di ogni muro di separazione.

Barbari nel cortile

Il folklore, dicevo. Lamberto Loria, al quale venne affidata la realizzazione della


Mostra di Etnografia italiana all’interno dell’Esposizione universale del 1911,
che si svolse a Roma per il cinquantenario dell’Unità, tra il 1883 e il 1905 viaggiò
in Lapponia, Finlandia, Russia, Turkmenistan, poi in India e in Nuova Guinea,

Eugenio Imbriani
in Papuasia, dove rimase sette anni, quindi in Eritrea; gli oggetti che a centinaia
riportò in Italia hanno a dir poco arricchito il Museo Nazionale di Antropologia
di Firenze e il Museo Preistorico-etnografico di Roma. Nelle Istruzioni per lo
studio della Colonia Eritrea (uscite nel 1907) raccontava che nel 1905, a Circello
nel Sannio, rimase fortemente colpito dalla diversità di usanze e costumi, valu-
tazioni, credenze riscontrabili in altre parti d’Italia, e concludeva: “Mi chiesi se
non fosse più conveniente di raccogliere documenti e manufatti etnici in Italia
che non in lontane regioni” (Puccini 2005, p. 15). Dopo aver lungamente girato il
mondo, insomma, trovava uno straordinario repertorio di stranezze nel suo paese,
un campionario di diversità da selezionare e mettere in mostra a rappresentare
una nazione tutt’altro che monolitica. Inoltre, non tutto veniva giudicato idoneo a
presentare pubblicamente la porzione d’Italia alla quale si apparteneva: pregiudi-
zio (orribile, talvolta), superstizione erano i termini in uso all’epoca. Poco più di
un decennio prima del Loria, nel 1893, lo scrittore Giuseppe Gigli, di Manduria,
in Puglia, così descriveva e commentava la danza terapeutica del tarantismo:

Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri
quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri
reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno
nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamen-
te se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. È una cosa che muove a pietà, e
a sdegno per così orribile pregiudizio! Immancabilmente è accompagnato il ballo dal
monotono e cadenzato suono d’un violino, e dal rullo ineguale d’un tamburello con le
nacchere (Gigli 1998, p. 79-80; Imbriani 2001).

Quel che faceva rabbrividire questo severissimo censore, il tarantismo, la bar-


barie nel proprio cortile, è oggi segno distintivo dello stesso territorio nel mondo,
simbolo positivo e trionfante di festa e conseguimento del benessere (Lüdtke
2009); ma le cose cambiano, come è ovvio che sia.
Andiamo ancora a ritroso, restando in Puglia. Nel 1876 il giudice e storico Lui-
gi Giuseppe De Simone pubblicava sulla fiorentina Rivista Europea la monografia
La vita della Terra d’Otranto; nei manoscritti preparatori dell’opera troviamo delle
annotazioni che non utilizzò, ma che per noi possono essere interessanti; parte da
D’Azeglio (l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!) per ribadire che le varie
parti del paese non si conoscono tra di loro, e conclude:
Abbiamo quindi necessità di conoscerci tutte le provincie italiane, e necessità presente
30

e ineluttabile. Facciamo i nostri conti, chi siamo, donde veniamo, qual è il nostro suolo,
come si venga la pianta uomo; quali usi e costumi, le tradizioni e i ricordi, i pregiudizi e
Quaderni di comunicazione 11

gli errori, il dialetto che lo qualificano. Diamo alle provincie sorelle il nostro buget [sic]
morale, come presentiamo a loro il materiale, nella nostra Esposizione provinciale, diamo
a loro tanto di buono in mano che possano conoscere il nostro suolo e il nostro popolo;
augurandoci che tutte facciano lo stesso, e presto, con noi. (De Simone 2006, p. 17)3.

Ecco motivato, quindi, come un dovere civile e patriottico lo studio del folklore
locale, quale contributo alla conoscenza reciproca degli italiani; gli errori popolari
tali restano e ci vorranno il tempo e i modi per correggerli; tuttavia, rappresenta-
no una via per la conoscenza del passato, poiché costituiscono, secondo il nostro
giudice, in accordo con gli studiosi dell’epoca, pratiche e credenze che si sono
mantenute nel tempo, magari residui confusamente portatori di informazioni, alla
stregua dei reperti archeologici o dei resti di antichi uomini e animali, o dei fossili.
Il folklore nasce come scienza di resti, residui, avanzi, raccoglie un po’ quello
che altre discipline trascurano, indovinelli, fiabe, proverbi, canti, orazioni, scon-
giuri, insegue pratiche magiche, culti non ortodossi, saperi terapeutici, pellegri-
naggi, oggetti votivi, consuetudini suntuarie, un universo composito, disomo-
geneo, incoerente, i cui elementi vantano le più svariate provenienze, cambiano
si conservano si perdono. Comunque sia, l’idea di una esposizione provinciale,
seppure declinata non proprio in questi termini, spinse uno stuolo di folkloristi a
fornire raccolte di testi e saggi sui costumi popolari; ciò non poté avere una effica-
ce ricaduta pedagogica e morale sul popolo italiano al quale, in realtà, non erano
dirette quelle sollecitazioni, che circolavano soprattutto tra le persone colte, ma
che la Mostra romana avrebbe accolto ed enfatizzato.
Gli apporti alla produzione di un’idea di nazione da parte degli studi demo-
logici è davvero rilevante (Cuisenier 1995), ed è stato osservato che dietro quel
concetto vi sia il trasferimento, su scala più ampia, dei valori di saldezza e di
solidarietà attribuiti alle famiglie e alle piccole comunità (Herzfeld 2003). Anche
qui, il Paese (con la maiuscola) e le piccole patrie sembrano chiamarsi l’uno con le
altre e soccorrersi vicendevolmente.
Secondo Hermann Bausinger, i processi innescati dalla globalizzazione, con
tutte le implicazioni che ne derivano sui piani economico, giuridico, politico, della
comunicazione, non hanno necessariamente mortificato gli ambiti della cultura
locale; in effetti, oggi è facile osservare come sia in atto, ormai da alcuni anni,
complessivamente, un progetto di valorizzazione di aspetti particolari della vita lo-
cale, si tratti di alimentazione, di feste, pratiche di pietà popolare, rappresentazio-
ni sacre e profane, borghi e forme architettoniche: certo, confortato dall’apparato
retorico del ritorno alla radici, alla vita autentica, del recupero delle tradizioni e
quant’altro, attraverso un gioco talvolta sfacciato di invenzioni, ma non si può ne-
gare che accada («Melissi» 2007-2008). Quel che succede normalmente, egli dice,
in un luogo del mondo privilegiato come l’Europa, è che gli uomini non telefona-
no oltre confine, si muovono soprattutto per il proprio lavoro, comunicano, chi lo
fa, per posta elettronica più o meno con le stesse persone.
Ma nei luoghi, e in un tempo, segnati dalle migrazioni, i sentimenti di appar-
tenenza inevitabilmente si riconfigurano; Vanessa Maher (1994) ha raccontato di
quel signore siciliano, emigrato in Germania, che risaliva in treno la penisola per

31
tornare, dopo un breve periodo di vacanze, nella città in cui viveva e lavorava; si

L’orchessa e l’antropologo
era portato dietro delle arance, di cui vantava il pregio e che donava ai compagni
di viaggio, quasi simbolo di una terra meravigliosa che era costretto a lasciare; il
suo atteggiamento, però già cambiava quando ci si avvicinava al confine, varcato il
quale ci teneva a mostrare la sua dimestichezza con la lingua tedesca e la fami-
liarità con le abitudini e il modello di vita del paese di accoglienza, marcando la
differenza con quello appena lasciato, a tutto svantaggio di quest’ultimo. L’am-
bivalenza o, meglio, la differenza, delle posizioni è più chiaramente leggibile se
si mettono a confronto le generazioni nelle famiglie migranti; un solo esempio,
illuminante, lo prendo da Bausinger (2008, p. 38): “Un bambino turco si rivolge

Eugenio Imbriani
a suo padre: Tu dici che la Turchia è la nostra patria, ma lì le persone non parlano
tedesco”.

L’ossimoro e il giogo

Vicinanza estranea (Fremde Nähe) di Bausinger, Lontananze vicine di Clemente,


due titoli che giocano esplicitamente con l’ossimoro per affrontare i temi dell’an-
tropologia della complessità e della modernità. L’ossimoro unisce gli opposti, e ha
anche dato il nome a una bella e importante rivista che non esce più; forse il suo
risultato più noto e usato è l’espressione glocal, combinazione di globale e di lo-
cale, che, a quanto pare, sono in pochi ad amare, sebbene, una volta o l’altra, non
certo in pochi se ne siano serviti. Personalmente vedo l’ossimoro come una figura
euclidea, espressione di una geometria che descrive realtà puramente pensate: la
linea ha la sola dimensione della lunghezza, il punto neanche quella, due parallele
si incontrano all’infinito; l’ossimoro dà l’idea di una struttura simmetrica, con-
traddittoria ma simmetrica, vive nel mondo del discorso, delle forme retoriche,
ma nella realtà storica e sociale è assai improbabile che se ne possa ricavare un
esatto equivalente: l’orchessa e l’antropologo stanno insieme in qualche modo, ma
non certo seduti allo stesso tavolo; uno scarto li distanzia, introduce una relazione
asimmetrica, dello stesso genere di quella che opera anche nelle estreme vicinanze
del sé e consente di scoprire la prossimità dell’altro.
Ovviamente, nello sforzo che l’antropologia compie per descrivere la realtà
sociale, per scrivere e dibatterne, non può evitare di servirsi di adeguati strumenti
retorici. Geertz diceva che il problema vero per lo studioso dei fenomeni sociali
non è accettare o negare la realtà dei fatti esterni all’osservatore, data per scontata
la dimensione oggettiva dei fatti, il problema tocca la dimensione soggettiva delle
descrizioni e delle narrazioni, il modo in cui avvengono l’osservazione, la rileva-
zione e il racconto, in altre parole, la lettura di quel che accade (Geertz 1995).
Non per risolvere, ma per segnalare queste difficoltà qualche anno fa proponevo
la metafora del pensiero zoppo: storicamente, gli antropologi hanno avuto a che
fare con usi e abitudini che di solito somigliano poco a quelli dell’ambiente in cui
vivono, sono entrati in terreni come la magia, la fiaba, il sacrificio, hanno incon-
trato lupi mannari e complicate formule matrimoniali, guidati e condizionati dal
proprio sapere e dalla propria formazione, e le conoscenze che ne hanno ricavato
sono state elaborate, ordinate, divulgate nella lingua dello studioso e consegnate,
32

generalmente, a un pubblico di suoi pari. Un tratto di infedeltà, un grado di infe-


Quaderni di comunicazione 11

deltà, anche dovuto soltanto alla necessità di organizzare i materiali, suddividerli


per temi o capitoli, selezionarne parti per lezioni o conferenze, risultava inevitabi-
le: da qui la zoppia, gravida di discussioni, di ripensamenti, di ulteriori indagini,
che, secondo me, andava collocata sotto il segno retorico dello zeugma, il giogo
che unisce parole in modo imperfetto, come nel dantesco «parlare e lagrimar
vedrai insieme», conservando una imprecisione, una asimmetria (Imbriani 1996).

Frammenti globali

Maestro Cosimo è un bel signore alto, dai modi gentili; ha una postura ele-
gante, un po’ rigida, si direbbe da ballerino; infatti scopro che ama moltissimo
ballare. È lui il muratore; anche se ormai è in pensione da qualche anno, continua
a prendersi qualche lavoro di manutenzione, muretti, parapetti da sistemare, cose
del genere, perché altrimenti non saprebbe stare con le mani in mano. Insieme a
lui c’è un giovane, anch’egli curatissimo nell’aspetto, le basette tagliate lunghe e
sottili, che sento chiamare Niki; è evidentemente uno straniero, saprò poi che ap-
partiene alla consistente colonia di Bulgari (si parla di duemila persone) presenti
nel paese di M., un centro della provincia di Lecce, dove anche Cosimo vive. Egli
è, però, di origine calabrese, di Corigliano, e si è trasferito quasi mezzo secolo fa
nel Salento al seguito della moglie, conosciuta in Germania dove entrambi erano
emigranti. Spiega a Niki quel che deve fare: «sposta le pietre grosse qua, quelle
piccole in quest’angolo, le cose micci tutte in quest’angolo»; oppure, «passami
le tavole micci, e il ferro maru», un po’ in dialetto, un po’ in italiano. Il giovane
è piuttosto disorientato, ma se la cava bene; il concetto di«tenaglia» gli sfugge,
«quella che taglia il ferro», ma recupera presto, e poi certe cose ci vuol poco a
impararle. Chiedo poi al maestro se parole come micci e maru (col significato di
piccolo e lungo) appartengono al dialetto del suo paese; «no,» mi spiega, «quelle
sono parole bulgare, dicevo così perché altrimenti Niki non mi capiva; dopo un
po’ di anni che lavoro con queste persone ho imparato qualche parola e la uso per
aiutare quelli che magari sono meno esperti». Non so se Cosimo riveda se stesso
emigrante nei Niki che conosce, o nel suo vecchio datore di lavoro tedesco, ma
certamente la sua vita si è svolta in un percorso in cui mondi vicini e lontani si
sono ripetutamente incontrati, ma come un fatto che normalmente accade, senza
richiedere particolari disquisizioni.

Prendo questa notizia dal volume Dances with spiders, di Karen Lüdtke (2009,
p. 189), che ho già citato sopra. A Londra, nel luglio 2004, presso il prestigioso
South Bank Centre si svolge il festival Rhythms and Sticks, che celebra la musica
delle percussioni di tutto il mondo. Il noto gruppo salentino dei Ghetonia vi tenne
un concerto di grandissimo successo, con l’esecuzione del repertorio di canzoni
nel dialetto griko e di brani di pizzica. Il coinvolgimento e l’entusiasmo furono tali
che l’auditorium esplose in una standing ovation finale. L’autrice, però, aggiunge
un dettaglio, a suo parere, di grande rilevanza: mentre i musicisti tornavano sul
palco per un bis e stavano per ricominciare

33
a suonare, un membro del pubblico balzò in

L’orchessa e l’antropologo
piedi come un omino da una scatola a sorpresa,
brandendo, tra le braccia distese, una sciarpa
giallorossa con su scritto: “Forza Lecce!”. In
un contesto cosmopolita come un festival di
world music, l’effetto dell’esultanza del tifoso
risultava certamente comico, ma, nello stesso
tempo, fungeva da indicatore di territori sim-
bolici circoscritti, da cui ricavare e rivendicare,
orgogliosamente, si direbbe, una qualche sorta

Eugenio Imbriani
di località e di appartenenza.

Dal 1998 si tiene nel Salento una importante


manifestazione di musica popolare, La notte del-
la taranta, una kermesse che coinvolge un alto
numero di gruppi musicali non solo italiani per
circa due settimane e culmina nel concerto con-
La taréntule, da M.Misson, Nouveau clusivo di Melpignano, evocando riferimenti al
voyade d’Italie, La Haye 1702 fenomeno del tarantismo e della danza terapeu-
tica; molti musicisti salentini e le loro formazioni
hanno ottenuto notorietà e riconoscimenti grazie
alle loro esibizioni in spettacoli che hanno goduto di una grande attenzione da parte
dei media. Mi trovo a Fermo, nelle Marche, e scopro che, nel 2010, parte, anche lì,
il 1° festival della taranta, intitolato, notate la sottigliezza, Le notti della taranta; si
svolge tra luglio e agosto in tre serate. Il programma, brevemente: il 9 luglio suona-
no I tamburellisti di Torrepaduli; il 16 luglio gli Zimbaria; il 23 luglio i briganti di
Terra d’Otranto. Si tratta di gruppi musicali provenienti dal Salento; a Fermo, come
a Londra,
come a Pechi-
no e tanti altri
luoghi hanno
ascoltato la
pizzica dal
vivo, ma non
è dato sapere
se nei concerti
si è fatto vivo
qualche tifoso
del Lecce.
Il prossimo
anno, ma-
gari, ci sarà
una seconda
edizione.
Danza dei tarantati. da A. KIRCHER, Phonurgia Nova, Campidonae 1673
34
Note
1
Nacirema è America scritto al contrario. Le pratiche quotidiane di cura del corpo e della
Quaderni di comunicazione 11

salute di un comune cittadino degli Stati Uniti vengono descritte dall’autore con un linguaggio
calcato sulle descrizioni etnografiche, alla stregua di rituali, con il risultato di renderle estranee a
coloro stessi che normalmente vi si applicano.
2
In una lezione tenuta l’11 maggio 1882 alla Sorbona sul tema Qu’est-ce qu’une nation?
3
Il testo manoscritto è riportato fedelmente, non meravigli il paio di errori sfuggiti all’autore
nel suo brogliaccio, che avrebbe emendato se avesse voluto destinarlo alle stampe; talvolta,
scrutare tra i manoscritti equivale, almeno in qualche misura, a un atto di tradimento.

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Pietro Clemente
Le crasi del vicino e del lontano1

Corpi tracciati e rintracciati

Una cosa che mi ha dato l’idea del nesso vicino-lontano praticato da chi sta fa-
cendo il nuovo mondo e vivendo i nuovi conflitti del flusso e della diaspora, è stato
un lavoro che ho visto a Villa Vigoni (sul Lago di Como), in un recente convegno
italo-franco-tedesco sul patrimonio immateriale. Il giovane studioso presentava una
ricerca sugli immigrati ‘tracciandone’ i movimenti nello spazio francese grazie a
carte rintracciabili su Internet, e faceva vedere come gli itinerari dei migranti ripe-
tano gli itinerari di precedenti migranti, e comunque tenevano le connessioni con il
mondo dei loro ‘vicini’ dentro il ‘lontano’ : parenti, amici, gente del villaggio, della
stessa lingua, dello stesso paese. Un altro documento del sito mostrava invece la
produzione di vicinanza con i parenti lontani, tramite Skype corredata dallo sguar-
do della piccola telecamera2. Il migrante in Francia aveva lasciato a sua madre un
computer con una connessione Skype e per almeno un’ora al giorno era con lei in
casa e anche nel mondo del vicinato: con la piccola telecamera la madre gli mostra-
va scene del quartiere, in una comunità dell’Asia. È un intervento che mi ha colpito
assai, da un lato per l’impegno di indagine epistemologica su come le TIC (Techno-
logies d’Information et de Communication) cambiano il nostro mondo senza che ce
ne rendiamo conto. Cambiano i confini, i corpi, le percezioni, i sentimenti. Dall’al-
tra su come il lessico che ci pareva naturale, quello del buon senso, sia messo in
difficoltà. Nei miei appunti ho scritto “l’altrove nel qui. Cambia il modo di immagi-
nare mondi. Si è insieme nella distanza con Skype, a costo zero. La doppia assenza
del classico saggio di Abdelmalek Sayad3, dal luogo di provenienza e dal luogo di
arrivo, diventa qualcosa di nuovo, una strana presenza mediata e mediatica.
Ho la sensazione che si stia producendo qualcosa come una nuova faglia
epistemologica, che forse renderà più visibili noi stessi a noi stessi, in una dimen-
sione diversa magari in forma di TIC. Secondo Foucault, il vicino è ciò che non
vediamo, e il vicino è ciò che ora mi fa da macchina da scrivere, e poi da Internet,
e da Skype, e poi prendo il telefono cellulare, e magari uso una di quelle schede
intercontinentali numeriche attraverso le quali il migrante può essere ‘tracciato’ e
produrre il paradosso del ‘sans papier’ invisibile ma connesso. Il corpo telefonico
del migrante ha leggi diverse da quelle delle nazioni e delle leggi, anche se da quel
corpo può essere tradito.
I flussi dei movimenti dell’Atlante TIC sugli spostamenti dei migranti non è
36

imprevedibile: come ha mostrato Hermann Bausinger4, spesso le tecnologie di


Quaderni di comunicazione 11

grande portata sono usate per dialogare tra vicini, se non contigui, soprattutto tra
i giovani europei. Il caso migratorio è più complesso ma non smentisce del tutto
quella possibilità. Ciò che colpisce e che si tratti di flussi veri, che possono anche
essere usati dalla polizia. Così come, sempre più, nei processi il telefono cellulare
viene rin-tracciato, come ‘alias’ dell’individuo, corpo suppletivo.
Le questioni della diaspora, dei flussi, dei migranti, del cosmopolitismo sono
temi forti e nuovi della dimensione che ci sta cambiando, che ci consente anche di
vederci riflessi. Capire con nuovi occhi cosa è vicino, cosa è lontano. Dibattiti già
sono echeggiati su queste parole tra Cultural studies, migration studies, antropo-
logi, sociologi e quant’altri.

Paese che vai, franchising che trovi

Che confusione! Dobbiamo ri-descrivere il mondo, fuori dall’opacità del


senso comune. Ma anche del buon senso. Senso comune e buon senso sono temi
gramsciani che Alberto Mario Cirese ha trattato con grande energia intellettuale,
ma che sembrano avere trovato una ‘dead line’ nel mondo globale. “Paese che
vai usanza che trovi” per Cirese era lo spazio dello studio dell’alterità proprio di
etnologi e demologi , “tutto il mondo è paese” invece era il campo delle identità,
proprio dell’antropologia culturale, così Alberto Mario Cirese aveva definito i
campi degli studi demo-etno-antropologici, connettendoli con il mondo prover-
biale del buon senso. Ora, nei processi di globalizzazione e di interconnessione
tecnologica, tutto il mondo è sempre più paese nel senso di unificato dai modelli
tecnologici e industriali della modernità, e rischia di non valere più “paese che
vai usanza che trovi” , perché le usanze sono mutate. Semmai paese che vai
‘franchising’ che trovi, perché le città e i luoghi della differenza (paesi che vai)
si sono unificati all’insegna dei brand, che, almeno in Italia, hanno modificato
l’immagine delle città storiche e ridotto la differenza. Tutto uguale, tutto vicino,
tutto comunicante? Certo che no. Resta di principio l’unità della mente umana,
e un universalismo elementare della vita degli uomini, ma in tutte le pratiche che
traversano il mondo, siano diasporiche, cosmopolite, migranti, di flusso, di società
liquida, tutto questo scenario viene eroso come da una sorta di nuova alluvione.
E non sappiamo bene il paesaggio finale. La differenza in questo quadro è più
rivendicata che in passato dai movimenti identitari, dalle religioni, dalle culture
locali, e rinasce proprio dai processi brutali di avvicinamento, come una esigenza
di allontanamento, di critica del siamo tutti uguali, diventata, da istanza filosofica,
una pratica di massacro mercantile. La differenza trova nuovi modi, si nasconde,
si mescola e si allontana dalla scena turistica, muta e, quando è identità, afferma il
suo opposto.
Occorre anche inventare una nuova ermeneutica del diverso, in cui l’antropolo-
gia culturale potrebbe avere un ruolo formidabile a tamponare e rivedere l’eccesso
di ‘occidentalismo’ delle ermeneutiche filosofiche e letterarie. Dare ad esse nuova
vita non elitaria, non basata sul consumo dell’acqua. Se l’ermeneutica è un arte
riservata al pensiero di chi consuma il 70% della acqua del mondo, i suoi limiti

37
sono evidenti. Può resistere, come io vorrei, quel pensiero alla prova dell’acqua?

Le crasi del vicino e del lontano


Ecco un compito nuovo.

Mò che il tempo si avvicina 5

Ralph Linton, illustre antropologo statunitense, ne Lo studio dell’uomo 6 propo-


se un apologo con il quale cominciava i corsi di antropologia:

Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che


ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere
di cotone, pianta originaria dell’India, o di lino, pianta originaria del vicino Oriente…si

Pietro Clemente
infila i mocassini inventati dagli indiani..si leva il pigiama, indumento inventato in India,
e si lava con il sapone , inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba,
rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri op dagli antichi egiziani (…) 7

e via via mostra di quante cose non originali e non americane sia fatta la vita
di un americano che si sente tale ed è ignaro di poggiare la sua vita sulla grande
mescolanza e scambio delle esperienze umane.
Ma ora con i flussi globali muta anche il mondo della vita e il suo insieme di
mescolanze. Il lontano che fa il vicino non è più solo ‘inventato da’, ‘originato da’,
‘derivato da’, il lontano è qui fisicamente: le nostre anziane mamme sono gestite
da rappresentanze di genti della diversa terra (?), e anche noi lo saremo presto, e
i pastori, i contadini, i criminali, i lavoratori del metalmeccanico, perfino i giovani
sono misti, vari, i confini si confondono, talora si stagliano dentro nuove aree di
riferimento.
Quando Giovanni, amico fotografo, a casa mia, seduto in poltrona, mi raccon-
ta animatamente della adozione di un bambino del Mali che ora vive con lui nel
Chianti, è chiaro che l’immaginazione e la differenza vanno per nuovi percorsi.
Vicino e lontano si alternano e si giocano in movimenti complessi.
Dialogo in banca: “Non amo queste chiavette dell’home banking”, dico io, “ ma
guardi che garantiscono più sicurezza”, dice lei, “io faccio fatica con tutti questi
numeri di codice da mettere su Internet, così effimeri e confondibili da trasferire
sullo schermo”, “ stia tranquillo”, dice lei, “la chiavetta è un oggetto familiare,
vede, è made in Cina”.
L’apologo di Linton andrebbe rivisto alla luce della constatazione che per lo più,
inventate o derivanti etc…da luoghi diversi, le cose sono fatte in Cina, e l’ameri-
cano medio lo può leggere sull’oggetto. Questo ha a che fare con il lavoro, con la
produzione mondiale, con il futuro, e anche con il conflitto che si è aperto in Italia
sulla questione dell’auto e della Fiat, tra Campania, Basilicata e Serbia, Polonia.
Made in Taiwan, made in Corea, made in China, made in Hong kong. La fun-
zionaria di banca aveva ragione nella sua ironia: viviamo di cose fatte in Cina.
Non solo in Cina ovviamente, spesso si tratta di ‘dislocazione’. La parola ‘dis-
locare’ evidentemente altera il nesso di buon senso tra vicino e lontano.
Cristina Papa, Veronica Redini8, hanno scritto delle nuove storie di vita di
imprenditori italiani ‘dislocati’, del carattere dei prodotti lavorati altrove e ‘mar-
chiati’ Italia, il loro caso di studio è la Romania. Il loro tema è il ‘made in Italy’
38

quando il lavoro che rende possibile quel marchio viene fatto altrove.
Quaderni di comunicazione 11

Almeno la chiavetta dell’home banking è più sincera, lo rivela subito di esser


fatta in Cina, o meglio in China, così come la mia ‘pennetta’ (periferica) della Tim
da infilare nel portatile per avere la connessione Internet.
Il vicino-lontano entra in un avvitamento ossimorico nei racconti di vita fami-
liare: il lavoro di una delle mie figlie è la produzione di borsette made in Italy, di
varie ditte che sono anche ‘griffe’, ‘brand’, ‘logo’ e che si danno anche in franchi-
sing, e che contribuiscono all’omologazione dei negozi e dei mercati urbani. Gli
imitatori di questi ‘marchi’ italiani possono essere gravemente puniti secondo la
legge, così come gli imitatori del made in Italy fatto in Romania. Marchi, chessò,
come Benetton per esempio, imprenditore italiano, veneto, antirazzista per eccel-
lenza e per campagne pubblicitarie. Ma il ‘ vicino’ per queste aziende di accessori
di moda dell’hinterland fiorentino dove mia figlia lavora è Hong Kong, la loro vita
è dislocata tra sfilate e relazioni commerciali fatte qui e ordini, serie, produzioni
fatte lì. Il personale viaggia, vive un po’ nei grandi alberghi di Hong Kong, porta
della Cina comunista e nutrice di consumismi mondiali, entra nella Cina pro-
duttiva. Nel caso di mia figlia il luogo di entrata in Cina è stato Guangzhou che
era una volta Canton. Ma l’esperienza non è stata di turismo nella Cina storica,
ma una doppia segregazione in quartieri industriali, doppia perché sono segre-
gati gli italiani, che sono lì in veri e propri non luoghi (spazi costruiti in modo
ripetibile in qualsiasi parte della terra, non originali, non storici, che vivono nel
tempo della produzione, forse un eterno presente: si somigliano tra Guangzhou
e Sesto Fiorentino, che diventano vicine per ‘somiglianze di famiglia’) per diri-
gere e controllare la produzione di accessori di moda, e per gli operai cinesi che
vivono tempi lunghi di lavoro, ignoti ai lavoratori europei (almeno dalla fine del
1800), in contesti che sanno di istituzione totale e di segregazione, che ricordano,
forse in meglio, le strutture da campi di lavoro in cui vivevano i migranti italiani
nell’Europa postbellica9. Da questo lavoro di uomini cinesi, spesso venuti lì da
lontano a vivere segregati alla produzione per mesi, nascono cinture o borsette
dove c’è scritto Made in Italy. Per produrle è come se il mondo di accartocciasse:
quartiere industriale cinese di Canton, e area industriale fiorentina vivono in un
cronotopo proprio, in contatto esclusivo, ignorano il resto del mondo, e da questa
unione (che avviene al buio, nel senso che né gli italiani conoscono la Cina né i
cinesi l’Italia dopo questo connubio) nascono oggetti italiani. Se il mondo lo si
ragiona da questo esempio, si capirà meglio cosa succede nella attuale querelle
Fiom – Fiat, e si capirà che non è facile giudicare! Così come si intuisce anche
cosa succederà ai nostri nipoti, se la produzione italiana continuerà ad essere
delocalizzata: o lavorano come i cinesi, o fanno lavorare i cinesi al loro comando
o vengono comandati dai cinesi. Si danno anche altre possibilità, certo, ma queste
danno l’idea del futuro. I nostri nipoti devono guardare a come lavorano i cinesi e
gli indiani non a come lavorano i loro genitori e i loro nonni. Il progresso dell’800
del ‘900 era solo una sacca di privilegio dell’occidente. All’apparir del vero esso si
rivela non solo distruttivo per la terra intesa come mondo, ma anche rigiocabile in
una sorta di cupa vendetta dei paesi sfruttati . La Cina è vicina10 era anche il titolo
di un film cult degli anni ‘60 . Ma non è più che il tempo si avvicina, o che la Cina
è vicina, ora la Cina è qui, dentro, intorno, fra il nostro mondo delle cose, il nostro

39
home banking, le nostre storie di vita quotidiana.

Le crasi del vicino e del lontano


Filiera lunga, memoria corta

Nel 1980 sono stato a Città del Messico per uno scambio universitario. Sia a
me, che ad Alberto Mario Cirese, al quale mi affiancavo in un percorso di presen-
tazione dell’antropologia italiana che lui aveva già fatto, la Città in tanti dettagli
della vita quotidiana appariva un’Italia anni Cinquanta, se non Quaranta. C’erano
giostre e parchi gioco per bambini da film di Fellini, rarità e socialità delle tec-
nologie della comunicazione; mi colpì un autista che aveva il figlio – un bambino
– come controllore dei biglietti, e mi fece venire in mente una scena di Napoli

Pietro Clemente
fine anni Quaranta (nel mio primo viaggio fuori della Sardegna). Anche alcuni
negozi avevano l’aria e gli odori, ad esempio, delle mesticherie o drogherie del
passato, anche lo stile familiare e pubblico di tutto. Eppure era la città più grande
che avessi mai visto, una volta che andammo in auto in una gita ‘fuori porta’, la
città non terminava mai e vissi una sorta di sindrome da claustrofobia urbana. Di
recente allora, nella fase della mia vita più appassionata di fumetti, avevo letto la
vicenda futura di una città senza fine, senza confini conosciuti. Queste esperienza
mettono in movimento l’abitudine delle rappresentazioni di buon senso: Città
del Messico era una periferia italiana degli anni Cinquanta o una megalopoli del
mondo postmoderno?Arretrata o avanzata?
10 anni dopo a New York ebbi la conferma che le città sono luoghi dove la
complessità si rispecchia, e che siamo noi spesso a non vederla. È il nostro modo
abituale di pensare per opposti: vecchio/nuovo, avanzato/arretrato, etc… Dove
abitavo, vicino alla Columbia University, dove insegnò Franz Boas, zona del tutto
moderna, c’erano tanti piccoli negozi di sartoria ed altri piccolissimi di attività
artigiane che in Italia e perfino a Siena, dove abito, erano completamente scom-
parsi. Nel mio condominio, di meno di 10 piani, l’ascensore doveva essere guidato
e attivato da due inservienti ‘ascensoristi’, che facevano i turni; il loro lavoro era
tutelato sindacalmente, ma per salire e scendere pigiavano il tasto come altrove si
fa da soli. Pensai che l’idea di una modernità coerente e integrale, capace di pla-
smare lo spazio urbano, attribuita alle città americane era forse un sogno italiano,
o una proiezione delirante dell’Italia che voleva ‘fà l’americana’.
A Città del Messico incontrai il frutto del mango e quello della papaja, e del
primo mi innamorai, lo definii alla Borges, l’aleph della frutta, e così ne nascosi
uno in valigia e lo importai clandestinamente in Italia, dove ebbe grande successo
tra i pochissimi familiari che poterono assaggiarlo.
Non so quanto tempo dopo nei supermercati cominciò ad esserci la frutta tro-
picale, mango, papaja, avocado…Oggi in un supermercato si vede tutto il mondo
se solo si legge la provenienza dal cartellino. Funghi dalla Romania, kiwi dal Cile,
pesci dal Pacifico, pompelmi da Israele, e non mancano prodotti cinesi. Alla faccia
della filiera corta.
Forse oggi nessuno ci crede che negli Ottanta non c’erano né manghi né altro
nei supermercati, come in genere nessuno crede che nel 1980 nelle macellerie
italiane (di Siena per testimonianza diretta) non c’era traccia né del lardo né dello
40

strutto. Nella memoria il presente gioca sul passato; sembra strano ai giovani che
Quaderni di comunicazione 11

quando sono nate le mie figlie non esistesse la tecnica ecografica che consentiva
di conoscere in anticipo il sesso del nascituro. Visto sul piano sociale questo è il
fenomeno che chiamo della ‘smemoratezza del moderno’11 ed è stato descritto per
il fumo in un dettaglio di un romanzo di Gianluca Carofiglio:

- Lo sai che mi sembra impossibile che fino a qualche anno fa si potesse fumare nei bar
e nei ristoranti? Mi riesce difficile anche solo ricordarlo, devo fare uno sforzo e ripeter-
mi che le sigarette c’erano e che in certi posti l’aria era irrespirabile. È come se il divieto
interferisse con i miei ricordi manipolandoli.
- Non sono sicura di aver capito bene quest’ultimo concetto
- Mi spiego con un esempio. Oggi pomeriggio ero seduto in un bar e aspettavo una
persona. Mentre ero lì da solo mi sono ricordato di una volta, tanti anni fa, che ero stato
in quello stesso bar con i miei amici. Erano i tempi dell’università e sicuramente almeno
tre di noi fumavamo, all’epoca. E, sicuramente, quel pomeriggio di tanti anni fa fumam-
mo diverse sigarette. Eppure la scena che mi è apparsa alla mente era senza sigarette,
come se il divieto avesse esteso una specie di efficacia retroattiva sui ricordi.
- Efficacia retroattiva sui ricordi. Dici delle cose strane. Però belle. Perché ti sei ricorda-
to proprio di quel pomeriggio?12.

Questa efficacia retroattiva sui ricordi è anche un effetto ‘Grande Fratello’,


quello di Orwell, 1984, forse ha a che fare con i media, con una idea di incivili-
mento e di progresso che in realtà finiscono per nascondere la complessità del
mondo.
Il dialogo che riporto ora è a mio avviso possibile ed emblematico:

- Ci sono mai stati ospedali psichiatrici in cui i pazzi non avevano diritti civili, né potevano
uscire, anzi erano segregati, gli ‘agitati’ erano messi insieme e sovente lavati collettivamen-
te con delle pompe, venivano bloccati con delle camicie di forza etc…?
- Certo che no, mica è possibile.
- Sapevi che gli americani hanno bombardato l’Italia sistematicamente, buttando giù città
storiche, edifici religiosi, ammazzando tanta gente comune, più di quante ne uccise la
guerra guerreggiata e le stragi naziste?
- Ma quando?
- Dal 1942 al 1945 ma soprattutto nel ‘43 e ’44.
- Ma va non è mica possibile!

Vicino-lontano. Ecco un altro effetto, tutto si avvicina e il passato diventando


lontano, incredibile, inaccettabile, viene negato. I giovani rifiutano il racconto
della miseria del passato sentita come una vergogna, i ceti medi negano di avere
avuto rapporti di parentela con generazioni di emigranti. Siamo nati nel benessere
e nel televisore. Questo ci impedisce di vedere la diversità nel presente: le guerre,
le migrazioni, appaiono come un disturbo al benessere raggiunto, non come un
modo di manifestarsi del mondo e delle sue patologie, della quali una componen-
te è il nostro benessere.
Nella filiera lunga della produzione che vede l’Asia al centro torna di attualità
la filiera corta della produzione alimentare. Quella che richiederebbe una memo-
ria meno corta, un ponte con le generazioni passate di una nazione contadina che
ha rimosso il passato. La proposta di una Terra madre faticosamente si fa strada,

41
con tante parole: i prodotti locali, i prodotti di nicchia, i prodotti tipici, ma il

Le crasi del vicino e del lontano


DOC, il DOCG, il DOP sono un’altra faccia del Made in Italy, non è che il vino
del Chianti ‘geografico’ sia fatto in Cina, ma certo non è fatto nel Chianti, così
come il lardo di Colonnata non è fatto (almeno per il 90%) a Colonnata.
E mentre la filiera lunga apre e lega – forse in modo perverso – al mondo
globale, la filiera corta rilancia la dimensione locale e, anche se lo fa per reagire al
globale e rivolgendosi al globale (perché il prodotto di nicchia fa parte del mondo
liquido e di flusso, mica lo consumano i ‘nicchiaioli’), per obblighi di teoria rilan-
cia zone di protezione: le regioni, le nazioni, i mercati chiusi, temi del dibattito
italiano dei primi del Novecento, liberisti contro protezionisti. Il ministro Tre-
monti e la Lega Nord hanno fatto prove generali di teorie protezioniste, pur in un
contesto politico economico che si propone come liberale. Ma anche i movimenti

Pietro Clemente
intellettuali che una volta si sarebbero detti progressisti (ora non so più), lancia-
no temi del lontano, forse il principale è l’acqua. Anche l’acqua è coinvolta nello
stravolgimento del buon senso. Bene comune, privatizzato, consumato in modi
sperequati, con violenza e protervia dalle nazioni cosiddette più avanzate. Qui se
non si guarda lontano non si può capire vicino.
I movimenti per la filiera corta sono i sostenitori della rinascita del vicino. Il
loro modello è quello delle popolazioni contadine del passato: allora si trattava
di auto-sussistenza obbligata, oggi si tratta di una scelta, sia di produzione che di
qualità della vita. Ma è chiaro che il vicino non risorge dalle sue stesse ceneri, è in
un certo senso un prodotto del lontano, e della produzione che questo ha fatto di
cattiva qualità della vita e degli alimenti.
Questa estate in Sardegna un imprevisto movimento dei pastori ha bloccato gli
aeroporti, il prezzo del latte prodotto localmente è troppo alto rispetto a quello
prodotto industrialmente. Ci sono industrie alimentari sarde che comprano il latte
in Olanda e lo trasformano in Sardegna chiamando i formaggi che ne nascono
‘sardi’: sono i formaggi della ‘crasi’13, il lontano si fa vicino si interseca, ma i
pastori sono ‘fritti’. Il mercato globale espropria i produttori locali. Mentre alla
fine degli anni Novanta sembrava esserci speranza per una idea di riequilibrio
città-campagna e produzione territoriale – mercato globale, ora questa sembra
non esserci più. Ho avuto l’impressione di una catastrofe ultima e vicina. In effetti
occorre una forte consapevolezza e una certa capacità di spesa per la filiera corta;
nella crisi economica non c’è molto spazio per questo. Ma la crescita di domanda
alimentare nel mondo comunque imporrà all’Europa una ri-contadinizzazione: un
ritorno del lontano inteso come passato (ancora un titolo-metafora di Carofiglio:
Il passato è una terra straniera) dentro il vicino. Filiera corta, memoria lunga14.

La guerra è vicina

La cosa più vicina che non vediamo per l’effetto Foucault è la guerra. Per me,
formatomi negli anni Sessanta e Settanta, il mondo emerso dagli anni Novanta è
uno shock, dopo il bipolarismo mondiale, anziché l’unificazione del mondo nella
pace c’è stata la diversificazione del mondo nella guerra. Diversificazione che non
esclude l’omologazione nel senso pasoliniano, giacchè la guerra è quasi sempre
42

per il potere, le risorse, i consumi, ovvero è per la modernità.


Quaderni di comunicazione 11

La guerra fa parte dei fenomeni che a livello collettivo vengono dimenticati, di


fronte a rare e torve minoranze che covano vendette e guerre future, larghe mag-
gioranze si impegnano a far finta che non sia successo niente. La generazione dei
serbi giovani di oggi, mi dicono, è lontana mille miglia dalla guerra, la ignora. Così
come i miei alunni dell’Istituto Magistrale di Iglesias ignoravano (siamo nei primi
anni Settanta del Novecento) l’esistenza della miniera, chance e tragedia della vita
dei loro padri. Così come i miei alunni dell’Università di Siena (siamo negli anni
Settanta e Ottanta) ignoravano l’esistenza della mezzadria della quale, forse ma-
ledicendola, erano vissuti il 70% dei loro nonni, se non genitori. La ignoravano,
così come i nipoti dei nostri emigrati nell’Europa del Nord, in America o in Au-
stralia ignorano che i loro antenati hanno vissuto situazioni assolutamente simili a
quelle dei migranti attuali in Italia: che sono trattati da pezzenti da figli e nipoti di
persone a loro volta esperte dell’esser trattati da pezzenti. Non si impara mai. Per
questo Cristo andava girando per il mondo sotto mentite spoglie e se qualcuno
gli rifiutava ospitalità magari il giorno dopo si trovava senza casa, senza animali, o
sprofondato in un lago. L’ospite è sacro da millenni, ma se lo senti minaccioso per
il tuo tempo, per il tuo lavoro, per il tuo benessere, fingi che non esista o chiami il
113. Forse Cristo ha ripreso i suoi viaggi. Io almeno me lo auguro.
Un tragico esempio del fatto che la guerra non è lontana nello spazio ma è
lontana nel sistema percettivo (occhi e orecchie in particolare) è dato dalla guerra
nella ex Yugoslavia. Siamo nei primi anni Novanta. La vicinanza dello spazio
della guerra era impressionante, non solo per le frontiere, o l’essere dirimpettai
nell’Adriatico, ma per la contiguità storico-morale di quel mondo, oggetto di turi-
smo estivo, di mercato calcistico e parte intrinseca della storia d’Europa (Trieste,
Gorizia…).
Anche chi era vicino, durante la guerra è stato lontano. Dunja Rithman era una
collega dell’Università di Zagabria con cui avevamo scambi amichevoli e rappor-
ti assai cordiali di lavoro, reti di studenti, interessi di studio. La guerra la aveva
sorpresa e straziata perché, un po’ più grande di me d’età, aveva fatto in tempo a
vivere la guerra precedente, lacerata tra storia italiana e nuova identità yugoslava
‘socialista’. Scrisse per noi una lettera che fu pubblicata nel primo numero della
rivista Ossimori, che raccontava di come la gente riprendesse pratiche di socievo-
lezza nei rifugi contro i bombardamenti, dopo anni di individualismo nei nuovi
condomini. Raccontava la propria delusione per i nostri studi che tendono sempre
a non mostrare i conflitti e a dare idee edificanti della possibilità di dialogo
interetnico, criticava il nazionalismo ritornante in Croazia, e vedeva nell’Europa
l’unica speranza per il futuro della Croazia15. Ma la guerra continuò e noi su Ossi-
mori non ne parlammo più. Era diventato difficile dire, condividere, era forse più
semplice agire, anche solo per solidarietà, ma come? L’orrore si faceva sempre più
insopportabile, inesprimibile, incomprensibile. Donammo libri per la libreria di
Sarajevo. Qualche collega li accompagnò. Si parlò dell’assedio come di quello più
lungo della storia dell’Occidente, dopo la guerra di Troia. Anni dopo mi ritrovai
ad ammirare il lavoro di gruppi di donne italiane psicanaliste che avevano nel do-
poguerra seguito e accudito, cercato di contenere il tremito orripilato delle donne
violentate, massacrate. Ma la spiegazione del perché si era creato un baratro tra

43
la nostra vita in Italia e la vita contigua di chi, amico, interlocutore di scambi, ri-

Le crasi del vicino e del lontano


schiava il massacro quotidiano, lì vicino a poca distanza, forse l’ha data l’autore di
uno dei libri più tremendamente chiari, anche antropologicamente, sulla guerra:
Luca Rastello, legato al gruppo Abele, che racconta di essere rimasto coinvolto
permanentemente nell’ascolto, nell’organizzazione di aiuto, nella vicenda della
guerra, nella vita con i profughi, quasi per ‘contagio’16, per un coinvolgimento che
progressivamente lo ha fatto essere diverso e distante da tutti quelli che non erano
come lui impegnati a trovar casa, andare a prendere, seguire sviluppi per aiutare
persone; altri che lo guardavano con stupore, anche con ammirazione, come un
essere di un altro mondo. Così Rastello è stato vicino alla guerra e lontano da
chi gli viveva vicino. Sono temi segnalati anche nella letteratura sulla guerra e
l’olocausto, penso ai nomi di George Semprun e ovviamente di Primo Levi. La

Pietro Clemente
‘differenza’ di esperienza vissuta come estraneità al mondo della vita quotidiana,
essere visti come ‘altri’, come ‘morti risuscitati’, non essere creduti.
Lavoro da due anni nella didattica universitaria, in una classe di antropologia
culturale di base, sui temi della guerra. Lo faccio perché ora sono disponibili dei
libri legati a esperienze di colleghi più giovani di me che sono stati capaci di ridare
ai temi della guerra sia valore antropologico sia forza di ricerca etnografica. E lo
faccio perché penso che come cittadini del 2000, prima che come antropologi,
i miei allievi devono alfabetizzarsi alla guerra, immaginare la morte, l’orrore, la
mattanza etnica, come parte del mondo ‘progredito’ e tecnologico. Come parte
della loro vita nel mondo.
La guerra appariva nell’antropologia classica come o qualcosa di ‘altro’ da
raccontare come ‘primitivo’: prove di valore, tecniche di trattamento dei corpi,
riti di iniziazione, o qualcosa di irraccontabile (la morte delle culture), ma essa
non trattava le guerre contemporanee, né la contemporaneità della guerra giacché
forse per l’ideologia del moderno la guerra non è contemporanea, o non esiste, o
è una mera operazione di ecologia mondiale verso zone arretrate, o è roba legata a
gruppi fanatici, o che fanno i ‘primitivi’ tra loro.
Nei nuovi studi sulla guerra e sulla violenza l’antropologia è tornata in scena,
forse nel tentativo di essere presente con la propria metodologia teorico-etnogra-
fica17 al cuore del mondo globale e moderno, per non essere ridotta alla nostalgia
dei passati angoli di mondo e comunità primitive della terra. I libri per lavorare
sulla guerra ora non mancano: io ho lavorato soprattutto su un libro che ha i tratti
della monografia antropologica, ed è insieme un diario di vita dentro una guerra
africana, scritto da Valerio Petrarca sulla guerra civile in Costa d’Avorio, si tratta
di I pazzi di Grégoire18, un libro molto utile per gli scopi formativi che mi sono
prefisso. Altri cominciano ad apparire come monografie19.
Forse è proprio la guerra a caratterizzare a livello globale il primo decennio
del 2000, sia come memoria, sia come terribile attualità. Il decennio si apre con
l’attentato alle torri gemelle, e si chiude con l’incancrenirsi della guerra in Afgha-
nistan e la uscita dell’esercito americano dall’Iraq, protagonista di una delle guerre
più assurde, controproducenti, distruttive che mai si siano date.
Nel lavoro sulla guerra, nel vederla come produttrice di orfani, di mutilati, di
pazzi, di massacratori, di profughi, sacrificati a finalità sempre di profilo limitato
ma sempre anche connesse con interessi economici e politici mondiali, è venuto
44

via in evidenza il tema dell’esodo dai luoghi del conflitto, e il connettersi dei tran-
Quaderni di comunicazione 11

siti di migrazione e di fuga. Una connessione che ci viene ricordata anche spesso
sulle coste del nostro mare, quando profughi in fuga e migranti vengono indistin-
tamente rimpatriati, respinti. L’espressione ‘respingimento’ è tornata nel lessico
politico amministrativo ad indicare la ‘accoglienza’ e la ‘tolleranza’ dell’antico
occidente dei lumi.
Migranti e profughi sono il vicino del lontano, sono la guerra e la miseria del
mondo altro ormai ‘occidentalizzato’e impegnato nella modernizzazione, che si fa
‘domestica’ tramite loro. Per questo forse nessuno li ascolta, nessuno dà loro la voce.
Uno dei modi più drammatici con cui si esprime questa paradossale situazione
in Italia è quello rappresentato dagli accordi italo-libici per il respingimento, in un
contesto di terribili guerre che sconvolgono il Corno d’Africa, e che coinvolgono
anche l’Italia e la sua storia coloniale per la compartecipazione drammatica al qua-
dro di Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia, l’intero quadro ex coloniale italiano. Nella
coscienza collettiva comincia ad entrare la consapevolezza del costo in vite umane
che è significato dai nostri respingimenti, e dagli accordi italo-libici. Le stragi della
guerra e le stragi di persone in fuga in quell’area dell’Africa (che non è l’unica)
non sono cose di altri, ma sono legate alla nostra storia e ai nostri accordi di difesa
dall’immigrazione, sono il nostro modo di partecipare all’Europa fortificata che
respinge i poveri del mondo, allontana le guerre, anche quelle in cui ci guadagna,
nasconde qualcosa che è molto vicina e per ciò va rimossa: la nostra responsabili-
tà di cittadini per ciò che accade. Più che vicina questa responsabilità sta dentro
noi stessi, come soggetti politici in senso pieno,quando la espungiamo è come se
negassimo noi stessi come cittadini. Vicino-lontano è la dialettica che porta qui da
noi a raccontare i protagonisti del viaggio dell’orrore attraverso l’Africa in guerra
e in rapina di vite umane del libro film Come un uomo sulla terra20.

Note

1
Questo testo può essere considerato una seconda puntata, e forse un aggiornamento del
saggio di Pietro Clemente, Lontananze vicine: sui modi di pensare e insegnare l’antropologia nel
mondo globale, apparso in Pasquinelli, C. (a cura di), Occidentalismi. La parola, le interpreta-
zioni, i luoghi, i modelli, in «Parole chiave», n. 31, 2004, ripubblicato come volume autonomo,
Roma, Carocci, 2005.
2
Gli atti non sono pubblicati, il seminario si svolge in più atelier, a cura di Chiara Bortolotto,
il primo atelier si intitolava “L’inscription territoriale du patrimoine ommatériel”, l’intervento
era di Mathieu Jacomy, che interveniva su Analiser puis archiver l’occupation des territoires
numériques par les migrants, dava conto di un programma di ricerca TIC-Migrations basato
su una mutazione di paradigma, dal migrante sradicato al migrante interconnesso. Con cellu-
lari e Internet si formano nuove frontiere del mondo. Utile per capire questo approccio il sito
tic-migrations.fr , dove si trovano anche i riferimenti di Le migrant connecté. Pour un manifeste
épistémologique e del E-DIASPORAS ATLAS.
3
La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffa-
ello Cortina, 2002.
4
Vicinanza estranea. La cultura popolare fra globalizzazione e patria, Pisa, Pacini, 2008.
5
“mò che il tempo si avvicina viene avanti la grande Cina” era un verso che De Martino ri-
portò cantato nelle lotte dei contadini nel dopoguerra . Era la Cina di Mao che entrava libera e
comunista nel grande consorzio dei popoli. La citazione più che ironica vuol essere antifrastica,
e segnalare che c’è un nuovo tempo che si avvicina e che in questo tempo viene avanti di nuovo

45
la grande Cina, ma in un modo meno epico, diverso, ma ugualmente riflessivo per noi.
6
Bologna, Il Mulino, 1973 (ed.or. 1936).

Le crasi del vicino e del lontano


7
In Aime, M., 2008, Il primo libro di antropologia, Torino, Einaudi, pag. 184.
8
Papa, C., Imprenditori trasmigranti. Note etnografiche, (in collaborazione con V. Redini), in
Papa, C., Pizza, G., Zerilli, F.M. (a cura di), 2003, La ricerca antropologica in Romania. Prospetti-
ve storiche ed etnografiche, SMAC, Studi e Materiali di Antropologia Culturale, nuova serie, n. 4,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Redini, V., Made in Italy. Estetica e politiche di autentica-
zione sociale delle merci ‘italiane’ prodotte in Romania, in «Lares», n.3, 2006. Molto interessanti
i riferimenti al riconoscimento del Made in Italy, al dibattito sulla ‘delocalizzazione’, ai temi
politico-economici e giuridici che si muovono in questo spazio nuovo e incerto.
9
Clemente, P., Bachiddu, E., Iuso, A., 2007, Il canto del nord, Roma, Cisu.
10
Marco Bellocchio, 1967.
11
Clemente, P., La smemoratezza del moderno, in Ronzon, L., Redemagni, P. (a cura di),
2008, Manifattura Tabacchi/Milano, Milano, Edizioni Museo Nazionale della Scienza e della

Pietro Clemente
Tecnologia.
12
Carofiglio, G., 2010, Le perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, pag.226.
13
Letteralmente fusione di vocali finale e iniziale di due parole, o di dittonghi, ma anche
mescolanza di umori e medicamenti nella medicina antica.
14
Quest’anno in Toscana è stato ‘l’anno dei mezzadri’. La Toscana era terra di contadini che,
dimentica di sé, si è spacciata per terra di antiche città (cosa mangiavano?) e di natura intatta
(se lo fosse non ci sarebbe stata storia), o per terra di nuove industrie. Lavorare sul passato
‘lontano’, sepolto, rimosso ha forti potenze conoscitive e immaginative. Io ho studiato i con-
tadini toscani e la loro smemoratezza e vedo bene il passato che si fa futuro. Vedi il sito www.
annodeimezzadri.it .
15
Rihtman, A.D., I simboli e la guerra: Una lettera dalla Croazia (Zagreb, dicembre 1991), in
«Ossimori», 1(1), 1992, pp. 44–47. Il dibattito antropologico sulla guerra è poi continuato con
vari saggi e nel 2005 è stato ripreso anche dalla rivista Current Anthropology.
16
Rastello, L., 1998, La guerra in casa, Torino, Einaudi.
17
Dei, F. (a cura di), 2005, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi; De Lauri, A., Achilli,
L. (a cura di), 2008, Pratiche e politiche dell’etnografia, Roma, Meltemi (in particolare due saggi
, uno dei due curatori, l’altro di C.Nordstrom). Sulle guerre, sulle stragi, sui dopoguerra anche
l’antropologia italiana ha studi importanti, sia nei mondi altri, sia da noi. Sul nostro fronte ricor-
do il lavoro, a cura di Fabio Dei e di chi scrive, sulle stragi naziste del 1944, Poetiche e politiche
del ricordo (Roma, Regione Toscana-Carocci, 2005).
18
Palermo, Sellerio, 2008.
19
Segnalo solo Jourdan, L., 2010, Generazione kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra
in Congo, Bari-Roma, Laterza.
20
Film di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene con un libro dell’Archivio delle
Memorie Migranti a cura di Marco Carsetti e Alessandro Triulzi (Roma, Infinito, 2009).
Duccio Demetrio
Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono

Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza


garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il
legame sociale tra le persone

J. Godbout e A. Caillé 1

Vicini ma lontani: il desiderio impossibile di autenticità

Se assumiamo le categorie di “vicino e lontano” non da un punto di vista


spaziale o temporale, bensì emotivo, queste si presentano di un certo interesse
quando le si intenda ricondurre (anche) ai luoghi della convivenza professionale.
Mi riferisco, per meglio dire, ai contesti lavorativi nei quali vigono regole formali,
norme, obiettivi assegnati, pratiche, livelli di responsabilità e gerarchie, funzionali
al conseguimento di finalità produttive o inerenti l’offerta di servizi. Dove ciò che
indichiamo con la parola “dono” non trova una sua legittimazione, se non nella
variante di regalo (di compleanno, di Natale, di promozione o pensionamento)
che nulla ha a che vedere con una problematica antropologica e filosofica tra le
più affascinanti2.
La vicinanza o la lontananza, in simili luoghi dove il dono viene bandito e tutto
si fonda sullo scambio e sul favore, non in quanto contiguità o distanza fisica, ma
in quanto stati d’animo e d’affezione intercorrenti tra i membri di uno stesso or-
ganismo operativo, costituiscono una necessità interpersonale ineliminabile. Essa
contribuisce a determinare, a istituire e a diffondere – sovente irreversibilmente –
sensazioni di malessere o viceversa di benessere individuale sul lavoro. Sia quan-
do ci si trovi come costretti a convivere e a lavorare gli uni accanto agli altri, sia
quando ci sia data la rara opportunità di scegliersi reciprocamente, di mettere in
comune scopi e modi concordemente pattuiti. In quanto colleghi, per lunghe ore
nell’arco della giornata, per prolungati, anzi lunghissimi periodi, in ogni caso, si
tratta di trovare un modus vivendi et operandi, il cui successo non è certo garantito
soltanto a “colpi” di direttive e mansionari.
Nelle società attuali, pertanto, accade di trovarsi a dover stare insieme non per
una libera scelta aggregativa o partecipativa, per un desiderio di vita in comune,
ma per ragioni preventivamente definite da ruoli, profili, obblighi: il cui scopo è il
lucro, il profitto, un tornaconto remunerativo. In queste organizzazioni, si accede,
come ben sappiamo, sia per adempire a un dovere e a una responsabilità sociale,
sia per vedervi realizzato il diritto inalienabile al lavoro, sia per trovarvi le fonti di
reddito necessarie alla sopravvivenza. Al fine di poter adempiere alle mansioni di
consumatori, e di produttori al contempo o di prestatori d’opera, secondo le leggi
dell’economia di mercato, secondo le modalità della domanda e dell’offerta. Fra
48

l’altro, tali condizioni non sono sempre l’esito di una libera opzione vocazionale,
Quaderni di comunicazione 11

ma più spesso, nella difficile e tormentata correlazione tra formazione e occupa-


zione, esse sono accettate per necessità contingenti, non sempre proprio aderenti
alle aspettative o al grado di preparazione di coloro che vi lavorano. Lo stato di
crisi relazionale è sovente generato dalla mancanza di una coerenza auspicabile tra
la preparazione ricevuta e uno sbocco, disatteso e chimerico, a essa coerente. La
componente remunerativa, ordinata contrattualmente o con criteri discrezionali,
costituisce senz’altro la più importante ragion d’essere di simili convivenze. Inutile
negarlo. Ma anche, spesso in correlazione a questo aspetto, la fonte di disagi, con-
flitti, malumori, la cui ricaduta travalica gli aspetti inerenti l’esclusivo ed efficiente
funzionamento di un organismo tecnico inceppato tante volte dalle imprevedibili-
tà umane. Il quale è preordinato, e performato tecnologicamente, secondo criteri
che talvolta hanno voluto instaurare forme di razionalità ed efficienza illimitate,
anche rispetto ai mondi relazionali e affettivi. Infatti, questi fattori incidono non
poco, oltre che sulle sue mete sociali esplicite, sui vissuti dei singoli: sulle no-
stre storie, fino a modificarne la traiettoria o a consentirci di mantenere segrete,
occulte, tacite le nostre altre vite. Secondo modalità, non necessariamente illecite,
ma di tipo trasgressivo: e comunque alternative alle nostre frequentazioni usuali.
Ciò accade tanto più quando l’organismo organizzativo cui si appartiene risponda
a una logica basata su incentivi e premi o su criteri non sempre trasparenti di rico-
noscimento delle competenze e dei successi conseguiti. La pregnanza, o viceversa,
l’irrilevanza emotiva del trovarsi insieme, sono dunque fattori talvolta dipendenti
dagli assetti organizzativi (dalla loro maggiore o minore disponibilità e tolleranza
nel lasciar spazio al bisogno umano di informalità), nonché dagli incoraggiamenti
più o meno incentivati di riconoscere le necessità emotive e di far spazio ad esse:
favorendo, ad esempio, le occasioni informali di narrazione, discussione, aper-
tura di se stessi. Talaltra, invece, queste si delineano come indipendenti dalle pur
ammirevoli intenzioni delle leadership, degli apparati dirigenziali, che auspiche-
rebbero la creazione di condizioni ottimali di convivenza, scambio, identificazione
affettiva con le mete dell’organismo di cui si fa parte. Nelle aziende e nelle impre-
se, è ovvio ricordarlo, l’orgoglio e il vanto di appartenervi rappresenta del resto, a
livello simbolico, uno dei sentimenti determinanti. Fonte di discriminazione per
chiunque non sia a essi sintonico.
Lontananza nella vita organizzativa però non significa soltanto mancanza di
affezione per il tipo di lavoro svolto: può equivalere a una indifferenza umana per
gli altri, con i quali si lavora anche gomito a gomito, se non ad una aperta insoffe-
renza nei loro confronti. Vicinanza, per converso, non è modalità di convivenza da
ricondursi ad una automatica coesività di intenti, quanto ai livelli di investimento
emotivo; commisurabili alle vicende esistenziali extra lavorative, o alle interiori
vicissitudini, che non possono, per consuetudine, entrare a far parte delle norme
lavorative, ma che, nemmeno, possono essere ignorate e, tanto meno, represse.3

La maggior parte di noi, tranne che in alcune professioni private, dipende non
solo dall’assetto organizzativo e relazionale cui si è destinati, ma dalla varia umani-
tà – indecidibile a priori – con la quale andranno spartiti incarichi, compiti, tempi
esecutivi. Tutti e tutte, in quanto attori organizzativi, ci troviamo ad assumere,

49
gli uni rispetto agli altri, un ruolo dalla più o meno accentuata valenza emotiva,

Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono


i cui effetti sono imprevedibili e che, non per nulla, i dispositivi di selezione del
personale, quando esistano, cercano di intercettare preventivamente. Si tratta di
variabili che vanno inoltre commisurate al grado di anzianità, al sesso, ai meriti
reali o millantati, al prestigio, ai livelli gerarchici. Le emozioni e i sentimenti, senza
dimenticare le affezioni motivazionali e le passioni per il proprio lavoro, non sono
dunque “astrazioni estetiche”, loisir e “passatempi” interstiziali: fra l’altro sempre
poco analizzati e discussi con chi li interpreta variamente sulle scene del lavo-
ro. Tali forme del sentire (uso tale dizione inclusiva per riferirmi a tutto quanto
suscita emozione in noi: dalla meraviglia, all’orrore, dall’eros alla sofferenza, alla
dedizione disinteressata o meno per l’altro, ecc) si accendono, si acquietano, si
riattizzano e ripropongono ciclicamente in rapporto agli “ingredienti” individua-
li citati. Gli effetti emotivi di una simile ineluttabilità, com’è noto, equivalenti
a fattori umani di simpatia, disponibilità, gradevolezza dei modi o, viceversa,
d’intolleranza, di indifferenza, di astio, ben lungi dall’essere soltanto manifesta-
zioni del tutto personali, convergenti o eccentriche, incidono come è risaputo
non poco sui climi organizzativi complessivi, sui suoi obiettivi, sull’efficacia delle
sue più svariate “mission”. Divengono atteggiamenti collettivi capaci di aggregare

Duccio Demetrio
consenso o rifiuto. Per non tacere degli umori – ottimi o pessimi – indotti da tali
convivenze, che si trasferiscono ai rispettivi contesti privati, cui i membri di una
data entità organizzativa appartengono. Di solito nella famiglia, le amicizie, le
relazioni affettive o altri contesti nei quali ci si realizza, ci si sente accettati di più:
o cercati elettivamente, proprio per compensare quanto l’organizzazione fonte di
reddito prevalente non offre, sotto il profilo delle relazioni soddisfacenti e gratifi-
canti auspicabili. Allo stesso tempo, non è così raro che negli ambienti lavorativi si
possa trovare, anche emotivamente, quanto i luoghi mitizzati del proprio privato
(a livello di calore, accoglienza, comprensione, ecc) non riescono invece a offrire
adeguatamente. Non sono poi un’infima minoranza coloro che proprio sul lavoro,
più che altrove, scoprono quanto al di fuori di esso non troverebbero mai. Così
come, oggi, è impossibile non citare le opportunità che le reti informatiche, i me-
dia portatili, le globalizzazioni telematiche ci offrono, proprio al fine di soddisfare
quegli appagamenti emotivi che né il privato, né il pubblico a noi fisiologicamente
più “vicini” sono in grado di offrirci. A differenza di quanto riescono a donarci,
sempre sotto il profilo emotivo, i contatti, le interazioni, le connessioni con gli
universi emozionali di donne e uomini sconosciuti. I quali, seppur “incorporei”,
siano costoro lontani o vicini, riescono a tessere, e noi nei loro confronti, luoghi
virtuali di intensità pari, se non superiore, a quelli che ci è dato vivere nei contatti
reali. Tali nuovi spazi, acronici e atopici, stimolano e suscitano infatti attrazio-
ni, intrighi, seduzioni dall’indubbio potere immaginativo e desideriale. Dinanzi
alla monotonia e al tedio emotivo, alle ritualità superficiali, alla perdita di senso
del nostro vivere. Al punto che tali neofenomenologie già sono state paragonate
alle manifestazioni oniriche del nostro stato di veglia. Tutto ciò riesce a generare
quanto potremmo definire, accanto a quella privata e a quella ufficiale, una terza
dimensione relazionale, che si rivela fonte di soddisfazioni altrove inappagate e de-
cisamente frustrate. Questi incontri si configurano qualitativamente “altri”; spesso
si tratta di investimenti che hanno lo stesso peso emotivo della fantasia letteraria,
50

rispetto alle consuete forme di interazione a noi più prossime e fisicamente vicine.
Quaderni di comunicazione 11

Le tecnologie fonte di relazioni e affettività tra ignoti (blog, facebook, second life,
e-therapy, ecc) che arrivano a svelare segreti e intimità irriferibili a chiunque altro
faccia parte della nostra usuale cerchia, che evitano anche quando lo potrebbero
di incontrarsi dopo infiniti scambi neo-epistolari, iconici, dialogici, ecc, ottempe-
rano ormai al bisogno di scegliere le proprie comunità e di costruirle informan-
dole allo spirito della più totale opzionalità. L’ineluttabilità della vita di relazione
ce ne assegna altre, sgradite o sgradevoli, alle quali tuttavia dobbiamo aderire o
acconsentire obbligatoriamente.
Il vicino e il lontano, considerati da questo punto di vista, non investono quindi
soltanto questioni inerenti la prossimità o la distanza tra i corpi in reciproca
collaborazione. Il farne esperienza diretta, piacevole o deludente, genera effetti
secondari non indifferenti, anche in tutti coloro che, pur essendo lontani da quei
luoghi, pur non appartenendovi, non possono sempre esimersi, e non per loro de-
cisione, dal non esserne coinvolti pur indirettamente. Si tratti di relazioni “concre-
te e vive” (per usare un’immagine cara ai sociologi della quotidianità) o, viceversa,
di dimensioni all’apparenza lontane, che ci risultano più vicine – e fattore di
ricompensa emotiva – di quelle frequentate usualmente, basate sul contatto fisico
e sulla sua mitizzazione. Da che mondo è mondo, l’attrazione e la repulsione viag-
giano sulle ali della fantasia, dell’impensabile, dell’invenzione. Dal momento che
le emozioni, quale ne sia la natura, evadono sempre dai contesti nei quali si ori-
ginano per migrare altrove; per incidere sui comportamenti altrui e sulle vite dei
singoli. Ai quali è così data l’opportunità di vivere almeno nella finzione quanto
la realtà nega loro e ci sottrae il bisogno umano di produrre sogni e non solo fatti
o dati di realtà. Sappiamo anche che i fattori emotivi, quali essi siano – inerenti
l’amore, l’amicizia, la solidarietà o viceversa l’indifferenza, l’ostilità, il risentimento
– riemergono in tutta la loro forza spesso irrazionale e incontenibile.
Nelle organizzazioni, per lo meno in quelle qui evocate, la comunicazione e la
condivisione della lontananza o della vicinanza di natura affettiva, sono per lo più
espressione di sentimenti che i soggetti si auto-impongono, con successo relativo,
di nascondere o di camuffare. La capacità di apprendere a separare il pubblico dal
privato, l’imparare a farlo il più rapidamente possibile, del resto, costituisce una
delle componenti e abilità non scritte richieste dal passaggio all’età adulta, dalle
quali non ci si può esimere. I processi di adultizzazione si adempiono giocoforza
all’insegna di una separazione tutta interna, fonte di conflitto prolungato o di
adattamento rapido, ritenuta indispensabile; poiché, il non riuscire ad occultarla,
potrebbe nuocere alla propria immagine. Fino al punto da mantenere all’oscuro
anche i colleghi e le colleghe, verso i quali parrebbe (o sembrerebbe) sussistere
un sentimento di fiducia e di apprezzamento per la loro discrezionalità amicale.
Le prerogative richieste nella gestione della lontananza emotiva dalle faccende
di lavoro, corrispondono così alla propria abilità nel riuscire a sdoppiarsi, anzi
a moltiplicarsi, nell’imparare rapidamente a interpretare, bene e con successo,
in copioni impostici dall’arte della versatilità sia di ruolo che emotiva, badando
bene a non confonderne i piani tra loro. L’uomo e la donna maturi, consapevoli
di trovarsi in un’organizzazione che domanda loro di sapere autogestire anche gli
aspetti emotivi, secondo la cultura della pluriappartenza sociale e psicologica,4

51
sanno controllare i loro istinti e dosarli sapientemente, a seconda delle circostanze

Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono


e degli interessi. E, se abili, in queste modalità comportamentali vengono ricom-
pensati a livello di maggiori poteri e atti di riconoscenza vantaggiosi. Pertanto la
condizione adulta, spesso più al maschile che al femminile, si disegna all’insegna
della flessibilità emotiva e relativistica, più che di condotte etiche ispirate da codi-
ci di natura morale nel trattamento dei rapporti interpersonali e non solo. Dal che,
ne consegue che le emozioni provate è bene non interferiscano mai, o non più di
tanto, con la figura anaffettiva che il ruolo professionale ci chiede di interpretare.
Con il rischio che, a lungo andare, si riproducano simili algidi modelli adultistici:
laddove una maggiore attenzione alla cura e alla espressione degli affetti più natu-
rali sarebbe auspicabile.

Il bisogno di compensare emozioni inibite: l’anomalia del donare

Gli stati emotivi che entrano ed escono, germinano, nelle organizzazioni sono
dunque molteplici: essi riguardano bisogni di appartenenza, di riconoscimento
delle proprie capacità, la possibilità di farsi amici, alleati, sodali e di poter contare

Duccio Demetrio
sull’aiuto e la disponibilità all’ascolto e alla confidenza dell’uno o dell’altra. Per
far filtrare qualcosa di sé, che non attenga soltanto ai problemi lavorativi. Concer-
nono poi, in taluni contesti, il raggiungimento dei traguardi condivisi: il riuscire a
fare squadra, l’esercizio di alcuni rituali comunicativi, relazionali, simbolici, senza
i quali l’obiettivo di sentirsi vicini, coinquilini e partecipi di uno stesso mondo
(con conseguente vissuto emotivo di inclusione) e l’obiettivo di allontanare da sé
l’esuberanza della sfera privata, di esibire che si sa contenerla o nasconderla una
volta che si sia entrati nel luogo organizzativo, fedeli alla consegna di estrometter-
la, non potrebbero essere conseguiti.
Dopo queste premesse, in questo articolo, ci occuperemo di uno soltanto di
questi sentimenti elusi, o meglio inibiti, nelle organizzazioni; i quali insorgono
(qualche volta, in alcuni e per nulla in altri) per obbedire a scopi anche social-
mente utili (l’istruzione, l’educazione, la salute, la cura, ecc), ma non vantaggiosi,
economicamente, per coloro che vi operano. Esso è dominato dal desiderio di
supplire alla comunità ideale che si vorrebbe abitare ma che non può sussistere
in base alle circostanze esaminate. Chi scrive si riferisce, e ne tratterà autobiogra-
ficamente, all’ambizione di agire come una comunità di sodale (abitata da mete
e idealità condivise) scelta elettivamente, dove spendersi per finalità del tutto
volontaristiche e comunque non connesse a gratificazioni di ordine economico.
Bensì di natura sociale: dove la necessaria ricompensa, che è componente umana
inevitabile di ogni nostra vita, viene a coincidere con la categoria del dono e con
l’esperienza di spendersi ed offrirsi disinteressatamente. Oltre che con la neces-
sità di condividere, questa volta, tanto gli aspetti inerenti alle strategie volte a
raggiungere i fini per i quali l’organizzazione nasce, quanto le dimensioni emotive
più riservate. Il cui ascolto e la cui accoglienza – a differenza delle organizzazioni
prima sommariamente descritte – siano parte costitutiva, perseguita intenzional-
mente, della sua stessa natura. Il sentimento del dono e del donarsi fa parte delle
emozioni anomale che un’organizzazione usuale può far emergere, che però non è
52

suo dovere assecondare, né tanto meno incentivare. Di conseguenza, non possia-


Quaderni di comunicazione 11

mo che definire “anomali” (inusuali, imprevedibili od anche ricorsivi) taluni nostri


sentimenti taciuti: come quello evocato. Tanto più quando esso si configuri, come
diremo, in quanto esigenza individuale, forse ad altri occhi bizzarra e da anime
belle, di alcuni (non quindi avvicinabile con criteri universalistici) anzi di pochi:
protesa verso l’esigenza di colmare i vuoti emozionali ed affettivi che un’organiz-
zazione “normale”, per la sua stessa identità istituzionale si trova a dover disatten-
dere. Questi luoghi non sono certo le organizzazioni o le modalità di convivenza
usuali nelle quali lavoriamo, produciamo, offriamo beni e servizi. Sono emozioni e
riflessioni, queste, che impariamo a contenere e che, a lungo andare, auto convin-
cendoci di ciò, possono anche scomparire: venendoci esse a trovare in forma di
sogno o mediante disturbi fastidiosi dal latente significato. Rabbia, ansia, disprez-
zo, indignazione, insofferenza, rancore, invidia, livore, sadismo: ma nondimeno la
malinconia, la nostalgia, la tristezza, la consolazione, il cordoglio, la compassione,
la tenerezza … non possono, o sanno, abitare le nostre parole normali e le nostre
giornate uguali, nei diversi stati di veglia che potrebbero esaminarle ed affrontarle
soltanto se si accettasse di esplicitarle e non di reprimerle e, con sotterfugi, celarle
in primo luogo a noi stessi.
L’anomalia nostra è attribuibile al percepirne tutta la presenza, pur trovandoci
nella impossibilità e nell’impotenza (consapevole) di non riuscire a palesarle nella
vita ordinaria. Sempre nel sospetto non peregrino che qualcuno se ne avvalga
come mezzo di ricatto, oltre che per farci sentire incapaci di spiegarne le origini
e le ragioni. Sono sentimenti perciò ammutoliti, negati, in cerca di qualcuno che
li ascolti e raccolga. Tale silenzio può incidere sugli stessi nostri modi d’essere e
d’agire.

Il registro autobiografico: la sintomatologia di Anghiari

La nostra tesi, la ribadiamo in sintesi, è che, seppur a livello marginale e di mi-


noranze particolarmente sensibili a simile richiamo, il lavoro nelle organizzazioni
per sua stessa natura non oblativo, improntato a generosità, a solidarietà generi una
“voglia di comunità ”che resta nella più parte dei casi una latente araba fenice. Una
comunità, quella vagheggiata, che si vorrebbe ben diversa da quella vissuta sia
nel privato che nel pubblico. Dove, la stessa voce comunità, difficilmente si rivela
adattabile ai luoghi consueti nei quali spendiamo energie relazionali per oneri pro-
fessionali o privati. Ci manca quindi uno spazio ideale, di carattere interpersonale,
insomma, nel quale poter essere autenticamente noi stessi insieme agli altri. Per
fare, pensare, agire, parlarsi stando elettivamente e vocazionalmente insieme.5
Il sogno di vivere una comunità, come nel caso ora evocato, che ci consenta di
riavvicinare fra loro il lontano e il vicino. In altri termini, i sentimenti alla ragione
sociale, finalmente condivisa, del nostro agire e pensare. Il mio scritto, in questa
sua terza parte, vuol essere dunque la cronaca breve (e vera) di un disagio per-
sonale che inizia da pagine che si avviano alla fine; dalla presentazione di una
comunità culturale di formazione, ricerca, promozione intellettuale da me inven-
tata nel 1998 per oltrepassare l’anomalia (normalissima e doverosa nella quoti-

53
dianità professionale e nelle relazioni di vita, come abbiamo visto) delle finzioni e

Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono


degli occultamenti necessari, che tuttavia ci tocca accettare sovente con sofferenza
e disagio. O, comunque, non proprio all’insegna di un ingenuo ideale di felicità
organizzativa. Quando tentiamo di alzare e diradare la nebbia su tutto ciò, sco-
priamo di iniziare ad ammalarci, invece di guarire. La sintomatologia del fastidio,
all’inizio oscura, non può essere confusa con la ricerca dell’assoluta trasparenza
reciproca. Bensì, può essere isolata nei sintomi del tenace perseguimento di un
luogo informale (non un setting, né una seduta di gruppo di autocoscienza) in
cui tali anomalie – i bisogni emotivi e relazionali citati ma negati – possano essere
esaminate, narrate, descritte in aperta confidenza e iniziale anonimato. Lontani
da occhi e orecchie indiscrete. Un luogo diverso dagli ordinari luoghi va cercan-
do chi, poiché questi non trova, non si sente bene e si distanzia sempre più dai
comportamenti di coloro che ritengono infermo, invece, chi ne sente la mancanza.
E vorrebbe parlarne, scriverne, narrarsi. Lo strano morbo donativo compare tutte
le volte che vogliamo sfidare le normalità del nascondere, del fingere, del tacere,
dell’ignorare: per meglio apparire e appartenere, per meglio assolvere funzioni e
compiti quale sia l’ordine organizzativo frequentato. Controcorrente si cerca un
luogo che possa essere abitato dalla sincerità, dalla autenticità, da una qualche

Duccio Demetrio
forma di utopia. Io ci ho provato a realizzare un simile spazio umano: di vicinanza
e di lontananza al contempo, ammalandomi di un benessere finalmente realizzato.
Non per grazia ricevuta, per sforzo progettuale e determinazione. Definisco per-
ciò sintomatologia di Anghiari6 il tormento gratificante che mi affligge da alcuni
anni a questa parte e che turba, in una gioia pensosa, anche tutti coloro che la fre-
quentano con piacere come me, non potendone più di nascondere quel che nelle
organizzazioni (le più micro o le più macro di appartenenza od infausta creazione)
è vietato coltivare. Non (sempre) per colpa perversa o istituzionalizzata, di questo
o quel tiranno (capo ufficio, preside, manager, oppure coniuge o figlio o allievo
impertinente, amante, ecc ).
Per quanto concerne dunque la mia malattia (non assumendomi responsabilità
in vece d’altri), che prende nome da un luogo reale, non si tratta dell’amore spae-
sante per uno dei borghi medioevali toscani più belli d’Italia; una versione aggior-
nata, per intenderci, della ben nota sindrome di Stendhal. Tale esperienza affettiva
(che colà mi conduce spesso ormai regolarmente a realizzare quanto è impossibile
vivere nella organizzazione universitaria che mi dà da vivere) non è paragonabile
ad un deliquio o ad un obnubilamento dei sensi. Anzi, me li acutizza e risveglia.

La scrittura come esercizio del donare e del donarsi

Piuttosto, mi riconcilio ogni volta con il piacere ben consapevole e razionale


di ritrovarmi in una comunità in cui il “sentimento di appartenenza” – di cui vi
decifrerò il significato – è la dimensione prevalente che, per miei indubbi limiti e
incapacità, non sono riuscito a scoprire e a costruire altrove. Non a mia personale
misura (per essere sinceri, per lo meno non del tutto); a misura, piuttosto, di una
piccola aggregazione umana in transito, contingente e sempre diversa, resa possi-
bile grazie, invece, al valore e all’amore universale, sempiterno poiché qualcuno
54

prima o poi lo raccoglie, per la scrittura di sé e autobiografica. Ecco, il problema


Quaderni di comunicazione 11

è trovare una casa – un’appartenenza – dove si possa andare e venire a proprio


piacimento e da lasciare, quando, dopo tanta scrittura, potrai tornare ad appar-
tenere alle altre tue appartenenze quotidiane più sicuro del tuo sentire, anche se
dovrai continuare a tenere per te certe emozioni. Con un notes, una penna, un
diario per amici fidati. Da Anghiari, si torna sempre in più di uno nelle tasche: la
scrittura ti sdoppia e accentua l’abitudine al dialogo interiore. Ma non all’insegna
degli effetti dissociativi prima citati, bensì riconciliatori e ricompositivi. Sai che,
al rientro, i fogli potranno raccogliere i sentimenti che provi, nella sicurezza che
queste tue pagine non ti tradiranno mai; nell’orgoglio di imparare a racconta-
re a se stessi quelle anomalie del sentire. Ma è in una vita temporanea messa in
comune (nell’intreccio di un tempo e di uno spazio apicali, memorabili) che tutto
questo prende forma e si sviluppa. Anghiari non è una ridicola e presuntuosa
“piccola Atene” della scrittura, semmai, una polis della memoria autobiografica:
personale e collettiva. Dove sostare e lavorare insieme per produrre null’altro
che non siano parole in libertà (retrospettive e introspettive); per pensare e
ripensarsi; per riflettere sulla propria vita al passato e al presente; per occuparsi
delle biografie degli altri: salvando storie, raccogliendo ricordi altrimenti perduti,
”intossicandosi”della mania di tenere un diario, di scrivere appunti, di leggere
quel che l’altro in amicizia, trovando qui un’opportunità di raccoglimento e spunti
meditativi, va scrivendo di sé o di te, ascoltandoti. Qui ci si cura, in sostanza, im-
parando una mania o a non considerarla più nociva; confermandola, sviluppando-
la aspirando a contagiare altri. Anghiari è un habitat di ossessioni innocue che ti
dà energia, togliendotela: quando, alla fine di una giornata, hai narrato l’inenarra-
bile. È un luogo partecipativo che ti fa ricordare di più per dimenticare, in modo
“buono” (cioè libero e profondo) e fertile; che ti chiede di riscoprire il piacere
della solitudine, stando diversamente con gli altri. Per intraprendere altre forme
di ripensamento, talvolta meno dure di quelle cui una pagina bianca e un po’ di
inchiostro ti impongono di scoprire. Anghiari è la sintomatologia di me stesso
che cercavo: per vivere diversamente un modo di stare tra adulti di varia cultura,
provenienza e genere, non soltanto italiani, che non si conoscono affatto e che qui
possono conoscersi (non con giochi psicologici, tantrici e, vivaddio, nemmeno per
cercarvi la felicità) come mai è avvenuto accadesse loro. È un esperimento conti-
nuo di nuova convivenza e tolleranza reciproca: in presenza fisica, o nella distan-
za, di carattere epistolare. Alcuni la considerano una “clinica”dove accade però
di infettarsi ancor più di penna, e tale è poiché ti reclini su di te ad ascoltarti con
lo stetoscopio del lapis. Altri, ed io fra questi, delusi dalla vita d’ufficio, dal lavoro
amministrativo, dalla scuola o dalla formazione, scoprono in questa comunità (a
basso tasso e costo organizzativo e ad alta tensione umanistica e di volontariato
intellettuale) quel che cercavano e continuano a cercare vanamente nei diversi
posti di lavoro o che iniziano a rivendicare in questi luoghi. In altri termini questa
esperienza “ concreta e viva”, ha saputo generare un modo meno asettico, forma-
le, funzionalistico di stare insieme. Dove ci si dedica a un’oziosità operosa che non
possiamo permetterci quando in gioco ci sono interessi economici, di carriera, di
sopravvivenza, di impegno. Anghiari non è un’opportunità regressiva per anime
perse e fallite: lo è soltanto per chi forse aveva qualche conto in sospeso per i tanti

55
– troppi – appuntamenti rinviati con la coscienza, con l’autocritica, con la voglia

Nostalgia di comunità. Anghiari e la sindrome del dono


di cambiare.
Qui produci qualcosa, a differenza della coltivazione di altri loisir alla moda,
che ha il raro privilegio di non servire a niente. Nessuno che qui alberghi per i
periodi della formazione alla scrittura di sé aspira a vincere un concorso letterario,
un premio di poesia, a pubblicare: tutt’al più, l’unica ricaduta potrà riguardare il
trasferimento di quanto scrivendo si è sperimentato su di sé in altri luoghi, in cui
disseminare l’arte e la cura della scrittura. Qui puoi disperdere al vento del primo
finestrino quanto hai scritto per giorni e giorni. Poi un dubbio ti ferma, di soli-
to, poiché quelle righe sono il tuo alter ego, il personaggio che sei stato e quello
nuovo che sta stagliandosi in una nuova gestazione, soltanto affidata a te, alla tua
caparbietà scrivana. È l’anomalo sentire che sta uscendo dalla sua imposta cattivi-
tà e che ti chiede cura e rispetto.
In conclusione, la sintomatologia di Anghiari ha preceduto per me l’incontro
con questa comunità prima esistente soltanto nel mio immaginario: oggi rappre-
senta la “difesa immunitaria” di cui avevo bisogno, per sopportare i corridoi e i
tavoli dove ho dato e offro il mio contributo professionale e organizzativo. In una
quotidianità spesso usuale e mutilante purtroppo. Anghiari mi serve per disin-

Duccio Demetrio
tossicarmi dalle impercettibili o vistose manifestazioni di disumanità che, senza
accorgermene, o pervicacemente lucido, accumulo; lavorando nelle stanze usuali
dell’organizzazione che formalmente compare sui miei documenti di identità.
Se, allora, hai nostalgia per i mondi impossibili da perseguire senza evasioni, alla
luce del sole, per trovare quel che non trovi – poiché un conto è formare secondo
regole formali e un altro è formare in base al criterio della motivazione libera a
formarsi per sé – inventare una comunità di ricerca e di pratiche come questa,
non è una fuga. È un risarcimento non chiesto ad altri ma a te stesso, in quanto
ammetti non un fallimento, bensì un debito nei confronti di quel che non riesci
a fare più di tanto in questi luoghi del quotidiano di cui continui a perseguire
gli scopi alati soltanto perché lavori per delle persone. Dove il lucro non conta,
dove non pensi di inventarti un nuovo Cepu, o una confraternita di allievi devoti,
semmai, un territorio (meglio un paesaggio) in cui si possa continuare a crescere
in un’età adulta tendente alla senile nella libera ragione di sentirsi esistere meglio
e di voler pensare e offrire in modo diverso quel che si è già pensato. La sindrome
di Anghiari, la cui sintomatologia e genealogia ho cercato di descrivere, è la mia
restituzione dovuta, dunque, il mio debito estinto con la necessità ancestrale, già
precristiana, del dono.

Una sindrome da esportare e perseguire in altre forme

Anghiari è il sintomo – la sindrome – la cura che non trova risposte appropriate


in una qualsiasi “normalità”organizzativa. Anche la più perfetta e amata. Poi-
ché c’è sempre qualcosa che non riusciamo sinceramente e pienamente a essere.
Poiché il luogo in cui si lavora solitamente, pur nella convinzione di operare per
il meglio e persino con passione, elide giocoforza, reprime, ostacola il manifestar-
si di altre aspettative e di altri desideri. Anghiari e tanti altri luoghi assimilabili
56

alla sua sindrome, pur con altri intendimenti (quali sono gli ormai innumerevoli
Quaderni di comunicazione 11

gruppi di volontariato, di ricerca scientifica, di dilettantismo e amatorialità, di par-


tecipazione civile e politica, di assistenza a chi soffre, anche in rete, ecc) rappre-
sentano, sul piano dell’esercizio della nostra cittadinanza vocazionale, tutto ciò che
più riattiva in noi passione sociale, nel tentativo di essere individui che provano il
gusto ed esercitano il diritto di voler associarsi liberamente. Anche perché l’or-
ganizzazione in cui si è passata tutta una vita, o le molteplici in successione che si
sono conosciute, non del tutto ti hanno accontentato: non potevano farsi difatti
comunità dal “normale” sentire, dire, raccontarsi e scrivere.7

Note
1
Godbout, J., Caillé, A., 1992, Lo spirito del dono; tr. it., 1993, Torino, Bollati Boringhieri, p.
30.
2
Tra i saggi più celebri, ormai classici, citiamo soltanto sul tema del dono e donare: Caillé,
A., 1998, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono; tr. it., 1998, Torino, Bollati Borin-
ghieri; e di Derrida, J., 1991, Donare il tempo. La moneta falsa; tr. it., 1996, Milano, Raffaello
Cortina; Temple, D., Chabal, M., 1995, La Reciprocitè et la naissance des valeur humaines, Paris,
L’Harmattan.
3
Si veda a tal proposito, sulla variabile interiorità in quanto simbolo anche civile delle nostre
soggettività inalienabili: Demetrio, D., 2000, L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia
introspettiva, Milano, Rcs, La Nuova Italia; Id., 2010, L’interiorità maschile. Le solitudini degli
uomini, Milano, Raffaello Cortina.
4
Elster, J., 1987, L’io multiplo; tr. it., 1990, Milano, Feltrinelli.
5
Sul concetto di autenticità e trasparenza si rinvia al saggio noto e recente di Mancuso, V.,
2009, La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina.
6
Anghiari, in provincia di Arezzo, è un comune di oltre ottomila abitanti collocato sui colli
che circondano l’inizio dell’Alta Val Tiberina. Qui ha sede la Libera Università dell’Autobio-
grafia. Per avvicinarsi on line a tale luogo si può consultare il sito www.lua.it. La Libera è stata
fondata da chi scrive, che ora la dirige, e dal giornalista Saverio Tutino, già inventore dell’Archi-
vio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, nel 1998. La comunità di scrittori e scrittrici è
un’associazione culturale senza fini di lucro, che conta oggi oltre 1500 associati e attua ininter-
rottamente tutto l’anno iniziative didattiche e formative, promuove convegni scientifici, gestisce
scuole estive e seminari con lo scopo precipuo di diffondere la cultura delle memorie scritte sia
individuali che collettive.
7
Sulla esperienza metodologica della Libera Università dell’Autobiografia, sui suoi antefatti
teoretici e sugli esiti clinici del lavoro di cura di sé e degli altri mediante l’esercizio sistematico,
monitorato, sollecitato della scrittura si può leggere di Demetrio, D., 2008, La scrittura clinica.
Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, Raffaello Cortina.
Diana Salzano
Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo
mediatico

La dinamica vicino/lontano caratterizza il disancoraggio mediale, trasposizione


concettuale dell’idea di disembedding con cui Giddens intende significare le
trasformazioni avvenute nella società tardo moderna, ad opera dei trasporti veloci
e delle tecnologie della comunicazione, nel rapporto spazio-tempo e nell’organiz-
zazione delle pratiche sociali. La natura dinamica della vita sociale è riferibile
essenzialmente a tre fattori fondamentali: “la separazione del tempo e dello spazio e
la loro ricombinazione in forme che permettono una precisa delimitazione di
‘zone’ spazio-temporali della vita sociale, la disaggregazione dei sistemi sociali (…)
e infine l’ordinamento e il riordinamento riflessivo dei rapporti sociali alla luce dei
continui input di sapere che interessano le azioni degli individui e dei gruppi”
(Giddens 1990, p. 28). La contrazione spazio temporale disancora le relazioni
sociali dalle particolarità dei contesti di presenza rendendole estensionali. I luoghi
diventano fantasmagorici, sono penetrati e modificati da influenze remote: “Ciò
che struttura il luogo non è semplicemente ciò che ne occupa la scena; la ‘forma
visibile’ della località nasconde le relazioni distanziate che ne determinano la
natura” (ivi, p. 30). I corpi continuano ad ancorare gli individui allo spazio e al
tempo, a un determinato contesto locale, ma tale località è diversa da quella delle
società premoderne: è abitata da presenze e assenze, contaminata dall’eco di
mondi di vita distanti. È innegabile il potere dislocativo dei media, la loro capacità
di trascendere spazio e tempo, di connettere presenza e assenza, proiettandoli sul
palcoscenico della rappresentazione. Le immagini del cinema, della televisione,
dei linguaggi video hanno costruito strutture di esperienza mediata le cui principali
peculiarità sono per Giddens l’effetto collage e la familiarità con eventi e situazioni
lontane1. La contrazione delle distanze ad opera dei media elettronici è alla base
dell’idea mcluhaniana di villaggio globale (1964): la spinta centripeta delle tecno-
logie della comunicazione contrae improvvisamente il mondo, estendendo il
nostro sistema nervoso sino a coinvolgerci in tutta l’umanità e ad incorporare tutta
l’umanità in noi. La nuova geografia situazionale disegnata dai media elettronici è
tratteggiata da Meyrowitz (1985) che analizza la ristrutturazione dei palcoscenici
sociali e della nostra concezione di comportamento appropriato ad opera dei
media. Le spazialità create dalle tecnologie della comunicazione riconfigurano le
distanze tra le identità di gruppo, tra pubblico e privato, infanzia e maturità,
mascolinità e femminilità, risemantizzando i concetti di vicino e lontano. I media
58

dislocano, infatti, il rapporto tra ambiente fisico e situazione sociale e la natura


Quaderni di comunicazione 11

dell’interazione è decisa dai modelli di flusso informativo piuttosto che dagli


ambienti fisici. Modificando le peculiarità informative del luogo, le tecnologie
della comunicazione trasformano situazioni e identità sociali. La stampa prima e i
media elettronici poi disancorano le forme simboliche mediali dalle coordinate
spazio-temporali e dai territori dell’enunciazione. L’elaborazione discorsiva2 e la
mediatizzazione estesa3 contribuiscono a sganciare ulteriormente tali forme
simboliche dalle coordinate spazio-temporali dell’ambiente di produzione. La
televisione, attraverso quella che Thompson definisce interazione quasi mediata4,
crea l’illusione di un’interazione diretta con i personaggi dello schermo, un
rapporto para sociale, di familiarità ed intimità (Horton, Whol, 1956). La simulta-
neità despazializzata crea una storicità e una socialità mediate che mutano total-
mente il senso della distanza, del rapporto vicino/lontano. L’interpolazione spazio
temporale riguarda tempi e luoghi reali e immaginari (ivi). L’intimità connessa
all’esperienza locale trova nell’intimità non reciproca a distanza5 (Thompson, 1995)
creata dai media di massa una nuova forma di espressione. Un’illusoria vicinanza
agli eventi rappresentati libera dai doveri di reciprocità ma può creare dipendenza
dai personaggi dello schermo che si venerano proprio perché inaccessibili.
L’intimità delle grandi cerimonie dei media (Dayan, Katz 1992), il pathos collettivo
che muove dalle sorti di un forte nucleo di immaginario (si pensi ai funerali o ai
matrimoni delle celebrità) possono essere interpretati come una conseguenza del
sequestro d’esperienza6 (Giddens 1990) che sperimenta l’uomo contemporaneo in
una società sempre più caratterizzata dalla privatizzazione delle esperienze. La
crescente astrazione dei sistemi sociali, l’aumento delle relazioni impersonali
basate sull’intellettualità e sulla strumentalità ci fa desiderare di vicariare l’espe-
rienza perduta con quella ricreata dai media audiovisivi. In assenza di quella che
Benjamin definisce esperienza accumulata7 va rarefacendosi anche quella vissuta,
intesa come percezione attuale, presentificazione di un contenuto alla coscienza. È
il valore dell’esperienza in sé che sembra, come afferma Jedlowski (1989), decre-
scere in una sorta di tachiestraneità al mondo (Marquad 1987). Nella pausa
protetta dell’altrove simbolico mediatico possiamo allora riappropriarci dell’espe-
rienza degli eventi che ci è sottratta nei contesti di vita quotidiana: “ciò che si
dissolve sul piano esperienziale si materializza a livello immaginifico, trova un’im-
manenza segnica, una corporeità virtuale in qualche recesso dell’immaginario
individuale e collettivo” (Salzano 2003, p. 137). Essere esposti agli eventi mediali
non significa però esperirli personalmente nei contesti in cui avvengono e non
implica necessariamente un coinvolgimento; cambia la qualità del contatto (Silver-
stone 1994, p. 58). Le caratteristiche sensoriali della televisione impediscono una
reale partecipazione emotiva ed etica alle condizioni di individui lontani nello
spazio e nel tempo: “lo schermo televisivo riduce tutte le immagini alla stessa
qualità visiva. L’atrocità e l’intrattenimento si alternano nello stesso rettangolo di
vetro convesso” (Miller 1971, p. 126). Lo spettatore, nella costruzione di Adam
Smith (1759), è per definizione un beholder, colui che vede o un bystander, una
presenza senza impegno, uno spectator, imparziale e irrimediabilmente distante da
ciò che osserva; la sua attenzione per l’oggetto osservato è sostanzialmente
disinteressata. Hannah Arendt (1967,p. 126) notava come la compassione avesse

59
un carattere pratico, potesse cioè attivarsi solo quando chi soffre e chi non soffre e

Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico


osserva il dolore dell’altro sono in grado di stabilire un rapporto diretto. La
compassione8 si può provare per il singolo individuo; non è uno stato d’animo che
tende alla generalizzazione, come è invece la pietà9. È la possibilità di agire per
alleviare la sofferenza dell’altro che determina le condizione del moral engage-
ment, dell’impegno etico. Lo spettatore televisivo tende ad interpretare come
finzionali gli eventi sui quali non può intervenire (Boltanski 1993). È l’impotenza,
il senso di colpa che determinano in lui il ritiro morale da ciò che osserva. Il
lontano a cui i media ci connettono rimane inevitabilmente tale. La connettività
tecnica consentita dalle tecnologie della comunicazione (Tomlison 1999) è cosa
ben diversa dalla reale prossimità agli altri che richiede la compresenza, il cum-
patire. La prossimità dismorfica dei media altera le forme della distanza e quindi
del senso di vicinanza. La rappresentazione iperrealistica della televisione (…)
ingigantisce le cose lontane e le pone troppo vicine al nostro sguardo perché si
possa notarle, oppure, dissimulando la loro reale portata, le purifica della origina-
ria drammaticità che le caratterizza e le proietta, in formato asettico e ridotto, sul
palcoscenico della simulazione. In entrambi i casi, nell’ipertrofia e nell’ipotrofia
degli eventi mediali, la prossimità è ingannevole. Eppure affascina e allontana le
cose che ci sono realmente vicine che, pur restando prioritarie per la nostra vita,
come sostiene Thompson, diventano secondarie per il nostro intrattenimento. E
sappiamo quanto l’intrattenimento conti (Salzano 2003, p. 142).
L’abbreviazione prospettica simmeliana porta il mondo mediato dalla tecnologia
nelle nostre case, nelle nostre prevedibili routines quotidiane ma ne sbiadisce i

Diana Salzano
colori, ne smorza le tonalità affettive. L’emancipazione simbolica (Elias 1991) con-
sentita dai media crea un disembedding morale:

Le nuove tecnologie non fermano la guerra o il genocidio, possono anzi renderli più
efficaci (…) e anche invisibili (…), tenendoci quindi separati con il ricorso a immagini
che rendono impossibili la cura e la responsabilità (…). La tecnologia può isolare e an-
nullare l’Altro, e senza l’Altro siamo persi. La tecnologia può, all’opposto, annullare la
distanza, può portare l’Altro troppo vicino perché ne possiamo riconoscere la differen-
za e la specificità (…). Le immagini che documentano altri mondi si devono conformare
ai nostri preconcetti: i poveri devono sembrare poveri; gli affamati devono avere ventri
gonfi e mosche sugli occhi. La familiarità indotta dalla tecnologia può non produrre
disprezzo, ma molto probabilmente produce indifferenza” (Silverstone 1999, p. 213).

La prossimità dismorfica che cortocircuita il vicino e il lontano è quindi una


patologia dello sguardo; i media chiedono un impegno morale per il quale spesso
non offrono risorse. Il rischio di adiaforizzazione (Bauman 1999), di emancipazio-
ne delle azioni dal giudizio e dal significato morale è davvero alto:

La sensazione è (…) che i media siano in senso strutturale amorali (…). Se non ci piace
qualcosa, in ogni caso scomparirà presto, lontano dagli schermi, scivolando all’estremità
del mondo (ivi, p 215).

L’intensità delle comunicazioni e degli scambi tra gli individui non sembra più
assicurare quella che Durkheim definiva densità morale. Le tecnologie della comuni-
cazione fungono da cordone sanitario proteggendoci nei nostri spazi locali di vita da
60

eventi lontani a cui possiamo voyeuristicamente assistere ma che non devono in alcun
Quaderni di comunicazione 11

modo turbarci; eventi troppo spesso decontestualizzati, desemantizzati, privati della


loro drammaticità reale. Lo straniero tele mediato rimane tale, è estraniato da un
processo di esorcizzazione, di tabuizzazione della sofferenza, del dolore, della morte:

In nome del realismo e del dovere di cronaca si mostrano le immagini più brutali e,
tanto più sono esplicite e atroci quanto più rappresentano l’estraneo, lo straniero, chi ha
poca possibilità di essere conosciuto altrimenti. La rappresentazione del dolore di chi ci
è più vicino chiede maggiore pudore e minore realismo: è considerato indecente esibire
i propri morti” (Sontag 2003, p. 19).

Il sogno del villaggio globale televisivo che crea maggiore compartecipazione


ed interattività si infrange contro il rischio di una profonda interpassività (Slavoj
Zizek), di una desensibilizzazione progressiva creata dall’impossibilità di agire
sugli eventi rappresentati e dalla tendenza dei contenuti mediatici ad attivare
continuamente la rabbia narcisistica con immagini-colpo (Nancy 2002) per poi
immediatamente depotenziarla. L’essenza non dialogica dell’interazione quasi-
mediata resa possibile dalla televisione ci fa apparire gli eventi come refrattari ed
immodificabili; la natura deterritorializzante del dispositivo televisivo spiega lo
scarso coinvolgimento nelle vicende rappresentate.
L’urgenza di empatizzare con il dolore degli altri, di immaginarne la portata,
di convertire in parola politica e in azione quell’indefinita apatia che ci coglie di
fronte all’Altro lontano che la tecnologia mediale avvicina crea la necessità di un
reembedding etico; da parte dei pubblici perché coltivino un atteggiamento criti-
co, ermeneutico e metabolizzante nei confronti dei prodotti mediatici e da parte
dei media perché possano vincere la pigrizia linguistica, implementare l’uso dei
marcatori semiotici che consentono di distinguere la finzione dalla realtà, rap-
presentare storie che coinvolgano moralmente, calando le narrazioni nei contesti
etici locali delle audiences e mantenendo in vita la disposizione all’azione. La
comunanza despazializzata (Thompson 1995) deve convertirsi in una coevità etica
che trasformi il disincanto del turista baumaniano in un’attitudine riflessiva e in
un’occasione di pensosità (Resta 1997).
La rete creata dal meta medium internet, la dialettica tra processi di globalizza-
zione della cultura ed istanze di appropriazione legate ai contesti locali riaprono
le maglie del nesso vicino/lontano disegnando rapporti reticolari che non possono
più essere misurati in base alla logica centripeta del villaggio globale. Lo spazio
dei flussi (Castells 1996) della comunicazione immateriale della rete, distinto
dallo spazio dei luoghi che ancora le persone ai contesti locali, riformula le logiche
dell’embedding territoriale, introducendo un nuovo modello spaziale policentrico,
orizzontale, a rete e nodi. Lo spazio è in continua definizione, è istantaneamente
percorribile, è espanso e connesso. La geografia non muore ad opera della velocità
tecnologica (Cairncross 1997; Virilio 1989) ma si risemantizza:

In realtà internet ha una propria geografia, fatta di network e nodi che elaborano il
flusso informazionale generato e gestito dai luoghi. L’unità è il network, così che l’archi-
tettura e le dinamiche dei network multipli sono le funzioni e le fonti del significato per
ciascun luogo. Il risultante spazio dei flussi è una nuova forma di spazio, caratteristica

61
dell’Età dell’informazione, ma non è priva di luoghi: essa collega i luoghi attraverso
network informatici e sistemi di trasporto informatizzati. Ridefinisce la distanza ma non

Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico


cancella la geografia” (Castells 2001, p. 195).

Nello spazio dei flussi il territorio coincide con la mappa (Gras 1993); si tratta
di uno spazio progettato, negoziato e oggetto di conflitti (Ortoleva 2001, p. 70).
Nella nuova territorialità telematica non conta dove ci si trova, conta la possibilità
di connettersi alla rete:

la morte della distanza (…) è una prospettiva sbagliata. È un’imposizione dettata


dall’esigenza di un isocronismo universale che faccia funzionare a ritmo continuo
la macchina globale, ma in realtà è morto solo il tipo di distanza che misuravano in
chilometri o miglia. La distanza si è compressa e ha cambiato tipo di misuratori, non si
esprime più attraverso entità metriche, ma in entità temporali (…). Non è infatti più la
distanza a definire i margini e l’alterità, ma i flussi, le connessioni, (…) gli spazi deter-
ritorializzati delle relazioni. In quest’ottica scompare la dicotomia vicino/lontano per
lasciar posto ad una dicotomia più radicale ed escludente: connesso/non connesso (…).
Saltano dunque i presupposti della contiguità territoriale, mentre la distanza, cacciata
dalla finestra della metrologia, rientra dalla porta delle relazioni aspaziali, creando
interzone di buio trasmissivo e netti margini di incomunicabilità. Differenziazioni che si
fanno sempre più drammatiche e acute, dicotomiche” (Bonora 2001, p. 12).

Il digital divide segna una redistribuzione e ridefinizione delle distanze e delle


collocazioni spaziali. La distanza tra i luoghi online non è misurata dal tempo ne-
cessario per raggiungerli ma dall’alterità rispetto ai luoghi offline di appartenenza.

Diana Salzano
Tale differenza può essere di tipo linguistico, culturale, cognitivo ecc. La rete non
è isotopica bensì crea una nuova gerarchizzazione dei luoghi: “nella geografia dei
provider di contenuto di Internet” (Castells 2001, p. 209) solo alcuni luoghi fisici
riescono ad impossessarsi dei siti virtuali. Il dominio comunicazionale, il potere
dell’informatività crea inedite distanze, tracciando lo scarto tra reti attive che vei-
colano significato e reti passive, tra i capitalisti dell’informazione e un nuovo tipo
di cognitariato (Berardi 2001):

bisogna saper distinguere (…) tra reti di significati, valori, codici condivisi, in cui la
comunicazione è frutto di reciprocità, di scambio paritario, generatrici di coesione, dai
circuiti funzionali, il cui scopo è la mera trasmissione, il trasferimento, la velocizzazione
del comando, l’organizzazione e il coordinamento (Bonora 2001, p. 17).

La logica della connessione telematica accende e spegne luoghi e persone in


relazione al valore attribuito ad ogni luogo dagli interessi socialmente dominanti.
La Galassia internet è mossa da una spinta centrifuga, non è omologante e demo-
cratica come la Galassia Gutenberg mcluhaniana; la disuguaglianza e l’esclusione
sociale vivono una nuova stagione. Il reembedding della rete è tessuto sulla trama
della connettività ma non crea una prossimità libera dalla logica funzionale:

La distanza ha accentuato la sua natura diversificante, e se dentro la rete non ha più


senso parlare di vicino e lontano, fuori prevale un principio di esclusione. Nella sfera
cibernetica ciò che è lontano non è (ivi, p. 20).
L’universalismo reticolare cede di fronte alla logica gerarchizzante: “Il model-
62

lamento spaziale di Internet non segue la distribuzione della popolazione ma la


Quaderni di comunicazione 11

concentrazione metropolitana dell’economia informazionale” (Castells 2001, p.


209). Le comunità di pratiche del cyberspazio, frutto della messa in comune di at-
tività ed interessi, i network io-centrati (Wellman 2001) basati sul modello sociale
dell’individualismo reticolare rappresentano però una possibilità di reembedding
perché riterritorializzano i rapporti mediante lo scambio di significati. In rete il
linguaggio costruisce, infatti, lo spazio sociale; le prossimità sono di tipo semanti-
co10:

Nell’iperspazio delle reti, in cui vicino e lontano assumono solo un valore comunicativo,
il senso del luogo diventa allora il ‘luogo del senso’, lo spazio di significazione e visibilità
che si epifanizza oltre gli orizzonti semantici della territorialità fisica, dove il luogo,
smessa la sua natura di spazio radicato al suolo, assume il ruolo di nodalità significativa,
di crocevia di nuove vettorialità comunicazionali, di inedite traiettorie della redistribu-
zione cognitaria (Salzano 2003, p. 187).

Note
1
Il collage indica una giustapposizione non narrativa ad opera dei media di storie e materiali
diversi che “esprimono (…) disposizioni di consequenzialità tipiche di un ambiente spazio
temporale nel quale l’attenzione al locale è in gran parte scomparsa”(Ivi, p. 35). La familiarità
con eventi lontani può produrre “delle sensazioni di ‘inversione della realtà’: l’oggetto e l’evento
reale cioè, quando vengono percepiti, sembrano avere un’esistenza meno concreta della loro
rappresentazione nei media” (Ibid.).
2
Il processo di narrazione, commento e reinterpretazione dei messaggi da parte dei riceventi.
3
La riproposizione da parte di altri media, in nuove forme e contesti, di messaggi già tra-
smessi da un determinato medium. È l’idea di rimediazione di Bolter e Grusin.
4
L’interazione mediata si instaura quando tramite un mezzo tecnico (lettera, telefono ecc.) si
trasmettono informazioni a chi è lontano nello spazio e nel tempo mentre l’interazione quasi-
mediata è creata dai media di massa come la stampa, la radio e la tv che prevedono una comu-
nicazione prevalentemente unidirezionale, per un pubblico indefinito. Tale interazione “non è
caratterizzata dal grado di reciprocità e specificità interpersonale delle altre forme di relazione
(…). E tuttavia, è una forma d’interazione” (Thompson 1995, p. 125).
5
“La forma di intimità che gli individui possono vivere comporta reciprocità, ma manca di
alcune delle proprietà che caratterizzano le relazioni basate sulla condivisione di un ambiente
comune. Viceversa, nel caso della quasi-interazione mediata, la forma d’intimità che è possibile
si stabilisca è essenzialmente non reciproca” (ivi, p. 290).
6
La mediazione dei sistemi astratti nell’era tardo moderna crea un tipo di esperienza che ri-
duce la necessità della compresenza fisica e della conoscenza reciproca e che rimuove l’intimità
a favore di una crescente astrazione.
7
Riferita alla sedimentazione di contenuti nella nostra memoria. L’“interruzione corrisponde
tanto ad una ostruzione della capacità dei singoli di esser colpiti nel profondo dai materiali del
vissuto e di permetter loro di depositarsi nella memoria, quanto ad una difficoltà nell’elabora-
zione di tali materiali attraverso un linguaggio che medi i vissuti del singolo con elementi della
memoria collettiva” (Jedlowski 1989, p. 23).
8
La compassione è comunque “un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in
azione, altrimenti inaridisce” (Sontag 2003, p. 88).
9
La pietà, per compensare la distanza, deve generalizzarsi, farsi eloquente, riconoscersi come
emozione.
10
In rete forme linguistiche informali, sintetiche e allusive riducono le distanze tra gli interlo-
cutori, a differenza del linguaggio formale e prolisso che allontana socialmente.
63
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Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico


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Quaderni di comunicazione 11

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Elisa Maspero, Sembra ieri, Musee d’Orsay


Charo Lacalle
El debate sobre la Red: del Il dibattito sulla rete:
individuo aislado al ojo del dall’individuo isolato all’oc-
Gran Hermano1 chio del Grande Fratello1

Internet nacía en 1989, a 36 años del La nascita di Internet risale al 1989,


inicio de la televisión. La World Wide 36 anni dopo la televisione. Il World
Web (el primer web browser), comple- Wide Web (il primo web browser) ha
taba su propia trayectoria entre 2004 y completato la sua traiettoria tra il 2004
2005 con la llegada de la web 2.0, que e il 2005 con l’avvento del web 2.0, che
finiquita el sistema jerárquico adminis- pone fine al sistema gerarchico ammini-
trador/usuario del período anterior y stratore/utente del periodo precedente
modifica radicalmente la concepción e modifica radicalmente la concezione
del uso de la Red y de las informacio- dell’uso della rete e dell’informazione.
nes. La web 2.0 materializa el ideal Il web 2.0 rende tangibile l’ideale della
de la retroalimentación y convierte los retroazione ed è in grado di trasformare
monólogos en diálogos, al incorporar el i monologhi in dialoghi, grazie all’intro-
feedback del destinatario en los proce- duzione del feedback del destinatario nei
sos de comunicación de masas. processi di comunicazione di massa.
Los innumerables productos de Gli innumerevoli software online
software on line generados por la web creati ad hoc per il web 2.0 sono in
2.0 no sólo son capaces de gestionar un grado di gestire un volume ingente di
volumen ingente de recursos, cuya exis- risorse, realizzando operazioni difficili
tencia era difícil imaginar hace tan sólo da immaginare anche solo pochi anni
unos pocos años. Los servicios de la web fa. Inoltre, i nuovi servizi modificano
2.0 también modifican el sentido tradi- il senso tradizionale della navigazione
cional de la navegación (entendida como (intesa come ricerca di informazioni e
búsqueda de informaciones o conteni- contenuti), rendendola, al contempo,
dos) y la convierten en una mezcla de un insieme di ricerca, produzione e
investigación, producción e intercambio scambio tra utenti proprio grazie al
entre usuarios por efecto del feedback. feedback. Tuttavia, al di là delle sue nu-
Pero, más allá de sus innumerables merose applicazioni, la vera rivoluzione
aplicaciones, la verdadera revolución disinnescata dal web 2.0 risiede nel
desencadenada por la web 2.0 reside en suo potenziale sociale, che trasforma la
su potencial social, que vuelve la Red un rete in uno spazio idoneo per stringere
espacio idóneo para establecer relacio- relazioni e dar vita a comunità di ogni
nes y comunidades de todo tipo. sorta.
A diferencia de la primera fase de la A differenza della prima fase di
66

Internet, cuya estructura comunicativa internet, la cui struttura comunicativa


Quaderni di comunicazione 11

apenas alteraba la linealidad propia de alterava minimamente la stessa linearità


la comunicación mediática, el carácter della comunicazione mediatica, la natu-
metamórfico de la web 2.0 multiplica ra metamorfica del web 2.0 moltiplica
las posibilidades de compartir infor- le possibilità di condividere infor-
maciones entre usuarios y hace de los mazioni tra gli utenti e rende i testi
textos perpetua mobilia, susceptibles perpetua mobilia, suscettibili, quindi,
de ser modificados constantemente. La ad essere costantemente modificati.
intervención simultanea en los conte- La partecipazione in tempo reale degli
nidos por parte de los usuarios y el de- utenti sui contenuti e la nascita di
sarrollo de comunidades virtuales, que comunità virtuali, che spesso si armo-
se mezclan con las comunidades físicas, nizzano con comunità fisiche, generano
generan nuevas formas de relación, nuovi modelli di relazione, scambio e
intercambio y sociabilidad. La web 2.0 socialità. Il web 2.0 connette persone
conecta personas capaces y deseosas capaci e desiderose di interagire tra di
de interactuar unas con otras, cuyo loro che, mediante il feedback, trasmet-
feedback traslada a la Red su “mundo tono in rete il loro “mondo empirico”
empírico” (Eco, 1979). (Eco, 1979).
En términos de participación, la web In termini di partecipazione, il web
2.0 constituye un sistema complejo, 2.0 risulta essere un sistema complesso,
público y privado a la vez, integrado allo stesso tempo pubblico e privato,
por un número ilimitado de páginas costituito da un numero infinito di
que ofrecen contenidos, servicios y pagine che offrono contenuti, servizi,
herramientas de software de todo tipo. strumenti e software di ogni genere.
Público porque potencialmente la Red Pubblico perché la rete è potenzial-
está abierta a cualquier tipo de usuario. mente aperta a qualunque utente;
Privado porque permite el desarrollo privato perché permette lo sviluppo
de actividades comerciales y de un di attività commerciali e di un vasto
amplio mercado, pero manteniendo mercato, assicurando, al contempo, la
gratuitos una buena parte de los con- gratuità di gran parte dei contenuti, di
tenidos, los servicios y el software de servizi e software open source (Aber-
código abierto (Alberich i Roig, 2008). rich i Roig, 2008).

La Web social Il Social Web

El carácter social de la web 2.0 La natura sociale del web 2.0 ha reso
ha convertido Internet en una plaza internet una piazza pubblica, dove tutti
pública, donde es posible debatir de gli utenti desiderosi di consolidare la
cualquier cosa y con cualquiera; a propria identità possono accendere
cualquier hora y desde cualquier sitio, dibattiti su qualsiasi argomento con
y donde los usuarios acuden deseosos chiunque, a qualsiasi ora e da qualun-
de consolidar su propia identidad. La que luogo. Il web 2.0 ha trasformato
web 2.0 ha convertido Internet en el internet nell’epigono del villaggio
epígono de la aldea global (en el senti- globale (nel senso di “opinione pubbli-
do de “opinión pública” que Mcluhan ca”, come afferma Mcluhan), che offre

67
le otorga al concepto), que permite la possibilità di mettersi in contatto

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
conectar con personas provenientes con persone provenienti da ogni parte
de cualquier lugar del Mundo y hablar del mondo e di intavolare una conver-
con ellas con una inmediatez semejante sazione con una immediatezza simile
a la de la comunicación cara a cara, a quella di una comunicazione faccia
pero con una intimidad propia de la a faccia ma con la stessa intimità della
comunicación epistolar. La mezcla de comunicazione epistolare. L’unione
comunicación personal y compartida della comunicazione personale e con-
sitúa al usuario en una especie de “no- divisa colloca l’utente in una sorta di
lugar” (Augé, 1992) equidistante entre “non-luogo” (Augé, 1992) equidistante
la intimidad y la extimidad2 y lo integra tra l’intimità e l’estimità2 e lo posizio-
en la “inteligencia colectiva” (Lévy, na nell’“intelligenza collettiva” (Lévy,
1995) sin perjuicio de su identidad 1995) senza pregiudicare la sua identità
individual. individuale.
Las comunidades virtuales de In- Le comunità virtuali presenti su in-
ternet son asociaciones de “computer ternet sono associazioni di “computer
savvy people” (Baym, 2000:203), que savvy people” (Baym, 2000:203), che
promueven el debate entre individuos promuovono il dibattito tra indivi-
acomunados por los mismos valores y dui uniti da stessi valori e interessi
por los mismos intereses para compar- per condividere sentimenti, pensieri,
tir sentimientos, pensamientos, ideas idee ed esperienze (Prati, 2007:35).
o experiencias (Prati, 2007:35). La Il filo rosso che unisce le comunità

Charo Lacalle
característica común a las diferentes virtuali è la rapidità e la natura delle
comunidades virtuales es la celeridad relazioni tra i vari utenti, in virtù del
y la naturalidad de los contactos entre loro background comune. Ciò nono-
usuarios, en virtud del background stante, a differenza delle “comunità
común a todos ellos. Pero a diferencia immaginate” di Benedict Anderson,
de las “comunidades imaginadas” por che descrivono il ruolo della stampa
Benedict Anderson para describir el all’interno del nazionalismo (Ander-
papel de la prensa en el nacionalismo son, 1983) o dei “mondi immaginati”
(Anderson, 1983), o de los “mundos di Arjun Appadurai, che definiscono i
imaginados” por Arjun Appadurai para mondi costruiti dalle “immaginazioni
definir los mundos construidos por “las storicamente localizzate di persone
imaginaciones históricamente localiza- e gruppi diffusi nel pianeta” (Ap-
das de personas y de grupos repartidos padurai, 1997:33), il substrato delle
por el planeta” (Appadurai, 1997:33), comunità virtuali su internet non è
el sustrato de las comunidades virtuales meramente concettuale ma, anche,
de Internet no es meramente concep- fisico.
tual, sino también físico.
La enorme incidencia de web 2.0 L’enorme impatto del web 2.0 sulle
en nuestras vidas y las numerosas nostre vite e le numerose contro-
controversias que suscita derivan de versie che suscita derivano dalla sua
su intrínseca sociabilidad aunque, intrinseca socialità anche se, a rigor
en rigor, el impacto social de la Red di termini, l’impatto sociale della rete
es un argumento de debate que no è un argomento di dibattito che non
ha surgido en este contexto. Bien al si è presentato in questo contesto.
68

contrario, el paso de lo virtual a lo real Al contrario, il passaggio dal mondo


Quaderni di comunicazione 11

está atenuando y modificando la polé- virtuale a quello reale sta attenuando


mica sobre los efectos del alejamiento e modificando la polemica intorno
de lo social inducidos por las nuevas all’impatto negativo indotto dalle
tecnologías. De la misma manera que nuove tecnologie sulla vita sociale.
la hipótesis de la “audiencia activa” Così come l’ipotesi dell’“audience
acabó desplazando hacia los efectos attiva” che negli anni Ottanta spostò
limitados, en la década de los ochenta, il dibattito sui powerful media del
la creencia en los powerfull media del periodo anteriore verso gli effet-
período anterior (Wolf, 1992), el “páni- ti limitati (Wolf, 1992), il “panico
co moral” (el temor a la alienación del morale” (il timore dell’alienazione
individuo) por culpa de la Red) está dell’individuo sollevato dalla rete) sta
cediendo paso a una visión mucho más dando spazio ad una visione molto
ponderada. Se subraya el paso de una più ponderata. Si sottolinea il passag-
realidad que absorbe, atrae y, eventual- gio da una realtà che assorbe, attrae
mente, aísla al sujeto, a una experiencia e che potrebbe isolare il soggetto ad
cognoscitiva que si se realiza adecuada- una esperienza conoscitiva che, se si
mente estimula la reflexión, el diálogo realizza nel modo corretto, stimola la
y, sobre todo, el intercambio. Como riflessione, il dialogo e, soprattutto, lo
veremos sucesivamente, las primeras scambio. Come si vedrà in seguito, le
aplicaciones de lo que se ha dado prime applicazioni di ciò che si è poi
en llamar web 3.0 o web semántica denominato web 3.0 o web semantico
revalidan el carácter inteligente de los rappresentano un’ulteriore conferma
nuevos desarrollos de Internet basados della natura intelligente degli ultimi
en la sinergia, como la inserción de progressi di internet basati sulla si-
marcadores para simplificar y acelerar nergia, come l’inserimento di semplici
las diferentes operaciones realizadas en strumenti che accelerano le differenti
la Red. operazioni sulla rete.
En el dossier del diario británico Sul dossier di novembre del 2006
The Guardian, dedicado a la web 2.0 del quotidiano britannico The Guar-
en novembre de 2006, la reflexión dian, interamente dedicato al web
introductiva de John Lanchester sobre 2.0, la riflessione introduttiva di John
MySpace subraya la soledad del hom- Lanchester su MySpace mette in risalto
bre delante del ordenador. El perio- la solitudine dell’umanità di fronte allo
dista elogia los aspectos colaborativos schermo del computer. Il giornalista
de la Red, pero considera que por más esalta gli aspetti collaborativi della rete
sólidas y profundas que puedan llegar ma considera che, per quanto le rela-
a ser las conexiones entre usuarios, el zioni tra gli utenti possano essere solide
hombre conectado a Internet es un e profonde, l’essere umano connesso
cuerpo situado delante de la pantalla, ad internet è comunque un corpo
que aliena sus capacidades sensoriales davanti ad uno schermo, che aliena le
para simplificar sus relaciones y buscar sue capacità sensoriali per semplificare
en el espacio virtual aquello de lo que i suoi rapporti e cercare nello spazio
carece su propio entorno: virtuale ciò che gli manca nell’ambien-
te circostante:
Sit someone at a computer screen and Fai sedere una persona davanti allo

69
let it sink in that they are fully, defini- schermo di un computer e ti renderai
tively alone; then watch what happens. conto che è completamente sola. Os-

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
They will reach out for other people; serva poi cosa accadrà. Si avvicinerà
but only part of the way. They will have ad altre persone, ma solo in parte; avrà
“friends”, which are not the same thing “amici”, che non sono realmente tali ed
as friends, and a lively online life, which una vivace vita online, che non ha nulla
is not the same thing as a social life; they a che vedere con la vita sociale; si sentirà
will feel more connected, but they will più connessa, ma rimarrà comunque
be just as alone. Everybody sitting at a sola. Tutti coloro che si trovano dietro lo
computer screen is alone.3 schermo di un computer sono soli. 3

Sin embargo, a diferencia de otros Tuttavia, a differenza di altri mez-


soportes de la comunicación, que aís- zi di comunicazione, che isolano il
lan al lector o espectador y fagocitan su lettore o lo spettatore e ne assorbono
atención a cambio de la asimilación, el l’attenzione in cambio dell’apprendi-
contacto entre usuarios a través de los mento, il contatto tra utenti attraverso
innumerables recursos de la web 2.0 le interminabili risorse del web 2.0 (in
(particularmente de las redes sociales) particolar modo tramite le reti socia-
expande el potencial de sociabilidad li) espande il potenziale di socialità
connatural al ser humano, mediante el connaturale all’essere umano, mediante
diálogo y la integración del individuo il dialogo e la collocazione dell’indi-
en las comunidades virtuales de la Red. viduo all’interno di comunità virtuali
L’Era dell’Accesso, como denomina in rete. L’Era dell’accesso, come Rifkin

Charo Lacalle
Rifkin a la comercialización (commo- denomina la commercializzazione
dification) y a la mediación de la vida (commodification) e la mediazione della
individual 24 horas al día, por efecto vita individuale 24 ore al giorno, per
de la conversión instantánea de cada effetto della trasformazione istantanea
deseo en un servicio (Rifkin, 2001), no di ogni desiderio in un determinato
es simplemente una era de aislamiento. servizio (Rifkin, 2001), non è semplice-
Los nuevos medios promueven formas mente una era dell’isolamento. I nuovi
de sociabilidad más productivas, que mezzi promuovono forme di socialità
permiten la fusión de los productores più produttive, che permettono una
con los productos. fusione tra produttori e prodotti.
Con el paso de los medios analógi- Con il passaggio dall’analogico al
cos a los digitales, la era de los Mass digitale, l’era dei Mass Media ha ceduto
Media cede su sitio a los Custom Me- il passo ai Custom Media, che selezio-
dia, que seleccionan a los usuarios en nano i propri utenti in base alle loro
virtud de sus características e intereses, caratteristiche e ai loro interessi, favo-
incrementando la personalización rendo una maggiore personalizzazione
gracias a la interconexión de los nuevos grazie alle interconnessioni possibili
soportes tecnológicos. En cierto modo con i nuovi supporti tecnologici. Si
se puede decir que la web 2.0 “huma- potrebbe dire, dunque, che il web 2.0
niza” el software y colectiviza el saber, “umanizza” il software e collettivizza il
aumentando de manera exponencial el sapere, incrementando in modo espo-
tráfico y la complejidad de los recursos nenziale il traffico e la complessità delle
de la Red por el continuo crecimiento risorse in rete, grazie ad un contino
de los contenidos y la diferenciación aumento dei contenuti e alla diversi-
de los usuarios. A fin de obviar los ficazione degli utenti. Per ovviare ai
70

problemas derivados de la expansión problemi che derivano dall’espansione


Quaderni di comunicazione 11

de Internet y encontrar una aplicación di internet e trovare una applicazione


adecuada a las nuevas posibilidades adeguata alle nuove possibilità offer-
ofrecidas por la tecnología, han surgido te dalla tecnologia, sono nati portali
portales temáticos y directorios que tematici e direzioni che hanno fatto
poco a poco han ido evolucionando trasformare gradualmente gli utenti
y fidelizando a sus usuarios a través abituali i quali, a loro volta, hanno
de las redes sociales. Las comunida- acquisito più fiducia, grazie anche
des y las posibilidades de interacción all’introduzione delle reti sociali. Le
entre las personas que se conectan se comunità e le possibilità di interazione
potencian cada vez más, porque que tra gli internauti si potenziano sempre
constituyen el verdadero valor añadido di più, in quanto costituiscono un vero
de la Red. valore aggiunto della rete.
En su forma actual, Internet supera Attualmente, internet supera il
el concepto tradicional de multimedia- concetto tradizionale di multimedia-
lidad y de red, mediante la constante lità e di rete, attraverso una costante
reelaboración de los contenidos de la rielaborazione dei contenuti sul web
Web por parte de los usuarios. En vez da parte degli utenti. Invece di imma-
de imaginar un progresivo aislamiento ginare un progressivo isolamento degli
de los seres humanos, originado por el esseri umani, che trova la sua origine
paso de la sociabilidad tradicional a la nel passaggio dalla società tradizio-
sociabilidad on line, quizás sea más ra- ne alla socialità online, si potrebbe
zonable pensar en un futuro en el que pensare ad un futuro nel quale il tempo
el tiempo dedicado a la navegación se dedicato alla navigazione trovi uno
inserte entre las actividades sociales spazio autonomo ed equilibrato tra le
y encuentre un cierto equilibrio, más attività sociali, al di là dei dubbi esposti
allá de las dudas de Rifkin sobre la da Rifkin riguardo la riduzione dello
mengua del espacio personal, razona- spazio personale che, anche se ragione-
bles, pero formuladas en los albores de voli, sono stati avanzati agli albori del
la web 2.0. web 2.0.
Las nuevas comunidades on line Le nuove comunità online possiedo-
poseen una elevadísima capacidad de no un’elevatissima capacità di integra-
integración, tanto a nivel individual zione, a livello individuale e collettivo.
como colectivo. A nivel individual por- Nel primo caso perché l’anonimato
que el anonimato potencia la esponta- potenzia la spontaneità e la tolleranza
neidad y la tolerancia entre los usuarios. tra gli utenti; nel secondo caso perché,
A titulo colectivo porque, a diferencia a differenza di qualunque altra tipo-
de cualquier otro tipo de comunidad, logia, le nuove comunità su internet si
las nuevas comunidades de Internet costruiscono, si mescolano, si dividono
se construyen, se mezclan, se dividen e svaniscono senza alcuna ripercussio-
o se disuelven sin otras repercusiones ne a lungo termine che non sia dovuta
a largo plazo que la necesaria readap- ad un riadattamento ai cambiamenti
tación a los cambios provocados en la della struttura della rete, spesso dovuti
estructura de la Red por el entramado a fattori economici che la riguardano.
económico generado a su alrededor.
Las enormes posibilidades de desa- Le enormi potenzialità di internet, la

71
rrollo de Internet, en su mayor parte maggior parte delle quali non sono state

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
aún sin explorar, y el constante creci- ancora esplorate, insieme alla costan-
miento del interés experimentado por te crescita di interesse da parte delle
las nuevas generaciones, que se alejan nuove generazioni, che si allontanano
progresivamente de los medios tra- progressivamente dai mezzi tradizionali,
dicionales, están cambiando nuestra stanno cambiando la nostra percezio-
percepción del mundo. Los usuarios ne del mondo. Gli utenti più giovani
más jóvenes (nativos digitales) impul- (nativi digitali) rappresentano un fattore
san una ulterior aceleración de este cruciale per l’accelerazione di questo
fenómeno. Vivir la Web y explorar sus fenomeno. Vivere internet ed esplora-
potencialidades es el primer paso para re le sue potenzialità è il primo passo
comprender su estructura y su parti- per comprendere la sua struttura e il
cular movimiento. Para poder redefi- suo particolare movimento. Per poter
nir al propio Yo en la Red, participar ridefinire il proprio Io in rete, parteci-
en las actividades de las comunidades pare ad attività proposte dalle comunità
o contribuir al desarrollo de ideas o contribuire allo sviluppo di idee e
y proyectos, hay que entender los progetti, bisogna comprendere a fondo
nuevos modelos de comunicación. La i nuovi modelli di comunicazione. Il
Web es una plataforma que permite web è una piattaforma che permette agli
moverse y realizar acciones, en vez utenti di muoversi e di compiere azioni,
de depender de los contenidos. Un senza essere dipendenti dai contenuti.
espacio abierto donde todos aquellos Si tratta, dunque, di uno spazio aperto

Charo Lacalle
que lo integran se sitúan en el mismo dove tutti coloro che lo costituiscono si
plano. trovano sullo stesso livello.
En definitiva, la web 2.0 es una In conclusione, il web 2.0 è una
realidad tan dinámica que se redefine y realtà così dinamica che si ridefinisce
nos sorprende constantemente, además e non finisce di sorprenderci, oltre a
de constituir un sistema comunicativo costituire un sistema comunicativo
innovador y la vía de acceso preferente innovatore e la via d’accesso privile-
al futuro del sector de los productos giata al futuro del settore dei prodotti
multimedia. Pero su riqueza deriva en multimediali. Tuttavia la sua ricchezza
buena parte de su extremada comple- deriva principalmente dalla sua estre-
jidad, que nos plantea nuevos interro- ma complessità, che ci pone dinanzi a
gantes derivados precisamente de su nuovi interrogativi principalmente di
carácter social. carattere sociale.

La Web semántica Il web semantico

Los escépticos replican que el I più scettici non credono nell’uso


término web 2.0 carece de sentido del termine web 2.0, in quanto il
propio, en cuanto que depende exclu- significato di questa espressione viene
sivamente de lo que quienes lo definen spesso alterata ed utilizzata per per-
deciden qué es lo que debe significar suadere investitori e mezzi invece di
para poder convencer a los inversores sviluppare tecnologie esistenti. Perciò,
y los medios, en vez de desarrollar las agli inizi del 2006 appare per la prima
72

tecnologías existentes. En consecuen- volta il termine web 3.0 in un articolo


Quaderni di comunicazione 11

cia, el término web 3.0 aparece por di Jeffrey Zeldman, critico della web
primera vez a comienzos de 2006 en un 2.0 e delle tecnologie ad essa associa-
artículo Jeffrey Zeldman, un crítico de te (come per esempio AJAX4). Nella
la web 2.0 y sus tecnologías asociadas quindicesima edizione dell’Interna-
(como por ejemplo AJAX4). En la 15th tional World Wide Web Conference,
International World Wide Web Con- celebrata ad Edimburgo nel mese di
ference, celebrada en Edimburgo en maggio dello stesso anno, Tim Berners-
mayo de ese mismo año, el ideador de Lee creò la relazione tra il termine web
la Web, Tim Berners-Lee, relacionaba 3.0 e il concetto di “web semantico”,
el término web 3.0 con el concepto de che sintetizza il vero valore aggiunto
“web semántica”, que sintetiza el verda- dell’evoluzione del web 2.0 mediante
dero valor añadido de la evolución de l’organizzazione e la gestione di ingenti
la web 2.0 mediante la organización y la quantità di dati:
gestión de cantidades ingentes de datos:

People keep asking what Web 3.0 is. È in continua crescita il numero di
I think maybe when you’ve got an persone che vogliono sapere cosa sia il
overlay of Scalable Vector Graphics web 3.0. Personalmente credo che nel
– everything rippling and folding momento in cui si sarà ottenuta una
and looking misty – on Web 2.0 and sovrapposizione della Grafica Vettoria-
access to a semantic Web integrated le Scalabile – oggi tutto appare poco
across a huge space of data, you’ll nitido, con pieghe ed increspature – nel
have access to an unbelievable data web 2.0, e l’accesso ad un web semanti-
resource.5 co integrato attraverso un grosso quanti-
tativo di dati, si potrà ottenere l’accesso
ad un’incredibile risorsa di dati. 5

En el Technet Summit de noviem- Durante il Technet Summit, organiz-


bre de 2006, Jerry Yang, fundador zato nel mese di novembre del 2006,
y presidente di Yahoo!, asimilaba la Jerry Yang, fondatore e presidente di
web 3.0 con una simplificación de Yahoo!, associava il web 3.0 ad una
los recursos de la Red inversamente semplificazione delle risorse della rete
proporcional a su creciente compleji- inversamente proporzionale alla sua
dad6, mientras que otro participante crescente complessità6, mentre altri
del mismo evento, Reed Hastings, partecipanti allo stesso evento, come
fundador y presidente de Netflix, Reed Hastings, fondatore e presidente
resumía las diferentes fases de la Web di Netflix, riassumeva le diverse fasi del
en términos de incremento de su web, facendo riferimento all’aumento
capacidad: della sua capacità:

Let’s go back to Web 1, 2, 3. I think it’s Ritorniamo al web 1, 2, 3. A me sembra


pretty straightforward. You have dial-up abbastanza semplice. In casa abbiamo
and 50k average bandwidth at homes, connessioni dial-up ed una larghezza di
that set of things […] Web 2 was there banda media di 50k […] Il web 2 con
is some interaction, Ajax and these other qualche interazione, Ajax e simili con un
things on one megabit, and when we megabit e quando avremo nelle nostre
get to average home bandwidth of 10 case una larghezza di banda media di
megabits, we’ll have the full video web, 10 megabit, sarà possibile parlare di

73
all these different streams of content, full video web e nuovi contenuti che ci
and that will feel like Web 3.0. 7 porteranno al web 3.07

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
El término web 3.0 ha ido ganando Il termine web 3.0 ha acquisito
protagonismo y generando debates so- fama gradualmente fino a generare
ciales a partir de finales de 2006 y, casi dibattiti sociali a partire dalla fine del
cuatro años después, aún se continua 2006 e, a distanza di quasi quattro
discutiendo tanto relación a su signifi- anni, si continua a discutere sia sul suo
cado como a su definición más adecua- significato che sulla sua definizione,
da, a pesar de que la mayor parte de los anche se la maggior parte degli esperti
expertos tienden a basar la web 3.0 en tende a basare il web 3.0 sull’interpre-
la interpretación del lenguaje natural y tazione del linguaggio naturale e sulla
en la semántica. Pero el término web semantica. Tuttavia, suddetto temine
3.0 también ha sido utilizado para è stato anche utilizzato per descrivere
describir un recorrido evolutivo de In- il percorso evolutivo di internet che
ternet que desemboca en la Inteligen- sfocia nell’Intelligenza Artificiale,
cia Artificial, capaz de interactuar con capace di interagire con il web in un
la Web de manera “casi” humana. Por modo “quasi” umano. Per esempio,
ejemplo, Google comenzó a trabajar Google cominciò a lavorare nel 2009
en 2009 en un herramienta para poder su uno strumento in grado di applicare
aplicar el data mining a la gestión de il data mining alla gestione delle risorse
los recursos humanos de su plantilla, umane del suo organico, con l’obiettivo

Charo Lacalle
con el objetivo de prever qué trabaja- di prevedere quali lavoratori avessero
dores eran susceptibles de abandonar una predisposizione più alta ad abban-
la empresa8. Asimismo, el archivo y donare l’azienda8. Analogamente, la
el estudio de aquellas informaciones possibilità di archiviare e di studiare
relativas al interés expresado durante le informazioni relative all’interesse
la navegación por parte de un software espresso durante la navigazione grazie
evolucionado, o bien la posibilidad a software avanzati, o anche la possi-
de transferir sensaciones, exigencias, bilità di trasferire sensazioni, necessi-
gustos y comportamientos en el am- tà, gusti e comportamenti in ambito
biente médico, sitúan las máquinas en medico, permettono alle macchine di
condición de poder asistir, y a la vez de poter assistere e, al contempo, aiutare,
ayudar, a las personas cuyos problemas persone con problemi di salute tali da
de salud merman su autosuficiencia.9 non permettere l’autosufficienza9.
También hay otro debate en curso Attualmente è in piedi anche un
acerca de si los sistemas inteligentes altro dibattito nel quale ci si interroga
constituyen la fuerza de arrastre de la se i sistemi intelligenti costituiscano
web 3.0, o bien si la inteligencia se irá il vero punto di forza del web 3.0 o
construyendo de manera más orgánica, se, invece, si costruirà in modo più
a través de sistemas de personas inteli- organico, attraverso sistemi di persone
gentes. Por ejemplo, mediante algunos intelligenti. Un esempio è costituito
servicios de filtro colaborativo como los da alcuni servizi di filtro collaborativo
utilizados en Flickr, del.icio.us y Digg come quelli utilizzati da Flickr, del.
(donde los usuarios etiquetan sus pági- icio.us e Digg (dove gli utenti segna-
nas favoritas, fotos o noticias), que ex- lano siti preferiti, foto o notizie), che
traen el significado y el orden de la Red estrapolano il significato e l’ordine
74

existente y de las interacciones de los della rete esistente insieme alle intera-
Quaderni di comunicazione 11

usuarios. Un ulterior posible recorrido zioni degli utenti. Un ulteriore possi-


de la web 3.0 apunta hacia la visión tridi- bile percorso del web 3.0 è costituito
mensional, lo que implicaría transformar dalla tridimensionalità, in sintonia
la web 3.0 en una serie de espacios 3D, con le scelte di Second Life o Habbo10.
en sintonía con lo que ya se ha hecho en In questo caso, si potrebbero creare
Second Life o en Habbo10. Esta última nuove modalità di connessione e di
eventualidad podría inaugurar nuevas collaborazione attraverso spazi 3D
maneras de conexión y de colaboración condivisibili.
mediante espacios 3D compartidos.
El término “web semantica”, acu- Il termine “web semantico”, ideato
ñado por Berners-Lee (Berners-Lee, da Berners-Lee (Berners-Lee, Hendler
Hendler y Lassila, 2001) define de y Lassila, 2001) definisce in modo
manera más específica la transformación più specifico la trasformazione del
de la World Wide Web en un ambiente World Wide Web in un ambiente in
donde los documentos publicados se cui i documenti pubblicati si associano
asocian con informaciones y datos para ad informazioni e dati per riuscire a
llegar a especificar el contexto semánti- specificare il contesto semantico in un
co en un formato adecuado a la interro- formato adeguato all’interrogazione,
gación, a la interpretación y, en general, all’interpretazione e, in termini più
a la elaboración automática. Esto generali, all’elaborazione automatica.
haría posible que las búsquedas fueran Ciò significherebbe poter effettuare
mucho más precisas, al basarlas en la delle ricerche più dettagliate, basate
presencia en el documento de palabras sulla presenza di parole chiave e snip-
clave y marcadores (snippets) o de otras pet (letteralmente “ritagli”) insieme ad
operaciones especializadas, como por altre operazioni specifiche, come per
ejemplo la construcción de redes de re- esempio la creazione di reti di relazioni
laciones y conexiones entre documentos e connessioni tra documenti a partire
a partir de procedimientos más elabora- da procedimenti più elaborati del sem-
dos que el simple link intertextual. plice link intertestuale.
Actualmente, la web semántica se Al momento, il web semantico
propone dar un sentido a las páginas y cerca di dare un senso alle pagine e
los enlaces intertextuales, simplificando ai link intertestuali, per semplificare
los procesos de exploración y haciendo i processi di esplorazione e, quin-
posible la búsqueda precisa tan sólo de di, rendere la ricerca il più precisa
lo que se pide. possibile.
Se suele afirmar que la web semánti- Il web semantico, dunque, potrebbe
ca podría añadir un sentido a nuestras dare un nuovo senso alle nostre pagine,
páginas; un significado que ayudaría a aiutando ogni motore di ricerca ad
cada motor a identificar lo que se desea identificare esattamente ciò che si cerca
buscar, descartando todo aquello que e scartando tutto ciò che non corri-
no satisficiera la petición del usuario. sponda alla richiesta dell’utente. Nono-
Pero los avances realizados hasta el stante ciò, i progressi realizzati finora
momento demuestran que esta nueva dimostrano che questa nuova modalità
modalidad de gestión del saber y de las di gestione del sapere e delle relazioni
relaciones no es en absoluto un sistema non costituisce assolutamente un siste-

75
revolucionario de inteligencia artificial, ma rivoluzionario basato sull’intelligen-

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
sino que simplemente se realiza codi- za artificiale, in quanto i documenti si
ficando los documentos mediante un codificano semplicemente mediante un
lenguaje capaz de gestionar todas las linguaggio in grado di gestire le varie
aplicaciones e introduciendo vocablos applicazioni e di introdurre vocaboli
específicos. specifici.
El observatorio O’Reilly, una de las Il gruppo O’Reilly, una delle azien-
ventanas con mejores vistas sobre los de più all’avanguardia sui progressi
avances de la Red, comentaba en mar- della rete, commentava nel mese di
zo de 2009 el viraje de Google desde la marzo del 2009 il cambio di rotta di
apuesta previa por las máquinas inteli- Google da una iniziale scommessa
gentes (machine learning) al etiquetado sulle macchine intelligenti (machine
semántico (semantic markup)11. El learning) al sistema di annotazione
procedimiento de codificación introdu- semantica (semantic markup)11. Il
cido por Google consiste en permitir processo di codificazione introdotto
que los webmasters marquen sus pá- da Google permette ai webmaster di
ginas de contenidos estructurados por segnalare sulle proprie pagine conte-
fragmentos de datos determinados, con nuti strutturati con frammenti di dati
el objetivo de incrementar la visibilidad determinati per aumentare la visibilità
de los productos o servicios que se di prodotti o servizi che si ritengono
desee destacar respecto del resto de los più importanti rispetto ad altri. Con
contenidos. A fin de expandir el siste- la finalità di espandere questo sistema

Charo Lacalle
ma de etiquetado mediante los mar- attraverso l’uso dei cosiddetti rich
cadores enriquecidos (rich snippets), snippets, Google ha addirittura fornito
Google incluso facilita a los websmas- ai webmaster istruzioni dettagliate su
ters las instrucciones necesarias para come svolgere queste operazioni sui
marcar sus propias páginas.12 propri siti12.
A diferencia de cualquier otra aplica- A differenza di qualsiasi altra appli-
ción, los marcadores enriquecidos po- cazione, i rich snippets potrebbero dare
drían dar un impulso decisivo a la web un impulso decisivo al web semantico
semántica porque, como señala Tim in quanto, come afferma Tim O’Reilly
O’Reilly en el artículo citado, por pri- nel sopracitato articolo, per la prima
mera vez hay de por medio una potente volta è possibile contare su un conside-
motivación económica. Pero la facilidad revole investimento economico. Queste
con la que los nuevos instrumentos de innovazioni tecnologiche proprie del
marcación de la web semántica pueden web semantico che rendono più facile
asociar a los usuarios “con direcciones, l’associazione dell’utente con “pagine,
con fechas, con empresas, con otros date, aziende, altri utenti, documenti,
usuarios, con documentos, con fotos y foto e video” per poi estrarre auto-
con vídeos” y extraer los datos auto- maticamente dei dati13, non interessa
máticamente13, no sólo interesa a los unicamente motori di ricerca o aziende
motores de búsqueda o a las empresas, ma in particolar modo le reti sociali,
sino sobre todo a las redes sociales, cuyo il cui protagonismo in internet ha la
protagonismo en Internet está desban- meglio su qualsiasi altro portale.
cando al de cualquier otro portal.
En abril de 2010, Facebook anun- Ad aprile del 2010, Facebook ha
76

ciaba el lanzamiento de su nueva annunciato l’introduzione della sua


Quaderni di comunicazione 11

plataforma a gran escala Open Graph, nuova piattaforma a grande scala Open
cuyo protocolo permite a los editores Graph, che permette ai web master
integrar sus páginas en el social graph, di integrare le proprie pagine al social
el término acuñado por Mark Zuc- graph, termine ideato da Mark Zucker-
kerberg (el creador de Facebook) para berg (il padre di Facebook) per defi-
definir las interacciones de los usuarios nire le interazioni degli utenti online,
on line, mediante la utilización de un mediante l’uso di un RDFa abbrevia-
RDFa abreviado14. Con aproximada- to14. Considerando che Facebook può
mente 500 millones de usuarios (tan contare su circa cinquecento milioni di
sólo el 28% de los cuales tienen más utenti (e solo il 28% ha un età supe-
de 34 años), las reacciones contra los riore ai 34 anni), le reazioni contrarie
posibles riesgos derivados de la publi- ai possibili rischi che derivano dalla
cación de los datos de Open Graph en pubblicazione dei dati di Open Graph
la mayor comunidad virtual del mundo sulla più grande comunità virtuale del
no se hicieron esperar. mondo non sono mancate.
La inclusión de marcadores en las Tutto ciò è servito a ravvivare una
redes sociales ha reavivado una polémi- polemica latente sul diritto alla privacy
ca latente sobre el derecho a la privaci- e sull’abuso degli strumenti di control-
dad y el abuso de los instrumentos de lo, che sposta immediatamente l’atten-
control, que desplaza definitivamente zione sulla paura del Grande Fratello.
los recelos sobre la desconexión del Facebook decise di fare marcia indie-
usuario de su entorno inmediato al tro rispetto al suo progetto iniziale il
temor al Gran Hermano. Facebook mese successivo all’introduzione della
daba marcha atrás en su planteamien- piattaforma, per cercare di mettere a
to inicial tan sólo un mes después del tacere le polemiche il prima possibile.
lanzamiento de la plataforma, deseosa Per queste ragioni, furono ristrette
de acallar las críticas cuanto antes, y alcune informazioni del social graph
restringía algunas informaciones de la pubblicate in precedenza, come per
social graph publicadas previamente, esempio la rete di contatti degli utenti.
como por ejemplo las redes de contac- L’azienda di Zuckerberg annunciava
tos de los usuarios. La compañía de anche che a breve termine gli utenti
Zuckerberg anunciaba asimismo que en avrebbero potuto scegliere chi poteva
breve plazo los usuarios podrían elegir aver accesso alle informazioni personali
a quién mostrar sus informaciones (a (amici, amici ed amici di amici o tutti
sus amigos, a sus amigos y a los amigos gli utenti).
de sus amigos o a todos los usuarios).
Por el momento, estas iniciativas han Al momento, queste iniziative sono
sido bien recibidas por algunos de los state accolte positivamente anche dai
sectores más críticos y las aguas han settori più critici e, finalmente, le acque
vuelto momentáneamente a su cauce. si sono calmate. Tuttavia, i responsa-
Pero los reguladores son conscientes de bili sono coscienti di aver solo vinto
que únicamente han ganado una prime- la prima battaglia di una guerra per la
ra batalla de una guerra por la gestión gestione dei dati che è appena comin-
de los datos que acaba de comenzar. ciata.
(traduzione di Angelo Nestore)
77
Note
1
Este artículo ha sido escrito en el marco del proyecto de investigación La representación de

El debate sobre la Red: del individuo aislado al ojo del Gran Hermano
los jóvenes en la ficción catalana y española: construcción de identidades, atribución de roles so-
ciales y correspondencia con la realidad. En dicha investigación, dirigida por la profesora Charo
Lacalle y financiado por la Agencia Catalana de la Juventud de Catalunya, han participado las
investigadoras Beatriz Gómez, Manuela Russo, Mariluz Sánchez, Lucía Trabajo y Berta Trullàs.
2
El término extimité, acuñado por Lacan para expresar el conflicto entre el interior y el ex-
terior del Sujeto, es utilizado en este lugar en la acepción del psicoanalista Serge Tisseron, para
designar la exterioridad de la intimidad (Tisseron, 2003).
3
J. Lanchester, “A bigger band”, 4 de novembre 2006,
<http://www.guardian.co.uk/technology/2006/nov/04/news.weekendmagazine1> [Consulta
junio 2009].
4
AJAX, acrónimo de Asynchronous JavaScript and XML, es la combinación de varios len-
guajes de programación y técnicas HTML, XML, Javascript, XMLHttpRequest.
5
V. A. Shannon, “A more revolutionary Web”, 23 maggio 2006, <http://www.nytimes.
com/2006/05/23/technology/23iht-web.html?_r=1> [Consulta junio de 2010].
6
Intervención de Jerry Yang en la mesa redonda “What’s the next: The New Innovation
Era” al Technet Techenet Summit, Stanford University 15 novembre 2006 <http://www.tech-
net.org/2006Video1/ > [Consulta junio 2010].
7
Intervención de Reed Hastings en la mesa redonda “What’s the next: The New Innovation
Era” al Technet Techenet Summit, Stanford University 15 novembre 2006 <http://www.tech-
net.org/2006Video1/ > [Consulta junio 2010]. Neflix es una compañía californiana, creada en
1997, que ofrece via Internet DVD, Blu-ray y vídeo streaming <http://www.netflix.com/> .
8
S. Morrison, “Google Searches for Staffing Answers” <http://online.wsj.com/article/
SB124269038041932531.html> [Consulta junio de 2010]. El data mining (explotación o mi-
nería de datos) representa una de les actividades cruciales para la comprensión, la navegación
y el aprovechamiento de datos de la nueva era digital. Se trata de un proceso automático de

Charo Lacalle
descubrimiento e identificación de estructuras en el interior de los datos, que permite extraer
conocimiento, en términos de informaciones significativas e inmediatamente utilizables, de
grandes cantidades de datos. La aplicación de Google podría tener implicaciones importantes
en relación al constante tránsito de talentos de un país a otro.
9
La sociedad de investigación de mercado, Datamonitor, señala que el negocio de la teleme-
dicina interactiva está creciendo en Estados Unidos del orden del 10% anual
<http://www.nytimes.com/2010/05/30/business/30telemed.html?ref=technology> [Consul-
ta junio de 2010]
10
Second Life es un metaverso (entorno virtual en 3D), donde cada usuario construye un ava-
tar (personaje virtual en 3D) que lo representa y le permite interactuar. Creado en 2003, el gran
despegue de Second Life se produce en 2006. Habbo es el mayor mundo virtual para adolescen-
tes a nivel mundial, con más de 158 millones de usuarios registrados y más de 16 millones de
usuarios únicos por mes, está presente en 31 países y pertenece a la compañía finlandesa Sulake.
11
T. O’Reilly, “Google’s Rich Snippets and the Semantic Web”, <http://radar.oreilly.
com/2009/05/google-rich-snippets-semantic-web.html> [Consulta junio de 2010].
12
Véase “Google Rich Snippets Tips and Tricks” <http://knol.google.com/k/google-rich-
snippets-tips-and-tricks#> [Consulta julio de 2010].
13
Ibídem nota 11.
14
Se donomina RDF (Resource Description Framework) el lenguaje primario de la web
semántica. El RDFa es una especie de versión abreviada, que añade metadatos a las páginas
HTML.

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Magritte, Gli amanti


Alessio Rotisciani
Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni
sociali su Facebook

Sempre più vicini: dai media elettronici al web 2.0

Nel corso del Novecento i mezzi di comunicazione elettronici, parallelamente allo


sviluppo dei trasporti, favoriscono una crescente compressione delle distanze spazio-
temporali (Meyrowitz 1985; Giddens 1991; Thompson 1995; Tomlinson 1999).
La radio e la televisione portano all’interno dei contesti di vita quotidiana
immagini e suoni provenienti da altre realtà, ampliando la possibilità di conoscere
eventi che si verificano in ogni parte del mondo. Il telefono rende più semplice
tenersi in contatto con persone lontane.
Grazie a queste caratteristiche, i media elettronici forniscono all’uomo contem-
poraneo una grande quantità di nuovi materiali simbolici per il processo di costru-
zione dell’identità e modificano le scale di priorità secondo cui è organizzata la
sua vita. I media elettronici riducono infatti la centralità del luogo fisico e delle
interazioni faccia a faccia nell’esperienza del soggetto (Giddens 1991, pp. 187-
191; Thompson 1995, pp. 289-325; Tomlinson 1999, pp. 188-209).
Internet si pone su una linea di continuità rispetto ad essi (Tomlinson 1999, pp.
176-177), ne ingloba le forme espressive e le adatta alle sue logiche (Bolter, Grusin
1999, pp. 233-244), rendendo i processi appena descritti più intensi e pervasivi.
In rete aumenta esponenzialmente la quantità di materiali simbolici a disposi-
zione del soggetto (cfr. Gruppo Ippolita 2007, p. 119-122) mentre si moltiplicano
e si arricchiscono le forme di comunicazione interpersonale. Internet offre infatti
numerose applicazioni che si affiancano alla lettera e al telefono, applicazioni che
possono essere usate per interazioni più rapide, frequenti e funzionali. L’e-mail
si rivela un valido strumento per superare le distanze che separano da amici e
familiari (cfr. Castells 2001, pp. 121-122) anche se nella quotidianità degli utenti
sembra avere più spazio l’instant messaging. Le nuove generazioni, in particolare,
lo ritengono più divertente e immediato, quindi ideale per la comunicazione con il
gruppo dei pari (Lenhart, Madden, Hitlin 2005, p. II).
In entrambi i casi, e-mail e instant messaging, la comunicazione si fa più leggera
e meglio adattabile ai ritmi di vita del soggetto. Scrivere una mail richiede mol-
to meno tempo che scrivere una lettera tradizionale, è più breve e informale,
raggiunge quasi istantaneamente il destinatario e si può inviare a più persone
contemporaneamente (cfr. Carrada 2000, pp. 123-126; Metitieri 2003, p. 138). Le
80

conversazioni via instant messaging sono meno impegnative e meno costose di


Quaderni di comunicazione 11

una telefonata (Grinter, Palen 2002, pp. 23-25), permettono di scambiare mate-
riali multimediali e di sentirsi costantemente in contatto con la propria cerchia di
amici (Boneva et al. 2006).
Nei forum e nei gruppi di discussione, invece, trova espressione la cultura co-
operativa che sta alla base della rete. I partecipanti condividono conoscenze utili
a risolvere problemi tecnici di ogni tipo, offrono e ricevono risorse sociali come
approvazione, stima e sostegno (Paccagnella 2000, pp. 120-122).
L’interazione tra gli utenti diventa ancora più importante, addirittura strategica
nella fase attualmente attraversata da Internet, di solito indicata con il termine
“web 2.0”. Il web 2.0, infatti, è caratterizzato da applicazioni strutturate in modo
da favorire la comunicazione fra gli utenti, comunicazione da cui nascono con-
tenuti, connessioni e classificazioni. Le stesse applicazioni aggregano di default i
dati che vengono così prodotti. In questo modo possono accrescere il database,
migliorare il servizio e, in definitiva, aumentare il loro valore, ma solo a patto di
incentivare quotidianamente, già a partire dalla loro architettura, l’interazione
sociale (O’Reilly 2005).

Supporto all’individualismo in rete o a comunità geograficamente situate?

Facebook appare l’emblema del web 2.0: semplice e usabile, in grado di


amalgamare felicemente le caratteristiche di blog, siti per la condivisione di foto e
video, instant messaging e network professionali (Pesare 2009, pp. 46-47). Face-
book è infatti un sito di social network che consente all’iscritto di creare un pro-
filo semi-pubblico su cui inserire commenti, link, immagini e filmati; di costruire
un network di contatti con cui interagire e condividere i materiali di cui sopra; di
navigare attraverso questo network visualizzando profili e connessioni creati dagli
altri utenti (cfr. Boyd, Ellison 2007). La lista di connessioni navigabili è compo-
sta dagli “amici” Facebook, cioè dagli iscritti che hanno accettato la richiesta di
amicizia del proprietario del profilo o che gli hanno chiesto essi stessi l’amicizia,
ricevendo risposta positiva.
Nato nel 2004, grazie al meno che ventenne Mark Zuckerberg, Facebook si dif-
fonde rapidamente dalle università della Ivy League1 a tutti gli Stati Uniti, da qui
agli altri paesi anglosassoni, per poi approdare nel resto del mondo (cfr. AA. VV.
2008, pp. 11-14). Nel luglio 2010 conta complessivamente 488 milioni di utenti,
16 dei quali in Italia2, ed è il sito di social network più diffuso in quasi tutti i paesi
di Nord America, Europa e Oceania. Riscuote grande successo anche in Sud
America (solo in Brasile non è al primo posto per numero di utenti) e in molte
importanti realtà di Asia e Africa3.
Facebook si presenta, dunque, come un’applicazione straordinariamente popolare,
in grado di garantire una comunicazione ricca e variegata tra un gran numero di per-
sone sparse per il mondo: sembrerebbe il supporto ideale per l’individualismo in rete.
Secondo Wellman (2001), che elabora il concetto di individualismo in rete, e
Castells (2001, pp. 124-131), che lo applica nella sua analisi delle trasformazioni
portate da Internet, l’uomo contemporaneo tende a costruire le sue appartenenze

81
in base a caratteristiche acquisite nel corso della vita piuttosto che possedute dalla

Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni sociali su Facebook


nascita. Egli sceglie le reti sociali in cui entrare in base ai suoi interessi, idee e
valori. Si tratta di reti spesso disperse a livello geografico e sganciate dal contesto
quotidiano che costituiscono la sua “comunità personalizzata”. Internet favorisce
l’affermazione di questa forma di socialità.
Le analisi di Wellman e Castells, però, non trovano riscontro nell’osservazione
degli usi effettivi di Facebook.
Facebook, infatti, è utilizzato principalmente per comunicare con persone che
fanno già parte della rete sociale dell’utente: amici e conoscenti della sua vita offli-
ne (Lampe, Ellison, Steinfield 2006, 2008; Ellison, Steinfield, Lampe 2007; Boyd
2008; Joinson 2008).
Questo orientamento è evidente fin dai suoi primi passi. Quando si diffonde
nelle stanze di Harvard e poi in quelle degli altri college americani, Facebook
funge da supporto per comunità geograficamente situate, i campus, piuttosto che
per forme di aggregazione online costruite esclusivamente su affinità cercate dal
singolo (Ellison, Steinfield, Lampe 2007).
In base a una ricerca condotta da Lampe, Ellison e Steinfield (2006) su un cam-
pione di 1.440 matricole della Michigan State University, le ragioni più comuni
per cui si usa Facebook sono: tenersi in contatto con vecchi amici o con compagni
delle scuole superiori, cercare il profilo di qualcuno incontrato offline, raccogliere
informazioni su persone del proprio dormitorio o del proprio corso.
I risultati sono coerenti con l’audience percepita dai ragazzi per il loro profilo,
tutta appartenente al gruppo dei pari: amici delle scuole superiori (93 %), com-
pagni di corso (86 %) e persone incontrate a feste o eventi sociali (70 %). Tra i

Alessio Rotisciani
rispondenti prevale nettamente il modello d’uso che i ricercatori definiscono social
searching: si ricorre a Facebook per mantenere legami preesistenti o per conoscere
meglio contatti con cui si ha già una connessione offline. Anche là dove Facebo-
ok serve a superare le distanze, esso risulta sempre vincolato alla rete sociale del
soggetto e ai luoghi attraverso cui si snoda la sua vita.
Con ulteriori studi svolti nei due anni successivi tra i ragazzi della stessa univer-
sità, Lampe, Ellison e Steinfield (2008) consolidano queste prime osservazioni. Le
dinamiche di interazione e l’audience percepita per il proprio profilo su Facebook
rimangono sostanzialmente invariate, nonostante le profonde trasformazioni che
nel frattempo toccano il sito. Nel settembre 2006, infatti, la possibilità di accesso
a Facebook viene estesa a chiunque abbia più di 13 anni e vengono introdotte
le funzioni News Feed e Mini Feed4. L’ingresso di utenti provenienti dal mondo
esterno all’università e la maggiore visibilità dei propri e altrui comportamenti
portata dalle ultime funzioni potrebbero incoraggiare la tendenza a conoscere
nuove persone. Gli studenti, però, continuano a preferire l’uso di Facebook per
mantenere e articolare la loro rete di amicizie offline.
Joinson (2008) evidenzia la prevalenza di questa modalità anche in un campio-
ne misto composto da studenti a tempo pieno, studenti lavoratori e lavoratori a
tempo pieno; per Boyd (2008) essa diventa quasi totalizzante tra gli adolescenti.
Nelle interviste ai teenager statunitensi realizzate per Digital Youth Research5
(ibidem), infatti, i siti di social network, tra cui Facebook, sono descritti come
estensioni della vita quotidiana. Al loro interno si prolungano, e in parte si tra-
82

sformano, i processi caratteristici dell’adolescenza: ricerca dell’accettazione del


Quaderni di comunicazione 11

gruppo dei pari, lotte per la popolarità e il prestigio, flirt e pettegolezzi. Sebbene
questi siti offrano nuovi modi di fare amicizia, i ragazzi li usano per comunicare
con gli amici di tutti i giorni, per approfondire il rapporto con i coetanei, soprat-
tutto con i compagni di scuola, e per trasformare semplici conoscenze in legami
più solidi. La pratica di dialogare in rete con estranei riguarda solo una minoranza
ed è fortemente stigmatizzata (ibidem).
Le ricerche fin qui presentate disegnano un quadro abbastanza chiaro: l’uso
di Facebook non libera il soggetto dalle appartenenze e dai luoghi quotidiani,
ne è anzi profondamente influenzato. L’utente costruisce il suo network di amici
in base agli ambienti sociali in cui vive o è vissuto, cerca nuovi legami forti tra
conoscenti e non tra estranei incontrati per la prima volta in rete e se decide di
comunicare con qualcuno che vive lontano lo fa per tenersi in contatto con un
vecchio amico.
La vita sociale, anche su Facebook, si costruisce attorno a vincoli difficilmente
eliminabili, come vedremo più chiaramente nel prossimo paragrafo.

Amicizie Facebook e dimensioni delle reti sociali

Una delle peculiarità di Facebook, e dei siti di social network in genere, è


definire in maniera esplicita aspetti della vita sociale che solitamente così espliciti
non sono.
La lista degli amici, ad esempio, rende visibile direttamente sul profilo dell’utente
il numero di contatti con cui egli può interagire. Da studi americani su campioni
composti da universitari emerge che questo numero ammonta in media a: 246 per
Walther e colleghi (2008, p. 41), 272 per Vanden Boogart (2006, p. 32), 201 per Lam-
pe, Ellison e Steinfield (2008, p. 724) nel 2006, valore che sale a 333 nel 2008.
Si ha l’impressione che i dati disegnino network online molto più ampi di quelli
che l’individuo normalmente coltiva al di fuori della rete. Questa impressione
è confermata dal lavoro di Dunbar (1993) sulla dimensione media dei gruppi
umani, intesi come insiemi di persone a cui il singolo è legato da una conoscenza
diretta e con cui interagisce con sufficiente regolarità.
Dunbar calcola, a partire dalla dimensione della neocorteccia6 nell’Homo
Sapiens, che i gruppi possono raggiungere una composizione di 150 unità, limite
oltre il quale è probabile che si disgreghino. Questo valore si ritrova, con scosta-
menti accettabili, all’interno delle comunità indigene del passato e del presen-
te, nelle unità di base degli eserciti antichi e moderni, nelle società occidentali
contemporanee, ed è evidentemente inferiore al numero degli amici che gli utenti
collezionano su Facebook.
Si potrebbe ipotizzare che Facebook agisca da ottimizzatore dei contatti inter-
personali, consentendo all’individuo di ampliare le dimensioni del suo gruppo di
riferimento. Facebook potrebbe potenziare la funzione di coesione sociale svolta
dal linguaggio, continuando un percorso che comincia con il grooming. Nei grup-
pi di primati non umani il grooming, cioè l’attività di pulizia reciproca del pelo,
serve a mantenere e consolidare i legami, è così importante che questi animali

83
arrivano a dedicarvi il 20% del loro tempo (ibidem).

Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni sociali su Facebook


Tra gli uomini la dimensione media dei gruppi è tale da richiedere una forma
di interazione più efficiente: il linguaggio. Il linguaggio, al contrario del grooming,
consente di interagire mentre si stanno svolgendo altre attività e di comunicare
contemporaneamente con più persone (fino a un massimo di 3, calcola Dunbar).
Le caratteristiche di Facebook rispondono a entrambi i requisiti: si può aggior-
nare il proprio profilo mentre si guarda la Tv, si ascolta la radio o ci si prende una
pausa dal lavoro, e con una semplice frase si possono far conoscere a centinaia
di persone gli stati d’animo, le riflessioni o gli ultimi eventi della propria vita.
Facebook rende l’interazione sociale meno impegnativa e abbassa le barriere che
spesso la bloccano in quanto riprende ed enfatizza la leggerezza di e-mail e instant
messaging (cfr. primo paragrafo).
Con Facebook basta lasciare un breve commento in bacheca per far capire a un
amico che lo si sta pensando e anche l’onere della risposta è molto meno gravoso
rispetto ad altri media. Grazie alla funzione News Feed, inoltre, è possibile seguire
facilmente le vicende dei propri contatti, decidendo se e quando iniziare uno
scambio di messaggi (cfr. Vergnani 2009, pp. 27-28; Marlow 2009).
L’immagine di Facebook come moltiplicatore dei legami sociali, però, si ridi-
mensiona decisamente se consideriamo le implicazioni che derivano dall’intensità
di questi legami.
Per intensità di un legame nella vita offline intendiamo: “la combinazione (pro-
babilmente lineare) della quantità di tempo, dell’intensità emotiva, del grado di
intimità (confidenza reciproca) e dei servizi reciproci che caratterizzano il legame
stesso” (Granovetter 1973, p. 117). La frequenza delle comunicazioni online tra

Alessio Rotisciani
due persone, sebbene non copra tutte le dimensioni, può essere un indicatore
adeguato a misurare questo parametro nell’interazione in rete.
Secondo uno studio realizzato dal Facebook Data Team (Marlow 2009) su
un campione casuale di iscritti Facebook, il numero di contatti con cui l’utente
comunica regolarmente corrisponde solo a una piccola parte del suo network. Chi
ha 50 amici mantiene una stretta relazione con 3 di loro se maschio, 4 se femmina.
I valori salgono, rispettivamente, a 5 e 7 per 150 amici e a 10 e 16 per 500 amici.
Anche su Facebook, come nella vita offline, i legami forti, quelli su cui si può
contare, sono pochi e crescono molto lentamente in rapporto al numero comples-
sivo degli amici. Quest’ultimo aspetto è dovuto alla natura stessa dei legami forti:
essi comportano un elevato investimento in termini di energia e un forte coinvol-
gimento emotivo; il loro numero, di conseguenza, rimane relativamente stabile in
ogni contesto (Paccagnella 2000, p. 147).
Si potrebbe allora correggere l’ipotesi iniziale affermando che Facebook funziona da
moltiplicatore dei legami deboli, che rappresentano comunque un’importante risorsa
cognitiva. Grazie ai legami deboli, infatti, informazioni, idee e punti di vista possono
circolare più rapidamente all’interno della società (Buchanan 2002, pp. 41-49).
Marlow (2009) evidenzia che i legami stabiliti attraverso Facebook suppor-
tano lo stesso processo. Per arrivare a questa conclusione Marlow confronta i
diagrammi dei diversi network che un utente-tipo crea attraverso l’uso di Fa-
cebook. Il network più ampio è costituito da tutti gli amici dell’utente. Al suo
interno troviamo l’insieme delle Maintained Relationships, cioè delle persone sul
84

cui profilo l’utente è andato almeno due volte nel corso del mese di osservazione.
Quaderni di comunicazione 11

Le dimensioni si riducono ancora per il network della One-way Communication,


cioè dei contatti con cui l’utente ha comunicato almeno una volta, per arrivare ai
pochi legami della Mutual Communication. Nell’ultimo diagramma, che Marlow
paragona a quello prodotto dalla comunicazione telefonica, molti individui sono
disconnessi l’uno dall’altro. Una notizia, ad esempio la nascita del bambino di una
vecchia compagna di classe, viaggia molto lentamente all’interno di un gruppo
connesso solo da questi legami mentre grazie alla pagina delle notizie di Facebook
un numero molto più elevato di persone può venirne a conoscenza.
Anche questa affermazione, però, si presta a diverse osservazioni critiche.
In primo luogo i legami deboli (che possiamo far coincidere con le Maintained
Relationships), pur crescendo molto più rapidamente dei legami forti basati sulla
Mutual Communication, diventano una porzione sempre più piccola dell’ammon-
tare complessivo dei contatti Facebook: il 19% per 50 contatti, il 14% per 150
e il 9% per 500. Insomma la stragrande maggioranza degli amici Facebook sono
persone con cui non si comunica affatto.
La situazione è il risultato delle norme ancora fluide in base a cui si sceglie se
accettare le richieste di amicizia (Boyd 2008). Rifiutare la richiesta di un completo
estraneo non comporta costi sociali mentre è più difficile rifiutare la richiesta di
chi si conosce. In quel caso si tende a rispondere positivamente a prescindere dal-
la natura della conoscenza, finendo per avere decine se non centinaia di contatti a
cui non si ha niente da dire.
In secondo luogo, la moltiplicazione degli amici non favorisce necessariamente
la circolazione delle informazioni.
Quando gli amici diventano troppi gli aggiornamenti raccolti da News Feed si
trasformano in rumore e non permettono di seguire le singole vicende che inte-
ressano all’utente. Questo, scoraggiato, rischia di disamorarsi di Facebook o è
costretto a impostare parametri più restrittivi per la visualizzazione delle notizie,
riducendone la diffusione (Vergnani 2009, pp. 33-34).
Inoltre l’utente, sebbene sia consapevole dell’accezione ampia da dare al con-
cetto di amicizia su Facebook, tende a formulare giudizi negativi sui proprietari di
quei profili che espongono cifre troppo elevate. La sovrabbondanza di amici viene
interpretata come il risultato della ricerca di una facile popolarità, basata sulla
collezione di legami superficiali (cfr. Tong et al. 2008, pp. 538-539).
Tong e colleghi (pp. 541-542) registrano, all’interno di un campione di 153
studenti di un’università del midwest americano, una relazione curvilinea tra il nu-
mero degli amici e l’attrazione sociale percepita nei confronti del proprietario del
profilo. L’attrazione aumenta con il numero degli amici, raggiungendo il massimo
quando questi sono 302. Superata questa soglia, l’attrazione scende rapidamente
fino a toccare il valore più basso dopo il picco in corrispondenza di 902 amici.
Tong e colleghi (pp. 543-544) verificano che gli osservatori elaborano i loro
giudizi indipendentemente dal numero di contatti posseduti, applicano piuttosto
degli standard normativi: chi vi si avvicina di più ottiene i giudizi più positivi.
Sono consapevoli che oltre un certo limite la leggerezza di Facebook si trasfor-
ma in inconsistenza.
85
Note
1
Della Ivy League, la “Lega dell’edera”, fanno parte: Harvard, Yale, Princeton, Brown, Co-

Quanti amici hai? Caratteristiche e limiti delle connessioni sociali su Facebook


lumbia, Cornell, University of Pennsylvania e Dartmouth. L’edera richiama l’antichità di questi
college, considerati i più prestigiosi degli Stati Uniti.
2
Fonte: http://www.checkfacebook.com/ (24 luglio 2010).
3
Fonte: http://www.vincos.it/world-map-of-social-networks/ (24 luglio 2010)
4
News Feed consente di visualizzare sulla home page le attività più recenti dei propri amici:
aggiornamenti del profilo, nuove amicizie, eventi imminenti, compleanni ecc. Mini Feed, invece,
è centrata sul singolo utente: visualizza sul profilo gli ultimi cambiamenti relativi a status, note,
foto ecc.
5
Digital Youth Research (http://digitalyouth.ischool.berkeley.edu/) è una vasta ricerca
etnografica condotta da studiosi della University of Southern California e della University of
California, Berkeley sull’uso dei media digitali da parte degli adolescenti. Obiettivi: evidenziare
la natura innovativa di questo uso e le sue implicazione per i processi educativi e per lo sviluppo
di software per l’apprendimento.
6
La neocorteccia è la parte del cervello che l’uomo ha sviluppato più di recente, è considerata
la sede delle funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria.

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Lelio Semeraro
Il poker on-line scopre le sue carte

L’ economia in gioco

C’è un settore dell’economia italiana


che sembra non conoscere crisi. Se guar-
dando la televisione, o sfogliando un pe-
riodico vi siete imbattuti in qualche comu-
nicazione commerciale (di quelle sfidanti
come dicono i bravi esperti di marketing)
da parte di Bwin, GiocoDigitale, Poker-
Snai, EuroBet, (...) è perché il poker del
web, nella variante della Texas Holdem,
ha avuto finora un enorme successo, non
solo superiore ad altri giochi come scacchi
o briscola, ma anche a tanti alti settori del
terziario avanzato.
Per avere un’idea sommaria della posta
in gioco è meglio ricorrere brevemente alla noiosa semplicità delle cifre.

“In tempi di crisi economica, secondo le stime di Agicos, il settore del Gaming Italiano
ha visto una crescita inaspettata. Quella più elevata viene proprio dal settore del poker,
che registra un aumento di quasi 60 punti percentuali: una raccolta pari a 1,6 miliardi
di euro da gennaio a giugno 2010, che permette agli skill games (o giochi d’abilità) di
superare Superenalotto e Win for Life” (dal sito www.xcasino.it, Dati Agicos).

“In termini di fatturato, il mercato del gioco online ha visto nel 2009 una crescita del
+ 96%. Analizzando le diverse categorie di gioco, il fatturato da skill games arriva a
234 milioni di euro (di cui oltre il 99% relativo al Poker online), una cifra superiore
a quella derivante dalle scommesse sportive. Pur sapendo che il gioco compulsivo è
un fenomeno da tenere sotto controllo, dalla ricerca emerge un approccio degli utenti
online mediamente “sano”. Sui 2,8 milioni di conti di gioco utilizzati almeno una volta
nel 2009, sono infatti 835.000 quelli mediamente movimentati ogni mese. Detto in altri
termini, la maggior parte dei giocatori non utilizza il proprio conto ogni mese. Inoltre la
maggior parte degli utenti online si diverte con cifre moderate: il 64% dei conti di gioco
movimenta infatti meno di 100 euro ogni mese” (Dati del Sole 24 ore, 21 aprile 2010).
Tra i milioni di pokeristi del world wide web potrebbe anche esserci il vostro
88

insospettabile vicino di casa, che nella privacy delle mura domestiche, si traveste
Quaderni di comunicazione 11

in un accanito interprete del gioco e usando un nick (o un nome di battaglia come


“spellotutti, “makemoney” “squalettoromagnolo”) a seconda del mix quotidiano
tra fortuna, disciplina e abilità, accumula denari, oppure li dissolve, tra milioni di
giocatori lontani che puntualmente accedono ai siti suddetti.
Sarebbe un discreto oggetto di dibattito discutere se il poker è oppure no
un’attività produttiva. Se crei cioè nuove ricchezze o semplicemente le sposti da
un conto a un altro. (Ma quali sono poi tra passaggi, appalti e indotti le attività nel
nostro terziario realmente produttive?)
Ciò che è certo è che il gioco, come la scommessa, può far sentire chiunque un
Robin Hood odierno, talmente moderno che non prende ai ricchi per dare ai po-
veri ma per risolvere la propria situazione personale. L’illusione di poter generare
capitale grazie al gioco sembra una sorta di naturale compensazione delle rigidità
dell’attuale struttura economica, che nonostante i principi democratici di fondo
si presenta ancora con le divisioni di caste, clan e compagnie di ventura, e non
sembra così pacifico che possa dare le stesse possibilità a tutti. (Il rampollo Lapo
Elkann, in un’intervista per l’Espresso paragonò la fortuna di nascere in quella
famiglia a una scala reale donata in sorte da un destino arcigeneroso.)

Quell’oscuro divieto di socialità

Forti malumori sono sorti negli ultimi tempi tra gli amanti della texas in carne
e ossa. La recente normativa sul poker ha vietato infatti i circoli dal vivo. Lo Stato
Italiano ha assunto quindi un comportamento al contempo repressivo e schizofre-
nico, perché ha eliminato proprio i circoletti dove la quota di iscrizione ai tornei
era talmente bassa (dai 10 ai 30 euro) da favorire il fattore ludico, amicale e di ag-
gregazione sociale rispetto all’obiettivo della vincita. Non tutti i giocatori vogliono
e possono attraversare le porte dei Casinò. Inoltre, da una parte i governi tentano
di controllare il mondo selvaggio del web, dall’altra invece di frenare il gioco d’az-
zardo incoraggiano Lotterie, Superenalotto, Gratta e Vinci, con spot a dir poco
ingannevoli (Ti piace vincere facile? era il promettente claim della campagna del
Gratta&Vinci) e così facendo favoriscono quei giochi per i quali non è richiesta
alcuna intelligenza, nessuna abilità o strategia particolare.

Microcosmi

Per ciò che ci riguarda, la nozione di gioco è così suggestiva da avvicinare


ambiti molto diversi. Microcosmi si aprono ai giocatori delle 52 carte. Fiori,
quadri, cuori, picche sono i simboli rispettivamente di bellezza, soldi, amori e
armi. Incroci dell’immaginario che fanno apparire il gioco in sé come un super-
concetto filosofico capace di oltraggiare l’etica e l’estetica e far stringere la mano
tra l’apollineo e il dionisiaco. Per dar vita in queste pagine al gioco della scrittura
(un gioco inesauribile per dirla con Blanchot e il suo infinito intrattenimento) le
prime mosse vanno lasciate a un classico dell’antropologia: I giochi e gli uomini,

89
di Roger Caillois, un testo del 1967, scritto un po’ tempo prima cioè della rivo-

Il poker on-line scopre le sue carte


luzione digitale che ha sparigliato le nozioni di spazio e di tempo. Caillois ordina
il tavolo sul significato di gioco e inquadra le diverse attività umane (alcune così
somiglianti a quelle di certi animali). L’antropologo francese individua quattro
categorie principali: agon, alea, mimicry o ilinx, a seconda che predomini il ruolo
della competizione, del caso, del simulacro o della vertigine. Per chiarirci: il
calcio è agon, la roulette è alea, giocare agli indiani o recitare la parte di Amleto è
mimicry (pensate al verbo inglese to play o al francese jouer che è sia giocare che
recitare), le montagne russe, le discoteche e la droga appartengono maggiormente
alla sfera dell’ilinx. Ovviamente questi non sono settori a compartimenti stagni. Al
contrario sono categorizzazioni di massima e in ogni gioco questi quattro qua-
dranti subiscono un certo grado di compenetrazione. Pensiamo per un attimo al

Lelio Semeraro
calcio-scommesse: la partita più equilibrata del mondo avrà il 33% di probabilità
di vittoria di una o dell’altra squadra e il 33% di pareggio e proprio per il suo
risultato incerto potrà diventare oggetto di alea, un affidarsi alla sorte. L’amor fati
era già per Nietzsche un atteggiamento umano che non implicava passive rasse-
gnazioni. In sostanza, si cerca di far coincidere la propria volontà col corso degli
eventi, sciogliendola nell’innocente casualità degli eventi. Caillois sostiene che “i
giochi d’azzardo appaiono i giochi umani per antonomasia” (Caillois, 1967, p. 35).
Perché solo il cervello dell’uomo, rispetto agli animali è dotato di virtù calcolatri-
ci. Le bestie invece conoscono la competizione, la maschera e la vertigine. Basti
pensare rispettivamente ai giochi di lotta dei cervi o dei cuccioli di leone, alla
stupefacente coreografia della ruota del pavone, al nascondimento del camaleonte
o alla febbre delle falene impazzite attorno a una fonte di luce.
Il gioco qui preso in esame, è un gioco essenzialmente d’abilità dal momento
che la fortuna, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non ha una così
grande incidenza. Il poker sportivo, chiamato anche texas holdem, prevede una
somma iniziale di ingresso a un torneo, così oltre a quell’esborso iniziale non si
può perdere. Tutti i partecipanti poi partono dalle stesse quote di fiches.
Caillois parla di due universi ludici in qualche misura antagonisti, uno legato
alle regole e alle convenzioni arbitrarie: “ludus”, e un altro più libero, improvvi-
sato e spensierato che chiama “paidia”. Nel ludus, come nel caso dei cruciverba,
sono le difficoltà create appositamente a offrire gli stimoli per giocare. Nella
paidia, invece, viene esaltata la creatività di scegliere in base alle proprie intuizioni
le mosse da compiere.

Poker-room

Nel poker on-line si trovano in nuce tutte le dimensioni del gioco finora
descritte, amplificate sotto alcuni versi dalla potenza della rete che permette
di sottoporre nella misura e nei modi offerti dal virtuale (chat, forum, blog) la
vocazione sociale del gioco. Nelle poker-room ci si scambia contatti e si discute di
qualsiasi argomento, dal gioco, al calcio, alla politica. L’essenza del gioco sta nella
essenzialità delle relazioni sociali. Come è deprimente infatti assistere da soli a una
proiezione cinematografica in sala, oppure salire
90

su una giostra da unico avventore, o saper giocare


Quaderni di comunicazione 11

a scacchi ma non avere rivali! Così anche il poker


ha bisogno di concorrenti e spettatori, per lo meno
virtuali. La compagnia inoltre non può essere una
qualsiasi, ma più è preparata e professionale più se
ne ricava soddisfazione. Il virtuale offre il metadone
di questo piacere. Con alcuni semplici gesti pos-
siamo commentare una mano o un punto appena
fatto, ci possiamo imbattere e sfidare i migliori
professionisti, siamo connessi cioè con la comunità
virtuale dei pokeristi, una lobby, come tante altre in
Italia che ragiona in termini di inclusione/esclusione. E possiamo farlo da Milano,
come da un’isoletta sperduta del mar Egeo. Più numerosi i partecipanti, maggio-
re è la sfida, più alto sarà il montepremi. Ogni sito di gioco on line offre tornei
anche da 3000 persone, suddivise in trecento tavoli da 10 giocatori, qualcosa che
nel mondo reale non sarebbe facilmente organizzabile nemmeno nei più grandi
Casinò. È il mondo del gioco che entra direttamente in casa, nella maniera più
rassicurante possibile, lasciando a disposizione tutto il confort e la sicurezza dei
propri oggetti. Una comoda e divertente alienazione.

Psicologia del poker

Il fatto che il poker sia un gioco legato alla matematica e al calcolo della
probabilità (molti matematici e economisti l’hanno utilizzato come riferimento e
applicazione per i propri studi) non basta però a spiegare il suo successo. Andreb-
bero invitati gli psicologi e i sociologi ad analisi più approfondite, come non si
può trascurare il suo lato educativo e formativo.
Tra le caratteristiche psicologiche un posto di grande importanza è da attribui-
re alla previsione.
Il piacere sottile di riuscire a prevedere le carte che usciranno dal mazzo, o le
carte dei rivali, o il comportamento degli avversari suscita nel giocatore una sod-
disfazione legata a quella della magia, dell’irrazionalità, una coscienza superiore al
normale, un’atmosfera medianica, un sesto senso che sfiora il religioso.
Un’altra caratteristica è quella del nascondimento. Saper travestire un punto
debole da punto forte, e viceversa, per ricavare maggiori vantaggi, è un’altra delle
tante frecce all’arco del rounder (giocatore). Una sorta di calcolo unita alla fanta-
sia, all’improvvisazione, all’ebbrezza: le due facce del gioco sono così mescolate
da risultare inscindibili. Per un buon bluff bisogna saper raccontare una storia
credibile fin dall’inizio. Si inizia a bluffare solitamente quando le cose vanno bene,
per spiazzare gli avversari, costringerli a decisioni sbagliate, che poi rimpiangeran-
no. Parafrasando un vecchio cliché potremmo dire: dimmi come giochi e ti dirò
chi sei. Esistono gli ostinati che non si arrendono mai, i narcisi che si innamorano
delle proprie carte, gli idealisti che inseguono luminosi progetti di scale e colore,
eccetera eccetera.
Sul piano pedagogico il gioco educa a controllare l’impulsività, a saper bilancia-

91
re i pro e contro, a non fare puntate esagerate e a rispettare se stessi e gli avversari.

Il poker on-line scopre le sue carte


È un modo per guardare le cose con la giusta distanza, il distacco che tante volte
desideriamo sul posto di lavoro o nelle questioni di cuore. Come la poesia di
Kipling insegnava, si diventa uomini non abbattendosi troppo per una sconfitta e
non inebriandosi più del dovuto per una vittoria. La lealtà e il bon ton sul tavolo
di gioco è certamente considerata una specie di vittoria a sé stante, e come negli
antichi duelli cavallereschi vige un sottinteso codice di buone maniere da rispetta-
re. Stare al gioco significa anche rispettare l’etica del gioco. Se play è performance,
game è invece il sistema delle regole (Eco in Huizinga, 2002).

Che niente non sia fatto

Lelio Semeraro
La teoria dei giochi nasce con Von Neumman ma viene teorizzata in modo
sistematico da John Nash e parla delle possibile applicazioni del gioco a campi più
lontani, come l’economia o la strategia di guerra, e suddivide le varie situazioni di
gioco. Nel caso del poker, John Nash ci direbbe che è un gioco a somma zero (se
uno perde un tot di fiches, c’è un altro che le guadagna), non cooperativo (tranne
in rari casi, dove due avversari con molte fiches decidono di eliminare quello che
ne ha poche), ripetitivo e sequenziale perché il piccolo e il grande buio ruotano tra
tutti i giocatori e per parlare bisogna aspettare il proprio turno. Nessun professio-
nista smentirà il fatto che la posizione rispetto al mazziere non è mai da trascurare.
Quanto sei più vicino al “bottone” tanto più la mano può essere favorevole. La
teoria dei giochi invita a traslare differenti ambiti e ci fa capire quanto, ad esempio si
possa avvicinare il poker al gioco in borsa, e quanto gli speculatori quotidiani siano
veri giocatori d’azzardo, in un mondo assolutamente non cooperativo e a informa-
zione imperfetta. Per la teoria dei giochi, il poker può essere la prosecuzione della
guerra con altri mezzi. Ma non c’è solo azione. I cinesi, questo è indubbio, sono
bravi negli affari. Una formula taoista recita così “wu wei er wu bu wei”. Che nella
lingua del nostro gioco diventa così: Do Nothing and Leave Nothing Undone. Non
fare nulla ma che niente non sia fatto. A prima vista può sembrare una contraddi-
zione: l’azione della non-azione. tornando stanco dopo una dura giornata di lavoro,
il paterfamilias si chiede sempre a fine giornata “che cosa non ho fatto oggi”, e già
avverte l’ingombrante presenza del non-fatto tutt’attorno. (cfr. Jullien F, 2005). Se
non si agisce cosa si fa? La parola chiave è trasformazione. Qualunque stratega lo sa.
Se un avversario dà filo da torcere perché è troppo chiuso, il consiglio è di sembrare
assente e ancora più chiuso per invitarlo a scoprirsi. Quando è molto forte, meglio
evitarlo. Con la dovuta pazienza, lo si coglierà in flagrante quando sarà più debole.
Il dubbio su cosa fare è già un potente indizio, meglio non fare che sbagliare.
Le mani perdenti che abbandoniamo possono valere quanto le mani vinte. Un
fold (lasciare il piatto) al momento giusto spesso è inefficace ma nel proseguo del
torneo può risultare molto efficace. Rispetto al poker dal vivo, ai tornei on line
manca qualcosa, come la mimica, i tic non-verbali, quei suggerimenti (in gergo tel-
ls) che i professionisti conoscono bene avendo studiato il linguaggio non verbale.
Psicologicamente il gioco on line è più indicato per le persone che conoscono la
tecnica, che danno il giusto peso alle proprie carte, e che rilanciano senza esage-
92

rare, ma sono incapaci di disciplinare il linguaggio corporeo. Dal vivo poi c’è più
Quaderni di comunicazione 11

bisogno di resistenza (anche fisica), la concentrazione dev’essere maggiore. I due


mondi virtuali e reali sono perciò lontani tra loro, anche se alcuni siti cercano di
avvicinarli mettendo in palio pacchetti-premio verso tornei reali. Non necessa-
riamente però chi è forte on line è altrettanto forte nella vita reale. Uno squalo
on-line può risultare un pollo dal vivo e viceversa.

Parole in prestito

Il linguaggio del poker è pieno di prestiti dal mondo animale. I nomi più diffusi
sono Fish (pesciolino) un giocatore molto debole e perdente, e Donk (asinello)
giocatore scarso ma pericoloso perché spesso vince grazie a una forte dose di
fortuna. Shark (squalo) è poi un giocatore molto forte che va a caccia di fish. Ma
il bestiario del poker è più vario. Mouse (topolino) è un giocatore molto chiuso
e prudente. Lion (leone) è un avversario molto solido che non bluffa quasi mai.
Jackal (Sciacallo) è un disturbatore che porterà disarmonia al tavolo con le sue
giocate pazze. Elephant (elefante) è portato a vedere tutte le mani, senza rilan-
ciare, e infine abbiamo Eagle (Aquila), il giocatore che valuta meglio la propria
posizione e che ha la visione d’insieme migliore. Un bestiario pokeristico che
sottolinea istinti e pulsioni naturali di ogni giocatore.
Soprattutto nella rappresentazione giornalistica della politica, il linguaggio ha
preso molto dal mondo del poker. Ad esempio cercando su Google: “Berlusconi
rilancia” si squadernano ben 32.800 pagine. E molte altre su eventuali bluff: Aqui-
la, Onna, Iran, fisco, giustizia eccetera eccetera (un articolo datato 4 agosto 2010
sul periodico Vanity Fair di Gad Lerner ha per titolo: Elezioni anticipate: Il Bluff
del Cavaliere). Per par condicio citiamo anche il neonato blog del giornalista Pol-
Pok (Politica, potere e altri vizi capitali) di Lanfranco Pace, ex-militante di potere
operaio, successivamente riciclatosi negli orizzonti pro-life di Giuliano Ferrara e
opinionista del Foglio.

Assaggi di musica cinema e letteratura

La metafora del poker era stata immortalata in pieni anni ‘70 nella musica
leggera con Rimmel (1975) da un giovanissimo Francesco De Gregori: “Ora i tuoi
quattro Assi /bada bene di un colore solo/ li puoi nascondere o giocare come vuoi/.”
E qualche strofa dopo recita “come quando fuori pioveva” (musicando una nota
tecnica mnemonica per ricordare l’ordine dei semi: cuori quadri fiori picche). Tra i
cantautori si ricorda lo scomparso Ivan Graziani (1983) con il Chitarrista (Così mi
sono avvicinato/ e a giocare a poker l’ho invitato/ avevo un full e lui due coppie/ cosa
rilanci se non hai più niente tranne lei?). Fino ad arrivare al pop moderno con Lady
Gaga, l’erede spirituale di Madonna, col titolo Poker Face (2009). (No, he cant’read
my poker face. Tr. it. lui non riesce a leggere la mia faccia da poker). In ambito anglo-
sassone l’espressione pokerface è entrata in uso anche nel linguaggio comune.
Il gioco dei rimandi nel cinema sarebbe poi infinito. Ne diamo qui solo un

93
piccolissimo assaggio. Dai film di Pupi Avati Regalo di Natale (1986) con il meno

Il poker on-line scopre le sue carte


riuscito seguito Rivincita di Natale (2004) ai classici western: da La Conquista
del West (De Mille, 1936) al più che celebre Ombre Rosse (Ford, 1939) passando
dal divertente La Stangata (Hill, 1973) al pluristudiato Jhonny Guitar (Ray, 1954)
senza trascurare il capolavoro C’era una volta il West (Leone, 1968). E tanto altro:
Cincinnati Kid (Jewison (1965), California Poker (Altman, 1974) e La Casa dei
Giochi (Mamet, 1987). Tornando in Italia si deve citare l’istrionico Adriano Celen-
tano in Asso (Castellano e Pipolo, 1981), anche se forse il più bell’incastro tra ci-
nema e poker ce lo ha finora regalato l’americano Rounders di (Dahl, 1988) grazie
anche a un cast di tutto rispetto: Edward Norton, John Turturro, John Malkovich,
Matt Damon e di cui si sa già che è in cantiere il sequel (atteso per il 2012).
In letteratura un tentativo di bibliografia ragionata dovrebbe partire necessa-

Lelio Semeraro
riamente da Il giocatore di Fëodor Dostoevskij, sul tentativo di contrastare il caso;
un romanzo che a quanto pare funzionò bene per colmare i debiti di gioco dello
scrittore. Viaggiare verso le lontane atmosfere di Philip Dick (Lotteria dello spazio
e I giocatori di Titano) e avvicinarsi a Bari con Il passato è una terra straniera di Ca-
rofiglio, in cui il topos letterario del barare è un pretesto per parlare dei rapporti
umani.
Fuori dal mondo dei tavoli verdi, lo scrittore palermitano Giorgio Vasta (2010)
considera il belpaese uno Stato “a somma zero”. Una traccia da non trascurare per
orientarsi nei giochi aperti della crisi della politica, stanare i bari e sottrarre l’Italia
dall’essere pensata come una posta in gioco, immersa in un mare infestato di squali.

Bibliografia

Callois, R., 1967, Les jeux et les hommes, Gallimard, Paris; tr. it., 2000, I giochi e gli uomini,
tr. it., Bompiani, Milano.
Dick, P. , 1954, Solar Lottery, Ace, New York; tr. it., 2007, Lotteria dello Spazio, Fanucci, Roma.
Id., 1963, The game-players of Titan, Ace, New York; tr. it., 2005, I giocatori di Titano, Fanucci,
Roma.
Huizinga, J., 1938, Homo ludens; tr. it., 2002, Einaudi, Torino.
Jullien, F., 2005, Conferénce sur l’efficacité, Presses Universitaires de France, Paris; tr. it., 2006,
Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Bari-Roma.
Nash, J., 1950, Equilibrium points in n-person games, Proceedings of the National Academy of
Sciences, U.S.A.
Neumann (von) J., Morgensten, O., 1944, Theory of Games and Economic Behavior, University
Press, Princeton.
Vasta, G., 2010, Spaesamento, Laterza, Bari-Roma.

Webgrafia

www.ilsole240re.com
www.gadlerner.it/2010/08/04/elezioni-anticipate-il-bluff-del-cavaliere.html
www.youtube.com/watch?v=K9TWvYChavk
www.youtube.com/watch?v=K9TWvYChavk
www.youtube.com/watch?v=piRoZ7qJkRI
www.xcasino.it/il-gioco-come-poker-e-slot-non-conosce-la-crisi
www.ilfoglio.it/polpok/
Silvia Gravili
Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto

Occorre chiarire sin da subito un equivoco di base: considerato che in Cina


esistono circa una sessantina di etnie, ciascuna con atteggiamenti, valori, cultura e
dialetti diversi, la definizione di “immigrato cinese” è evidentemente frutto di una
generalizzazione impropria.
Essa, tuttavia, presenta un’indubbia utilità, soprattutto se ci aiuta a compren-
dere perché ancora oggi italiani e cinesi, pur condividendo da tempo il medesimo
territorio1, si sentono ancora così “lontani” gli uni dagli altri.

Caratteristiche socio-demografiche

Dei circa 181 mila immigrati cinesi in Italia2, la stragrande maggioranza provie-
ne dalla provincia del Zhejiang e da quella confinante di Fujian: si tratta di aree
costiere, situate a Sud-Est della
Cina, in cui vive una popola-
zione storicamente propensa al
commercio e agli affari, con una
notevole propensione al lavoro
autonomo e alla realizzazione
economica (Ma Mung 1992).
Sono, quindi, persone che non
provengono da situazioni di
miseria estrema, ma dalle aree più
ricche e più dinamiche del pro-
prio Paese: loro intenzione è mi-
gliorare la propria condizione economica aprendo un’attività all’estero (Ceccagno
2002). Piuttosto equilibrata dal punto di vista del genere (la presenza maschile è
superiore solo di qualche punto percentuale a quella femminile), la popolazione
cinese in Italia comprende soprattutto persone giovani in età lavorativa e produt-
tiva (19-40 anni), che hanno intenzione di rientrare in patria per trascorrervi gli
anni della vecchiaia.
96

Caratteristiche della struttura produttiva


Quaderni di comunicazione 11

Di grande importanza per il tessuto produttivo è la famiglia3 (e, più in generale,


la rete di familiari, parenti e conoscenti), intesa come istituzione fondante della
vita quotidiana individuale, lavorativa e sociale sia in patria che nel Paese d’appro-
do (Pedone 2008).
A differenza di quanto avviene per tutti gli altri fenomeni migratori, infatti,
una volta arrivato per la prima volta in Italia, il cittadino cinese può contare su
una vera e propria “rete etnica”4 (guanxi) che si rivela estremamente vitale per
la sopravvivenza del singolo nel Paese straniero, in quanto gli offre sin da subito
(tramite la figura del laoban, cioè del datore di lavoro) vitto, alloggio e lavoro, ol-
tre che supporto per il disbrigo delle formalità burocratiche5. “Ci vuole fatica, ma
il sacrificio non basta. Senza le relazioni non sarebbe possibile restare” (Oriani,
Staglianò 2008).
C’è il forte rischio, però, che, una volta a destinazione, il singolo venga risuc-
chiato all’interno di una struttura sociale e produttiva autonoma rispetto al conte-
sto di accoglienza6, che lo priva di fatto della possibilità di conoscere tutto ciò che
accade al di fuori di essa: il suo unico compito è, infatti, quello di lavorare il più
possibile per poter prima saldare (pena l’ostracismo perpetuo da ogni attività eco-
nomica) i debiti7 contratti per migrare, e poi, magari, intraprendere una carriera
imprenditoriale, occupandosi a sua volta di altri concittadini.
Il senso del dovere nei confronti del proprio superiore non ha, però, soltanto
implicazioni pratiche (lavorare per rifondere i prestiti), quanto soprattutto morali:
il rispetto della gerarchia, l’obbedienza, la riconoscenza e la devozione che si
devono al capofamiglia si devono anche al datore di lavoro, perché solo accettan-
done le regole si esprime la propria fedeltà al gruppo.
Per questo difficilmente le scelte dell’imprenditore vengono messe in discussio-
ne: che si tratti di mancate tutele o di orari di lavoro superiori a quelli previsti, il
lavoratore non considera il datore di lavoro uno sfruttatore (anche quando ce ne
sarebbero i presupposti) né si sente in diritto di avanzare delle lamentele contro
colui che si é occupato di lui appena giunto in Italia, e che continua a costituire
un punto di riferimento in caso di necessità.

Le civiltà asiatiche segnate dall’impronta buddista e confuciana praticano


il rispetto filiale verso i genitori, mettono la famiglia al di sopra dei suoi singo-
li membri, la collettività al di sopra dell’individuo, il bene comune al di sopra
dell’egoismo personale, privilegiano l’armonia e la stabilità anziché la controversia
e la polemica. Il confucianesimo educa al rispetto dell’autorità, non a rimettere
continuamente in discussione chi sta in alto (Rampini 2005).

Proprio in virtù dello stretto legame tra struttura familiare e struttura economi-
ca è ampiamente utilizzata l’espressione “familismo imprenditoriale”, intendendo
la forma più comune di imprenditoria cinese:
– che “lancia la famiglia come unità di competizione economica in cui i membri
vengono percepiti come la risorsa lavorativa più economica, fidata e facilmente
reperibile” (Ceccagno 1999),
– in cui le gerarchie sociali interne vengono riprodotte a livello di struttura

97
produttiva8 e dove, più generalmente, l’attività economica è strutturata sulla

Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto


convivenza (vita familiare e attività produttive spesso coincidono)
– dove l’autorità del laoban (il datore di lavoro) non è messa in discussione, in
quanto garantisce protezione e orientamento ai nuovi arrivati.
Non si tratta, quindi, di inquadrare genericamente il fenomeno secondo le
categorie di “schiavi” e “padroni”, ma di comprendere che esiste quasi sempre
un patto che si fonda sulla condivisione di tradizioni comuni e nel quale tutti, sia
nelle fasi di investimento sia in quelle di divisione del profitto, hanno il loro ruolo
e il loro guadagno (Rastrelli 2000).

Propensione al lavoro imprenditoriale

La propensione imprenditoriale degli


immigrati cinesi, sebbene storicamente
consolidata, negli ultimi anni ha manife-

Silvia Gravili
stato una forte crescita nel nostro Paese9.
Ambrosini (2001) suggerisce che ciò
si deve a diverse ragioni quali, innanzi-
tutto, l’aspirazione alla mobilità sociale
che, nel caso del lavoro imprenditoriale,
è percepita da coloro che migrano come
una reale opportunità di crescita e un
traguardo meno difficoltoso rispetto ad
altri sbocchi occupazionali, più legati al riconoscimento dei titoli di studio e a una
più approfondita competenza linguistica. Egli, inoltre, propone una classifica-
zione dell’imprenditorialità immigrata secondo la dicotomia “impresa etnica” vs.
“impresa non etnica”: in particolare, per “impresa etnica” s’intende un’impresa in
cui sono impiegati (se non in maniera esclusiva, quanto meno prevalente) citta-
dini appartenenti alla stessa comunità, e che si sviluppa sulla base di un modello
organizzativo e culturale proprio10.
Si tratta, in ogni caso, di progetti imprenditoriali di piccole dimensioni, che rie-
scono a sopravvivere ed essere competitivi grazie a costi contenuti e a una gestio-
ne tipicamente familiare11. I cinesi che lavorano in Italia “sono umili, ambiziosi,
tenaci” (Cremona, De Cecco 2009), anche perché chi non riesce a emergere da
clandestinità e duro lavoro esibendo una piena realizzazione economica porta il
peso del giudizio severo della comunità d’origine, che spesso finisce per interioriz-
zare e fare proprio.
C’è anche da precisare, però, che, oltre a una forte propensione ad aprire una
propria attività, gli immigrati cinesi si sono mostrati flessibili e capaci di cogliere le
opportunità e i cambiamenti imposti dal contesto socio-economico di accoglienza,
anche se diversi dalle loro aspettative: per questo, a seconda delle richieste del
mercato del lavoro e dei cambiamenti del quadro legislativo, quando il lavoro su-
bordinato si è mostrato più vantaggioso o più richiesto di quello imprenditoriale,
essi hanno cercato lavoro come operai (Ambrosini 1999).
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Settori di attività
Quaderni di comunicazione 11

Gli immigrati cinesi si sono prevalentemente dedicati ad alcuni specifici settori,


come la ristorazione, la produzione e la vendita di confezioni, la pelletteria e l’arti-
gianato (dati CCIAA).
La ristorazione, in particolare, è stata, soprattutto negli anni Ottanta e fino ai
primi anni Novanta del Novecento, il settore che ha permesso una prima stabili-
tà economica, oltre che territoriale; la scelta, però, non è stata certo casuale, ma
è maturata tenendo in considerazione (e mettendo a frutto) una serie di aspetti
differenti, quali la ricchezza della tradizione gastronomica cinese, la possibilità
di lavorare sulla base di conoscenze già possedute (la propria cucina), la ricerca
di cibo “esotico” che si stava diffondendo tra gli europei, l’alta disponibilità di
manodopera (camerieri, cuochi, ecc.) reperita all’interno del nucleo familiare.
Il successo nel settore della ristorazione, poi, ha creato l’identificazione del
cittadino cinese in Italia come colui che possiede un ristorante e questo, se da una
lato ha giocato a favore della percezione di una presenza straniera più sicura12 – in
quanto più “collocabile” – rispetto alle altre etnie presenti sul territorio, dall’altro
ha causato una sorta di “fossilizzazione” dell’immaginario degli italiani, che non si
sono quindi resi conto di come, piuttosto, i cinesi si siano dimostrati abili a cam-
biare attività a seconda delle esigenze del mercato del lavoro (Quattrocchi 2005).
Gli investimenti accumula-
ti, infatti, sono stati utilizzati
sempre di più, a partire dagli
anni Novanta, per l’apertura
di punti vendita13 e/o stabi-
limenti legati al settore delle
confezioni e a quello della
lavorazione della pelle: nem-
meno in questo caso, però, si
è trattato di settori completa-
mente nuovi per gli impren-
ditori cinesi, in quanto essi
erano già ben sviluppati sia
nella madrepatria che in altri
paesi stranieri dove i cinesi si
erano stabiliti.
La chiave del successo, quindi, degli imprenditori-immigrati non è tanto quella
d’inventarsi l’impiego in nuovi settori quando quelli tradizionali (la ristorazio-
ne) si sono saturati, quanto piuttosto la capacità d’inserirsi nel tessuto sociale e
produttivo in cui sono immersi, ritagliandosi una nicchia lavorativa con settori già
“collaudati” in altre aree geografiche.
È innegabile, poi, che un fattore decisivo per la competitività cinese sia stata la
capacità di produrre a costi molto bassi, sfruttando il basso costo della manodo-
pera (numerosa e disposta a lavorare a ritmo serrato) unito a intesi orari di lavoro,
a un salario a cottimo, alla scarsa (per non dire quasi inesistente) propensione
a protestare per le proprie condizioni di lavoro e purtroppo, talvolta, anche al
mancato rispetto delle modalità di assunzione e/o di trattamento retributivo (più

99
che un vero e proprio contratto, ciò che unisce datore di lavoro e lavoratore è un

Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto


“impegno d’onore”) e all’alimentazione di un’immigrazione clandestina da parte
della malavita.
Ciononostante, ci sono molto imprese cinesi in Italia che lavorano legalmente, e
riescono ad avere consistenti volumi di vendita: come fanno?
Molto spesso ci si dimentica che, soprattutto in passato, una forte spinta all’im-
prenditorialità cinese è venuta proprio da parte di imprese italiane committenti
che hanno beneficiato, in qualche modo, di tali durissime condizioni di lavoro:
“imprese capo-fila, grossisti, rivenditori, affittuari di laboratori e magazzini ricava-
no vantaggi competitivi dai deprecati sistemi di lavoro posti in atto dalle imprese
cinesi” (Ambrosini 2001).
Se, quindi, da una parte la capacità degli imprenditori cinesi di rapportarsi al
tessuto economico locale e di offrire un’alternativa ai circuiti produttivi tradizio-
nali è indubbia, anche se talvolta in maniera non legale, dall’altra ciò non sarebbe
successo (o, almeno, non con la portata attuale) se il contesto economico locale
non avesse di volta in volta assecondato, o addirittura offerto, tale possibilità.

Silvia Gravili
Ceccagno (2002) in particolare rileva che un numero sempre crescente di impren-
ditori italiani, soprattutto nei settori produttivi ad alta intensità di lavoro e a basso
livello di specializzazione, ha a lungo fornito gli imprenditori cinesi di commesse
a carattere discontinuo e urgente, chiedendo loro di lavorare conto terzi per com-
pensi contenuti14 e alta flessibilità.
Si è così venuto a creare, spesso anche in contrasto con la nostra normativa
in materia di lavoro e tutela sindacale, un intreccio reciproco di interessi, che ha
scardinato le “regole” della produzione tradizionale: è come, infatti, se, invece di
delocalizzare all’estero, i piccoli (e grandi) imprenditori italiani abbiano “potuto
beneficiare di una ‘delocalizzazione in loco’, in cui imprese cinesi adottano ritmi e
modalità di lavoro tipiche di zone a basso sviluppo, rimanendo però a portata di
mano” (Barrocci, Liberti 2004).
Un altro problema spinoso, che incide come catalizzatore di conflitto tra italiani
e cinesi, è poi l’abilità di alcuni Paesi (la Cina in primis, ma anche la Corea) di
offrire un prodotto contraffatto molto simile all’originale nella “forma” (ma non
nel “contenuto”, cioè nella qualità dei materiali e della lavorazione artigianale),
che attira un’ampia fascia di compratori desiderosi di acquistare quell’oggetto
griffato che, altrimenti, non potrebbero permettersi; senza considerare, poi, che gli
esercenti italiani spesso accusano i loro colleghi cinesi di evasione fiscale e di non
rispettare gli orari di apertura e/o la chiusura infrasettimanale, tradizionalmente
presente nella gestione italiana.

Ma, per guardarci in uno specchio e cercare lo sguardo dell’altro che ci fonda,
come si comportano gli imprenditori italiani che operano in Cina? Che idea si
sono fatti di loro i cittadini cinesi che vivono in madrepatria? Ci considerano,
come noi facciamo con loro per il nostro territorio, una sorta di “invasori”?
Lo chiediamo al Dott. Mattia Bellomi, responsabile esecutivo del Galileo Gali-
lei Italian Institute di Chongqing.
Dott. Bellomi, ci può presentare l’attività del Galileo Galilei Italian Institute in
Quaderni di comunicazione 11 100

Cina?

Il Galilei Galilei Italian Institute nasce nel


2007 da una delle tante intuizioni del Prof. Ric-
cardo Varaldo, Presidente della Scuola Superiore
Sant’Anna di Pisa, in collaborazione con Roberto
Colaninno, Presidente e Amministratore delegato del gruppo Piaggio: nel 2004,
essi ebbero l’idea, assolutamente innovativa a quel tempo, di affiancare le univer-
sità (la Chongqing University e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) all’accordo
di partnership industriale che la Piaggio stava stipulando a sud della Cina tra-
mite joint venture. Un buon banco di prova per rafforzare le relazioni tra Pisa e
Chongqing è stato il primo corso post graduate di 4 mesi che abbiamo organizzato
a maggio 2006, e di cui sono stato tutor responsabile: abbiamo costruito un ponte
all’interno di una realtà in così rapido sviluppo, offrendo agli italiani la possibilità
di acquisire esperienza sul territorio, per identificare opportunità di studio, ricerca
e collaborazione commerciale e industriale da e verso l’Italia, e ai cinesi la possi-
bilità di conoscere in modo più approfondito eccellenze industriali, tradizioni e
tipicità del nostro Paese.

Che consigli darebbe a un imprenditore italiano che vuole investire in Cina?


Quali sono gli accorgimenti da adottare e quali, invece, gli errori da evitare assoluta-
mente?

Un errore purtroppo molto diffuso è conservare un approccio occidentale a


una realtà che non lo è: “when in Rome, do as the Romans do”, si dice; sembra
una banalità, ma sono ancora in molti a dimenticarsene. E ciò diventa ancora più
grave, se si considera che spesso i cinesi fanno leva proprio su questa debolezza.
Un altro errore da evitare è la presunzione di voler fare bottino presto: la relazio-
ne a breve termine, dettata da una logica di saccheggio o dalla voglia di cogliere in
fretta le enormi opportunità che, senza dubbio, il mercato cinese offre, non porta
mai a buoni risultati. Quando dimostri interesse a investire nel loro Paese, i cinesi
vogliono prima di tutto sentire una cosa da te: che hai intenzioni a medio-lungo
termine.
Come provarglielo? Facendo tutto insieme a loro. Non si può aprire una joint
venture e venire in Cina ogni 6 mesi, per poi lamentarsi del proprio partner. La
joint venture o, più in generale, la collaborazione con i cinesi è come un matrimo-
nio: il rapporto va coltivato nel tempo, con costanza e dedizione.

Qual è lo shock più grande per gli imprenditori italiani che arrivano per la prima
volta in Cina?

Le diversità culturali. Il problema è che ci mancano gli occhiali adatti per


cogliere alcune sfumature che per i cinesi sono importanti: quelle che a noi sem-
brano banalità di poco conto e che qui, invece, sono fondamentali. In effetti, non

Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto 101


siamo ancora abituati al mercato cinese perché abbiamo una scarsa conoscenza
della cultura cinese: alcune brevità relazionali o shortcut comunicativi semplice-
mente qui non funzionano.

Qualche esempio?

La dinner diplomacy, che in Cina riveste un’importanza fondamentale, molto


diversa rispetto alla cultura occidentale. In Italia l’invito a cena ha luogo quan-
do si deve celebrare la conclusione di un accordo; in Cina, invece, non ci si può
aspettare di concludere un accordo dopo tre incontri in un ufficio. Lì i cinesi ti
ascolteranno, ma non ti diranno mai un “sì” definitivo: è a tavola che viene decisa
buona parte della transazione. Se, quindi, oltre che incontrarli sul luogo di lavoro
vai a cena con loro, bevi con loro, mangi con i bastoncini e vai al karaoke, vuol
dire che la trattativa commerciale sta andando bene. Se in Cina non ti arriva un
invito a cena, inizia a preoccuparti.

Silvia Gravili
Che caratteristiche dovrebbe avere un prodotto per penetrare nel mercato cinese?
E qual è il modello di business più adatto?

Il radicamento: se spendi tempo qui e stai insieme a loro, non puoi che ottenere
vantaggi. Lo abbiamo constatato noi stessi da quanto abbiamo aperto il Galileo
Galilei Italian Institute rispetto a quando facevamo visite frequenti, ma estempo-
ranee: i cinesi premiano chi ha il coraggio di stare in Cina. Per questo, il consiglio
che mi sento di dare a chi vuole proporre i propri prodotti in Cina, è prima di
tutto quello di focalizzarsi con molta cura sulle strategie di marketing, focalizzan-
dole sulle caratteristiche specifiche del mercato cinese. Purtroppo, invece, molti
imprenditori italiani continuano a temere la Cina, perché la vedono come un
posto troppo lontano, troppo diverso, troppo “difficile”: essi ignorano che, con
un po’ di attenzione in più e di diffidenza in meno, come italiani avremmo molte
più opportunità di quante riteniamo esistano di primo acchito.

Come vengono percepiti in Cina gli imprenditori italiani?

Scinderei innanzitutto l’immagine dell’Italia da quella degli italiani. Qui in Cina


c’è un grande rispetto per il nostro Paese, cosa che non a tutti gli altri Stati occi-
dentali è concesso, e questo grazie al fatto che sia Cina che Italia hanno una storia
millenaria alle spalle. I cinesi nutrono un grande interesse per alcuni “grandi clas-
sici” del Made in Italy: i film, la musica e soprattutto l’opera lirica, la moda e il de-
sign, le auto da corsa. Degli italiani, invece, non hanno ancora un’idea ben definita
perché qui a Chongqing di imprenditori italiani se ne vedono veramente pochi. E
questo è un vero peccato, se si considera che Chongqing è la città più grande della
Cina, una vera e propria frontiera commerciale anche per gli stessi cinesi.
Cinesi e italiani sono così lontani tra di loro, come si crede?
Quaderni di comunicazione 11 102

Direi proprio di no: tutto sommato, i cinesi hanno con gli italiani, rispetto agli
altri europei, più motivi di affinità che di scontro. Pensiamo, ad esempio, all’im-
portanza che entrambi i popoli attribuiscono alle relazioni personali, rispetto a
una certa “fissità” anglosassone, e non dimentichiamo, poi, il valore che viene
attribuito alla famiglia, in Cina come nella tradizione italiana.
Ci sono, ovviamente, anche alcune differenze: la prima che mi viene in mente è
proprio la diversa prospettiva in cui viene inquadrata l’attività imprenditoriale: in
una dimensione familiare in Cina, in una più individualistica in Europa. Tuttavia,
anche in Cina la famiglia si sta disaggregando, soprattutto da quando sta venen-
do meno l’essere legati a un territorio. Beninteso, i legami familiari sono ancora
fortissimi, ma in misura minore rispetto a quanto fossero nel passato.

Se Marco Polo arrivasse oggi in Cina, che cosa lo sorprenderebbe? C’è ancora
qualcosa della Cina di quel tempo che è ancora viva?

Lo spirito mercantile dei cinesi non cambia mai, e ciò non smetterebbe mai di
sorprendere qualcuno. I cinesi sono fatti per vendere tutto, in qualsiasi modo: nel
passato poteva essere il ventaglio di rafia e oggi il piccolo ventilatore portatile, ma
la loro abilità di adattarsi a tutte le piccole esigenze dell’utente finale è rimasta im-
mutata. La Cina è, ovviamente, cambiata molto, soprattutto dal 1949 in poi, ma i
cinesi non son cambiati troppo. E nemmeno la cultura cinese si è molto modifica-
ta con i tempi: è rimasta fondamentalmente una cultura che si replica su se stessa
con i suoi continui riferimenti millenari, senza soluzione di continuità; è come se,
chiacchierando con un amico, citassimo abitualmente Catullo, per sentirci rispon-
dere con un detto di Sant’Agostino.

La Regione Puglia si è presentata al World


Expo di Shanghai puntando su alcuni punti
forti: cinema, produzioni di eccellenza (soprat-
tutto moda ed enogastronomia) ed energie
rinnovabili. Come giudica questa scelta?

Il padiglione italiano, intitolato La città


dell’Uomo, è stato uno dei più apprezzati
a Shanghai, e ha velocemente superato la
soglia del milione di visitatori.
Purtroppo il nostro Paese non si è sempre
dimostrato lungimirante nelle strategie di
approccio al mercato cinese, sopratutto nel
passato: organizzare delle missioni economi-
che di sistema ogni due, se non ogni quattro
anni (la prima è stata nel dicembre 2004,
la seconda nel 2006 in concomitanza con l’anno dell’Italia in Cina e la terza nel

Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto 103


maggio del 2010) rischia di far perdere la bussola sulle grandi opportunità che un
Paese come l’Italia potrebbe avere qui. Ha fatto bene, però, la Puglia ha organiz-
zare workshop e cineforum: danno visibilità immediata al nostro Paese, grazie al
loro impatto diretto e veloce. Lo stesso dicasi per la ricerca sull’energia pulita,
che anche qui in Cina è il futuro: prima ci si propone sulla green economy, prima
potremo firmare dei buoni accordi.

Note
1
Il primo flusso migratorio verso l’Italia si registrò intorno agli anni Trenta dello scorso
secolo, quando piccoli gruppi di poche decine di persone di origine cinese (non provenivano
direttamente dalla Cina, ma da Francia e Svizzera) s’insediarono nel Nord del Paese, cercando
fortuna prevalentemente come venditori ambulanti di prodotti tessili quali borse e cravatte.
Una ventina di anni dopo, invece, si assistette alla prima ondata migratoria di cittadini che
arrivavano direttamente dalla Cina: di solito, si trattava degli amici e dei parenti degli immigrati
già presenti in Europa, che decidevano d’intraprendere un proprio percorso appoggiandosi alla
rete di conoscenze e di contatti che questi ultimi già possedevano nel Vecchio Continente. È

Silvia Gravili
proprio durante questi anni che in madrepatria s’iniziò a sviluppare nell’immaginario colletti-
vo la figura del cinese intraprendente, che lascia il proprio Paese e trova fortuna economica e
realizzazione sociale all’estero.
2
Rapporto Istat – La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2010.
3
La famiglia riveste un’importanza cruciale già all’origine del progetto migratorio, che è
un progetto collettivo e non individuale (Pedone 2008): diversi parenti, coinvolti e beneficiari
dell’esperienza lavorativa all’estero di un membro del proprio nucleo, si attivano per diversi
mesi per reperire le risorse economiche e di contatti sociali necessarie al viaggio, considerato
un vero e proprio progetto imprenditoriale, uno strumento di affermazione e di avanzamento
sociale non solo per l’individuo che migra, ma anche per tutto il suo gruppo di parenti, che
rimane così unito nel perseguire un obiettivo comune.
4
Di solito si tratta di un parente, che è anche il titolare della ditta presso cui il nuovo arriva-
to inizia a lavorare. In questo caso, il senso di “legame” e di “devozione” verso chi riveste una
posizione di autorità si consolida ulteriormente, proprio in virtù del rapporto di parentela.
5
Il laoban, inoltre, offre disponibilità a favorire, dietro pagamento, la regolarizzazione degli
operai e delle loro famiglie e aiuta il nuovo arrivato in tutte quelle incombenze che presuppon-
gono una seppur rudimentale conoscenza della lingua italiana e, più in generale, del nuovo con-
testo in cui si trova immerso, gestendo la raccolta d’informazioni utili come il ricongiungimento
familiare, il pagamento delle multe, l’invio di rimesse in Cina, ecc. (Ceccagno 1999).
6
È pregiudizio comune tra gli italiani che i cinesi siano per definizione una comunità chiusa,
che non intende avere rapporti, se non occasionali, con la società esterna e che, quindi, nem-
meno si sforza di conoscerne la lingua, gli usi e i costumi. In realtà, questa convinzione errata è
frutto di molteplici fattori, quali:
– l’informazione semplicistica fornita dai mass-media, che spesso descrivono la comunità cine-
se come arroccata in impenetrabili e misteriose Chinatowns, luoghi non solo chiusi, ma an-
che socialmente pericolosi (Cremona, De Cecco 2009). In realtà, però, lo sviluppo di modelli
d’insediamento etnico concentrato in determinati quartieri non è prerogativa delle comunità
cinesi (basti pensare alle varie Little Italy sparse per il mondo), ma è piuttosto simbolo della
volontà di non dispersione territoriale;
– il fatto che i cinesi si occupino tradizionalmente di settori economici ben precisi: ristoranti,
confezioni, abbigliamento, pelletteria;
– i ritmi di lavoro intensissimi, che privano del tempo e della possibilità materiale di ritagliarsi
degli spazi per tessere rapporti sociali al di fuori della cerchia dei connazionali con cui si vive
e si lavora;
– il bisogno, seppure non manchino adeguamenti pragmatici e contaminazioni dinamiche con il
nuovo contesto in cui si trovano immersi, di un punto di riferimento che “esprima un’autore-
Quaderni di comunicazione 11 104

volezza non in contrasto con alcuni valori che gli immigrati portano con sé” (Ceccagno 1999);
– la difficoltà oggettiva di apprendere la lingua italiana, la cui conoscenza sancisce le premesse
di un successo sociale, come si rileva in Basso 2009, acuita del fatto che spesso i cinesi, in
virtù della pluralità dei dialetti parlati nella madrepatria, non hanno nemmeno un’omogenea
conoscenza della loro lingua madre. In effetti, la presenza di un contesto comunitario così
forte alle spalle, la mancanza di condizioni pratiche per seguire un corso di lingua italiana e
il motore che spinge gli adulti cinesi a raggiungere il nostro Paese (l’Italia non è scelta come
alternativa alla propria patria, un Paese dove ricominciare da capo, ma come una tappa in un
percorso migratorio che auspicabilmente per la prima generazione prevede il rientro in Cina
in età avanzata) rende questo sforzo non necessario a tutti i suoi membri: l’apprendimento
della lingua del Paese ospitante è un compito che viene delegato solo ad alcuni membri della
comunità – quelli della prima generazione che si trovano più a diretto contatto con i cittadini
autoctoni o quelli della seconda generazione –, che si rendono disponibili agli altri in caso di
necessità (Pedone 2008).
7
La somma necessaria per il progetto migratorio è molto variabile: dipende dai costi effettivi
del viaggio e delle pratiche burocratiche, dalla monetarizzazione dell’appoggio che i parenti già
residenti in Italia offrono per inserire l’ultimo arrivato nel nuovo contesto, ecc. Un ingresso su
chiamata diretta può costare tra i 18 e i 20 mila euro, cifra che l’immigrato può ripagare soltan-
to lavorando sodo – e gratis – per almeno due, tre anni. Se a fare da intermediario è un parente,
gli anni di lavoro gratis possono diminuire. Così come spariscono se il cinese è pronto a saldare
il debito, magari grazie ai prestiti ottenuti dalla sua rete di conoscenze (Oriani, Staglianò 2008).
Bisogna precisare, però, che la disponibilità al duro lavoro e all’autosfruttamento, in quanto
strumenti per una rapida affermazione economica e sociale, vengono percepiti dai lavoratori
cinesi come una necessità transitoria: un periodo durante il quale ripagare i propri debiti e
acquisire competenze e contatti con il mondo della diaspora e con la realtà d’accoglienza, da
utilizzare successivamente per il proprio progetto imprenditoriale (Ceccagno 1999).
Non bisogna dimenticare, infine, che non sempre l’immigrazione avviene in maniera regola-
re: spesso il migrante viene gettato in balia di organizzazioni ben strutturate che ricevono ingen-
ti somme di denaro per predisporre una falsa documentazione e per far trovare ai clandestini
dei connazionali già residenti all’estero, i quali si incaricano di trovare loro ospitalità e lavoro.
8
Laddove i rapporti d’affari devono essere intrapresi anche con persone non legate da vinco-
li parentali, gli imprenditori cinesi tendono a trasformare l’interazione in qualcosa di quanto più
simile possibile al rapporto che intercorre tra i membri di una famiglia (Ceccagno 1999).
9
Secondo i dati raccolti dalla Camera di Commercio Industria e Artigianato di Milano le
ditte individuali cinesi in Italia sono aumentate considerevolmente a partire dal triennio 2000-
2003: erano 8.778 al 31 dicembre 2000, e quasi il doppio (15.937) nel 2003.
10
Articolando maggiormente questa classificazione, tra le “imprese etniche” si possono
distinguere:
– “imprese tipicamente etniche”, che rispondono alle esigenze peculiari di una comunità stra-
niera ben insediata, fornendole prodotti/servizi specifici che non sono facilmente reperibili
sul mercato normale (ad esempio, prodotti alimentari);
– “imprese esotiche”, che offrono prodotti derivati dalla tradizione culturale del proprio Paese
di origine (ad esempio, ristorazione);
– “imprese rifugio”, non identificabili con un settore merceologico preciso, ma comunque
orientate sia verso il gruppo etnico, sia verso il mercato aperto.
Tra le imprese “non etniche”, invece, Ambrosini include:
– “imprese intermediarie”, che offrono alla popolazione immigrata prodotti/servizi che, per
essere fruiti, necessitano di una “mediazione” basata sulla fiducia (ad esempio, consulenze
legali o professionali, agenzie di viaggio, ecc.);
– “imprese aperte” che, identificandosi meno su base etnica, tendono a competere in settori
labour intensive (ad esempio, pulizie, trasporti, edilizia, abbigliamento, ecc.).
11
Oggi, tuttavia, si assiste a un significativo gap culturale: se le prime generazioni di immigra-
ti scelgono di aprire quelle attività che vengono ormai inevitabilmente associate alle comunità
cinesi, i figli, spesso più integrati, dopo il lavoro nell’azienda di famiglia decidono di continuare
gli studi e abbandonare la via tradizionale, per andare ricerca del proprio ruolo nel mondo
(Basso, 2009). “Le cinesi d’Italia, [con] le loro aspirazioni da adolescenti, [sono] così simili alle

Lo specchio cinese. Imprenditorialità a confronto 105


ragazze italiane. (...) Nelle pause di turni estenuanti, quelle mamme che credevamo macchine da
lavoro si emozionano sino a piangere parlando delle figlie. E queste, dal canto loro, sono sicure
soltanto di una cosa: non voler ripetere la vita sfinente dei genitori” (Cremona, De Cecco 2009).
12
È singolare notare come, se i ristoranti cinesi non vengono percepiti come concorrenti
dai gestori di pizzerie e osterie italiani, lo stesso non si possa dire per gli altri settori di attività
(Quattrocchi 2005). Qui i cinesi si sono inserirti sul territorio attraverso meccanismi propri
(quali, ad esempio, la propensione al lavoro autonomo, la mentalità imprenditoriale, il famili-
smo economico, ecc.) che hanno però saputo rielaborare in funzione del contesto in cui, di volta
in volta, si sono trovati. Nel nostro Paese, poi, il tessuto socio-economico di medie e piccole di-
mensioni, spesso a carattere familiare anche quando gestito da italiani, si è rivelato perfetto per
la gestione dell’impresa cinese. Ovviamente non si è trattato di un processo semplice, o breve,
quanto piuttosto di una continua negoziazione di spazi con la comunità economica autoctona,
che ha dato vita a non pochi conflitti e problematiche: è idea comune, tra gli italiani imprendi-
tori ma non solo, che la proliferazione di attività con titolare cinese abbia procurato un calo di
clientela nelle attività (soprattutto negozi) a gestione italiana, e che dunque essa rappresenti un
pericolo per l’economia autoctona.
13
Caratteristica generale dei punti vendita cinesi, soprattutto per quanto riguarda l’abbi-
gliamento, risulta essere quella dell’offerta mista, rispetto alla specializzazione: sebbene, infatti,
gli articoli esposti nelle vetrine siano principalmente articoli di abbigliamento, sia maschile che
femminile, molti negozi vendono anche altri prodotti, che possono andare dai piccoli articoli

Silvia Gravili
di elettronica ai giocattoli o all’oggettistica in generale. Proprio la varietà e la larga disponibilità
di merci, unito al basso prezzo, sembra essere il fattore di maggiore attrazione per i consuma-
tori italiani: i clienti, infatti, apprezzano la possibilità di “essere sempre alla moda, spendendo
poco”, indipendentemente dalla qualità della merce (una delle giustificazioni che maggiormente
viene addotta è che “anche se un capo si butta via prima, si è speso poco per comprarlo”). I
titolari dei punti vendita lo hanno capito e, soprattutto per quanto riguarda la clientela di gio-
vane età e di sesso femminile, si sono dati da fare per rifornirsi di merce con maggior frequenza
(si arriva anche a ritmi di una volta alla settimana). Ancora una volta, l’imprenditore cinese si è
dimostrato capace d’intuire dove stava andando al mercato, e di farsi trovare pronto.
14
Rileva Ceccagno (1999): “complessivamente, l’arrivo di tanta manodopera dalla Cina e
il tentativo di molti di avviare un’attività in proprio da micro-imprenditori, hanno prodotto
un’esasperazione della concorrenza interna che ha ulteriormente eroso i margini di redditività”,
oltre che portato profonde lacerazioni all’interno del gruppo familiare, sebbene la famiglia resti
ancora “un vantaggio competitivo irrinunciabile della vita dell’emigrazione”.

Bibliografia

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Milano, Franco Angeli.
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Barocci, T., Liberti, S., 2004, Lo stivale meticcio. L’immigrazione in Italia oggi, Roma, Carocci.
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Cremona, R., De Cecco, V., 2009, Miss Little China, Milano, Chiarelettere.
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Documentari

S. Basso, Giallo a Milano, 2009, Produzione La Sarraz Pictures s.r.l, Centro Sperimentale di
Cinematografia Production; in collaborazione con Rai Cinema.
R. Cremona, V. De Cecco, Miss Little China, 2009, VisitorQ.

Sitografia

www.agichina.it
www.associna.it
www.cineresie.info
www.chinaitaly.info
http://ggii.cqu.edu.cn
www.italychina.org
Franco Martina
Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti”.

Nel suo libro su Kant, mettendo a confronto la cultura francese e quella tede-
sca, Lucien Goldmann usò le metafore di ‘sano’ e ‘malato’, desunte da Goethe,
per dire di una società rivolta al suo esterno, attiva e capace di operare; e di
un’altra concentrata sulle sue patologie e perciò bloccata. Con le dovute modifi-
che questa distinzione può essere applicata forse alla discussione in corso intorno
alla figura dell’intellettuale. Pur guardata da un’ottica nazionale, nella discussio-
ne si possono distinguere due ambiti abbastanza chiaramente: quello relativo a
chi lavora alla delegittimazione delle figura stessa dell’intellettuale; e quello che
riflette invece sulla “crisi” che questa figura attraversa ormai dagli ultimi decenni
del secolo scorso.
Il primo ambito non può certo essere circoscritto alla sola realtà italiana, basti
per tutti ricordare il libro di Paul Johnson, Intellectuals, del 1988. Anche se qui
presenta indubbiamente aspetti e articolazioni che rendono la discussione non
solo particolare ma addirittura rilevante in un orizzonte generale.
Il secondo ambito è invece quello che merita maggiore attenzione. Guardare la
figura dell’intellettuale dal punto di vista della “crisi”, obbliga ad interrogarsi sul
senso del passaggio di significato impostogli dalla nuova realtà politico-sociale.
L’eclisse, l’afasia, le tante formule, insomma, con le quali si è richiamata la crisi
della figura dell’intellettuale non rimandano, infatti, ad una sua scomparsa.

1. Anche se, come ha ricordato di recente Umberto Eco (Alfabeta 2, 2010, pp.
3-4) il suo nome acquista un significato sostantivo solo alla fine dell’Ottocento,
la figura dell’intellettuale è in realtà nata con la modernità ed è indissolubilmente
legata ad essa. L’intellettuale nasce insieme all’opinione pubblica, cioè all’interno
di una straordinaria congiuntura che interseca scoperte tecniche e trasformazioni
economico-sociali con una profonda rivoluzione scientifico-filosofica.
Il concetto di modernizzazione va comunque precisato, nel senso che esso
rimanda non solo ad un fenomeno con una precisa collocazione spazio-temporale,
quella dell’Europa tra il XV e il XVIII secolo, ma a un processo che si sviluppata
incessantemente nello spazio e nei caratteri originali, producendo sempre nuovi
e più complessi equilibri. Almeno in questo senso appare plausibile la tesi di Jack
Goody quando sostiene l’idea di una modernizzazione che non è solo uno stadio
Quaderni di comunicazione 11 108

della storia, ma un processo in costante trasformazione con un continuo scam-


bio tra diversi centri: “Ritengo, scrive, che possiamo considerare la crescita della
vita moderna come lo sviluppo a lungo termine di queste grandi ‘costellazioni’, e
dell’interscambio di beni, servizi e idee al loro interno e tra di essi, meglio che se-
condo la classica periodizzazione di antichità, feudalesimo e capitalismo, ‘punteg-
giati’ di rivoluzioni” (Goody, 2005, p. 197). Tuttavia, ammettere che la modernità
muti continuamente il suo orizzonte e il suo baricentro, non comporta di mettere
in discussione né l’enorme potenza di cambiamento prodotta dalla modernizza-
zione originaria, né la sua perdurante importanza ed attualità, se solo essa viene
considerata in tutta la ricchezza delle forme che la costituivano.
Fu infatti in quel contesto che cambiò definitivamente il rapporto tra sapere
e potere, tra cultura e politica. Un rapporto, comunque, complesso, articolato,
contradditorio.
La figura dell’intellettuale è figlia diretta di quella complessità e, se si vuole, di
quelle contraddizioni. La nascita dell’opinione pubblica, rompe le sfere entro cui
erano rispettivamente chiusi sapere e potere, rendendo il rapporto non solo “aper-
to” ma anche libero e quindi incerto dal punto di vista del reciproco dominio.
Un’incertezza dovuta al fatto che la cultura produce un effetto che va all’ester-
no di se stessa.
L’esigenza di un sapere operativo, l’istanza di una cultura comunque utile agli
uomini, presenti sia nella cultura umanistica e rinascimentale, sia nella Rivolu-
zione scientifica che nella Riforma protestante, dovevano rompere la più che
millenaria concezione delle discipline, fissata nell’enciclopedia aristotelica, per
investire non solo la meccanica ma anche l’astronomia, non solo la politica ma
anche la religione. In questo contesto il sapiente non è responsabile solo di fronte
ai principi del suo sapere, ma anche nei confronti di quanti potrebbero subire gli
effetti del suo sapere.

2. La figura dell’intellettuale segue necessariamente la nuova dialettica della


modernità, essa cambia in relazione al modificarsi di precise condizioni economi-
co-sociali e politiche. Ma la sua ‘crisi’, la fase della ‘malattia’, per usare la metafora
di Goldmann, va collocata in un tempo relativamente più recente, quello che
coincide non con il secolo ‘breve’ ma con quello ‘lungo’; non con lo scontro tra
totalitarismi e democrazia, o meglio tra fascismo, comunismo e liberaldemocrazia,
ma con la storia europea a partire dal 1870, quando un nazionalismo aggressivo
avvita l’Europa in un crescendo di violenza tragica che tocca i suoi livelli cata-
strofici con la seconda guerra mondiale e poi, come per effetto di un sortilegio
malefico, apre lo scenario globale di una nuova, più terribile eventualità bellica
con l’unico esito possibile di una distruzione planetaria.
Tanto dolore, tanto sangue non fu l’effetto di forze lontane e estranee, di popoli
rozzi e incivili guidati da dèi crudeli e da astuti sacerdoti. Essi sgorgavano dal
cuore della civiltà occidentale.
Occorreva pure chiedersi perché i due pilastri su cui poggiava l’architrave della
modernità, lavoro e libertà, fossero finiti sul cancello d’ingresso ad Auschwitz.
Interrogativo a cui non si poteva rispondere con le formule del nichilismo e

Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti” 109


dell’irrazionalismo. Così come ancora oggi non ci si può sottrarre dal riflettere
sulle conseguenze scaturite dalla combinazione di colonialismo e antisemitismo
che Leonardo Paggi, seguendo Amos Oz di Contro il fanatismo, definisce come
“le due grandi derive catastrofiche dello Stato nazione dal 1870 al 1945” (Paggi,
2009, p. 72).
In quel punto la pur ferma convinzione del ‘nesso’ tra politica e cultura cambiò
di senso. Fu come se i veleni delle camere a gas, il sangue dei civili innocenti, la
luce abbacinante del sole artificiale distruggessero anche antichi recinti e antiche
certezze. Parlare di purezza della cultura, della sua separatezza, a quel punto, era
semplicemente empio. Si facevano chiari insomma i contorni della nuova “trahi-
son des clercs”.

Non mancò chi avvertì subito l’enormità del pericolo incombente e la portata
della posta in gioco. Con il senno del poi, è impressionante la lucidità del ‘Di-
scorso all’umanità’ che conclude Il grande dittatore (1940) di Chaplin. Né chi
dall’esperienza diretta della guerra fu costretto a modificare radicalmente valori e
visione della realtà, sentendo il dovere di dirlo pubblicamente. Il caso più signifi-
cativo è quello di Ernest Jünger, il cui percorso da Nelle tempeste d’acciaio (1922)
a La pace (1945) è stato efficacemente sottolineato da Leonardo Paggi.

Franco Martina
Ma a simili prese di posizione non seguì una coscienza diffusa, chiara e immedia-
ta; essa invece ha richiesto un processo lungo e faticoso, come dimostra soprattutto
il riconoscimento della portata e dell’importanza della Shoah. Ovviamente il caso
di Primo Levi è centrale. Un processo per altro lontano dall’aver raggiunto risultati
soddisfacenti e che anzi risulta ancora, per molti aspetti, ambiguo e contradditto-
rio. Occorre dire che troppo potente è stato l’effetto di disorientamento prodotto
dalla logica della guerra fredda prima e dell’11 settembre poi: come una tempesta
magnetica sull’ago della bussola. Solo ora quella tempesta sembra allentarsi.

Quindi è possibile chiedersi se quell’enorme esperienza collettiva, il cui senso è


stato per anni come velato, non costituisca una straordinaria risorsa non per recu-
perare una ‘memoria’, quanto per ricostruire la storia effettuale, nella quale sola è
contenuto il senso della realtà che abbiamo vissuto e che ci può ancora aiutare ad
affrontare le sfide straordinarie che abbiamo di fronte.

Un contributo importante in questa direzione lo offre il bel libro di Leonardo


Paggi. Pur costruito con l’obiettivo di rintracciare nel “popolo dei morti”, secon-
do l’espressione di Piero Calamandrei, cioè nel contributo di sangue, e nella pur
limitata consapevolezza politica che ne derivò, il fondamento vero della Repubbli-
ca, il lavoro di Paggi va ben oltre l’orizzonte italiano. Esso infatti riguarda una più
generale convinzione: che la guerra abbia rappresentato la più importante frattura
nella coscienza politica europea, al di là della pur decisiva contrapposizione tra
fascismo e antifascismo. Un’esperienza collettiva tanto più rilevante perché effetto
di esperienze personali dirette e perciò fortissime.
Paggi costruisce la sua argomentazione oltre che su fonti storico-archivistiche
anche su quelle letterarie, cioè sulla coscienza riflessa di quanti vissero quell’espe-
rienza. Più esattamente egli usa la poesia come testimonianza che fa emergere ciò
Quaderni di comunicazione 11 110

che nessun documento d’archivio può: i riflessi nella coscienza individuale degli
eventi vissuti.
Paggi si serve della nozione heideggeriana di ‘pensiero rammemorante’ per in-
dicare l’orizzonte attivo e propositivo che la parola poetica riesce a dare al ricordo
del passato. Non solo Montale e Calamandrei, ma anche Sereni e Saba consento-
no di far emergere una condizione diffusissima che tuttavia, per usare un’espres-
sione facile, non trovava cittadinanza. A proposito di Sereni, Umberto Saba usò
la formula di “ebrei esclusi”, per denotare la condizione esistenziale di chi avendo
vissuto una catastrofe non si vedeva ‘riconosciuto’. Era la condizione di quella che
Sereni definì la “gioventù in malora”, quella “esclusa dal futuro”.

3. Non si può porre l’interrogativo sull’importanza che ancora può avere la


figura dell’intellettuale se non collocandolo sullo sfondo di questi problemi,
maturando una più esatta coscienza della storia europea tra la fine dell’Otto e la
prima metà del Novecento. Sicché quella rilevanza emerge in tutta la sua nettezza,
accompagnata però da due consapevolezze. La prima è quella di non concedere
alla politica (al potere) il monopolio della gestione e soluzione dei problemi, tanto
globali quanto locali. Su questo punto è sempre bene avere presenti le parole di
Norberto Bobbio:

Non si tratta…di respingere la politica, ma si tratta…di trascenderla continua-


mente, pur riconoscendone la funzione indispensabile. Le idee senza forza, lo
so, sono fantasmi. Ma anche i fantasmi hanno talora la loro forza. ‘Un fantasma
si aggira per l’Europa’: chi lo ha dimenticato? E perché non ricordare quel re
barbaro che sul letto di morte continuava a ripetere: ‘Ci sono cinquanta giusti che
mi impediscono di dormire’? La forza è tanto necessaria che senza quel processo
di monopolizzazione della forza in cui consiste lo Stato, le società umane, almeno
sino ad ora, non potrebbero sopravvivere…Il primo compito degli intellettuali
dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il
monopolio della verità. (Bobbio, 1993, p. 125).

La seconda consapevolezza comporta di non perdere mai di vista dietro la


potenza della tecnica l’enorme rilevanza etica delle sue applicazioni. Non occorre
essere d’accordo con tutte le sue conclusioni per riconoscere la validità del quadro
problematico che Aldo Schiavone ha posto alla base del suo Storia e Destino
(2007). Riflettendo sulla formidabile ‘rivoluzione’ che stiamo vivendo, egli osser-
va: ”prima ancora che di politica, la rivoluzione della tecnica ha bisogno di etica.
Di storia attraversata da disciplinamento morale” (Ivi, p. 89) e poco prima aveva
osservato: ”abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, costruttore di una raziona-
lità integrata e globale al passo con le nostre responsabilità” (Ivi, p. 81).
Dopo la guerra del Golfo, mentre negli Stati Uniti la figura dell’intellettuale
ascillava tra il modello trionfale che proclamava ‘The End of History’ e quello
catastrofista che invece poneva l’interrogativo su una prossima ventura ‘Clash of
Civizations’, Edward Said avviò una riflessione sul dovere dell’intellettuale come
coscienza critica dalla politica e della società, non mancando di dare un esempio

Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti” 111


con un giudizio diretto:

Durante la recente Guerra del Golfo contro l’Iraq, non era facile ricordare ai cittadini
che gli Stati Uniti non erano una potenza innocente o disinteressata… né che si erano
autoconferiti il mandato di poliziotti del mondo. Eppure in quel momento quello era
principalmente il compito che spettava all’intellettuale: dissotterrare ciò che era stato
dimenticato, ripristinare i collegamenti che venivano negati, mettere in luce modalità di
intervento alternative che avrebbero potuto evitare la guerra e l’inevitabile conseguente
obbiettivo di distruggere vite umane (Said, 1994, p. 36).

In polemica diretta con Lyotard, egli individua il fine ultimo dell’attività in-
tellettuale nella promozione della libertà e della conoscenza (Ivi, p. 32), per poi
fissare con nettezza alcune sue caratteristiche di fondo che vale la pena ricordare
per intero:

Caratteristica prima dell’intellettuale…è il fatto di essere una persona capace di rappre-


sentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una
filosofia o una convinzione di fronte a un pubblico e per un pubblico. Questo ruolo è
un’arma a doppio taglio. È indispensabile, per tanto, che non venga mai meno la consa-
pevolezza di essere qualcuno la cui funzione è di sollevare pubblicamente questioni pro-
vocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi (e non di generarli), di non lasciarsi facilmente

Franco Martina
cooptare da governi o imprese, di trovare la propria ragion d’essere nel fatto di rappre-
sentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate oppure censurate.
Questo modo di agire dell’intellettuale si fonda su principi universali: tutti gli esseri
umani hanno il diritto di aspettarsi dai poteri secolari o dallo stato modelli di comporta-
mento dignitosi in fatto di libertà e di giustizia; la violazione deliberata o involontaria di
tale diritto va denunciata e combattuta con coraggio (Ivi, p. 26).

4. Una riflessione sulla figura dell’intellet-


tuale non può prescindere dalla grande lezione
di Eugenio Garin. È quanto riconoscono due
recenti libri che, direttamente o indirettamen-
te, trattano il tema. Uno è di Michela Nacci,
Storia culturale della Repubblica, e l’altro una
impegnativa Intervista sugli intellettuali data da
Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Bisogna
partire dal fatto che Garin riprende la convin-
zione crociana della “separazione impossibile”
tra politica e cultura, intendendola però in sen-
so profondamente diverso. In generale, porre
in relazione i due termini significava negare il
presupposto di una cultura intesa come dimen-
sione separata dalla vita; significava, insomma,
riconoscere negli uomini la radice prima e
ineludibile della cultura stessa, dello Spirito.
Ma quando Croce pone come fondamentale
E. Garin
il rapporto tra la cultura e gli uomini, egli pensa
soprattutto alla cultura, perché ha in se stessa la sua ragion d’essere. Mentre Garin
Quaderni di comunicazione 11 112

pensa soprattutto agli uomini.


Occorre partire da questa fondamentale differenza per comprendere meglio
come alla base del monumentale lavoro storiografico di Garin ci sia non tanto una
valutazione metodologica, quanto una vera e propria filosofia, ossia una generale
visione della vita, analoga a quella che egli aveva messa in evidenza per Machiavel-
li, per Leonardo, per Galilei o per l’Alberti.
Garin vede, come altri, in Croce un modello intellettuale, reso tanto più
affascinante dalla visione tragica della vita, totalmente priva di quelle pulsioni
mistiche che si intuivano nel pensiero di Gentile. Ma quella figura era terribil-
mente segnata dal tempo. Croce non volle riconoscere l’emergere delle forme
di soggettività di massa; non poteva concepire una soggettività diversa da
quella individuale; né poteva accettare ciò che essa postulava: ossia una filo-
sofia della storia in grado di spingere quel “noi” verso una meta. La tragicità
della sua figura intellettuale era proprio lì: nella consapevolezza, da un lato,
del fallimento del liberalismo storico di farsi forza politica di emancipazione
all’altezza di questa nuova realtà e, dall’altro, dell’emergere di forze nuove
che egli sentiva come potente veicolo di irrazionalità e quindi come potenziale
strumento dell’irrazionalismo. Per Croce l’intellettuale è colui che deve attra-
versare questo passaggio storico non testimoniando i propri convincimenti ma
combattendo per la verità e per la sua vittoria. Per Croce, insomma, l’intellet-
tuale non è il sacerdote della verità, ma uomo tra gli uomini che si batte per la
libertà. Questo il suo lascito, dopo l’esperienza fascista, questa la sua perduran-
te attualità. Poggiava su questa convinzione l’affermazione della “separazione
impossibile” di politica e cultura.
Questo stesso convincimento ha in Garin tutt’altra motivazione. Egli sentì e
fu coinvolto dalle speranze e, in parte, dalle passioni del “Secolo breve”, ma è
riduttivo e sbagliato leggere il suo contributo alla cultura italiana in quest’unica
direzione, fino a ridurlo a “mandarino della sinistra”, come ebbe a definirlo uno
storico alla moda. Garin non condivise la chiusura nei confronti delle masse, nel
senso che non considerò la loro richiesta di soggettività come un cedimento o
come una pericolosa avventura, bensì come un dovere connaturato alla cultura, il
cui carattere universalistico si contraddice quando si chiude all’uomo, in tutte le
sue dimensioni; non negò l’importanza di organizzazioni e strutture che potenzino
la soggettività. Ma ciò non comportò alcuna adesione alla teoria e, men che mai,
alla pratica dell’intellettuale collettivo. Michela Nacci osserva l’intima contraddit-
torietà tra la presunta vocazione universalistica dell’intellettuale (della cultura) e il
suo impegno (politica). Ma questo non è un problema che riguarda Garin, quanto
la stessa figura dell’intellettuale, come si è cercato di dire. La lezione più signifi-
cativa su questo punto, egli l’ha data ricostruendo la storia di una cultura, in gran
parte italiana, che ha sempre, coerente con il ‘suo’ umanesimo, un orizzonte civile
e politico. Una concezione della cultura ha il suo punto di forza non nella logica,
quanto nella capacità di reggere l’urto implacabile di forze potentissime che, in
forme e tempi diversi, hanno un unico obiettivo, quello di tenere sotto scacco la
ragione.
Ciò su cui invece occorrerebbe riflettere, proprio partendo dal rapporto di un

Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti” 113


uomo come Garin con il PCI in particolare, riguarda il tema della famosa egemo-
nia della cultura di sinistra e, più precisamente, di quella di matrice marxista.
Che nel secondo dopoguerra in Italia ci sia stata un’egemonia ‘comunista’ cioè
della cultura riconducibile al marxismo si può considerare un dato di fatto. Ciò
non vuol dire che non ci fossero altre e più forti proposte e prospettive culturali
dal punto di vista quantitativo. Ma fu soprattutto sul versante marxista che la di-
mensione culturale assunse una vitalità capace di trainare il dibattito e di sviluppa-
re la ricerca. Senza tuttavia negare tendenze, acuitesi soprattutto a partire dai tardi
anni Sessanta ad una autoreferenzialità della discussione che si tradusse in una
sorta di scolastica marxista.
Una distinzione tra propaganda ed egemonia è centrale per sottrarre il tema alla
polemica che lo riduce a solo effetto dell’astuta politica culturale togliattiana e per
riconoscerlo come un momento della nostra storia, non solo culturale, di cui occor-
re ancora descrivere i contorni precisi e definire il significato storico. Una prospet-
tiva egemonica vive e si alimenta non solo di una profonda discussione interna,
che di fatto ne costituisce la fonte propulsiva, ma anche nel confronto con altre
diverse o contrapposte prospettive. Perciò una politica egemonica non solo si deve
tradurre in un generale arricchimento culturale, cioè universalmente valido, ma
deve poter produrre cambiamenti politici. Il posto di Garin nel dibattito egemoni-

Franco Martina
co della sinistra va collocato in quest’ottica, a partire dalla recensione di Roderigo
di Castiglia alle Cronache di filosofia italiana, passando per il secondo convegno di
studi gramsciani del 1967 e finendo ai suoi interventi sulla morte del PCI.

Stimolato da Simonetta Fiori a un confronto con Garin che si era prestato a


un’analoga ‘intervista’ più di un decennio prima, Asor Rosa esce in un giudizio
preciso:

Con Garin…siamo stati testimoni delle ultime manifestazioni di un’opera intellettuale


fondata sul presupposto che la storia avesse un senso, che si potesse influire su quel
senso o, ammesso che quel senso fosse perduto o lacerato, occorresse lavorare per
ridefinirlo. Tutto questo non esiste più. Ecco, forse bisogna partire da qui. Capire cosa
è stato l’intellettuale occidentale nel corso di due secoli, e quali colossali cambiamenti
siano intervenuti in questi ultimi decenni (cit. p. 6).

Sarebbe del tutto improbabile, anche a uno studioso della statura di Asor Rosa,
dimostrare l’esistenza di una qualunque filosofia della storia correlata in qualche
modo al lavoro storico di Garin. Su questo punto, anzi, si può dire che egli era
perfettamente d’accordo con Croce.
Ma il fatto di non credere che la realtà e la storia abbiano una razionalità e un
senso propri, non vuol dire che l’uomo non abbia bisogno di dare razionalità alla
realtà e senso alla storia. In una passaggio della Critica del Giudizio in cui Kant af-
fronta il problema della finalità della natura, si può leggere una pagina utile, forse,
anche al di fuori del preciso ragionamento che sorregge:

Come l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza, e quindi una facoltà di porsi
volontariamente degli scopi, egli è, in verità, il ben titolato signore della natura; e, se
questa si considera come un sistema teleologico, egli ne è, per la sua destinazione, lo
Quaderni di comunicazione 11 114

scopo ultimo; ma sempre condizionatamente, cioè a condizione che sappia e voglia dare
alla natura e a se stesso una finalità sufficiente per se stessa e indipendente dalla natura
e che quindi possa essere uno scopo finale, il quale però non deve essere cercato nella
natura (Kant, 1970, p. 307).

Certo, se la storia rappresenta un “onnivoro presente”che si muove senza


avanzare in una dimensione ‘liquida’, allora non c’è alcuna possibilità per il lavoro
dell’intellettuale, perché la leva che egli adopera, la critica come strumento che
gli consente di incidere sulla realtà per modificarla, non può essere usata, è inutile
non solo perché manca ‘l’oggetto’ su cui poggiarla, ma anche la possibilità di sa-
pere che cosa è ‘avanti’ e ‘dietro’. La piena realizzazione dell’annuncio dell’uomo
folle si traduce di fatto nella piena legittimazione di quegli atteggiamenti minima-
listi di cui c’è ampia varietà nel nostro presente.
Ma Garin si muoveva su una linea completamente diversa. Quando dice che
compito dell’intellettuale è quello di dire la verità, non pensa certo all’algida verità
della scienza né a quella infuocata dell’ideologia, bensì alla verità emersa dalla
catastrofe della storia novecentesca. Egli delineò una figura di intellettuale che
non è un incantatore di serpenti, un sapiente interprete dei fatti. La sua ricerca
della verità non poggia sulla volontà, ma sulla filologia, sulla storia, e, poi, secondo
l’insegnamento socratico, sul dialogo, cioè sul confronto razionale in un orizzonte
di apertura. Tradotta dalla filosofia alla politica, quella lezione doveva portare alla
dialettica, negata da Croce, di libertà e democrazia: la libertà che non si può affer-
mare senza generare conflitti, e la democrazia come solo metodo che compone i
conflitti pacificamente senza conculcare le libertà.

5. L’affermazione di Heidegger, contenuta in quella ultima intervista conside-


rata il suo testamento intellettuale, secondo la quale “solo un dio ci può salvare”,
aveva probabilmente una sua verità. La formidabile esperienza della guerra, e di
ciò che seguì, non sarà un ‘passato’, cioè oggetto di memoria soggettiva, solo se,
continuando un cammino intrapreso, il suo insegnamento diventerà il fondamento
di una nuova religio, cioè di una verità condivisa alla quale non siamo arrivati né
per via di ragione né per via di fede, bensì attraverso l’esperienza diretta di una
catastrofe che ha sommerso milioni di uomini al di là di ogni convincimento cul-
turale. Il dovere dell’impegno della cultura scaturisce dal “popolo dei morti” e si
deve legittimare esclusivamente in quello che Kant chiamava Gemeinsinn (‘sensus
communis’), opinione pubblica. Resistendo al fascino consolatorio delle ‘vergini
idee’ e al lezzo dei ‘non casti appetiti’.
Trasferire quell’esperienza particolare in insegnamento universale è la ’missio-
ne’ dell’intellettuale: quello è il ‘dio’ che ci può salvare. Se è vero che un dio è tale
solo perché è sentito”in interiore homine”. E solo gli intellettuali possono fare di
una verità universale una coscienza diffusa, una religio appunto.
Intellettuali. Tra “vergini idee” e “non sempre casti appetiti” 115
Bibliografia

Asor Rosa, A., 2009, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori,
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Bobbio, N., 1993, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, La
Nuova Italia, Firenze.
Eco, U., 2010, «Alfabeta2», Alfabeto per gli intellettuali disorganici, n.1.
Garin, E., 1974, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma.
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pa Verlag, Zürich; tr. it., 1972, Introduzione a Kant. Uomo, comunità e mondo nella filosofia
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Goody, J., 2004, Capitalism and Modernity. The Great Debate, Wiley & Sons Ltd., New York;
tr. it., 2005, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito, Cortina Editore, Milano.
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la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995.
Schiavone, A., 2007, Storia e destino, Einaudi, Torino.

Franco Martina

Vicini e lontani
Reset
Daniele Lamuraglia
Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali)

Il nuovo è uno di quei veleni eccitanti che finiscono per essere più
necessari di qualsiasi nutrimento; succede che, una volta impadro-
nitisi di noi, sentiamo il bisogno di aumentarne sempre la dose e
renderla mortale fino alla pena di morte. È strano attaccarsi così
alla parte deperibile delle cose, che è esattamente la loro qualità di
essere nuove. Voi non sapete dunque che bisogna dare alle idee più
nuove, non so quale certa aria di essere nobili, non affrettate, ma
maturate; non insolite, ma esistenti da secoli; e non fatte e ritrovate
questa mattina, ma soltanto dimenticate e ritrovate.
Paul Valéry

Per trovare un’immagine capace di rappresentare lo stato attuale del nostro


universo linguistico, non c’è bisogno di andare molto lontano. Basta lasciarsi an-
dare al flusso ininterrotto di pubblicità-desideri che tappezza le pareti del nostro
labirinto quotidiano, e ci si ritrova ai Grandi Magazzini, nella pancia del gigante, a
rovistare tra i rimasugli ben confezionati della sua digestione.
Le ultime generazioni di occidentali hanno vissuto un passaggio epocale:
dall’acquisto di beni di prima necessità nel negozio, all’acquisto di beni di consu-
mo nel supermercato. La pulsione d’acquisto, trasferitasi dalla necessità al con-
sumo, correlata al trasloco dei beni dal negozio al supermercato, è un’analogia
proporzionata a ciò che è accaduto al linguaggio.
Le frasi del nostro idioma si erano adattate alla dimensione del negozio, a quel-
le geometrie fisiche e psicologiche che disegnavano il dialogo tra chi vendeva e chi
comprava: la linea del marciapiede, il perimetro del quartiere, l’altezza delle case,
la circonferenza delle mura della città.
Le parole sono anche la misura delle cose: hanno un’estensione relativa alle
esperienze che abbiamo vissuto o conosciuto. Ogni parola richiama dal serbatoio
della memoria un’immagine, che ha la sua collocazione nel tempo ma anche la sua
disposizione in uno spazio.
La sensazione che molti oggi percepiscono dell’attuale universo comunicativo è
simile a quella dell’inesperto avventore del grande magazzino che, non trovando il
bancone del proprio negozio, né il rassicurante volto del negoziante, subisce una
sorta di stupefacente stordimento: travolto dal sovrapporsi rumoroso di un insie-
me di suoni, voci, luci, colori, ne avverte per un attimo qualche singolarità, ma
per venir subito distratto da un altro schiamazzante richiamo, ben presto anche
quello disatteso dal successivo, senza riuscir più, alla fine, a distinguere l’una cosa
dall’altra.
Nell’ipermercato della comunicazione il cliente maturo cerca di comprare un
segno e si perde; il giovane cliente vuol perdersi e viene comprato da un segno.
Nessuno dei due sa leggere: il maturo perché non ritrova i segni del negozio, il
giovane perché non ha avuto il tempo per conoscerli. Entrambi non dispongono
di un adeguato sistema d’interpretazione dei segni.
Pretia rerum imponere, dicevano gli stoici: imporre un prezzo alle cose. Il
Quaderni di comunicazione 11 120

prezzo non lo deve decidere il venditore, ma l’acquirente. Distinguere una cosa


dall’altra, una parola dall’altra, e attribuire ad ognuna dei valori. L’applicazione di
questa filosofia sovvertirebbe le regole del mondo.
Nell’apparente frastuono dei messaggi contemporanei, indisturbato per l’as-
senza di decodificatori e quindi libero di travolgere in un unico destino mittenti e
riceventi, chi decide quali parole valgono di più e debbano avere un peso maggio-
re di altre?
Alla Politica non crede più nessuno da anni, le scelte elettorali si fanno sulla
base di un calcolo tra le promesse dei candidati e il proprio tornaconto personale.
L’Economia ha smesso di dettare la verità assoluta dopo una crisi globale che
l’ha mostrata talmente inattendibile razionalmente da rivelarsi nient’altro che una
delle forme attraverso le quali si manifestano le religioni.
I movimenti critici, antagonisti, alternativi, decimati da decenni di sconfitte
e da un sistema che ha continuato imperterrito a moltiplicare i prodotti che gli
venivano contestati, sta scomparendo in piccoli comitati di quartiere, divisi a loro
volta dai personalismi che una radicale purezza ideale impone ai suoi ultimi agitati
epigoni.
La filosofia del Successo come sta? Trova ancora moltissimi candidati al sa-
crificio sull’altare del nulla, condito dalle mille possibilità della “bella vita”, ma
provoca anche molti disagi, pentimenti, angosce, insicurezze, solitudini, nevrosi.
E dunque, un interprete dei segni dove deve guardare per trovare qualcuno o
qualcosa che rappresenti la Verità, dove può trovare un emittente di segnali che
non venga contestato da nessuno o quasi? Potremmo dedicarci all’individuazione
di una lista di parole-mana che fioriscono momentaneamente al di sopra delle altre
ad indicare la via della saggezza.
Per ora limitiamoci ad analizzare il caso di una rivista che è riuscita nell’impresa
di apparire saggia, e dunque vincente, nel bailamme mediatico della nostra società.
Si tratta di Wired, un mensile che porta un promettente sottotitolo: “storie idee e
persone che cambiano il mondo”. La rivista ha da alcuni mesi un’edizione italia-
na, scaturita dal modello originario statunitense (sarebbe stata poco credibile e
soprattutto poco vincente una provenienza diversa).
Ogni mese, con circa 150 pagine patinate, ci viene insegnato come e chi cambia
il mondo. Il primo forte e chiaro messaggio è perciò in copertina: si può essere
ignoranti su tutto, ma non su come cambia e come fa chi cambia il mondo. Nes-
suno vuol rimanere all’oscuro sugli stravolgimenti epocali che si svolgono men-
silmente, benché il mio fornaio (che però non legge Wired) afferma di non aver
notato ancora mutamenti significativi né nel nostro quartiere, né dal telegiornale.
Ma tranne il mio fornaio e per adesso la maggioranza della popolazione del
paese, questa rivista la si può vedere sottobraccio ad alcune tipologie di persone
che rappresentano la punta avanzata della nostra società. O perlomeno loro si
percepiscono così, ed il possesso della rivista non fa che dargliene la conferma, un
po’ come il cane che si morde la coda.
Lo studente universitario informato, il manager in carriera, l’avvocato dei diritti
civili, l’assessore alla cultura, il grafico del web, il professore di liceo, l’artista
creativo, il precario in attesa di esplodere, tutti sono connessi a questa rivista. La
parola wired vuol dire infatti “collegati”, e col tempo ha preso il significato di

Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali) 121


essere attaccati ad una macchina, ad una tecnologia sempre rinnovata dalla quale
bisogna farsi condurre:

Get Wired, quindi: comprate Wired, ma non solo, siate nervosi, attenti, sempre eccitati,
non perdete mai il colpo. Pensate sempre che state vivendo un’epoca di eccezionale
cambiamento, l’era della velocità, anzi dell’accelerazione dell’innovazione. Tutta la vo-
stra vita è un continuo e tumultuoso emergere del nuovo, tutto ciò crea uno stile, anche
se forse non un’identità1.

Peccato per l’identità, tuttavia, come semplici interpreti di segni, e quindi fuori
da ogni resoconto morale, possiamo dare per probabile che questo nucleo di per-
sone, che non necessariamente rappresentano i valori migliori, detengano le chiavi
d’accesso alla società futura. Possiamo dirlo perché il nostro punto di vista non
prevede – come accade per loro – che il nuovo corrisponda al bene.
Ecco una parola-mana utilizzata come cavallo di troia dagli intrepidi giornalisti
di Wired: il Nuovo. È dall’Illuminismo che questo termine supera tutti i naufragi

Daniele Lamuraglia
delle varie ideologie che si sono succedute nel tormentato oceano dell’Occiden-
te. Nonostante il Decadentismo, l’Espressionismo, l’Esistenzialismo, gli stermini
razziali ed etnici, i milioni di morti per fame che aumentano ogni anno dal dopo-
guerra a oggi, nessuno è stato in grado di togliere dalla testa di alcune persone la
massima che recita: tutto ciò che è nuovo fa bene.
Il padre spirituale della rivista, il direttore che ha creato Wired U.S.A., lo sa, e
ci illumina chiaramente sui fondamenti della sua missione:

Ai nostri autori chiediamo di stupirci, di dirci cose che non abbiamo mai visto in un
modo che non abbiamo mai sentito, di mettere alla prova le nostre convinzioni. Questa
rivista è destinata a coloro che cercano la nuova anima di questa società in piena trasfor-
mazione2.

Dite qualunque cosa, ma che sia nuova – dice Rossetto. E magari aggiungeteci
qualche parola come anima, che funziona dal IV secolo avanti Cristo.
Se vogliamo scoprire qual è la cosa più nuova che esista, e dunque qual è il mi-
gliore dei mondi possibili, non c’è bisogno di scomodare dalla tomba il simpatico
Pangloss, ma è sufficiente leggere il direttore di Wired Italia, Riccardo Luna:

È l’alba di un nuovo mondo, di una nuova Italia. Se alziamo lo sguardo possiamo già
scorgerne i confini. E i futuri leader. Hanno meno di 24 anni, sono uno diverso dall’al-
tro, hanno paure e speranze spesso contraddittorie. Vorrebbero cambiare tutto ma
si muovono con una prudenza che è già diffidenza; sono affascinati dal progresso ma
pretendono di soppesare prima attentamente i rischi delle nuove tecnologie, senza de-
leghe in bianco a nessuno, nemmeno agli scienziati. Vorrebbero che a decidere fossero
piuttosto ciascuno di loro e tutti assieme. I cittadini: questa è democrazia diretta […]
In nessuna altra generazione questo sentimento è così forte, così netto. Se gli chiedete a
cosa non potrebbero mai rinunciare per una settimana loro, gli under 24, non avreb-
bero dubbi. E scarterebbero la televisione, il cinema, la musica, i libri, i giornali e lo
sport. Praticamente tutto, ma la rete no. A loro basta essere connessi. Dai 25 anni in
su, nessun altro lo fa in Italia. Nessuno. È il mondo che conosciamo alla rovescia. Non
è una distinzione. È una rivoluzione culturale. Per i più giovani internet non è solo man-
dare una mail o pagare una bolletta. È molto più di condividere dei byte. Quei files che
Quaderni di comunicazione 11 122

cercano e si scambiano ogni giorno sono idee, passioni, progetti. Cose da fare assieme,
per divertirsi certo ma anche per vivere un giorno in un mondo migliore. Perché la rete
non è un passatempo per adolescenti ma la più grande piattaforma tecnologica che
l’umanità abbia mai avuto […] È un fatto generazionale, fra chi ha capito le potenzia-
lità della Rete e chi no. Ne sentiremo parlare di questa generazione. Cambierà il nostro
futuro. In meglio.3

Quindi Riccardo Luna inaugura una campagna d’opinione per consegnare il


Premio Nobel a Internet:

[…] Vorrei che internet vincesse il premio Nobel per la pace del 2010 […] Internet
in quanto rete di persone che si parlano, internet in quanto più grande piattaforma di
comunicazione che l’umanità abbia mai avuto, internet perché abbatte i muri, rafforza
la democrazia, perché ci fa parlare e quando ci parliamo ci scopriamo meno diversi.
Non più nemici […]4

Quando Gutenberg inventò la stampa non esisteva il Premio Nobel ma, esclu-
dendo qualche esaltato fondamentalista, nessuno profetizzò che da quel momento
sarebbe cominciata un’era di pace. Non c’erano giornalisti che ritenevano una
comunicazione tecnicamente più diffusa sinonimo di un miglior rapporto tra
gli esseri umani. Incontrare più persone non induce automaticamente all’affetto
reciproco. Mi pare che già nel IV secolo a.C. l’avessero detto, e senza aver potuto
constatare quanti scambi di armi, droga, organi, prostituzione, pedofilia, terrori-
smo, si sono moltiplicati grazie a internet.

La rivista Wired, edita in Italia dalla Condé Nast, che annovera nel suo cata-
logo anche Vogue, Glamour, Vanity Fair, L’Uomo, Io Sposa, oltre all’appassionata
battaglia per il Premio Nobel, in questi mesi del 2010 ci sta illuminando con una
sequenza di idee che cambiano il mondo. A Gennaio scopre il motore a impatto
zero (o quasi: -90% di emissioni) grazie ai cavalieri-managers del Santo Graal
della Fiat; a Febbraio “diamo retta a Netsukuku”, ovvero ad Andrea Lo Pumo,
un ragazzo di 22 anni che ha progettato una nuova internet democratica che ci
garantisce “una rivoluzione per l’Unità d’Italia” (e gratis! Alla faccia di Giuseppe
Mazzini, sempre alla ricerca di finanziatori); a Marzo ci rivela “come salvare le
fabbriche? Demolitele e ricostruitele così” (le istruzioni a pag. 58, per i dettagli
chattare su Facebook con Renzo Piano, prima chiedere l’amicizia); ad Aprile
veniamo travolti da un’altra notizia sconvolgente, ovvero “Così la generazione Y
prepara la rivoluzione” (ce n’è una al mese, da capogiro, da tornare punto a capo)
grazie a una scuola per blogger situata clandestinamente a Cuba; a Maggio niente
rivoluzione, ma addirittura si azzera tutto perché “Arriva l’iPAD, tabula rasa: così
la tecnologia facile ci migliorerà la vita”; a Giugno ci sono i Mondiali e grazie a
loro abbiamo “Il calcio e la ricerca della perfezione”, perché grazie allo scanner
del wired lab sapremo se “super atleti si nasce?”; a Luglio un’altra rivoluzione,
post-Copernicana, perché Wired manda in soffitta il Sole, astro troppo anziano e
disconnesso, e quindi “i vecchi pannelli solari? Rottamiamoli – Rivoluzione ener-
gia pulita: arriva la chimica”.
Dopo tutte queste rivoluzioni che hanno radicalmente trasformato la nostra

Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali) 123


vita, ci disconnettiamo un pochino, e ci riposiamo. Facciamo qualche passo in-
dietro per approfondire un articolo emblematico della rivista, che può darci delle
indicazioni sulla logica che regola questa nuova filosofia, o vecchia religione: a
seconda dei punti di vista.
Il direttore di Wired Italia, nominato a questa prestigiosa carica dopo quattro
anni di conduzione della rivista “Il Romanista”, uno dei giornali sui quali si docu-
mentano i tifosi della squadra di calcio della Roma (se l’informazione è esatta, ma
derivandomi da internet la devo dare per migliore possibile), nel numero di otto-
bre 2009 ci presenta in copertina, con i toni entusiasti dell’ultras, il suo Galateo, il
manuale di comportamento per il Popolo Connesso. Come testimonial di questa
nuova tavola delle leggi troviamo una grande foto di Brad Pitt. Una di queste voci
si occupa di quel linguaggio di comunicazione che si chiama sms (short message
service), ovvero i messaggini dei cellulari. Sarà costato molto alla rivista occuparsi
di qualcosa che per i loro ritmi frenetici appartiene al secolo scorso, dato che i
messaggini hanno cominciato a essere inviati già dal lontanissimo 1993. Tuttavia

Daniele Lamuraglia
ora siamo al nuovissimo Galateo, che inevitabilmente traduce gli articoli da scrit-
tori americani (quando si tratta di cambiamenti epocali e norme morali non si può
rischiare di sbagliare).
Nel caso degli sms, a volerci trasmettere un itinerario eticamente corretto è
Christopher Null, che si presenta con un curriculum di tutto rispetto5. Seguia-
molo per un tratto in un suo articolo dal titolo Puoi mandare sms anche se sei in
compagnia, apparso su Wired, nell’edizione italiana dell’ottobre 2009.
Scrive Null:

Per i più tradizionalisti mandare sms in presenza di qualcuno è da maleducati. Ma è


vero? Osserva gli adolescenti di oggi, esempi comportamentali dell’era futura... Per loro,
messaggiare mentre si è in compagnia è una cosa del tutto normale. Anzi... Gli antropologi
culturali che hanno analizzato il fenomeno sms tra gli adolescenti concordano che non si
tratta solo di una gratificazione immediata. Secondo Mimi Ito, esperta di usi e costumi
telefonici tra i teenager giapponesi, mandare sms a persone che non sono presenti in un
dato momento fa sentire ognuno di noi parte di una rete sociale più estesa. Molti non
fanno distinzione tra la socializzazione che avviene di persona o tramite cellulare. I modi
adolescenziali sono raramente un modello comportamentale, ma in questo caso sono lo
specchio di un enorme divario tecnologico. Siamo di fronte alla prima generazione cresciu-
ta con il cellulare in mano. Che vi piaccia o no, il modo dei ragazzi di usare gli sms presto
sarà la norma. Quindi, ecco la nuova “regola del pollice” per cultori dell’sms: sentiti libero
di messaggiare mentre parli o ceni con gli amici, ma solo se stai cercando di coinvolgere
qualcuno che non è lì con voi. Se ciò che ti spinge a farlo è escludere le persone con cui sei
uscito, sai già la risposta. I luoghi pubblici – con persone sconosciute – pongono un altro
tipo di problema. È nella natura dell’adolescente messaggiare con l’amica del cuore nel bel
mezzo del film («Oddio, è stato ucciso!»), ma il display dei cellulari distrae le persone che
ti stanno intorno. In questo senso, messaggiare può essere paragonato al fumare in pubbli-
co: stai dando davvero fastidio alle persone intorno a te? Se la risposta è sì, giù le dita.

Il comandamento è emanato nel titolo: nessuno ti potrà condannare se mandi


un sms mentre sei in compagnia. Angosciati da questo dubbio morale, Null ce
ne libera d’un colpo e per sempre (o almeno fino al prossimo Galateo, perché
tutto invecchia rapidamente e c’è bisogno di nuovo). Su quale logica si basa la sua
morale lo possiamo vedere dall’articolo. Si comincia stigmatizzando la categoria
Quaderni di comunicazione 11 124

per eccellenza nemica dei connessi: i tradizionalisti. I disconnessi sono quelli legati
ai valori antichi, alle tradizioni. Basta prendere una loro norma etica ed avremo
certamente un errore da rovesciare per trovare la verità. Ciò che i tradizionalisti
definiscono “maleducazione”, non può che essere “buona educazione” per i pala-
dini del nuovo. Ecco inaugurata la luminosa logica. A questo punto la riflessione
si fa sottile: se nella linea progressiva del tempo si trovano indietro i tradizionalisti,
e nel Presente Connesso i wired, chi ci può essere avanti, nel segno del futuro?
Naturalmente gli “adolescenti”, esempi comportamentali del futuro. Più nuovi di
loro non c’e nessuno. I “bambini” non hanno ancora un’esistenza sociale ed un
profilo morale, poiché ancora non sono connessi alle tecnologie (restano in attesa:
in download). Il rapporto dei wired con gli adolescenti è drammatico, poiché
sono gli unici che da un momento all’altro (il tempo è sempre veloce, brevissimo)
potrebbero spodestarli dalla vetta del mondo. Gli adolescenti incutono sentimenti
contrapposti di ammirazione e timore, ed è necessario “monitorarli” costantemen-
te. Sicuramente indicano qualche nuova via che sta per esplodere e potrebbe co-
stare la condizione di non esserne al corrente: la massima digrazia per un connesso.
Intanto, osservandoli attentamente, Null scopre che per gli adolescenti “messag-
giare mentre si è in compagnia è una cosa del tutto normale”. Tuttavia non si accon-
tenta di un dato sperimentale, ma sente la necessità di un supporto scientifico. Si
appoggia allora agli studi di “antropologi culturali” (in questo caso per la sua sere-
nità è sufficiente citare la qualifica professionale), e soprattutto alle indagini di Mimi
Ito, la quale viene definita “esperta di usi e costumi telefonici tra i teenager giappo-
nesi”. “Giappone” è un’altra parola-mana che indica più o meno “futuro”, e “usi
e costumi” è una derivazione etimologica della parola “etica”. Secondo l’esperta di
etica telefonica, per i teenager giapponesi (esiste forse categoria più meravigliosa e
minacciosa per i wired?) “mandare sms a persone che non sono presenti in un dato
momento fa sentire ognuno di noi parte di una rete sociale più estesa. Molti non
fanno distinzione tra la socializzazione che avviene di persona o tramite cellulare”.
Le virgolette per capire dove inizia e finisce la citazione non sembrano necessarie a
Null, per cui non sapremo mai dove finisce il parere di Mimi Ito e dove comincia il
suo. Ma in fondo a lui non importa, dato che con la Ito la pensano allo stesso modo.
Però sarebbe interessante sapere se la logica di Null corrisponde a quella della Ito:
non si valutano le nuove usanze degli adolescenti secondo una serie di criteri etici,
ma si dà una qualifica di valore etico universale ad una loro usanza solo perché è da
loro praticata. Qui è la coda che morde il cane.
Dopo altri elogi al fatale potere degli adolescenti (“Che vi piaccia o no, il modo
dei ragazzi di usare gli sms presto sarà la norma”, piacere e timore verso i futuri
wired), finalmente Null enuncia il fondamento morale del suo comandamento
tratto dal Vangelo dei Teenager, ovvero la nuova “regola del pollice”: “sentiti
libero di messaggiare mentre parli o ceni con gli amici, ma solo se stai cercando di
coinvolgere qualcuno che non è lì con voi. Se ciò che ti spinge a farlo è escludere
le persone con cui sei uscito, sai già la risposta”.
Dunque, se scambiando sms coinvolgi una persona non presente col gruppo in
cui ti trovi, questo è moralmente giusto. Il contrario, ovvero escludere i presenti, è
sbagliato.
Null non può che ricondurre la sua morale alla legge del wired, alla sua unica

Disconnessioni (Wired e culti adolescenziali) 125


contrapposizione: coinvolto/escluso, che è per lui sinonimo della rassicurante
divisione del mondo fra connesso e disconnesso.
Non sappiamo se Null abbia confidenza con quegli antropologi culturali che
hanno scritto molto sulla questione del coinvolgimento; su cosa possa voler dire
dal punto di vista psicologico, sociale, storico, umano, essere partecipi o sentirsi
ai margini di una relazione o di un gruppo, sulla solitudine che si può provare
stando in mezzo agli amici. Non sappiamo se ha mai letto qualcosa che riguardi
la comunicazione come sistema di forze fra due o più individui che si sfidano
continuamente. Non sappiamo nulla di Null, ma lui sa tutto di noi, e ci illumina il
cammino verso il Nuovo Mondo.
Peccato non occuparsi di identità, e dell’esclusione che procuriamo a noi stessi
ogni volta che apriamo bocca, connessi e disconnessi. Nessuna innovativa piatta-
forma tecnologica potrà introdurre un’eterna pace tra il nostro immaginario e il
nostro simbolico, due dei registri della nostra genetica disconnessione. Ma l’ulti-
ma tecnica potrà essere un nuovo prezioso strumento se saprà valorizzare il nostro

Daniele Lamuraglia
fecondo senso critico, il quale deriva dalla coscienza della nostra contraddittoria e
miracolosa condizione umana.

Note
1
Antonio Caronia, dal sito http://www.noemalab.org/sections/specials/netmag_magnet/
netmag/wired.html .
2
Dall’editoriale di Luis Rossetto del numero 1 di Wired U.S.A., aprile 1993.
3
http://riccardoluna.tumblr.com/ .
4
http://riccardoluna.tumblr.com/post/114909437/una-gara-per-dire-io-amo-internet-e-un-
sogno-per-il .
5
Da Wikipedia: Null has written for numerous publications, including Wired, Business 2.0,
PC World, Men’s Journal, San Francisco Magazine, Yahoo! Internet Life, Working Woman, San
Jose Magazine, The Austin Chronicle, and The Austin American-Statesman. He is also the author
of two books: Five Stars!(2005, Sutro Press), a manual for aspiring film critics, and Half Mast
(2002, Sutro Press), a novel.
Luciana Dini
Comunicare la scienza.
Le biotecnologie nell’era della globalizzazione

La trasformazione bio-tecnologica

Il mondo deve aspettarsi una rivoluzione ancora più intensa e sconvolgente di


quella industriale: le tecnologie, l’informatica, sempre più veloci e potenti, stanno
trasformando la società, il modo di lavorare e di conseguenza una nuova econo-
mia globale.
L’informatica non è più il grande motore dell’innovazione, ma un fattore, all’in-
terno di un cambiamento ancora più grande, che conduce al commercio genetico.
Si è giunti alla manipolazione dei geni e ciò ha provocato rilevanti mutamenti nei
diversi campi dell’economia, dal settore agricolo a quello energetico, farmaceutico
e medico, ponendo le basi di un “nuovo mondo” bio-industriale. Ma siamo solo
all’inizio; ci sono biologi molecolari che stanno mappando e decifrando il corredo
genetico di un’ampia gamma di specie viventi, dai batteri, all’uomo. Per le aziende
biotecnologiche, i geni rappresentano la nuova corsa all’oro; non è casuale che le
multinazionali e i governi stiano scandagliando i continenti alla ricerca di micror-
ganismi, piante, animali e persino esseri umani con caratteristiche genetiche rare
che potrebbero avere un potenziale sviluppo in un mercato genetico del prossimo
futuro. Nel 1998 Jeremy Rifkin scrive Il secolo biotech, e manifesta, in maniera
eloquente, la crescente preoccupazione per molti aspetti dell’emergente rivoluzio-
ne biotecnologia, che non è contrarietà alla scienza e alle tecnologie, ma esprime
consapevolezza che l’avvento delle biotecnologie coinvolgerà tutti gli aspetti della
società e della vita. Cambierà il modo di vivere, mangiare, di interagire, di espri-
mere una fede religiosa, di avere dei figli, di mangiare, di concepire lo sport, di
percepire il mondo, e il posto che ciascun individuo ritaglierà per sé stesso. Quin-
di, tutti gli aspetti della realtà individuale saranno toccati e modificati nel secolo
della biotecnologia.

Appena due secoli or sono, si iniziò a guardare con occhi nuovi al mondo degli
esseri viventi, che sono stati scomposti in unità, le cellule, e a loro volta questi bloc-
chi di costruzione sono stati scomposti per interrogarsi sulle molecole che li com-
pongono e ad investigare come queste molecole funzionino nell’assicurare l’integrità
e la fisiologia cellulare e dell’organismo. Di conseguenza, il percorso conoscitivo
proposto, iniziato con organismi “semplici”, quali i virus batterici ed i batteri,
Quaderni di comunicazione 11 128

appare concettualmente caratterizzato dal ridurre la comprensione di un organismo


alla comprensione prima delle sue parti, per poi intraprenderne la ricostruzione.
L’aspetto riduzionista è stato spesso criticato, ma le conseguenze applicative delle
conoscenze acquisite fanno già parte della nostra civiltà materiale. La nostra visione
del mondo vivente si è modificata, ed ora è lecito attendersi anche una modificazio-
ne epocale dei processi di produzione, compito proprio della Biotecnologia, il cui
“dogma” centrale, proposto da Sidney Brenner, premio Nobel 2002 per la fisologia
e medicina, recita: il DNA produce RNA, l’RNA produce proteina, la Proteina pro-
duce Denaro. Considerando che il Denaro permette di estrarre informazione dalla
proteina e di convertirla di nuovo in DNA, il dogma centrale della biotecnologia si
distingue da quello della biologia molecolare per la sua circolarità.

Cosa sono le biotecnologie?

Le biotecnologie (nel linguaggio corrente, si utilizza più frequentemente il


termine al plurale), stanno ad indicare la pluralità di tecnologie sviluppate e i
campi di applicazione interessati (Tabella I) che rientrano nella grande “rivoluzio-
ne scientifica” di questi ultimi anni. Ma cosa sono? La parola “biotecnologia” in
realtà è del tutto innocua, anche se a molti evoca mostri e mostruosità. Si riferisce
all’integrazione delle scienze naturali, di organismi, cellule, loro parti o analoghi
molecolari, nei processi industriali per la produzione di beni e servizi (definizione
del European Federation of Biotechnology, EFB). Sostanzialmente essa consiste
nella decifrazione e nell’utilizzo pratico delle conoscenze biologiche. Tra le defi-
nizioni disponibili, la più completa è senza dubbio quella stesa dalla Convenzione
sulla Diversità Biologica UN, ossia: “La biotecnologia è l’applicazione tecnologica
che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di questi per
produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico” (Tabella III).
Anche se noi, moderni e appartenenti alla civiltà occidentale, riteniamo di essere
gli “inventori” delle biotecnologie, già nell’antichità possiamo trovare alcune forme
di biotecnologia utili ad ottimizzare il ruolo dei microrganismi. Basta pensare
all’uso dei batteri lattici e lieviti per ottenere la lievitazione del pane, al caglio per
produrre il formaggio o ai processi fermentativi di birra e vino (Tabella II). Sia la
biotecnologia moderna, che maneggia i geni degli organismi e li inserisce in altri or-
ganismi per acquistare la caratteristica voluta, che la biotecnologia tradizionale, che
usa invece i processi degli organismi, come per esempio la fermentazione, si basano
entrambe sull’utilizzo degli organismi per aiutare l’uomo. Vi sono applicazioni che,
pur non servendosi di microrganismi, sono classificate come biotecnologiche e sono
quelle ampiamente utilizzate nello sviluppo di nuove terapie mediche o innovativi
strumenti diagnostici, come le tecniche di DNA e RNA microarray utilizzate in
genetica ed i radiotraccianti utilizzati in medicina. Lo strumento principale di cui
si avvalgono le biotecnologie, è l’ingegneria genetica, che attraverso il clonaggio dei
geni di un organismo e le relative analisi che permettono di costruire genoteche o
di utilizzare vettori di espressione, si possa controllare l’attività trascrizionale\tradu-
zionale di una data proteina d’interesse, per fini di ricerca o produttivi.
Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione 129
Come cambia la ricerca

Quando si parla di “rivoluzione biotecnologica” ci si riferisce alle cosiddet-


te biotecnologie innovative, alle tecniche capaci di modificare l’informazione
genetica degli organismi viventi (Tabella I). Con queste tecniche è oggi possibile
inserire, modificandoli se necessario, geni provenienti da una certa specie nell’in-
formazione genetica di un’altra specie completamente diversa. Così i geni animali
sono inseriti in batteri o piante, i geni umani negli animali, ecc., con il risultato di
produrre piante o animali “transgenici” che non sono presenti in natura. Questi
nuovi organismi sono anche detti “organismi geneticamente modificati” o OGM
in quanto il loro DNA è stato manipolato e modificato dall’uomo attraverso
l’ingegneria genetica. Si può affermare che l’ingegneria genetica rappresenta una
forma moderna di selezione delle razze. L’uomo ha da sempre operato una sele-
zione artificiale in agricoltura e in zootecnia accoppiando animali o piante della
stessa specie, e selezionando tra i discendenti quelli che avevano i caratteri che più
interessavano. Questa selezione, rispetto alla natura, rappresenta una forzatura le
cui conseguenze negative sono state considerate un semplice inconveniente cui
ovviare dall’esterno. Si è fatto uso di antiparassitari o diserbanti, nel caso in cui la
pianta selezionata diveniva più debole nei confronti di specifici parassiti o erbe, o
nel caso in cui aveva meno capacità di prendere dal terreno il nutrimento (arric-
chendolo con sostanze esterne). La convinzione alla base di questi comportamenti
era che si potesse alterare tutto l’ambiente intorno pur di mantenere la sopravvi-
venza di piante o animali utili all’uomo.

Luciana Dini
Oggi però siamo andati ben oltre: non si tratta più di selezionare tra tutte le
varianti possibili quella che ci interessa, ma di “inventare” le varianti possibi-
li. E così si inserisce in una pianta, il carattere di un batterio che conferisce la
resistenza a un fungo, a un insetto, evitando di usare gli insetticidi. Ma si può
anche partire da un dato diserbante per renderne la pianta resistente, in modo da
poterne usare grandi quantità senza intaccare la pianta interessata. Nel trasferi-
mento di geni da un organismo vivente a un altro non ci sono limiti, se non quello
che l’ingegneria genetica non è in grado di operare con precisione: non è possibile
prevedere tutte le interazioni con altri geni e con la fisiologia dell’organismo del
DNA iniettato che si integra nel genoma del nuovo organismo.
Il discorso diventa più complesso per le modifiche all’informazione genetica
degli animali, che con logica aberrante si fanno diventare macchine per produrre
carne e latte in quantità sempre maggiori e con caratteristiche diverse a seconda
delle esigenze del mercato, o addirittura per la produzione di farmaci, ad esempio
proteine o altri prodotti rari, come l’ormone della crescita o l’insulina. L’animale
non sarà più soltanto un mezzo di produzione, ma un reattore chimico, un macchi-
nario che potrà essere programmato per produrre una cosa o un’altra. Un settore
in cui le industrie biotech stanno investendo moltissimo, ritenendola una delle
prospettive economiche di maggior interesse per il futuro, è quello dell’uso di
animali modificati geneticamente come banca degli organi. Inserendo infatti geni
umani negli animali si possono avere organi umanizzati per i trapianti ed allestire
una fabbrica di organi di ricambio per gli xenotrapiantati (i trapianti da una specie
ad un’altra specie, possibili “umanizzando” organi animali con geni umani).
Quaderni di comunicazione 11 130

Vantaggi per l’uomo e implicazioni etiche delle biotecnologie

La Biotecnologia moderna è destinata a rivoluzionare ampi settori del mon-


do, la cui portata spazia dalla produzione industriale alla produzione agricola,
dalle problematiche ambientali, al mondo della salute. In quest’ultimo settore, i
cambiamenti sono senza dubbio i più rilevanti. È mutato il modo di fare ricerca
di nuovi farmaci e gli stessi farmaci sono diversi rispetto al passato. Con la bio-
tecnologia, i ricercatori si avvalgono della comprensione dei meccanismi biolo-
gici che governano una determinata malattia e delle banche dati genetiche, per
individuare molto più rapidamente molecole efficaci per trattare altri disturbi. I
nuovi farmaci biotecnologici, inoltre, sono più precisi e più mirati perché basati
su una maggiore conoscenza dell’organismo. L’insulina umana prodotta median-
te ingegneria genetica è stata il primo farmaco biotecnologico ad essere immesso
sul mercato. Tra i nuovi farmaci sviluppati, oltre ai vaccini vi sono i medicinali
contro disfunzioni metaboliche a base genetica, trattamenti contro diverse for-
me di epatite, antitumorali stimolatori delle difese immunitarie in caso di loro
abbassamento, e regolatori delle stesse in caso di funzionamento eccessivo. Altre
importanti innovazioni sono derivate dalla mappatura del genoma umano su cui
si basano nuovi test diagnostici per svelare anomalie genetiche anche durante la
vita prenatale.
Non dobbiamo dimenticare che oggi vi sono grandi prospettive per l’applica-
zione della biotecnologia alla soluzione di molti problemi ambientali: controllo
dell’inquinamento, eliminazione dei rifiuti tossici, recupero dei metalli dalle scorie
minerarie e dai minerali a basso tenore, grazie all’azione di geni utili per la bio-
degradazione di composti chimici tossici. Molte sono, inoltre, le varietà vegetali
modificate con l’ingegneria genetica al fine di migliorarne le qualità nutrizionali, la
resistenza alle malattie, la produttività e la tolleranza ai fattori nocivi. La poten-
zialità della biotecnologia è quindi enorme. Ciò ha sollevato l’esigenza di riflettere
sui vincoli e i confini da porre all’applicazione della biotecnologia e ha portato
alla nascita di una specifica area di discussione chiamata Bioetica. Con la crescita
della biotecnologia in molti settori, si è ritenuto necessario formulare delle norme
atte a regolamentare i problemi posti dalle innovazioni scientifiche, in particolare
la liceità degli esperimenti. Tutti sembrano concordi nell’accettare la produzione
di animali transgenici per sperimentazioni nelle cure di certe malattie, l’utilizzo
di materiale genetico per produrre farmaci o vaccini. La raccomandazione del
Consiglio d’Europa numero 1046 del 24/09/1986 chiede ai governi di proibire “la
creazione di embrioni umani in vitro per scopi di ricerca, la clonazione umana, lo
scambio di geni tra uomini e animali”. È utile interrogarsi sui limiti e sulle poten-
zialità che l’uso delle nuove tecnologie produce per il benessere di tutti i citta-
dini del mondo, e non solo dei paesi più ricchi, ma anche di quelli poveri, dove
Internet è ancora molto lontano e permangono sfruttamento, malattie, povertà.
È necessario anteporre la salvaguardia della salute umana e il rispetto dei con-
sumatori, la difesa delle produzioni tipiche e locali, la garanzia che la diffusione
delle biotecnologie non penalizzi ulteriormente i paesi poveri, fissando vincoli
chiari che vietino l’uso del patrimonio genetico dell’uomo e impieghi eticamente
inaccettabili come quelli militari.
La complessità e l’importanza del tema, impongono a tutti noi che le valutazio-

Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione 131


ni non si limitino all’analisi del rapporto fra costi e benefici economici conseguenti
all’impiego delle biotecnologie, ma che considerino i problemi etici, ambientali
e sanitari collegati a questa nuova frontiera della ricerca scientifica. Dobbiamo
essere coscienti che con la manipolazione genetica la salvaguardia delle tradizioni
alimentari, agricole, ambientali, culturali, viene messa radicalmente in discussione.
Gli effetti immediati connessi all’immissione nell’ambiente di organismi genetica-
mente modificati è di difficile individuazione, tuttavia il rischio più concreto è che,
sfuggendo dal controllo, questo meccanismo possa produrre una serie di reazioni
a catena. Innanzitutto, la perdita della biodiversità, ovvero la scomparsa gradua-
le di piante e colture tradizionali, dovuta al procedimento di controllo sui geni,
all’utilizzo intensivo di fitofarmaci. Ciò è un pericolo specialmente in Italia, dove
la tutela delle produzioni tipiche e di qualità è un obiettivo imprescindibile se si
vuole un futuro forte e sicuro dell’economia agro-alimentare nel nord e nel sud,
si pensi all’unicità delle arance siciliane o delle mele trentine. Non vanno inoltre
sottovalutati, gli effetti che la commercializzazione di prodotti modificati possono
avere sul gusto dei formaggi, dei salumi, delle carni, delle uova, della frutta e ver-
dura; la grande ricchezza e varietà di produzioni agroalimentari locali e storiche
hanno infatti determinato negli anni e spesso nei secoli, un quadro di riferimento
gustativo che è parte fondamentale del nostro modello di alimentazione che una
volta alterato può creare disorientamento sociale. Un’informazione corretta e
completa è quindi al primo posto della scala di necessità quando abbiamo a che
fare con il commercio di organismi geneticamente modificati. La scienza deve

Luciana Dini
diventare più aperta, più dialettica, più trasparente, più umile, meglio finalizzata e
pronta a difendere il patrimonio della biodiversità. Soprattutto mercato, denaro,
consumo e tecnologie non devono soffocare la nostra identità umana.

L’economia e le biotecnologie

Le biotecnologie hanno sostituito le società informatiche nel portafoglio dei ti-


toli tecnologici quotati in borsa. L’ossessione per la proprietà intellettuale portata
dalle biotecnologie non ha precedenti nella storia. In passato si considerava legitti-
mo proteggere con brevetti lo sfruttamento commerciale di scoperte tecnologiche
che erano costate fatica e denaro all’inventore. Ma nessuno aveva mai messo in
discussione che la conoscenza scientifica era un patrimonio comune all’umanità, e
che tanto più era condivisa tanto meglio. La comunità degli affari si preoccupava
di tutelare gli interessi legati allo sviluppo di tecnologia, senza porre limiti legali
alla produzione e distribuzione di conoscenza.
Con le biotecnologie tutto cambia. Studiare il DNA è difficile e costoso, e i
governi hanno difficoltà a finanziare le ricerche in maniera adeguata alle grandi
promesse che il biotech dischiude. Si fanno dunque avanti le compagnie private,
che però si aspettano ritorni tali da poter essere garantiti solo se le scoperte fatte
nei propri laboratori non saranno di pubblico dominio. Si arriva così ad estremi
come quello di Craig Venter che negli anni novanta voleva brevettare il genoma
umano per richiedere royalties a chiunque avesse condotto ricerche sui segmen-
ti di genoma già sequenziati dalla sua compagnia. O le grandi multinazionali
Quaderni di comunicazione 11 132

dell’agroindustria, che manipolano leggermente sementi selezionate attraverso i


secoli da popolazioni indigene latinoamericane, pretendendo poi di brevettare
quelle sequenze genetiche impedendone l’utilizzo persino alle comunità che le
hanno ricevute come eredità ancestrale. La principale motivazione del ricercatore
sembra essere il dividendo di fine anno della propria compagnia.

La globalizzazione biotecnologica: bugie e mistificazioni dei mass media

Affascinati dalle potenzialità delle biotecnologie, ma avendone spesso solo una


comprensione semplificata e meccanica, i media trattano l’argomento annuncian-
done talvolta i risvolti più d’effetto, quali applicazioni impossibili o probabili
rischi. Le costanti mistificazioni che troppo spesso inquinano i mezzi di comunica-
zione di massa sono molto più pericolose delle bugie. Ma se le menzogne posso-
no essere clamorosamente smentite e potenzialmente perseguibili per legge, le
mistificazioni invece agiscono in maniera sottile ed impunemente con un micidiale
dosaggio fra verità ed omissioni, spesso confondendo i fatti con le opinioni ed i
fatti fra loro.
I PR (addetti alle pubbliche relazioni) delle Multinazionali, reclutati fra i
migliori del mondo, hanno il compito di creare consenso nell’opinione pubblica,
anche nascondendo o sopprimendo la verità, o utilizzando in modo scorretto
fonti d’informazione che ispirano fiducia e diffondendo informazioni distorte
che possono cambiare l’opinione pubblica e favorire l’interesse dell’industria. Le
biotecnologie costano bilioni di dollari e per assicurarsi che vengano accettate,
l’industria ha investito milioni di dollari utilizzando ogni possibile mezzo per ave-
re successo. Tre strategie principali che si sostengono a vicenda sono state usate
contemporaneamente:

1. Assicurarsi il sostegno di scienziati nei campi in relazione con il biotech.


E duole dire che questa è stata la parte più facile dal momento che la ricerca in
questi campi utilizza tecnologie avanzate e costose, gli scienziati gradiscono ogni
forma di supporto anche quella proveniente dalle multinazionali. Queste ultime
hanno assunto diversi scienziati di grido come consulenti percependo guadagni
extra, mentre altri scienziati, che hanno sviluppato brevetti con il sostegno delle
multinazionali del biotech, sono diventati miliardari grazie ai diritti maturati.
Questa situazione ha prodotto una concentrazione di potere gerarchica nella so-
cietà scientifica internazionale: pochi scienziati di punta sono in grado di influen-
zare in maniera efficace il comportamento di un grande numero di loro colleghi
in questioni importanti. Dal momento che pochi hanno osato esprimere le loro
critiche, gli addetti alla propaganda hanno potuto dire che la “corrente principa-
le” della scienza sostiene le biotecnologie, lasciando l’impressione che le critiche
muovano da poche persone che non sono affatto rappresentative della scienza
odierna. Questa situazione ricorda quella di uno stato totalitario dove quelli che
sono al potere decidono che cos’è la “verità ufficiale” e l’opposizione è ridotta al
silenzio.
2. Assicurarsi il sostegno delle pubbliche autorità.

Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione 133


L’industria ha molto spesso verificata l’efficacia ed utilità di questa strategia. La
cooperazione delle autorità pubbliche, che è sempre molto efficace viene assicura-
ta attraverso un’ottima strategia delle pubbliche relazioni. Non va escluso il ruolo
dell’enorme potere finanziario delle corporazioni biotech che permette di eserci-
tare una forte pressione sui politici. Il potere acquisito sul mercato in pochi anni
dalle industrie biotech sta facendo impallidire quello delle case farmaceutiche.

3. Creare consenso nell’opinione pubblica


Una componente importante del marketing dei prodotti biotech è l’attività
dei PR mirata ad ottenere consenso nell’opinione pubblica mediante l’applica-
zione di avanzate conoscenze di psicologia e di manipolazioni delle attitudini e
delle credenze. La campagna di informazione viene sostenuta seguendo delle ben
precise linee guida che mirano a) ad evitare dibattiti pubblici sulla salute e sul
rischio ambientale. La ragione è che ciò potrebbe dare agli oppositori l’occasione
per informare sulla salute e sul rischio ambientale; b) a usare le autorità pubbliche
come strumenti principali per diffondere il messaggio, il cui supporto potrebbe
creare fiducia nei confronti della tecnologia genetica; c) a farsi rappresentare
pubblicamente da giornalisti rispettati; d) a fornire ai mezzi di comunicazione di
massa materiale e storie con un positivo “tocco umano”, illustrandone solo i lati
positivi, e concentrandosi soprattutto sui bisogni umani poiché questi hanno una
valenza molto forte sull’opinione pubblica.

Luciana Dini
Pericolosità della brevettabilità dei genomi

“Le persone sono sopravvissute nel terzo mondo perché nonostante la ricchez-
za che è stata loro sottratta, nonostante l’oro e le terre che sono stati loro sottratti,
hanno ancora la biodiversità. Hanno ancora quest’ultima risorsa sotto forma di
semi, piante medicinali, foraggio, che ha loro permesso un accesso alla produzio-
ne. Ora quest’ultima risorsa dei poveri che sono rimasti deprivati dall’ultimo giro
di colonizzazioni viene anch’essa portata via attraverso i brevetti. E i semi che i
contadini hanno liberamente conservato, scambiato, usato vengono considerati
proprietà delle multinazionali. Si stanno formando, attraverso l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, nuove forme di proprietà legale come i trattati sulla
proprietà intellettuale o brevetti, le quali cercano di impedire ai contadini del
terzo mondo di avere libero accesso alle loro stesse sementi, di poter scambiare
liberamente le loro stesse sementi. Cosicché tutti i contadini in tutto il mondo
comprerebbero i semi ogni anno creando un nuovo mercato per l’industria globa-
le delle sementi.”
(Intervista con Vandana Shiva, Motion Magazine - August 14, 1998; Vandana Shi-
va è fisica, scrittrice, editrice e presidentessa del Research Foundation for Science,
Technology and Natural Resource Policy)
La concessione di diritti di proprietà intellettuale su piante, animali e relative
risorse genetiche può rappresentare un incentivo formidabile ed allo stesso tempo
un passo fondamentale per lo sviluppo di tecnologie dannose per l’ambiente e per
la biodiversità, così ponendosi in aperto contrasto con il fine di salvaguardia che è
Quaderni di comunicazione 11 134

alla base della Convenzione sulla biodiversità.


L’ufficio Europeo brevetti (EPO) si sta comportando in modo giuridicamente
discutibile. L’EPO a volte sostiene la tesi dell’indipendenza del principio brevet-
tuale secondo una visione puramente tecnica della brevettabilità, dall’altra giudica
invece il merito dei singoli brevetti secondo un criterio “cost-benefit” extragiuri-
dico che lascia un enorme margine di discrezionalità e ben si presta alla promozio-
ne di determinate finalità politiche.
L’attuale legislazione europea sui brevetti genetici è ambigua e non garantisce
alcuni diritti fondamentali assicurati da accordi internazionali. La direttiva 98/44/
CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche da una parte dice che
“non sono brevettabili le varietà vegetali e le razze animali” (art.4) né il corpo uma-
no o sue parti (art. 5). Poi vanifica sancendo che: “Un elemento isolato dal corpo
umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa
la sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione bre-
vettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento
naturale” (art. 5/2). “Un materiale biologico che viene isolato dal suo ambiente
naturale o viene prodotto tramite un procedimento tecnico può essere oggetto
di invenzione anche se preesisteva allo stato naturale” Art. 3/2. “…la protezione
attribuita da un brevetto ad un prodotto contenente o consistente in un’informa-
zione genetica si estende a qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e
nel quale l’informazione genetica è contenuta e svolge la sua funzione” (art.9) ecc.
Queste norme sono alla base della biopirateria legalizzata che di fatto permette a
privati di rivendicare l’esclusiva proprietà di forme di vita esistenti che apparten-
gono all’intero genere umano. La biopirateria permessa dai brevetti genetici sta
aggravando i problemi economici del terzo mondo. I brevetti genetici oltre a rap-
presentare una seria minaccia alla biodiversità riducono l’accesso ai benefici sanitari
come dimostrato dal caso del Sudafrica, il cui governo è stato citato in giudizio da
una multinazionale poiché reo di aver prodotto sul proprio territorio, poiché non
poteva sostenerne i costi di importazione, farmaci anti-aids dei quali la suddetta
multinazionale deteneva il brevetto è emblematico di questa situazione. Dice la
Dott.ssa Vandana Shiva: “L’80% dell’India risolve i propri bisogni sanitari grazie
alle piante medicinali che crescono nel cortile di casa, nei campi, nelle foreste e che
la gente liberamente raccoglie. Nessuno ha mai dovuto pagare un prezzo per i doni
della natura. Oggi ciascuno di quei farmaci è stato brevettato e fra cinque-dieci anni
potrebbe facilmente verificarsi una situazione in cui quelle stesse industrie farma-
ceutiche che hanno creato così gravi danni alla salute pubblica e stanno ora orien-
tandosi verso prodotti salutari sotto forma di farmaci fitoterapici, medicina cinese,
aromaterapia indiana, ne proibiranno l’utilizzo. Non hanno bisogno di venire qui e
renderlo illegale perché ben prima di arrivare a quel punto si sono già impadroniti
delle risorse base, prendono le piante, prendono le riserve, prendono i mercati e
lasciano la gente completamente priva di accesso a queste risorse.” (Intervista con
Vandana Shiva, Motion Magazine - August 14, 1998)

I brevetti genetici sono una seria minaccia alla democrazia perché rafforzano
ulteriormente il totalitarismo oligarchico delle multinazionali. Le multinazionali
Biotech sono economicamente talmente potenti da poter facilmente corrompere

Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione 135


le pubbliche istituzioni. Secondo uno studio dell’Università di Harvard citato
dall’economista J. Rifkin è già iniziata una discriminazione su base genetica da
parte di assicurazioni, agenzia d’adozione, scuole e datori di lavoro in generale.
Rifkin sostiene che “Se riduciamo il serbatoio genetico a una proprietà privata che
può essere sfruttata commercialmente avremo guerre genetiche nei prossimi se-
coli, esattamente come guerre ci sono state per il petrolio ed i metalli rari nell’era
industriale” (biblioteca digitale di MediaMente, interviste: Jeremy Rifkin).

Conclusioni

Le questioni discusse ci riguardano direttamente, indipendentemente dalla


classe sociale di appartenenza, dal reddito o dal livello di istruzione. Ciascuno di
noi deve impegnarsi in prima persona per difendere la propria libertà, la propria
salute, il futuro delle generazioni a venire. “Non buttare via il bambino con l’ac-
qua del bagno” come recita una espressione americana. Non intendo demonizzare
la scienza o le biotecnologie. Bisogna vigilare affinché l’applicazione delle nuove
biotecnologie sia centrata su un criterio di Prudenza, che i benefici della ricerca
vengano ripartiti secondo Giustizia, che ci sia Fortezza nel resistere alla logica
dell’interesse personale ed immediato e Temperanza nell’armonizzare l’opera
dell’uomo con quella del Creatore. Rispetto per la vita e per la verità. Ci troviamo
infatti in un “contesto caratterizzato dall’allarmante tendenza a ridurre l’intera

Luciana Dini
vita biologica, compresa quella umana, a mero oggetto di proprietà intellettuale
brevettabile e a bene commerciale, e dal rischio di un progressivo cedimento delle
strutture pubbliche e giuridiche, predisposte alla regolamentazione della materia,
alle pressioni esercitate dall’industria biotecnologia. (Dichiarazione del Comitato
Nazionale per la Bioetica del governo italiano 25/2/2000)

Tabelle

Tab. I. Le tecnologie che permettono l’utilizzo delle conoscenze biologiche

– codificazione del DNA: genomica, farmacogenetica, test genetici, amplificazione, sinte-


si e sequenziazione del DNA, ingegneria genetica.
– Sintesi e sequenziazione di proteine e peptici (i blocchi funzionali), glyco-engineering,
proteomica, ormoni e fattori della crescita, recettori delle cellule, comunicazione delle
cellule e feromoni.
– Ingegneria delle cellule e dei tessuti: cultura delle cellule e dei tessuti, ingegneria dei
tessuti, ibridazione, fusione cellulare, vaccini e immunostimulatori, manipolazione
embrionale.
– Biotecnologie di processo: bioreattori, fermentazione, processi biotecnologici pro-
duttivi, estrazione metalli con batteri, biocatalizzatori nella fabbricazione della carta,
biodesulfurazione, decontaminazione del suolo e biofiltrazione.
– Terapia genetica e vettori virali.
Tab. II: Date fondamentali per la biotecnologia
Quaderni di comunicazione 11 136

1750 AC I Sumeri fermentano la birra.


500 AC. I cinesi usano la soia come antibiotico per trattare malattie della pelle.
1590 Janssen inventa il microscopio.
1675 Leeuwenhoek scopre i protozoi ed i batteri.
1797 Jenner inietta ad un bambino un vaccino virale per proteggerlo dalla vaiolo.
1830 Vengono scoperte le proteine.
1833 Viene scoperto il nucleo delle cellule.
1855 Pasteur comincia a lavorare il lievito, provando per la prima volta che si tratta di
organismi viventi.
1863 Mendel, nel suo studio sui piselli, scopre che le caratteristiche sono state trasmesse
dai genitori alla progenie da unità indipendenti, denominate successivamente geni.
Le sue osservazioni pongono le fondamenta nel campo della genetica.
1879 Flemming scopre le cromatine, le strutture ad asta all’interno del nucleo delle
cellule che successivamente vengono chiamate “cromosomi.”
1888 Waldyer scopre il cromosoma.
1907 È segnalata la prima coltura in vivo delle cellule animali.
1909 Alcuni geni vengono collegati alle malattie ereditari.
1911 Viene scoperto il primo virus che causa il cancro.
1919 La parola “biotecnologia” viene usata per la prima volta da un assistente tecnico
agricolo ungherese.
1920 Evans e Long scoprono l’ormone della crescita.
1928 Fleming scopre la penicillina, il primo antibiotico.
1953 Watson e Crick rivelano la struttura tridimensionale del DNA.
1955 Viene isolato per la prima volta un enzima addetto alla sintesi di un acido nucleico
1961 Per la prima volta viene compreso il codice genetico.
1969 Viene per la prima volta sintetizzato in vitro un enzima.
1972 La composizione del DNA degli esseri umani viene scoperto essere per il 99%
simile a quelle degli scimpanzé.
1973 Cohen e Boyer effettuano il primo esperimento ricombinante del DNA, usando
geni dei batteri.
1977 Batteri geneticamente costruiti vengono utilizzati per sintetizzare la proteina uma-
na della crescita.
1979 Vengono prodotti i primi anticorpi monoclonali.
1982 Humulin, l’insulina umana prodotta dalla Genentech, utilizzando batteri genetica-
mente modificati, è il primo farmaco biotech che viene approvato dalla FDA per il
trattamento del diabete
1984 Viene sviluppata la tecnica dell’impronta genetica del DNA. Viene sviluppato il
primo vaccino geneticamente modificato.
1987 Humatrope viene usato per curare la deficienza del fattore di crescita.
1988 Il Congresso USA costituisce un fondo per il progetto del genoma umano allo
scopo di tracciare ed ordinare il codice genetico umano.
1989 Epogen della Amgen è approvato per il trattamento dell’anemia collegata a malat-
tie renali.
1993 Betaseron della Chiron è approvato come il primo trattamento per la sclerosi mul-
tipla.
1997 Scienziati scozzesi clonano la pecora Dolly, usando il DNA di cellule di pecore
adulte.
La pelle umana viene prodotta in vitro.
1999 Viene decifrato il codice genetico completo del cromosoma umano.
2001 Viene pubblicata la sequenza del genoma umano, che permette ai ricercatori di
tutto il mondo di cominciare a sviluppare nuove cure per malattie finora incurabili.
2004 Viene approvato l’Avastin della Genentech, primo farmaco anti-angiogenesi per il

Comunicare la scienza. Le biotecnologie nell’era della globalizzazione 137


trattamento del cancro al colon.
2007 Vengono ottenute le prime cellule staminali embrionali senza utilizzare embrioni,
risolvendo importanti questioni etiche.
2007 Viene depositato presso il US patent & trademark Office il brevetto numero
20070122826, intitolato “Minimal bacteria genome”
2010 Craig Venter et al. hanno pubblicato un articolo su Science, in cui annunciano di
avere costruito in laboratorio la prima cellula artificiale o cellula sintetica, con-
trollata da un Dna sintetico e in grado di dividersi e moltiplicarsi proprio come
qualsiasi altra cellula vivente.

Tab. III. Applicazioni delle Biotecnologie

Red biotechnology (biotecnologia rossa) È il settore applicato ai processi biomedici e


farmaceutici. Alcuni esempi sono l’individuazione di organismi in grado di sintetizzare
farmaci o antibiotici, oppure lo sviluppo di tecnologie di ingegneria genetica per la cura di
patologie.
White biotechnology, conosciuta anche come grey biotechnology (biotecnologia bianca
e grigia). È la branca che si occupa dei processi biotecnologici di interesse industriale.
Ad esempio, la costituzione di microrganismi in grado di produrre sostanze chimiche. Le
risorse consumate dai processi industriali di tipo biotecnologico sono notevolmente minori
di quelli tradizionali, motivo per cui questo settore è in notevole espansione.
Green biotechnology (biotecnologia verde). È il settore applicato ai processi agricoli.
Tra le applicazioni, figura la modificazione di organismi per renderli in grado di crescere
in determinate condizioni ambientali o nutrizionali. Lo scopo di questo settore è quello

Luciana Dini
di produrre soluzioni agricole aventi un impatto ambientale minore rispetto ai processi
agricoli classici. Ad esempio, sono state ingegnerizzate alcune piante in grado di produr-
re autonomamente pesticidi, eliminandone la necessità di somministrazione esterna, più
dispendiosa ed inquinante.
Bioinformatica, nota talvolta come biologia computazionale. Si tratta di un settore
interdisciplinare che utilizza un approccio informatico per risolvere problematiche di tipo
biologico. Gioca un ruolo determinante nelle applicazioni di genomica funzionale, geno-
mica strutturale e proteomica. Ha un ruolo fondamentale anche nello sviluppo di nuovi
farmaci (drug discovery).
Blue biotechnology (biotecnologia blu), usata per descrivere applicazioni marine ed
acquatiche delle biotecnologie.
Biorimediazione trattamento, riciclo e bonifica di rifiuti attraverso microrganismi attivi.
Mimmo Pesare
Paideia come prassi trasformativa*

Nella breve introduzione del volume Il potere tra dialettica e alienazione, datata
“Estate 1982”, Angelo Broccoli usa più volte il termine speranza. Termine che
raramente si intravede nel fitto impianto teoretico che costituisce la struttura del
testo e che ha sempre caratterizzato la rigorosa scrittura del pedagogista. La spe-
ranza a cui Broccoli discretamente richiama, è quella contenuta all’interno di una
personalissima dimensione utopica della ricerca scientifica; quella di legittimare
una fondazione delle discipline educative che si configuri come lo statuto episte-
mologico ante litteram delle scienze sociali. Detto altrimenti, il luogo speculativo
dell’educazione, intesa nella sua dimensione più olistica e completa, è immagina-
bile come un vettore che parte dall’utopia per arrivare all’eu-topia; ossia dal luogo
dell’inesistenza di un metalinguaggio delle scienze sociali, al buon luogo dialettico,
nelle cui pieghe l’educazione si assume il difficile compito di dimostrarne la vali-
dità e la fecondità. Tale aspettativa appare tanto più indicativa e sintomatica se si
considera il periodo storico in cui il libro esce, caratterizzato da una singolarissima
infosfera a cavallo tra l’intenso fervore politico e partecipativo degli anni Settanta
e gli albori del cosiddetto riflusso edonistico degli Ottanta. Come dire, mutatis
mutandis, la temperie culturale dei “periodi di mezzo” che scandiscono la nostra
contemporaneità, va quasi sempre di pari passo a una necessità di ridefinire gli
orientamenti metodologici che ne disegnano l’evoluzione e la mappatura concet-
tuale. In questa lettura il messaggio di Broccoli conserva, a distanza di un quarto
di secolo, tutta la sua carica di attualità e la lucidità di una ri-semantizzazione
delle discipline umanistiche, continuamente verificata e legittimata.
Il ruolo dell’educazione, oggi come allora, lontano dalla marginalità di cui i
mainstream del consumo culturale, da sempre, la avvolgono, rivela il messaggio di
Broccoli: il discorso educativo si offre come dimensione trasversale delle scienze
umane e, sistematizzato scientificamente, rappresenta una cartina di tornasole per
la demistificazione dei gap sociali. E allora, tra l’impegno della ricerca, la respon-
sabilità politica e i serrati passaggi teoretici della produzione scientifica, irrompe
la speranza, “la speranza – scrive Broccoli – che i tempi siano sufficientemente
maturi e le delusioni accumulate talmente cocenti, da non permettere a qualcuno
il sospetto che esse non rappresentino una specie di divagazione non riferibile (...)
ad alcuna disciplina specifica” (Broccoli, B., 1983, Il potere tra dialettica e aliena-
zione, Cosenza, Pellegrini, p. 9).
Con questa premessa fortemente etica è possibile comprendere ulteriormen-
Quaderni di comunicazione 11 140

te in che senso Il potere tra dialettica e alienazione rappresenti, all’interno della


produzione di Angelo Broccoli, l’esempio felice e la dimostrazione di come il
raffinamento del ruolo dell’intellettuale trascenda l’empireo della speculazione,
per costituire la prassi di ogni evoluzione socio-culturale. La ricerca del Grund
fondativo che le discipline educative possiedono, in altri termini, costituisce sem-
pre un feedback della prassi storico-sociale. Naturalmente quest’ultimo rappresen-
ta un assunto base del marxismo pedagogico in generale (e in particolare nell’in-
terpretazione italiana di esso, così come si è espresso proprio a partire dai lavori
di Broccoli, Manacorda, Santoni Rugiu); tuttavia, nella visione di Broccoli, tale
doppio legame che lega la teoria alla prassi, risulta ancora più pregnante nell’idea
che l’educazione ne costituisca l’anello di catalizzazione e di realizzazione.
Il potere tra dialettica e alienazione si configura perciò come la prosecuzione
ideale di saggi quali Ideologia e educazione e Marxismo e educazione, intesa come
un approfondimento del tema dell’ideologia, delle sue valenze pedagogiche e
degli strumenti dialettici per liberarsi di essa. L’analisi teoretica di Broccoli, at-
traverso la disamina critica dei nuclei classici hegeliani e del materialismo storico,
presenta il potere come il più raffinato prodotto dell’ideologia e insieme il più
elaborato e rozzo strumento educativo. Come antidoto a tale inermità dell’im-
provvisazione pedagogica corrente, Broccoli propone una visione dialettica delle
scienze sociali, all’interno della quale l’approccio pedagogico non si configura tout
court come una delle possibili manifestazioni disciplinari dei conflitti in corso, ma,
al contrario, come una malta che forgia l’uomo “completo” e che invade gli spazi
di integrazione dei saperi.

Il nucleo centrale attorno al quale Broccoli costruisce le tesi de Il potere tra


dialettica e alienazione, è rappresentato dall’idea che, nel pensiero moderno, due
elementi si contrappongano frontalmente: i concetti marxiani di prassi e alienazio-
ne. Essi sono, di volta in volta, i contenitori semantici all’interno dei quali si sono
intesi i rapporti tra uomini e istituzioni e, nello specifico, gli estremi del dissidio
dialettico alla base del Grund educativo nella produzione di Broccoli. Prassi e
alienazione sono concetti antinomici e tra loro contraddittori: dove c’è alienazione
non può esserci prassi e dove c’è prassi non può esserci alienazione, poiché i due
concetti si negano l’un l’altro.
Diamo concretezza ai due concetti: con il termine prassi, nella lettura hegelia-
na, intendiamo tutto l’ambito dell’agire pratico umano, non in senso etico, ma in
senso poietico. Ovvero l’attività umana in senso lato e, di converso, la libertà di
questo agire. L’alienazione indica, invece, un’oggettiva situazione di annullamento
dell’uomo dal suo essere più autentico e dalla sua relazione con l’istituzione, che
provoca uno stato di miseria spirituale.
È a partire dal concetto di prassi, però, che Broccoli delinea la sua personale
“sintomatologia dell’attualità” socio-culturale; esso appartiene chiaramente alla
reiterata tradizione hegeliano-marxiana: tutta la produzione filosofica di Hegel
insiste sul concetto di attività e dunque costituisce un’anticipazione della relativa
interpretazione marxiana; tuttavia, quest’ultima, ne radicalizza il portato teoretico,
in quanto presuppone, stricto sensu, una sorta di appropriazione della dialettica
hegeliana e, in senso specifico, si fonda sulla eliminazione dell’analogia hegeliana

Paideia come prassi trasformativa 141


tra alienazione e oggettivazione.
Il concetto di prassi, insomma, presuppone una completa appropriazione della
dialettica hegeliana (e soprattutto il superamento dell’equazione hegeliana tra
alienazione e oggettivazione), ma proprio all’interno del dialogo tra tesi hegeliane
e marxiane, Broccoli conclude che il concetto di prassi può essere metodologica-
mente distinto in due aspetti:
1. la sua funzione logica e gnoseologica: la prassi interessa finanche i processi di co-
noscenza (in Marx, infatti, essa costituisce l’elemento costitutivo dell’astrazione);
2. la sua attività pratica di trasformazione del mondo; la prassi, in altri termini,
rappresenta il grimaldello che sottende tutti i processi materiali-oggettivi di
cambiamento della società.

Mimmo Pesare
Il vettore pedagogico-politico della prassi, detto altrimenti, inerisce la sua capa-
cità di formazione delle conoscenze e le sue potenzialità trasformative che vacci-
nano dall’alienazione e chiariscono i rapporti tra individui e istituzioni, troppo
spesso demandati ad analisi sociologistiche, più che sociologiche. In questo senso
la forza del saggio dell’83 si manifesta proprio in una sorta di rivalsa metodologica
che, sebbene all’interno di un armamentario dialettico ancora palesemente marxi-
sta, contrappone una chiave di lettura meramente umanistica (conoscenza/trasfor-
mazione) alle interpretazioni sociali macchiate di un certo determinismo politico.
Se la comprensione dei rapporti tra individui e istituzioni – sembra rimarcare
Broccoli – è leggibile all’interno della contrapposizione moderna tra alienazione e
prassi, tutte le teorie che hanno provato a interpretarne il dissidio, hanno perlopiù
posto l’accento sul lato “sociologico” della questione, ossia sul rapporto individuo-
istituzione, più che su quello del soggetto in quanto tale. Dalla teoria della “rappre-
sentazione collettiva” di Durkheim e del “sistema sociale” di Parson, alla “sociolo-
gia comprendente” di Weber e alla teoria dell’adattamento di Merton, il pensiero
sociologico si è rivolto esclusivamente a uno studio dei “tipi puri”, per dirla con
Weber, e a un approccio che in maniera fondamentale salvasse l’oggettività dei pro-
cedimenti e il criterio di “avalutatività” e tutto il suo corredo metodologico.
Ma una volta svelato quello che Broccoli definisce il “disincanto degli apparati
sociali”, anche la più raffinata analisi sociologica si trova di fronte alla disarmante
metafisica dell’ideologia, e l’unico esponente della disciplina che ne ammette tale
empasse, è stato proprio Ferrarotti, che in Il potere come relazione e come struttu-
ra, ammonisce sul pericolo della nevrosi cospiratoria che mina chi non comprende
l’impatto impersonale del potere istituzionale.
L’ideologia, dunque, continua a essere, secondo Broccoli, il virus che si ri-
propone con la pervicacia di un destabilizzatore dello sviluppo socio-culturale.
Chiaramente siamo ben lontani dalla definizione classica che Engels diede del
fenomeno dell’ideologia, e in questo, lo straordinario progresso compiuto dalle
analisi sull’ideologia di Gramsci e di Althusser (solo per citare i più riconoscibili),
ha permesso di esplicitarne il concetto in tutta la possibile gamma dei suoi effetti
sociali (falsa coscienza, sovrastruttura che determina la struttura, annullamento
dei fatti nei valori, scambio dei presupposti, con la fine del procedimento logico,
procedimento ipostatizzato, ecc.).
Ma al di là delle specifiche definizioni tecniche, spesso troppo simbiotiche
Quaderni di comunicazione 11 142

al linguaggio della filosofia politica, Broccoli rimarca il vero problema che lega
l’esito di tutti questi portati storico-critici, al più vasto contenitore dell’educazio-
ne, quando scrive che l’ideologia è “a nostro giudizio, la conseguenza dell’affida-
mento ad altri delle nostre facoltà di conoscenza; essa è la rifrazione di un bisogno
attraverso la lente deformata di un altro dal quale facciamo dipendere le nostre
possibilità di sopravvivenza.” ma “Se l’ideologia è l’effetto dell’affidamento ad al-
tri delle nostre facoltà di conoscenza, è chiaro che essa è la conseguenza dell’alie-
nazione” (ivi, p. 325-326).
L’ideologia è dunque alienazione, ma questa, in senso strutturalista, è Herr-
schaft, potere, che distoglie (aliena) l’individuo dal suo potenziale gnoseologico.
Per Broccoli questo assunto è tanto più comprensibile, quanto più si sottolinea
un’altra importantissima contrapposizione dialettica che risulta essenziale a tutta
la Modernità: quella esistente tra prassi e comunicazione. Hegel, nella Fenome-
nologia dello Spirito, aveva tentato di portare a termine l’ardimentosa impresa di
unificare i due concetti nello sforzo di legittimare il presente. Ma questo sforzo,
nella lettura di Marx, era destinato, in qualche modo, a legittimare l’alienazione,
giacché, come scrive Broccoli

Se l’alienazione è l’affidamento ad altri, di alcune facoltà proprie dell’individuo, lo


strumento essenziale per la riuscita di questo affidamento è la comunicazione, come
attrezzatura morale e poi logica di trasmissione a se stesso e poi agli altri di quanto viene
elaborato dalla persona o dall’ente al quale ci si è affidati. In questo quadro, la prassi è
la riappropriazione (…) di quelle facoltà espropriate e, insieme, la forza psico-fisica che
consente l’elaborazione di un progetto. (ivi, p. 102)

In questo senso, il rapporto tra prassi e comunicazione non si presenta così


diretto e così comprensibile all’interno di un’ottica, per così dire, “diadica”. Tale
rapporto, al contrario, si definisce attraverso l’interpolazione di ulteriori elemen-
ti concettuali, tra i quali, appunto, il concetto di comunicazione (per la quale
Broccoli usa l’attributo foucaultiano di apparato), che riproduce operativamente
i contenuti etici e logici dell’alienazione. Il risultato che ne consegue è, secondo
Broccoli, “l’ideologia, come riproduzione di ciò che è” (ivi, p. 110), nel suo stret-
tissimo rapporto strutturale con l’alienazione stessa.
Dunque, all’interno dell’alienazione, nella sua dimensione di Spaltung del sog-
getto, si riverbererebbe la scissione tra teoria e prassi: l’alienazione è un “sistema
compiuto” – come Broccoli rimarca in ottica gramsciana – all’interno del quale
l’ideologia si propone come il naturale ricongiungimento della frattura creatasi tra
teoria e prassi.
A parere di chi scrive, il merito più elevato dell’acume ermeneutico di Angelo
Broccoli, sta proprio nell’aver legato in maniera imprescindibile, i meccanismi
sociali che si inscrivono all’interno della triade ideologia-alienazione-potere, a un
processo metodologico di natura fondamentalmente gnoseologica. La grande
filiazione sociale delle ideologie, ossia l’alienazione, si esercita come potere de-
personalizzato, proprio attraverso la sua capacità di inceppare i normali processi
conoscitivi dell’umanità. Del resto, siamo molto vicini alle teorie dell’egemonia
gramsciane: l’Herrschaft si produce come forma di alienazione, certo, ma lo scarto
che il Novecento aggiunge alle analisi del marxismo, sta proprio nella transizione

Paideia come prassi trasformativa 143


della genesi del potere dai processi di produzione materiale a quelli di produzione
immateriale, che, sebbene con le tinte suggestive che caratterizzavano la sua esege-
si politica, Debord aveva giustamente derivato dall’interpretazione althusseriana
di Marx. E Broccoli insiste su tale alienazione gnoseologica che le subdole forme
delle neo-ideologie creano, inserendone gli esiti e le spiegazioni all’interno del
concetto chiave di educazione, che pertanto viene legittimamente svecchiato e
liberato dalla sua accezione più passatista.
La teoria del potere, in altre parole, è comprensibile in tutto il suo impatto
sociale, solo quando essa viene analizzata sotto tutti gli aspetti di innesto nella
società civile. Dunque la lettura sociologista del potere quale anello intermedio
tra istituzioni e individui, ne è solo una rappresentazione parziale. La Herrschaft
moderna, insomma, individua la sua fondazione nei filtri che l’ideologia pone alla

Mimmo Pesare
base della conoscenza e dei mezzi che la conoscenza usa per operare una libera-
zione sociale e una trasformazione degli individui. In questo l’interpretazione di
Broccoli ne palesa l’assoluta attualità, e la costruzione del discorso (che legittima
l’esegesi marxista e il suo lessico che, dopo 25 anni appare quasi incrostato di una
certa ortodossia seventies), nasconde invece la freschezza di una denuncia mai
scongiurata, sempre urgente.

Nel 1983 il Times dedicava la copertina di personaggio dell’anno al personal


computer: una provocazione per esprimere quanto imponente e allo stesso tempo
nuovo, fosse nei primi anni Ottanta il peso della tecnologia info-comunicativa.
L’anno in cui esce Il potere tra dialettica e alienazione, insomma, non appartiene
precisamente a un periodo dell’immaginario collettivo in cui l’analisi dei me-
dia rappresenta il grosso della riflessione sui cambiamenti sociali, Nonostante
ciò, Broccoli, con la sensibilità dell’osservazione che lo caratterizzava, inserisce
il concetto di comunicazione nei meccanismi dialettici tra prassi e alienazione,
dimostrando come le analisi più attuali sulla società non possano che giovarsi del
tessuto più raffinato del materialismo storico. E dimostrando, col senno di poi,
come il risultato di questo innesto, sia molto più fruttuoso delle successive osser-
vazioni “mediologiche”, dal sapore puramente denotativo.
Alla luce di queste considerazioni, anche la teoria marxiana delle classi sociali
viene a essere ripensata. Se infatti l’analisi di Broccoli, partendo da una serrata
comparazione del rapporto ideologia-alienazione – attraverso i rodati topoi di
Hegel, Marx, Feuerbach e Lukacs – giunge a un nuovo modo di intendere il con-
cetto di potere nella sua dimensione attuale come frammentato e “parcellizzato”,
questa frammentazione trova parte della sua spiegazione eziologica in una realtà
quotidiana in cui anche le classi sociali tradizionali hanno subito una mutazione.
Scrive infatti Broccoli: “In tali condizioni, ogni discorso riguardante l’esistenza
o l’inesistenza di una classe sottoposta al potere, diventa un’inutile esercitazione,
quando non rivela la volontà preconcetta di dimostrare l’annullamento delle classi
e quindi l’obsolescenza delle categorie marxiane. Per riprendere correttamente
l’ipotesi di Marx, occorre sottolineare i diversi volti del potere, il suo diverso
modo di incidere sulla coscienza dei singoli, le possibilità di cui dispone di riversa-
re sugli altri le proprie insanabili contraddizioni”.
L’azione aggressiva del potere, spiega insomma Broccoli, non è più manifestata
Quaderni di comunicazione 11 144

esclusivamente dal volto del capitalista o del proprietario della rendita fondiaria,
ma le sue emanazioni vanno ricercate in una polverizzazione di centri, in una
foucaultiana dimensione panoptica da apparato, che avvolge da ogni punto la vita
dell’individuo e si incista in ogni possibile forma di espressione sociale.
Questa polimorfia interpretativa dei processi di cittadinanza è nient’altro che
la flessione della dialettica hegeliana sul piano della prassi sociale. Un approccio
dialettico, infatti, è l’unica arma di cui il soggetto dispone per smascherare anche
le più raffinate e attuali forme di potere che si realizzano attraverso espressioni
ideologiche e che portano alle più drammatiche forme di alienazione che l’attuali-
tà ci presenta quotidianamente nelle pagine di cronaca dei giornali.
È proprio in questo senso che la vexata quaestio del potere tra ideologia e alie-
nazione si offre allo sguardo attento come una questione squisitamente educativa.

Note

* Testo ampliato e aggiornato di una relazione svolta al Convegno “La prassi infelice” (Giornata
di studio in memoria di Angelo Broccoli), organizzato dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione
dell’Università degli Studi della Calabria il 15/02/2008.
Angelo Semeraro
Narrativa in cerca di paideia

Nelle pagine finali di Tempo d’estate, ultimo nella


trilogia di una vita di provincia, J.M.Coetzee, Nobel
per la letteratura 2003, si trova imbrigliato nella ben
nota questione dei modelli educativi, su cui si sono
cimentate molte generazioni di cultori di scienze
umane, e che evidentemente si è venuta complican-
do e deformando a tal punto da dover ripartire da
una necessaria, scolastica, explicatio terminorum. E
non è un caso che sia proprio il termine formare che
fa riflettere lo scrittore sudafricano, che a un certo
punto si interroga sul suo costante rifiuto ad accet-
tare che l’obiettivo dell’educazione debba essere
quello di formare qualcuno (“come un ceramista dà
forma a un vaso”). E perché lui – protagonista del
romanzo inchiesta su se stesso – abbia resistito fin
da ragazzo a ogni azione di modellamento. J.M.Coetzee
La risposta, offerta più esplicitamente che altrove
in Tempo d’estate, è che il nucleo della resistenza a ogni forma di sagomazione
implicita o esplicita dei primi imprinting formativi gli sia stato trasmesso a pelle
dalla madre olandese, convinta che educare significasse identificare e favorire il
talento naturale; le qualità che in ciascuno sono innate e che rendono unico ciascun
essere umano. Se il bambino è una pianta (come nella genericità della letteratura
pedagogica d’ogni tempo, incline alla simbologia botanica), l’educatore non può
che nutrirla e sorvegliarne la crescita, piuttosto che potarne i rami per darle forma,
come predicavano i kuyperisti1. La madre di Coetzee, nella sua semplicità, aveva
optato decisamente per un’educazione libera da ogni modellistica. Dalla memoria
d’infanzia, Coetzee ripesca Montessori e Rudolf Steiner, nomi che non gli signifi-
cavano niente quando li aveva sentiti da piccolo, ma che gli tornano a mente in età
più matura. Le scuole montessoriane mettevano a disposizione dei bambini blocchi
di legno per impilarli l’uno sull’altro “finché la torre non crollava”. Blocchi per co-
struire castelli e plastilina per sagomare le cose, dopo i tanti meccani messi innanzi
a tutti i bambini scolarizzati del Novecento, su cui fiorì l’editoria del self made ame-
ricano negli anni Trenta, con numerose varianti d’uso (il mio piccolo architetto, il
mio piccolo ingegnere; il mio piccolo scultore, ecc.). Come già Gramsci s’interrogava
Quaderni di comunicazione 11 146

nelle sue lettere dal carcere su quegli americanismi messi precocemente nelle mani
dei bambini per avvezzarli a una manipolazione disciplinatrice, e sul deweysmo di
fondo di questi supporti educativi, anche la madre dello scrittore si sarebbe posto
non pochi dubbi su quelle sagomazioni precoci delle mani e delle menti bambine,
in vista di ottenere un risultato preordinato. Dewey – va ricordato – influenzò la
pedagogia americana dalla metà degli anni Venti e giunse fino a noi con la fine del
secondo conflitto mondiale. Il suo presupposto filosofico che la libertà vada ammi-
nistrata attraverso un precoce condizionamento, non trovò resistenza nel vecchio
Continente, alla ricerca di modelli educativi adeguati all’età della tecnica. Solo nei
movimenti dell’éducation nouvelle si possono rintracciare zone di resistenza attiva
a una precoce iniziazione dei bambini alle necessità della produzione, come nelle
pratiche del movimento di Tipografia e Scuola in Francia ad opera dei fratelli Frei-
net, e successivamente in Italia nei movimenti di Cooperazione educativa (Tama-
gnini, Bruno Ciari e altri fautori di un’educazione democratica).
Quei movimenti non furono tuttavia in grado di portare a sintesi critica la dialet-
tica tra libertà e regole, né potevano esserlo in quanto movimenti, ossia esperienze di
prassi spesso privi di una teoria. Questa fu pure la ragione di una certa refratterietà,
e a volte di una vera e propria ostilità che si trovarono a dover fronteggiare – almeno
da noi – all’interno dei grandi partiti di massa del dopoguerra, le cui nomenclature
erano costituite da dirigenti di formazione crociano-gentiliana. (Il lettore mi scuserà
ma su questo punto rimando a scritti di adolescenzialità accademica, per lo più degli
anni Settanta). Gramsci aveva centrato il problema, parlando di un necessario con-
formismo dinamico da porre alle basi dell’edificio educativo, ossia di una imprescin-
dibile base coercitiva nell’educazione, necessaria a dettare le regole dei comporta-
menti fondamentali. Ma come tradurre quel principio in una coerente riforma della
scuola che del gentilianesimo depurasse la pesante zavorra dell’idealismo rivestito di
spiritualismo? Solo dopo, e molto più tardi, si sarebbe potuto far largo, nella ricerca
di un nuovo principio educativo, alle risorse di una creatività intesa, gramscianamen-
te, più come traguardo che come base di partenza dell’attività e dell’applicazione.
Quell’equivoco non risolto nelle culture pedagogiche libertarie avrebbe poi dato
vita al più grande equivoco del Sessantotto su cui i riflettori non si sono mai spenti,
e su cui si è ripreso a ragionare ancora di recente (cfr. Perniola, Zoja, Ortoleva)2.

Il frammento senza data

Al termine di un frammento “senza data”, che occupa


poche pagine finali di questo romanzo-inchiesta su se stesso,
Coetzee fa seguire in Tempo d’estate, una nota di lavoro (“da
sviluppare”): la sua teoria fatta in casa dell’educazione, le sue
radici in: a) Platone e, b) Freud, e i suoi elementi: a) il ruolo
del discepolo (lo studente che aspira a essere come il maestro
e b) l’idealismo etico (il maestro che si sforza di dimostrarsi
all’altezza dello studente, i suoi pericoli: a) le vanità (il maestro
compiaciuto che si bea dell’adorazione degli allievi), b) il sesso
(il sesso come scorciatoia verso la conoscenza). La sua provata insipienza per le cose

Narrativa in cerca di paideia 147


del cuore; il transfert per la classe e suoi ripetuti tentativi falliti di gestirla.

La nota di lavoro “da sviluppare” lascia intravedere un disegno ambizioso:


riaprire e rileggere molte pagine della letteratura pedagogica di ogni tempo – da
Platone a Freud – per darsi una spiegazione dei limiti non solo di ogni teoria
pedagogica, ma di ogni pratica educativa ispirate tanto a teorie modellistiche che
a quella stessa Ümbildung che ne proponga il superamento. Col rischio tuttavia di
ottenere risultati modesti, se non si ammette che comunque, nelle cose dell’educa-
zione, un metodo assolutamente migliore di un altro non è dato; che l’educazione
stessa resta problematica (per i rimandi più generali a una visione dell’uomo e

Angelo Semeraro
del mondo, come si è detto più sopra); che assai spesso essa si rivela un terreno
minato di incertezze e delusioni; che né il russoviano sgomitolarsi da sé, né le più
aggressive pedagogie eteronome, impostate su una formazione ab imis, danno poi
risultati sicuri; e che è la vita pratica – tutto sommato – a decidere o quanto meno
a condizionarci, inclinandoci in una direzione o in un’altra.
Nella finzione letteraria di quest’ultimo romanzo, il Coetzee ancora felicemente
vivente avanza al Coetzee fittiziamente morto, domande su come sarebbe stata la
sua vita adulta se...
Se anziché condizionato tutto sommato positivamente da un’educazione fatta
in casa, priva di teoria e ricca solo di comune buon senso materno, si fosse trovato
per tempo assoggettato in una qualche forma; se qualcuno – una chiesa, la stessa
comunità calvinista, i maestri kuyperisti – gli avesse tracciato percorsi, fornito
punti fermi; frapposto obblighi al suo libero svolgimento.
Tempo d’estate – come si sarà capito – disegna, insieme ai precedenti roman-
zi Infanzia e Gioventù il trittico di una vita di provincia; complessivamente un
Bildungroman sul come si diventa ciò che si è. L’originale stratagemma narrativo
prevede una raccoglitrice di memorie, incaricata di cercare testimonianze sullo
scrittore defunto. Interroga perciò persone diverse che con lui hanno avuto a che
fare nel ristretto cerchio di relazioni che egli ebbe in vita. Il ritratto – anzi l’au-
toritratto – sarà impietoso: l’uomo che sta dietro il narratore è un inadatto alla
vita adulta; e anche lo scrittore è tutto sommato un mediocre: una implacabile
autovalutazione del Coetzee vivente sul Coetzee trapassato per necessità di fiction
letteraria.

La nota da sviluppare

Se seguiamo Coetzee nella “nota di lavoro” abbozzata, possiamo inventariare


tutti i “modelli” di cui il narratore può disporre per spiegarsi quel lemma abba-
stanza equivoco attorno a cui si arrovella: il lemma in questione è formazione, oggi
ricorrente e imperante, che ha completamente spodestato il termine di educazio-
ne, semanticamente più ricco, dialettico, ma non meno problematico, come si è
cercato di spiegare. Cerchiamo allora di vedere cosa guadagna e cosa perde una
formazione senza educazione, visto che quell’a poco a poco e poi all’improvviso con
cui rispondere alla domanda del come si diventa ciò che si è (così almeno nella
penna di un altro scrittore di tempra, Hemingway), ha molto a che fare con una
Quaderni di comunicazione 11 148

formazione che ha preso il posto dell’educazione, che in luogo di un’azione ester-


na e sagomatrice sollecita una paziente attività estrattiva, dialogica, socratica.
E la parola, proprio per come lo stesso Coetzee ha impostato la “nota di lavo-
ro” andrebbe data innanzitutto a Platone, o quanto meno al Socrate di Platone,
il cui insegnamento si può tradurre nel seguente concetto: nessuna misura peda-
gogica è legittima se non riesce ad ottenere una libera adesione personale. Non è
certo un caso che il protofilosofo si sia sforzato poi di tradurre in sapere la ricerca
di un ordine ragionevole dell’attività umana e la stessa attitudine a interrogarsi su
di essa, spianando la strada ad altri, dopo di lui, che avrebbero posto quel sapere
a servizio di una comunità ordinata secondo ragione.
Fin qui insomma emergono tutte le ragioni della semplice ma, a quanto pare,
solida genitrice olandese di Coetzee.

La modellistica della Modernità

Se l’età classica è stata l’età di una paideia mo-


dellata, ossia impostata sull’imitazione dei modelli,
è però alla Modernità che vanno rivolte le domande
– per noi più decisive – sulle questioni della plasma-
bilità umana, nell’infanzia come per l’intero arco
della vita umana. È nel lungo viaggio della Moderni-
tà infatti che l’educazione cerca un metodo e mette
a punto forme e tecniche di un insegnamento e un
apprendimento istituzionalizzati, estendendo a tutti
la possibilità di diventare “migliori” e di praticare
l’eccellenza della kalokagathía greca. La formazione,
intesa come destinazione dell’uomo ha trovato la
sua forma moderna nell’idea di umanità (e di natura
umana), messa a dura prova da due circostanze de-
J. J. Rousseau cisive: la prima legata alla costituzione politica degli
Stati moderni sulle ceneri delle guerre religiose che
divamparono nell’Europa cristiana; la seconda affidata al sorgere di una scien-
za analitica delle cause, che si impose sulla concezione antica e medievale della
natura. Poiché la formazione (eruditio), la morale (virtus), la religione (religio)
appartengono alla natura umana, il compito della formazione è di far venir fuori
ciò che nell’uomo sta rinchiuso. Decisivo in questo senso lo snodo di Comenio.
Più decisivo ancora – almeno nel definire i concetti di natura e di formazione – J.
J. Rousseau, il quale muovendo dalla constatazione che gli uomini interagiscono
sempre tra loro come avversari o concorrenti (e qui egli apriva tutta la problema-
tica contemporanea del riconoscersi), rese esplicita nell’Emilio la portata rivo-
luzionaria della sua tesi, secondo cui la determinazione naturale dell’uomo è di
farsi uomo, dal momento che l’educazione non può essere intesa come mezzo per
imporre una forma comunque intesa. E che è semmai vero il contrario, ossia che
convenga sempre tenere aperte molte possibilità, in modo da consentire a ciascuno
di collaborare soggettivamente e attivamente alla propria determinazione. Sarà

Narrativa in cerca di paideia 149


la natura a indicare questa possibilità; solo essa assume il volto di una prassi non
normativa.
Quello di Rousseau non va tuttavia inteso come un contromodello rispetto alla
modellistica di uno stato di natura originario, bensì come un aiuto teorico all’au-
tocreazione, nella quale cultura e natura possano svilupparsi insieme. Il suo fu il
manifesto educativo di un prototipo umano che non dipende più dall’opinione,
ma trova in se stesso un criterio universale di giudizio.
Il ginevrino, che più di ogni altro ha pensato in modo originale la formazione
dell’uomo, manca nel catalogo di Coetzee. Eppure avrebbe potuto spiegargli
più cose di quante egli non si proponga di ricavarne da Freud e dall’“idealismo

Angelo Semeraro
etico”.
L’esigenza illuministica, ben presente e tuttavia in fase di superamento nell’età
romantica, di una libera autodeterminazione degli individui, rese com’è noto
necessaria e possibile una nuova definizione del rapporto generazionale. L’inter-
vento pedagogico sulle nuove generazioni si sarebbe configurato come intervento
sull’autosvolgimento della libertà (la vita autentica – riflette ora Mancuso3 – è tutta
nelle forme della nostra libertà).
Il declino delle arti e della morale aveva posto Rousseau innanzi all’esigenza di
non abituare i bambini ai costumi disponibili, ma di sviluppare insieme a loro le
regole per una convivenza basata su un riconoscimento reciproco, organizzando
forme e contenuti dell’apprendimento in modo tale che l’incremento cognitivo
potesse dischiudere una capacità di giudizio aperto e autonomo, indirizzato al
progresso. Il ginevrino giunse alla conclusione che sappiamo, ossia che le condi-
zioni storiche della società moderna non consentivano un’educazione alla libertà:
la società non può illuminarsi su se stessa, e questo scetticismo radicale estese alle
pratiche educative. Un problema, il suo, che si acuisce in ogni società che prende
consapevolezza della propria crisi.

Lumi e ancora modelli

Tra Illuminismo e Romanticismo venne poi affermandosi un umanesimo che si


proponeva di raggiungere una completa reciprocità tra cultura ed educazione. Il
principio che animò la Bildung tedesca, che via via s’impose nel vecchio Conti-
nente, è la tensione del soggetto verso la propria forma: tensione ludico-estetica
nella drammaturgia di Schiller (il “sublime come teatro”); consapevolezza della
storia e della lingua in Herder, che in Goethe si realizza nella forma del Bildung-
sroman, ossia nella possibilità di cogliere nel racconto racchiuso in ogni viaggio
di formazione ciò che lentamente, e quasi impercettibilmente, ci trasforma lungo
il percorso del viaggio. Il tema del viaggio della Modernità o – se si vuole – del-
la Modernità come viaggio dell’anima del vecchio Continente, trova ora nella
esperienza narrrativa di Eugenio Scalfari4 picchi di assoluta liricità: un lenimento
della mente occidentale, portata da molta saggistica recente sull’orlo di una lettu-
ra apocalittica del futuro.
L’idea di Bildung intesa come formazione generale dell’uomo, che con Hegel
Quaderni di comunicazione 11 150

inizia la sua parabola discendente, verrà poi smarrendosi a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento, L’età della tecnica impose una forte divisione del lavoro,
e la conseguente scomposizione di un’unica Humanitas. Le riforme scolastiche
di cui si fecero promotori Humboldt in Germania e Gentile in Italia si incarica-
rono poi di cristallizzare quella scissione del principio educativo negli ordina-
menti scolastici. Marx rimase del tutto isolato nel suo tentativo di contrastare il
disegno delle borghesie europee con un progetto di onnilateralità ancorato alla
politecnia. E il suo fu l’estremo tentativo di unificare la weberiana società dei
due popoli, per estendere all’uomo – a tutti gli uomini – la possibilità di svilup-
pare tutte le loro facoltà, materiali e spirituali. (Sia detto tra parentesi che nella
Germania di Angela Merker si sono di recente sottolineati gli aspetti negativi,
anche nella produzione, del sistema “duale” e dell’eccesso di specializzazione
nella formazione professionale, inadatta alle esigenze di un mondo che cambia
molto velocemente). Una rivincita per niente consolatoria della lungimiranza di
Marx su Durkheim.

ulteriore
L’ulteriore
L’

Una nuova idea di Bildung non poteva igno-


rare le conseguenze dell’età della tecnica sulla
formazione, come si è detto, e venne perciò a
collocarsi in un punto di tensione tra le istanze di
liberazione del soggetto, che sono anche istanze
di negazione, e le altre possibilità, oltre i limiti del
noto e del dato. S’impose un percorso riflessivo
che puntò decisamente sul valore dell’esperienza
trasformativa, e questa riflessione deve molto a
Nietzsche, il quale seppe intrattenere con la pai-
deia del passato un dialogo aperto, con l’intenzio-
ne di farvi emergere un soggetto della formazione
altro e diverso.
Il punto di forza del pensiero di Nietzsche F. Nietzsche
stava proprio nell’autoformazione. Decostruendo
la Bildung dell’ideologia tedesca, che ebbe il suo monumento nella Fenomenologia
hegeliana, Nietzsche riaffermò il primato del soggetto nella formazione, liberan-
dolo dalla conformità di un sapere supposto oggettivo (in realtà oggettivante), per
farvi emergere la sua unicità (e discontinuità) rispetto a ogni eteronomia. Per farvi
emergere l’ulteriore, egli mosse da una critica di quel nichilismo dei valori che
caratterizza tutta la tradizione occidentale. Nel suo pensiero la formazione coin-
cide con lo stesso processo corrosivo dei limiti dell’umano: un processo dunque
autoformativo che richiede autonomia.
Contrapponendosi alla conformazione, l’uomo della tarda modernità vuole oggi
aprirsi alla differenza, alla ricerca di percorsi originali e autonomi di costruzione
culturale. Da qui il valore della poiesi, non condizionata da vincoli e gerarchie di
verità, che lavorano per la stabilizzazione dell’esistente, l’ordine e la conciliazione-

Narrativa in cerca di paideia 151


mediazione. L’estetica costruisce forme che non si votano all’equilibrio: forme-
forza, non forme-armonia. Le forme-forza sono quelle che nascono dall’immagi-
nazione non ancora addomesticata, dalle emozioni, dalle pulsioni vitali, e dal loro
investimento simbolico sul reale; sono forze che tonificano la vita emozionale,
rafforzano lo sguardo sulle cose; liberano il pensiero che si fa ermeneuta dei
segni e dei simboli in cui si raccoglie tutta l’espressività naturale e umana. Questa
volontà di potenza svolge una funzione di destrutturazione delle gerarchie che
vincolano il soggetto, ma anche di destrutturazione della sua stessa forma, disar-
ticolata dalle sollecitazioni di immagini, simboli, emozioni. Apre, per questa via
il soggetto a nuove possibilità, nuovi sviluppi; nuove aurore di senso. Con l’oltre

Angelo Semeraro
e l’ulteriore l’uomo nietzschiano sceglie la metamorfosi, docile al destino di un
“eterno ritorno”. Con Nietzsche insomma possiamo ritenere esaurita la lunga
fase della modellizzazione. Il suo pensiero continua ancora a corrodere le pretese
dell’universalismo educativo che si presenta sotto nuove vesti (il mercatismo e i
suoi nuovi clericalismi).

oltre della Bildung


L’oltre
L’

Tra i primi a tenere conto di questa svolta decisi-


va va segnalato Simmel, che ne rilanciò il richiamo
alla vita, al dionisiaco e al tragico che stanno den-
tro le dinamiche delle forme in continua mutazio-
ne. Ma furono soprattutto Adorno e poi Foucault a
riprendere la concezione di forma-forza nietzschia-
na, sviluppando ciascuno una propria visione di
autoformazione. In Adorno la forma-forza diven-
tava possibilità di un pensiero divergente, a partire
proprio da una critica della modernità. Foucault
a sua volta si concentrò sull’intreccio delle ragioni
che collocano la vita tanto dentro quanto fuori dal-
la storia, nel senso che non si dà vita come storia se
non attraverso una ricostruzione autoformativa che M. Foucault
renda espliciti i modi di costruzione della sogget-
tività, a partire da quel groviglio di segni impressi nel corpo e nei desideri. Per
l’epistemologo francese la storia smette di essere qualcosa di lineare ed evolutivo;
di conseguenza l’autoformazione diventa una pratica riflessiva capace di operare
sui limiti. L’intera ricerca sull’archeologia del sapere si svolge intorno al tema della
aletheia-verità, osservata nel rapporto del sé con se stesso, e nella costituzione del
sé come soggetto.
Sono le pratiche (i comportamenti) a definire le arti dell’esistenza: pratiche
ragionate e volontarie, attraverso le quali uomini e donne cercano di trasformarsi
nelle proprie singolarità, in una ricerca tendente a fare della propria vita un’ope-
ra d’arte singolare (“la vita autentica”) che esprima valori estetici e risponda alla
determinazione di inconfondibili stili personali di vita.
Un progetto di Bildung oltre se stessa (Ümbildung) avrebbe goduto di ulteriori,
Quaderni di comunicazione 11 152

forti impulsi nel pensiero del Novecento. In Heidegger ad esempio, si presenta


come teoria del linguaggio-interpretazione; in Wittgenstein come forma di vita.
Da Heidegger a Ricoeur la formazione si vincola al tema del comprendere e
dell’interpretare; al dialogo e all’ascolto. Una teoria della Bildung trovò inoltre
incremento nell’ermeneutica di Gadamer, che la rielabora incrociando tradizio-
ne e in-lusio – la propria, personale messa in gioco –, caratterizzandola in senso
fortemente creativo.

Criticità e dialetticità, insomma, sono i caratteri con


cui in ogni tempo si è presentato e si rappresenta per
ciascun vivente il problema della forma-forza, quella su
cui ciascuno può fare leva nell’organizzare le proprie
risposte nei contesti di socialità e di relazione.
Ben poveri e deboli perciò, innanzi all’insieme delle
questioni che la Ümbildung dinamizza, si presenta-
no oggi non solo le residue eteronomie che puntano
sull’educazione come ripetizione e consolidamento dei
primi imprinting, ma anche quelle, ancora più recenti,
cresciute dentro i processi di globalizzazione, che si
ispirano a un drastico funzionalismo economico-sociale,
spostando decisamente sul mercato le prerogative di S. Freud
orientare la forma umana. Non più educare persone, né
cittadini della civitas globale, bensì formare produttori e consumatori flessibili e
adattabili ai richiami di un mercato illimitato, refrattario a ogni regolamentazione
e in quanto tale – mi sia consentito – libertino.

Nella scaletta di lavoro di Coetzee vi sarebbero vuoti da colmare se si vuol dare


alla narrativa il tocco della saggistica. Il viaggio della Modernità, come si è potuto
vedere, è molto ricco e accidentato, e Freud, dal quale evidentemente Coetzee
si attende più risposte di quante sia in grado di offrirne, è solo il passaggio di un
percorso molto più interessante, se volessimo spiegarci quell’incapacità di “in-
tensificazione dell’empatia”. La liberazione (guarigione
non solo individuale ma collettiva) accetta i suoi limiti;
la libertà va esercitata entro ambiti ben definiti. Ci
dev’essere insomma un punto di equilibrio tra l’irrazio-
nale dell’inconscio e la razionalità della mente, tra il sé
desiderante e un Super-io legiferante. Questo vale tanto
per Foucault che per Nietzsche, nomi che mancano nel-
la sua “scaletta” di lavoro. Le domande sulla vanità e sul
sesso, inteso come scorciatoia verso la conoscenza, così
come quelle sulla “insipienza del cuore”, e il “transfert
per la classe e i suoi ripetuti tentativi falliti di gestirla”
hanno bisogno di un recupero nell’ordine di un Sim-
bolico, in cui solo Jung potrebbe aiutare lo scrittore
sudafricano, spianandogli quella platonica pianura
G. Jung
della verità dove abitano gli archetipi. E dove si possono cercare le tracce di

Narrativa in cerca di paideia 153


quell’archeostoria impressa nel DNA di un Sapiens senza più déi e senza prossimo5.
Nella scaletta di Coetzee non troviamo indicato Nietzsche che prima, ma anche
oltre Freud, ha spiegato bene come il disagio, ogni disagio sociale, è radicato nel
contrasto perenne tra felicità individuale ed etica pubblica.

C’è una via d’uscita tra il necessario condizionamento che comporta ogni tipo
di formazione e l’autonomo libero svolgimento di ogni Sé, senza guide e senza
esercizio costrittivo?
La formazione di cui si parla non offre risposte alle domande di Coetzee, né ai
nostri problemi. Una forte sagomazione iniziale su modelli non porta necessaria-

Angelo Semeraro
mente al decondizionamento in età adulta dalle forme ricevute; non porta insom-
ma alla liberazione individuale, se non a costo di forti rotture che si manifestano
in forme di ribellione o di dolorose chiusure introversive. Ma neppure il libero e
spontaneo sgomitolarsi porta a quella autonomia promessa da illusorie pedagogie
fai-da-te. La risposta più convincente resta ancora – almeno per chi scrive – in
quella formula del conformismo dinamico gramsciano (travolto anch’esso dal
Sessantotto) che mentre esercita una consapevole coercizione sull’apprendimento
(tecniche e regole) nel primo imprinting, libera (né prima, né dopo, ma durante,
ossia lungo l’intero percorso addestrativo) le energie intellettive dalla soggezione
ai modelli. Vi sarebbero considerazioni da sviluppare su questo punto circa le
ricadute della confusione pedagogica sulla politica della sinistra storica.

Infanzie

Non è un caso se il Sé infante che emerge nel primo


romanzo della trilogia narrativa “scene di vita di pro-
vincia” di Coetzee, che ha per titolo Infanzia, è quello
di un ragazzo ossessionato dal diventare “normale”.
Il piccolo protagonista sembra non avere aspirazioni
fuori dall’essere considerato come tutti gli altri. Nutre
insomma un forte desiderio di conformismo. Vorrebbe
un padre che lo picchiasse e lo trasformasse in un ra-
gazzo “a norma”; ma ammette pure che se suo padre lo
percuotesse “lui perderebbe la testa e diventerebbe un
ossesso”. Stessa ambiguità nei confronti dei primi mae-
stri: odia le loro verghe e i lividi sui glutei. Ma lui non è
stato mai picchiato, e se ne vergogna, dal momento che
questo privilegio lo isola dalla comunità dei coetanei,
dai giochi comuni. Dietro c’è una madre-roccia su cui lui “si erge”, che se ne sta
sullo sfondo per intervenire solo quando lui la chiama. Il suo fardello d’infanzia è
che nella situazione di completa adesione a un principio di libera autogestione a
cui la madre si ispira e lo spinge, “dipende da lui andare, in un modo o nell’altro,
oltre l’infanzia, oltre la famiglia e la scuola”6. Vorrebbe essere “normale”, ma
vorrebbe anche che sua madre lo fosse. Perciò “è sempre lì a cercare di capire sua
madre”7. Il fatto che questa incarni convinzioni diverse rispetto ai modelli domi-
Quaderni di comunicazione 11 154

nanti, lo rende insicuro. Ben presto finirà col convincersi insomma che l’infanzia è
un periodo in cui bisogna stringere i denti e resistere8.
I protagonisti dei romanzi di Coetzee non vincono mai, e spesso sono in fuga.
Nessuna consolazione, nessun conforto. Vivere è una malattia a cui nessuno può
sottrarsi. Così è in Gioventù (2002), dove la storia del
ragazzino inquieto e pieno di sensi di colpa di Infanzia è
diventato un giudizioso studente universitario di mate-
matica che si ritrova in un’Europa intrappolata in una
guerra fredda che gli risucchia l’esistenza e gli fa sentire
la vita come un gioco in cui si può solo perdere.
Stesso clima nei due romanzi Aspettando i barbari
(1980), storia di un magistrato che da suddito dell’Im-
pero si trasforma in nemico senza avere mai la certezza
di battersi per la causa giusta; così ancora in Età di ferro
(1990), la tragedia pubblica e privata del Sudafrica
violento degli anni Ottanta attraverso gli occhi di un’in-
segnante in pensione divenuta suo malgrado testimone
di eventi storici violenti, di cui radio e tv non dicono
niente; così pure in Disgrace (1999), tradotto in italiano
col titolo Vergogna: una storia di disgraziati. A partire dal
protagonista, un professore di letteratura di mezza età, e
di sua figlia, omosessuale solitaria e ideologica; disgrazia-
te anche le bestie: cani abbandonati sacrificati nell’ince-
neritore della clinica veterinaria vicina alla fattoria dove
il prof. si rifugia. Disgraziata infine la veterinaria che
passa le sue giornate a iniettare l’ultimo veleno a quei
poveri randagi. Stesso clima in Elisabeth Costello (2003),
narratrice di storie che nessuno vuole ascoltare. Roman-
zo – quest’ultimo – che porta al limite dell’assurdo le
compiaciute certezze dell’illuminismo.

Lo studente, il magistrato, il professore universitario,


l’insegnante, l’affermata narratrice, sono tutte figure
combattute tra condizionamento e rivendicazione di
una propria autonomia. Che è poi l’eterna questione su
cui si sono versati fiumi d’inchiostro e si sono cimentate
pedagogie d’ogni tempo.
Potremmo rapidamente concludere, che forse l’edu-
cazione è solo una questione di diete personalizzate, di
un buon dosaggio tra autorità e libertà. Che ogni guida,
consapevolmente o meno, non può fare a meno di con-
dizionare, ma che laddove sia stata ben temperata da una
scuola o da una ricca esperienza di vita, impara poi da sé
a conoscere il momento in cui liberare, lasciando nelle
mani di ciascuno la matassa da sgomitolare.
In questa ricorrente oscillazione tra dilemmi e antino-

Narrativa in cerca di paideia 155


mie, che Coetzee ha senz’altro il merito di segnalarci attra-
verso pagine di raffinata letteratura, vi sono le ineludibili
incertezze di una paideia in continua tensione nella ricerca
dei modelli per l’oggi e il domani. In ritardo sull’obiettivo
di restituire a ciascuno la titolarità dell’autodeterminazio-
ne e i mezzi per raggiungerla. Spogliati del numinoso dei
calchi originari (i modelli) – sembra volerci suggerire lo
scrittore –, siamo oggi tutti obbligati a spingere lo sguardo
oltre le forme date. Nessun timore dunque nell’abban-
donare le eteronomie. Una paideia dell’oltre lavora per la

Angelo Semeraro
speranza.

Note

1
Abraham Kuyper fu un teologo, politico e giornalista vissuto tra l’Otto e il Novecento.
Influenzò una tendenza conservatrice del neocalvinismo.
2
M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009; L. Zoja, La morte
del prossimo, Einaudi, Torino 2009; P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Il
Saggiatore, Milano 2009.
3
V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
4
E. Scalfari, Per l’alto mare aperto, Einaudi, Torino 2010.
5
Luigi Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Berga-
mo 2003.
6
J. M. Coetzee, Boyhood, New York 1997, tr. it., Infanzia. Scene di vita di provincia, Einaudi,
Torino 2001, p. 14.
7
Ibid., pag. 28.
8
Ibid., pag. 15.
Tessiture
Elena Pulcini vuoto, ancorato al presente ed esposto alla
manipolazione”) dall’altro (p. 40).
La cura del mondo. Paura e Tre figure di individuo si delineano sullo
responsabilità nell’era globale sfondo dello scenario globale: il consuma-
tore, che si caratterizza per atomismo e
Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 297, indifferenza, lo spettatore, i cui caratteri
€ 25,00 sono edonismo e conformismo, passività e
insicurezza; e il creatore, che ha smarrito la
progettualità e il senso dell’agire (“Un Io,
La ricca introduzione-premessa a quest’ul- apatico e vorace allo stesso tempo, che pos-
timo impegnativo saggio di Elena Pulcini siamo riconoscere nell’indifferenza dello
lascia già intravedere l’intero suo percorso spettatore, nel parassitismo del consumatore
originale che punta – e può farlo grazie alla e nell’onnipotenza solipsistica dell’homo
ricchezza degli strumenti storico-analitici creator”, p. 13).
di cui dispone – a un superamento di Il primo macroscopico effetto di questo
quell’ossessione dell’Io e del Noi (e del Noi paesaggio della modernità globale è evi-
e Loro) che rappresenta la vera malattia del dentemente l’erosione del legame sociale e
nostro tempo: l’emergere da una parte di tuttavia il forte e diffuso bisogno di comuni-
un individualismo illimitato che produce tà, ossia la “valorizzazione” del locale – in
“atomismo e indifferenza”, e dall’altra di senso sia territoriale che simbolico – come
un comunitarismo “endogamico”, produt- risposta al deficit di comunità prodotto dal-
tore a sua volta in aggregazioni “arcaiche la società globale. Parlare di un ritorno della
e fusionali”. L’A. attribuisce entrambe le comunità è per l’A. fuorviante. Quella che
patologie a una collusione tra due tipi di oggi rinasce non è la comunità premoder-
fondamentalismo: quello omologante di na, tribale, che resiste alle dinamiche della
mercato e della cultura consumistica, e globalizzazione, ma, al contrario, quella che
quello tribale dei particolarismi di ogni coesiste con essa. Si tratta perciò di sapere
genere, il cui sintomo estremo è rappresen- e “poter distinguere gli aspetti legittimi ed
tato dal comunitarismo etnico-religioso. emancipativi da quelli patologici” (p. 13 ).
Entrambi costituiscono i prodromi di quel- L’ampio respiro di questo saggio approda
la “perversione”del modello prometeico, a una assunzione di responsabilità, e di
di cui l’età globale ha accentuato gli aspetti trasformazione creativa al contempo, per
negativi: perdita del limite (lett: confini) e contrastare quella paura della “perdita del
sradicamento da un lato, e hybris di onni- mondo”, un tema – anzi il tema – ander-
potenza, propria della forma più degene- siano che fa da sfondo a tutto il saggio.
rativa dell’individualismo narcisistico (“un “Solo la paura della perdita del mondo può
Io decentrato e desiderante, ipertrofico e spingerci ad assumere responsabilmente
il tema della sua conservazione” (p. 160). Superfluo sottolineare la ricchezza dei
Quaderni di comunicazione 11 160

Una euristica della paura diventa per l’A. legami che coinvolgono questa caratteriz-
la precondizione di un agire eticamente zazione meno astratta e retorica dell’etica
responsabile. Ma un sapere che non genera della responsabilità, una volta ancorata a
reazioni, un conoscere senza un sentire non una comunicazione tenuta in tensione con
si traduce in azione. La comunicazione, gli obiettivi di una paideia trasformativa.
che è sempre un agire-con è una risorsa
emotiva rispetto alla potenza produttiva, al Angelo Semeraro
Prometeo incatenato dalla tecnica. Eppure
gli strumenti di comunicazione di cui di-
sponiamo sembrano più anestetizzarci che
indurci a un’agire finalizzato.
La vulnerabilità, ossia quell’aspetto Vito Mancuso
paralizzante di inadeguatezza che avver- La vita autentica
tiamo innanzi a processi di erosione delle
libertà personali (libertà dal bisogno, dalla Raffaello Cortina, Milano, 2009, pp. 171,
precarietà, dalla disinformazione) può € 13,50
tuttavia diventare una leva per imboccare
vie d’uscita positive. Il pensiero critico Un discorso sull’autenticità della vita
femminile più maturo lavora in questa “vuole il piede”, esige cioè un fondamento,
direzione (Judith Butler, ad es.). Solo nel “così da poter essere sicuri che non crolli
riconoscimento della propria vulnerabilità una volta esposto alla forza delle obiezioni”
e nella risposta alle difficoltà dell’altro il (p. 57). L’insegnamento di dare un piede
soggetto produce senso (p. 247). Viene va- alle cose, che Mancuso ha ricevuto da un
lorizzata nel pensiero femminile di seconda padre che di mestiere faceva il muratore,
generazione l’esperienza della perdita e costituisce l’imprinting del saggio, che si
della cura in quanto sollecitudine. Un’etica propone di delineare i caratteri di una vita
della cura (cfr.Gilligan, Con voce di donna), autentica, tra i quali, e primo tra ogni altro,
si carica di una dimensione emotiva, e una egli pone il problema della libertà. Per-
volta svincolata dal “materno” care-giving ché innanzitutto va detto – come spiega e
(prestare cura), acquista un respiro più argomenta l’A. – “non c’è vita autentica se
universale che consente di incidere profon- non c’è libertà”. Ed è su questa che si gioca
damente sulle sorti del mondo, ferito nella la vera partita di una vita autenticamente
umanizzazione per gli effetti omologanti ed vissuta. E se la vita è tanto più umana quan-
estranianti della globalizzazione. to più è libera, ossia quanto più il vivere
Il tema della cura mundi, bello ed origina- incrementa la libertà, ne consegue che
le, a cui l’Autrice dà il giusto rilievo nelle riflettere sull’autenticità della vita significa
pagine conclusive di questo suo saggio mettere a tema il buon uso che della libertà
robusto e affascinante, investe anche l’atti- sappiamo fare “perché essa risulti buona
tudine al prendersi cura (taking care of) più e non cattiva, vera e non falsa, bella e non
tipicamente maschile (J.Tronto), e carica di brutta” (p. 53). Questa Kalokagathía appli-
cognitività emotiva, empatica, il potere di cata alla libertà, la orienta alla verità, intesa
incidere sulle sorti del mondo. come bene e giustizia (p. 118). Viene posto
È questa la strada per creare una diversa dunque implicitamente il tema dell’educa-
forma, in contrasto col concetto distrut- bilità della libertà. Un grande e ricorrente
tivo di perdita del mondo. Se l’unica motivo, drammatizzatosi nell’arco della
rivoluzione consentita è l’evoluzione, si Modernità, con la caduta dei Grandi Mo-
deve prendere atto della creatività di un delli. Fu un Einstein poco noto a riprende-
pensiero femminile che cerca di integrare re con vigore, in uno dei suoi scritti, il tema
l’etica della responsabilità con l’idea di della libertà interiore e della possibilità di
cura ecologica del pianeta, che nelle pagine educarsi ad essa attraverso l’indipendenza
conclusive del saggio si delinea come una del pensiero dai vincoli dei pregiudizi e
pratica, oltre che un principio morale. dagli stereotipi mentali. Avvertendo che le
scuole possono ostacolare lo sviluppo della è che c’è qualcosa che si può perdere o

Tessiture 161
libertà interiore esercitando sui giovani che si può guadagnare, e quel qualcosa è la
influenze autoritarie. psyché, cioè la libertà. Perciò per guadagna-
Ma cosa vuol dire autentico? Una questio- re il centro di me stesso mi debbo superare.
ne che si soggettivizza per ciascuno, nella Il nostro essere-energia va coltivato, speso,
ricerca di un “fondamento tutto mio“. Filo- investito; è in questo modo che si sviluppa-
sofia e teologia si intrecciano e si incontra- no tutte le nostre potenzialità e diventiamo
no qui nell’Autore, senza che nessuna delle libertà che vuole verità, la quale a sua
due prevarichi l’altra, dovendo ammettere volta vuole adesione alla realtà. Tutto si
che non vi sono punti fermi in nessuna tiene, tutto si può tenere, se partiamo dal
scienza umana, quelle religiose incluse, necessario prerequisito della sincerità con
che le stesse neuroscienze non riescono a noi stessi. Un farsi dell’uomo si acquista
comprendere il livello superiore dell’essere e si conquista solo attraverso una paideia
che si manifesta come coscienza, libertà che orienti fin dai primi istituti educativi,
e responsabilità. Si aprono prospettive all’amore per la verità. La verità (in sé e
come si è detto interessanti per una paideia per sé, aggiungerebbe Hegel), è quella che
dell’uomo, in quanto l’autenticità (l’eigen- cerchiamo ogni giorno nell’informazio-
tlicht heideggeriano) – e il suo contrario ne, nell’amministrazione della giustizia,
(uneigentlicht )– riguardano l’uso della nelle relazioni personali. L’educazione ci
libertà, in primo luogo il controllo della aiuta a coltivare quelle qualità dinamiche,
mente e del linguaggio. Il controllo della relazionali, della verità, che consentono di
mente comporta innanzitutto l’aderenza al collocare sempre il dato di realtà in contesti
reale (“inchiodarla” sul reale significa per più larghi di senso e di significati. Perché
l’A. aderire al presente, leggerlo per quello l’educazione è paideia, ossia essenzialmente
che è, senza mentire mai e senza applicarvi cultura, e autoformazione continua. Non si
categorie improprie). Anche il linguaggio tratta perciò di assumere il significato della
necessita di vigilanza e Mancuso ha buon verità come dottrina, come dogma assunto
gioco nel citare testi biblici di grande effica- per fede, ma di intenderla come processo,
cia, come quelli che si trovano nei Proverbi frutto del lavoro umano, su di noi e fuori di
(Chi sorvegli la bocca preserva la sua vita; la noi, perché essa è qualcosa che si muove,
lingua è un fuoco che incendia, ecc.). così come si muove la vita, e raggiunge
Utili riflessioni offre l’A., a questo riguardo, l’aspirazione sua massima nella giustizia, il
sulla menzogna e sull’esuberanza narcisi- bene, la bellezza: la Kalokagathía dei greci,
stica, un aspetto dilagante della patologia la loro eccellenza.
sociale dei nostri tempi a cui egli dedica Sono il bene e la giustizia a dare quella
pagine di utili approfondimenti. felicità profonda che dona la serenità.
Nell’ultima parte del saggio si spiega il con- Si può riconoscere l’uomo che ha reso
cetto heideggeriano della fedeltà a se stessi; autentica la propria vita? L’A. risponde
l’aspirazione a vivere dell’“essere-sempre- positivamente a questa domanda, e spiega
mio”. Il concetto di fedeltà a se stessi è che la situazione di autenticità si dà quando
qualcosa che suona bene, ma che nel caso tra interiorità ed esteriorità si realizzi una
di Heidegger, suona male, dal momento stessa vibrazione di diapason. Quell’uomo
che in quella sua “radura dell’essere” dice ciò che pensa, fa ciò in cui crede; sente
(Lichtung) non si insinuò mai il dubbio di ciò che manifesta. Quando questa armonia
servire una causa sbagliata. Una filosofia si realizza possiamo star certi di trovarci
allergica a ogni valutazione etica – suggeri- innanzi a una persona autentica. Vero uomo
sce l’A. –, annulla se stessa, e la rende falsa, è perciò colui che trova una ragione più
perché incapace di interpretare e, quando grande e fuori di sé per cui vivere.
è il caso, combattere, per non rimanere Una virtù che è la sintesi dell’intera per-
succubi della storia. Perché la fedeltà a se sonalità, aggiunge l’A. nelle pagine finali
stessi richiede anche il saper diffidare di sé: è la speranza, perché ogni uomo è la sua
chi si concentra tutto e solo su se stesso è speranza e si può anche definire attraver-
portato ben presto a smarrirsi. Il paradosso so l’oggetto del suo sperare. Se la vita è
paragonabile a un viaggio, la speranza è la coglienza sono parole di cui non siamo più
Quaderni di comunicazione 11 162

meta verso la quale si viaggia. “Nessuno sa in grado di cogliere il significato. Il miserere


se ci sarà davvero una pesatura delle anime del commiserare è la condivisione di un
alla fine de mondo, ma ciascuno è in grado pane con chi ne manchi. Se ci interroghia-
di capire quanto pesa la propria personalità mo sui nostri sentimenti più profondi, non
e quella degli altri, e di sentire se chi ab- troviamo più la gratitudine e l’accettazione,
biamo di fronte è in vendita oppure, e per bensì l’amarezza e il risentimento. Vi sono
quanto, oppure no” (p. 133). Se la speranza persone, afferma Martini, che sono risentite
è complessivamente orientata al bene e alla e che mostrano in tutto il loro essere di
giustizia, essa produce in chi la vive la luce non avere pace dentro di sé (p. 28). Le
calda e benevola dell’uomo giusto. sofferenze si concentrano per lo più sulla
Saggio godibile, consigliabile a quanti questione del riconoscimento: sofferenza
aspirano a una vera eccellenza. dell’abbandono, della considerazione; soli-
tudine dell’emarginazione, della perdita del
Angelo Semeraro lavoro, o della sua irraggiungibilità.
Un’altra parabola su cui l’A. si sofferma in
queste raffinate meditazioni è quella dei
talenti. In leggero ma essenziale contrasto
con le retoriche dell’eccellenza, della genia-
Carlo M. Martini lità produttrice di brevetti, essa ci indica la
Le ali della libertà. L’uomo strada per rendere costruttivo il rapporto
io-altri. Osservare negli altri ciò che posseg-
in ricerca e la scelta della fede gono, e in noi ciò che ci manca, implica una
buona dose di umiltà, un sentimento che
Piemme, Milano, 2009, pp. 109, € 15,00 non fiorisce più nelle società competitive.
L’umiltà è un’attitudine a lasciare che altri,
In una incisiva riflessione che muove dalla di qualsiasi età e condizione, ci insegnino
Lettera ai Romani, il cardinal Martini ci qualcosa. Una disponibilità a farci avvi-
rammenta il significato della misericordia cinare. Quando cominciamo a prendere
nel Nuovo Testamento, un tema sentito da realmente coscienza di ciò che siamo, dei
S.Paolo, ma di non facile interpretazione. nostri pregiudizi e dei nostri limiti, ma
Siamo innanzi a un documento importante anche delle nostre qualità (i doni che pos-
per la Chiesa, ricco di tonalità e sfumature siamo distribuire attorno a noi, le nostre
che lo rendono ancora attuale anche ai non più proprie e specifiche qualità) siamo
battezzati e agli agnostici. Concentrandosi all’inizio della trasformazione della mente e
su alcuni passaggi, come quello che muove del cuore. E la linea del cuore è altrettanto
dalla parabola del buon Samaritano, il e forse più importante, afferma Martini, di
cardinale ci intrattiene sul significato di quella della mente. I carismi sono diversi, e
un termine desueto alla cultura sociale ciascuno si specializza nel proprio: “chi ha
del nostro tempo. La misericordia può la profezia, chi l’insegnamento, chi l’esorta-
essere intesa in vari modi. In un senso più zione. Ciascuno può mettere a frutto il pro-
decisivo, essa è un’offerta non astratta prio talento”. Il pensare di essere arrivato,
di noi stessi, che investe la corporeità, la non è interessante, sostiene. Più interessan-
concretezza, le nostre scelte e le nostre te fare di ogni traguardo un nuovo punto di
azioni, oppure, in termini per noi più partenza, sia essa una laurea o una cattedra
accessibili, in un sacrificio ragionevole, che universitaria. Sentire che quel traguardo è
non chiede troppo, che non prevarica e stato possibile grazie anche al sostegno di
non abusa. L’uomo misericordioso difficil- altri che ci hanno stimolato, che ci hanno
mente si incontra in una società altamente incoraggiato lungo la corsa, che si sono
competitiva, completamente conquistata prodigati e gioito con noi quando abbiamo
dalle economie di mercato. Difficilmente toccato il nastro d’arrivo. In virtù della
il modello altruistico può attecchire nella sua libertà, insomma, l’uomo resta ancora
modellistica dominante. Misericordia e ac- titolare della libertà a far prevalere la parte
buona e luminosa del sé oppure quella cat- individualistiche conseguenti al suo incep-

Tessiture 163
tiva, oscura: “se sappiamo guardarci bene pamento, i cui sintomi appaiono evidenti
dentro, scopriamo che le forze negative del tanto nella sfera individuale, quanto in
male e quelle positive del far bene sono pe- quella collettiva.
rennemente in lotta dentro di noi”. Si tratta Il volume di Fiumanò si muove agilmente
di non dimenticare però che abbiamo la lungo il percorso clinico tracciato dal-
responsabilità di “scegliere quale delle due la teoria freudiana e ri-semantizzato da
parti vogliamo che prevalga: quella oscura, Lacan, sebbene l’oggetto della ricerca sia
votata all’odio e alla distruzione o quella rappresentato da una dimensione talmente
indirizzata alla creazione, all’affezione”. strutturale del quotidiano, che l’ambito
Fare del bene a chi mi fa del male sembra “clinico” costituisce soltanto una parte di
impossibile con le sole forze umane. In un discorso antropologico in senso allarga-
questo senso il comandamento dell’amore to. Nucleo centrale è la differenza, spesso
è l’ultimo, il definitivo. Ma se questo oriz- poco compresa, tra il desiderio (désir) e il
zonte si è fatto più lontano in tempi grevi godimento (jouissance). Nella classica teo-
come i nostri, rendiamoci almeno dispo- ria lacaniana, come noto, il primo rappre-
nibili – questo è il messaggio del cardinale senta la condizione umana fondamentale,
che non diventò papa – per un’etica del non caratterizzata dalla vettorialità di una spinta
danneggiamento, che si può tradurre in un verso un oggetto che per sua natura è
invito a non far soffrire nessuno a causa del perduto, mitico e irraggiungibile (in quanto
nostro giudizio. la sua mancanza è irriducibile al soggetto,
Un libro, una meditazione, altamente con- alludendo all’originarietà dell’oggetto
sigliabili, come antidoto alle degenerazioni materno).
delle nostre vite competitive, che inclinano Il desiderio pertanto è ciò che, semplice-
pericolosamente da tutt’altra parte. mente, spinge a vivere, spinge a produrre
relazioni, cultura, civiltà; esso vive dietro il
Angelo Semeraro falso movimento verso un suo fantasmatico
appagamento, verso il raggiungimento fina-
le dell’oggetto. La jouissance, al contrario,
è il godimento (interessante, tuttavia, tutto
Marisa Fiumanò il percorso lessicale del termine proposto
dall’Autrice, che al suo interno fa integrare
L’inconscio è il sociale. Deside- le cariche semantiche dei concetti di joy,
rio e godimento nella contempo- di gaudium, di Genuss e di Befriedigung),
nozione flessibile e polisemica, una sorta di
raneità. unità di misura del campo dell’energia psi-
chica, che può significare sia benessere, che
Bruno Mondadori, Milano, 2010, pp. 162, malessere, sia pulsione di vita che di morte
€ 15,00 ma, comunque, sempre soddisfazione finale
e omeostatica.
Ebbene, anche in questo lavoro è presente
Il recente lavoro di Marisa Fiumanò, psico- (ineluttabilmente, visti i temi dell’attualità)
analista, saggista e co-fondatrice dell’As- la lettura althusseriana della teoria di Marx
sociazione Lacaniana Internazionale di sull’oggetto-merce e il valore di scambio,
Milano, si colloca all’interno di una precisa riattualizzata dalla logica del “Discorso del
linea di ricerca che sembra stia diventando Capitalista” di Lacan: oggi l’oggetto per-
il filo rosso delle attuali scienze umane. duto del desiderio tende a coincidere con
Come già in altri saggi recensiti negli ultimi l’oggetto di “consumo”. L’oggetto-merce, il
fascicoli del Quaderno, L’inconscio è il corpo-merce, la sostanza-merce, il rapporto
sociale denuncia l’assoluta centralità di umano-merce, vengono così a rappresenta-
un’analisi della soggettività contemporanea re il godimento del soggetto, la jouissance
nel suo rapporto col desiderio, col suo del suo desiderio in panne. Anche qui,
appagamento e con le derive narcisistiche e l’imperativo della pubblicità è “godi!”; ma
l’ottenimento di questi oggetti di consumo negli Inferi e a riempire eternamente un re-
Quaderni di comunicazione 11 164

costituisce una soddisfazione aleatoria, non cipiente col fondo bucato. E, di converso,
potendosi sovrapporre all’oscuro oggetto il godimento è come l’acqua che scorre via
del desiderio dell’individuo. Consumarli, dalla loro botte, impossibile da contenere,
possederli, appropriarsene, non cancella il da misurare e da estinguere.
malessere psichico delle dipendenze, delle Come spesso accade per i contraddittori
apatie, delle sofferenze psichiche che ca- aforismi di Lacan, che l’autrice isola in
ratterizzano il nostro tempo. Il desiderio va maniera limpida e godibilissima dalla
sempre “mancato” e rapportato all’Altro, scrittura spesso criptica del maestro, anche
suggerisce l’autrice, in una dialettica che si in questo caso la faccenda potrebbe essere
ripropone dall’origine della civiltà in una riassunta dalla proposizione secondo la
serie di modelli storici eloquenti, come quale “la sessualità non è mai del tutto
quello di Antigone, che fa del proprio desi- riuscita”. Nel senso che il vettore che lega il
derio di morte una questione etica, o della soggetto ai suoi oggetti del desiderio riman-
Santa Teresa d’Avila del Bernini, di Bess da sempre ad altro, galleggiando nelle bolle
di Lars Von Trier e di Lol Valerie Stein di del linguaggio. Come, per esempio, accade
Marguerite Duras, personaggi che mettono nella sessualità femminile, a cui Lacan de-
in campo l’impossibilità di rendere il godi- dica il Seminario Ancora (1972-73) e a cui
mento Altro all’interno del linguaggio. Fiumanò rinvia in un paragrafo nel quale
Da questa differenza concettuale, che spiega la sottilissima “doppia iscrizione”
rappresenta lo sfondo di tutto il saggio, attraverso la quale la donna mette in atto
si passa alla trattazione della clinica della il suo rapporto col godimento in quanto
jouissance da Freud a Lacan: un fantasma relazione con l’Altro.
governa la sessualità, quello della messa in E il concetto di Altro, paradigmaticamente,
scena simbolica del rapporto tra il sogget- chiude il saggio ma ne dà anche il titolo: se
to e il suo oggetto perduto, nel tentativo l’inconscio è strutturato come un linguag-
perenne di recuperare il godimento che vi gio, esso è, fondamentalmente, il “sociale”,
si lega. Alla base di questo malpadroneg- cioè è dato dalla somma delle relazioni che
giabile processo dell’inconscio c’è la voglia ci spingono a desiderare l’altro (minuscolo)
insopprimibile di rendere reale das Ding, come espressione dell’Altro (maiuscolo),
“la cosa”, ossia quel significante, quell’og- cioè da ciò che ci trascende e che ci spinge
getto primitivo idealizzato e perduto per a vivere. Non Dio, non le ideologie, non un
sempre e perciò strutturalmente insoddi- capo carismatico o una legge morale, ma
sfatto per sua natura. tutto cioè che di queste rappresentazioni è
In questo senso vengono proposti una serie alla base, ovvero lo stesso desiderio verso
di elementi significativi e molto interessanti un oggetto che, miticizzandosi, si trascen-
che rendono ragione di questa dimensione: dentalizza e regge la vita sociale e politica
dalla trattazione connessa al celeberrimo delle società.
aforisma di Lacan, “Il corpo serve a gode- Il sintomo più evidente del malessere
re”, alla parafrasi della formula di Charles generale che caratterizza tanto le attuali
Melman, secondo la quale “l’inconscio è democrazie, quanto le attuali forme di
l’organico”, cioè l’inconscio è il funzio- autorità educative e di istituzioni formative,
namento degli orifizi fisiologici erotizzati è proprio l’abolizione di questo Altro, cioè
simbolicamente dal soggetto come “luoghi della fonte di autorità che, regolando il
del desiderio”. desiderio, ha da sempre organizzato la vita
Tutto ruota attorno a una dimensione dell’Occidente. Manca cioè un “no” degli
simbolica che funge da scenario per il desi- educatori che ponga un limite al godimen-
derio umano e di cui il godimento rappre- to e riattivi un desiderio apatico e ormai
senta il ruolo meno centrale, sebbene più svogliato: questa è la conclusione pedago-
complesso. Per tale motivo, spiega Marisa gica con la quale si conclude il volume e
Fiumanò, il desiderio è come la botte delle che costituisce il corollario culturale della
Danaidi, che, colpevoli di aver ucciso i ma- disamina clinica dell’autrice.
riti, furono condannate da Giove a giacere L’inconscio è il sociale è l’esempio della
continuità tra psiche individuale e psiche dell’amore” (quell’eccesso di amore frustra-

Tessiture 165
collettiva e, dunque, di come uno psicoana- to rappresentato dalle nevrosi isteriche),
lista non possa che essere engagé, rap- il nostro tempo giace neghittoso in una
presentando un’etica che mette al centro “clinica dell’antiamore”, cioè in una psico-
l’uomo e il suo desiderio. patologia caratterizzata dallo smarrimento
di quello che Lacan chiamava “il soggetto
Mimmo Pesare del desiderio”.
Il soggetto ipermoderno è un soggetto
smarrito e gli elementi che corroborano
questa dimensione non sono le vaghe
Massimo Recalcati supposizioni teoriche che caratterizzano
la fiorente produzione editoriale (spesso
L’uomo senza inconscio. Figure sociologistica) di istant book e di pamphlet
della nuova clinica psicoanalitica sul tempo che viene. L’impianto teorico di
Recalcati, unisce la leggibilità e l’origina-
Raffaello Cortina, Milano, 2010, pp. 337, lità concettuale a un rigore scientifico che
€ 26,00 rende il volume un opus magnum di questa
stagione editoriale.
L’ultimo volume di Massimo Recalcati reca Il perché di questo smarrimento, per
un sottotitolo che ne renderebbe un’idea Recalcati ha una causa molteplice. Non è
fondamentalmente manualistica: “Figure possibile per uno psicoanalista cedere al
della nuova clinica psicoanalitica”. E seb- determinismo di processi esclusivamente
bene scorrendo l’indice ci si imbatta in una riducibili alla psiche individuale, come per
tassonomia delle più significative psico- uno scienziato sociale non è possibile com-
patologie contemporanee, le quasi quat- prendere la società senza far riferimento
trocento pagine di L’uomo senza inconscio alle dinamiche emotive del singolo. In que-
rappresentano un lucidissimo esempio di sto senso L’uomo senza inconscio si muove
come uno psicoanalista possa dare un con- su un impianto di “ermeneutica della
tributo non solo “clinico” alla saggistica di civiltà” che ha caratterizzato alcuni pilastri
Kulturkritic, della quale c’è tanto bisogno del freudismo quali Psicologia della masse
da parte degli intellettuali del nostro Paese, e analisi dell’Io. Le sociopatie contempora-
in questo momento di emergenza politica. nee, in altri termini, sono la manifestazione
Al di là della gradevolezza e leggibilità della di psicopatologie individuali peculiari del
scrittura di Recalcati (anche quando usa un nostro tempo e viceversa, in un continuo
linguaggio tecnico) questo testo possiede chiasmo di rapporti tra il singolo, la società
una idea originale e una teoria che, come si e i media.
conviene ai grandi pensatori, non rimane In realtà Recalcati non parla mai esplicita-
ancorata alle angustie delle proprie celle mente di media e della loro influenza sulla
disciplinari, ma si dipana in un percorso in- psiche, ma agli occhi dei più attenti questo
tellettuale organico, molto incisivo e spesso volume può rappresentare anche un utile
anche caustico. strumento per lo svecchiamento delle teo-
Per Recalcati parlare di postmodernità rie sulla comunicazione, dopo lo strapotere
non ha molto senso, oggi. I nostri destini esercitato per decenni dalla ormai vetusta
sono legati al concetto di ipermodernità, teoria macluhaniana.
un’epoca che, nell’iper- ha radicalizzato Anche questo libro, quasi a consacrare una
le contraddizioni e i conflitti irrisolti della sorta di leit motiv della saggistica recente,
Neuzeit. E la cifra peculiare della ipermo- parla di narcisismo, inteso come spirito del
dernità ha una radice fondamentalmente tempo ed essenza stessa di una ipermo-
antropologica: essa è caratterizzata dallo dernità in cui anche le psicopatologie ne
spegnimento del desiderio, dalla sua morte, sono una metafora: i malesseri e le forme
dall’apatia, dall’indifferenza, dal vuoto. Se i depressive di questo tempo si cristallizzano
fasti della genesi viennese della psicoanalisi attorno ai fenomeni delle anoressie e degli
erano, dunque, ravvisabili in una “clinica attacchi di panico. In tutte le loro sintoma-
tologie, questi deliri del corpo costituisco- essere consumato autarchicamente, come
Quaderni di comunicazione 11 166

no la simbolizzazione dell’Io ripiegato su di è possibile vedere nelle alienazioni delle


sé, che ha sostituito le psicosi “centrifughe” nuove droghe e dei nuovi social network.
del Novecento. All’interno di questa dimensione attecchi-
Come scrive Recalcati “Soggetti spaesati, sce quella “apatia frivola” che rende pos-
alla deriva, vuoti, privi di punti di riferi- sibili le “identificazioni solide” dei sistemi
mento ideali, ingessati in identificazioni di produzione-consumo e del ritorno degli
conformistiche, indifferenti, chiusi mona- assolutismi che caratterizza l’intorpidimen-
dicamente nelle loro nicchie narcisistiche, to della vigilanza civica ipermoderna.
prigionieri delle loro pratiche di godimento L’inconscio, insomma, non è un dato meta-
dove l’Altro è assente (…) sbriciolati dalla storico, ontologico, ma piuttosto una entità
potenza idolatrica dell’oggetto di godimento foucaultianamente “etica”. Questo significa
offerto illimitatamente dal sistema globale che l’inconscio non è dato una volta per
del mercato, sempre a disposizione”. La tan- sempre, ma può perire, eclissarsi. Ed è
to osannata “fluidità” baumaniana, sembra quanto si teme stia accadendo nella iper-
dire l’autore, citando apertamente Lipovet- modernità, dove solo il ritorno al desiderio
sky, non genera solo il culto dell’effimero e alla cultura del desiderio (ma anche al
e la gadgetizzazione dell’evenemenziale, desiderio di cultura) potrebbe invertire la
di cui si nutrono avidamente le narrazio- rotta di un narcisismo sempre più dilagante
ni sociologiche. Essa genera soprattutto e autistico.
insicurezza e caos e va spiegata, oltre che E chi si appropria del nostro desiderio, può
raccontata. E la spiegazione analitica di governare le nostre vite.
Recalcati verte sul concetto lacaniano della Un libro per pensare, oltre che per studiare.
“evaporazione del Padre”, la condizione
in cui, dissolte tutte le forme di identifica- Mimmo Pesare
zione ideale, si piomba nella contingenza
dei legami che espunge la figura simbolica
dell’Altro e ne sintomatizza la mancanza su
se stessi. Questa dimensione è spiegata dal Mauro Mancia
“quinto mathema” di Lacan, il Discorso del
Capitalista, attorno al quale ruota tutta la Narcisismo. Il presente deforma-
riflessione di Recalcati. Si tratta di un nuo- to allo specchio
vo imperativo (un nuovo Super-Io sociale
malato) della Civiltà ipermoderna: mentre Bollati Boringhieri, Milano, 2010, pp. 120.
al tempo di Freud il Super-Io imponeva la € 13,00.
rinuncia nevrotica e la censura sul deside-
rio, in opposizione al godimento, oggi “la
Legge che orienta il programma ipermoderno Questo volume chiude una ideale trilogia
della Civiltà eleva sadicamente il godimen- di recensioni a saggi usciti negli ultimi mesi
to a imperativo”. Il godimento in assenza (dopo Recalcati e Fiumanò). Si tratta di tre
dell’Altro è diventato una obbligazione lavori che hanno in comune una interpre-
non più opposta al dovere. Al contrario: i tazione dei fenomeni sociali a partire da
due verbi sono fusi e complementari nella un’analisi di natura psicodinamica, ma
formula della nuova Legge: Devi Godere! con implicazioni pedagogiche, cliniche e
Questo è il nucleo patogeno, e le conse- storico-culturali. Si va delineando, pare,
guenze investono immancabilmente la so- una linea di ricerca che rende evidente una
cietà: il godimento narcisistico compulsivo, sorta di diminutio che le teorie sociologiche
vacuo e senza oggetto, rende gli individui – che tanto monopolio scientifico avevano
turbo-consumatori, servomeccanismi di un preteso negli anni Novanta – accusano oggi
sistema in cui, per esempio, le spinte a un rispetto alle spiegazioni sul rapporto tra
godimento sempre addizionale portano alla mente e media.
evoluzione di processi chimici e tecnologici Il fatto che si tratti di tre psicoanalisti
sempre più raffinati, perché il piacere possa (lacaniani i primi due, freudiano classico
quest’ultimo), non costituisce una pregiu- anni Venti agli anni Quaranta; al rapporto

Tessiture 167
diziale per inferire una visione tipicamente tra narcisismo e rêverie e alla scoperta
disciplinare. In tutti i casi, infatti, ciò a delle aree non simboliche di Bion (1962),
cui si fa riferimento sono gli scritti più ai concetti di “stima di sé” di Loewenstein
antropologici e di Kulturkritic dei maestri (1964), di “ferita narcisistica” di Kohut
di tale disciplina; scritti che mostrano una (1978), di “madre morta” di Green (1980),
attualità e una freschezza molto più utile di “stile di vita narcisistico” di Rosenfeld
di tante osservazioni vacue su un presunto (1987), di “buco nero” di Britton (1989).
percorso della società di massa postulato Ma soprattutto il panorama post-freudiano
dalle, sempre meno robuste, teorie sociolo- è dedicato a due grandi teorie: quella degli
giche degli ultimissimi anni. oggetti-Sé di Kohut (1978-84) e quella del
In questo caso si tratta della pubblicazio- narcisismo normale e patologico di Ker-
ne di un lavoro inedito di Mauro Mancia nberg (1984).
(1929-2007), geniale allievo di Cesare Mu- Ma, dopo questo doveroso excursus teo-
satti e voce originale e fertile della ricerca rico della nozione clinica di narcisismo, la
psicoanalitica italiana, che, tra i primi, ha parte più stimolante del volume di Mancia
cercato di coniugare alle più recenti teorie (e quella che lo iscrive di diritto nella ideale
anglosassoni delle neuroscienze. trilogia di cui si è parlato) è il terzo capito-
Il titolo, di per sé, è già esplicativo: il lo, Individuo, società e cultura narcisistica.
narcisismo e la sua genealogia concettuale Scrive significativamente l’autore “l’ipotesi
viene pensato come il fenomeno psichico alla base di questo capitolo è che una società
caratterizzante l’attualità sociale. Del resto, non può che essere il risultato dell’organiz-
è una traccia che fa capolino già da un po’, zazione dominante della personalità dei suoi
negli ultimi numeri del Quaderno, e che in componenti e che un cambiamento nell’eco-
questo agile saggio si struttura in maniera logia della mente, simile a quello cui stiamo
sintetica ma organica ed esauriente, dando assistendo in questi anni, con un aumento
conto del percorso storico di questo con- dei disturbi narcisistici della personalità, è
cetto che va progressivamente staccandosi l’espressione di un cambiamento storico che
dalla sua accezione popolare per proporsi ha le sue radici nella società, intesa in tutte
come una delle nuove parole chiave della le sue componenti macro- e micro-struttura-
contemporaneità e del rapporto tra indivi- li” (p. 81).
duo, società e nuovi media 2.0. L’idea di Mancia è che esista una tra-
Il punto di partenza di Mancia è la teoria smissione culturale diretta che parte dalla
freudiana del narcisismo, detta “pulsiona- famiglia e dalle sue relazioni e costituisce
le” e analizzata lungo le tre fasi fondamen- una cinghia di trasmissione di modelli
tali della sua elaborazione: la prima, che affettivi e culturali, da una generazione
comprende le opere Tre saggi sulla teoria all’altra. Ma tale trasmissione permane,
sessuale (1905), Un ricordo d’infanzia di Le- successivamente, nel contatto coi modelli
onardo da Vinci (1920) e Il caso clinico del culturali dominanti durante l’adolescenza e
presidente Schreber (1910); la seconda, in la prima giovinezza, che regolano la perso-
cui Freud studia l’energia libidica nei saggi nalità dell’individuo in maniera definitiva.
Introduzione al narcisismo (1914), Pulsioni All’interno di questa dimensione si gioca
e loro destini (1915), L’inconscio (1915) e gran parte del destino mentale dell’uomo
Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917); e e delle società. Il problema, dunque, è di
infine la terza fase dedicata alla teoria degli carattere pedagogico, oltre che psicologico:
istinti, negli scritti Al di là del principio di sarà l’equipaggiamento emotivo del bam-
piacere (1920) e L’Io e l’Es (1922). Dalla bino e dell’adolescente, insieme all’aiuto
dualità del concetto di narcisismo (primario che sapranno offrirgli le figure di attacca-
e secondario), postulata da Freud, Mancia mento primario, quelle di formazione e le
passa in rassegna, diacronicamente, l’evo- tecnologie di apprendimento e relazione
luzione clinica del termine dopo la lezione (tra le quali anche i media digitali), che gli
del fondatore della disciplina: si passa allo- permetterà di “trasformare” le frustrazioni
ra agli studi di Federn e della Klein, dagli e crescere emotivamente e culturalmente
senza ansie persecutorie o depressive, dei classici più letti e più tradotti nel mondo:
Quaderni di comunicazione 11 168

tipiche delle sindromi narcisistiche. Il il Poema pedagogico di Anton S. Makarenko.


rapporto, dunque, è biunivoco: viviamo Si tratta di una ricchissima edizione (con
in una società ossessionata dall’apparire, saggi di Tatjana Korablëva, Emiliano Met-
brulicante di Narcisi persi nella propria im- tini, Agostino Bagnato, Franco Ferrarotti,
magine riflessa e che i nuovi social network, Vincenzo Orsomarso, Marco Rossi Doria,
gioco-forza, radicalizzano. La conseguenza Antonio Santoni Rugiu e appendice di
è una trasmissione culturale che moltiplica Lucio Lombardo Radice) curata da Nicola
i falsi Sé, concetto winnicottiano e kohutia- Siciliani De Cumis e frutto della lunga attivi-
no che Mancia isola come cifra caratteriz- tà didattica e di ricerca del Dipartimento di
zante il nostro tempo e le relazioni sociali Ricerche Storico Filosofiche e Pedagogiche
attuali. In conseguenza di questo, l’autore dell’Università La Sapienza di Roma.
denuncia il fenomeno del narcisismo come Poema pedagogico è il romanzo per antono-
cultura mortifera che attecchisce natural- masia della besprizornye (infanzia senza tu-
mente nel ruolo di sindrome antropologica tela) nell’Unione Sovietica degli anni Venti
della contemporaneità, facilitata da una e Trenta e rappresenta il massimo esempio
apatia culturale e da una nuova etica del della teoria pedagogica makarenkiana,
“come se”, egoistica e declinata a reparti delle sue idee sul collettivo e sulla discipli-
stagni sulla propria immagine. na e della filosofia dell’essere umano come
In tal senso le discipline sociali non pos- prodotto sociale e come “uomo nuovo”.
sono che prendersi carico di una ricerca Il nome di Makarenko è da sempre asso-
che porti sulle sue spalle la responsabilità ciato al concetto leninista di collettivo (in
intellettuale dell’educazione, oltre che le questo caso, all’interno dell’esperienza
raffinatezze dell’elaborazione teorica. quotidiana della Colonia Gor’kji). Capo-
Sembra, pertanto urgente (pare suggerire lavoro del realismo socialista, ma calato
Mancia) la decodifica di un progressivo in uno scenario di coralità all’interno del
rapporto metodologico e di ricerca tra quale ognuno contribuisce a delineare
lo statuto epistemologico di un nuovo la multidimensionalità del collettivo, nel
comparto delle scienze umane che potremo best seller di Makarenko l’importanza del
definire psicopedagogico e l’analisi della so- prefisso co-, rappresenta l’essenza stessa
cietà di massa e del rapporto tra individuo, dell’educazione e il nocciolo dell’ideologia
formazione e media, che prenda le mosse e gorkiana, secondo la quale “un uomo solo,
l’armamentario teorico da tale statuto. per quanto grande, è pur sempre solo”.
Ma tra collettivo e singolo il rapporto è
Mimmo Pesare dialettico, non vi è strapotere del primo
sul secondo: piuttosto i due concetti sono
reciprocamente intersecati nella scala cro-
matica complessiva dell’uomo nuovo.
Anton Semënovič Makarenko L’importanza di una rilettura del pensiero
pedagogico di Makarenko, oltre che per
Poema pedagogico i più immediati motivi di ordine stretta-
(a cura di Nicola Siciliani mente disciplinare (che del resto vengono
attualizzati da un approccio “multitasking”
De Cumis) in nuce del pedagogista russo), evidente-
mente rivestono un profondo interesse di
Edizioni Albatros, Roma, 2009 storia della cultura. Il pensiero di Maka-
pp. 562, € 25,00 renko, infatti, pur basandosi sulla ideologia
marxista-leninista presente in Unione
A settantadue anni di distanza dalla prima Sovietica dopo il 1917, detiene una forza
pubblicazione in volume unico (1937), propulsiva che tocca i problemi più attuali
e a trentatre dall’ultima edizione italiana della filosofia dell’educazione e del rap-
(Editori Riuniti, 1976), l’Editore Albatros di porto di questa con la prassi socio-politica
Roma esce con una nuova edizione di uno contemporanea.
In una metodologia autobiografica appartenenza a quella parte del mondo che

Tessiture 169
dell’analisi makarenkiana, infatti, i nodi aspira alla giustizia, che è la cosa decisiva.”
teorici trattati toccano tutti i momenti della Questa tensione è forse il filo rosso che
illimitata fiducia nell’educabilità umana: lega il Poema pedagogico a opere successive
dall’infanzia abbandonata nell’esperienza di Makarenko come Il libro per i genitori
del collettivo e dell’organizzazione della e Bandiere sulle torri: la linea etica ver-
Colonia Gor’kji, alla teoria della “disciplina so il “bene comune”, che non si esplica
cosciente” nella pedagogia familiare; dal attraverso una informe massa educata
lavoro come dimensione formativa, alla secondo un principio collettivo, ma, molto
“cultura della diversità” nelle storie quo- più carsicamente, attraverso una costru-
tidiane dei diversamente abili; dal dialogo zione di prospettiva sociale che valorizza
internazionale tra i sistemi di istruzione le individualità. In questo senso il Poema
e il cooperativismo didattico, alle prime costituisce una grande narrazione “eroica”
interpretazioni sul metodo anti-pedagogico del processo educativo nella sua forma
di Makaranko; dai temi più sociologici sulla più curativa della tutela dei deboli e degli
devianza infantile, a quelli psicodinamici esclusi. Tema filosofico di grande empiri-
sulla valenza del sogno; solo per citarne smo, quasi deweyano, che oggi torna carico
alcuni. Poema pedagogico, in questo senso, di una freschezza disarmante, all’interno
costituisce uno scrigno di spunti e di analisi di un panorama culturale in cui il concetto
che, come osserva Franco Ferrarotti nell’in- di libertà, non solo ha fagocitato quello di
troduzione, non rappresentano una pura uguaglianza, ma, soprattutto, si è destruttu-
e semplice enunciazione della dottrina in rato autocraticamente in una strana forma
cui si elargisce un insegnamento dall’alto al di individualismo e di allergia alle leggi
basso (secondo un paradigma autoritario), fondamentali dei diritti umani.
ma, al contrario, “il processo educativo vie-
ne dipanandosi nella sua complessa trama Mimmo Pesare
come un romanzo giallo”.
Un romanzo di formazione ma di attitudine
fortemente critica.
Nel difficile quotidiano sovietico tinteg-
giato da Makarenko, i “colonisti” non Charo Lacalle
fuggono: nessuna idealizzazione rousseau- El discurso televisivo sobre la
iana di un beato stato di natura; piuttosto
una dimensione conciliativa, eutopica tra inmigración
la Gemeinschaft e la Gesellschaft, al di là
(come lo stesso Makarenko rincara) della Ediciones Omega, Barcelona, 2008,
“pura pedagogia”. pp. 147, € 39,00
Si tratta, probabilmente di quella dimen-
sione ancestrale legata all’ermeneutica del
termine greco paideia, che Platone, nel Il lavoro di Charo Lacalle, cattedratica di
mito della caverna definisce come “peri- giornalismo presso la Facoltà di Scienze
agoghé òles tes psykés”, e che Heidegger della comunicazione della UAB (Università
traduce con “guida dell’intera essenza Autonoma di Barcellona), ha un respiro
dell’uomo a un mutamento di direzione”. molto ampio, adatto alla consistenza della
E in questa guida, e in questo mutamento, questione di cui si occupa: la rappresenta-
il vettore educativo individuale costituisce zione audiovisiva dei migranti e degli stra-
un grimaldello etico per la costruzione del nieri nei palinsesti della fiction spagnola.
bene comune, topos di rinnovata attualità Lacalle affronta la relazione media-immi-
nel preoccupante tempo del suo tramonto grato a partire da una certezza, presente fin
politico, sociale, istituzionale. dall’introduzione: ogni giorno, una media
Come si legge significativamente nel capi- di 444 minuti di fiction viene trasmessa
tolo del Poema dedicato al Komsomol, “si, dalle televisioni generaliste spagnole. Un
la pedagogia è cosa importante, ma c’è una flusso imponente, di cui una parte cre-
scente presenta situazioni e personaggi che dei lavoratori irregolari, sempre soggetti
Quaderni di comunicazione 11 170

coinvolgono la dimensione dello straniero, ai rischi della precarietà quotidiana, agli


dell’immigrato, dell’altro. Basandosi su una incidenti sul lavoro e a una grande solitudi-
bibliografia aperta, orientata prevalente- ne esistenziale.
mente sulle teorie e sulle ricerche qualita- Negli ultimi anni, tuttavia, molte fiction
tive dei Cultural Studies, Lacalle individua si sono aperte a una visione più positiva e
e comunica gli spunti e le riflessioni di un “stabilizzante” dello straniero/migrante, in
gran numero di saggisti, tra cui – più volte coincidenza con una più vasta presa d’atto
citati – gli italiani Alessandro Dal Lago e della non transitorietà della presenza degli
Omar Calabrese. L’estro della docente spa- immigrati in Spagna. Esaminando attraver-
gnola la porta a elaborare un’analisi e una so le opposizioni del quadrato semiotico la
narrazione di tipo socio-semiotico, che ac- rappresentazione televisiva delle figure dei
cetta l’influenza perdurante di Simmel per migranti, Lacalle osserva una progressiva
via del suo saggio sullo straniero (1908) e ricollocazione della precedente relazione
che conduce all’assimilazione di straniero e “paura-repulsione” verso una coppia inte-
di migrante nel concetto unico di altro; che grata di “simpatia-empatia”, in coincidenza
consente, a sua volta, di operare attraverso con la proposta di figure migranti sempre
un discorso sulle identità, decostruite o più accentuatamente integrate, capaci di
ricostruite dai media. Il mondo delle news meritarsi anche ruoli di primo piano nelle
presenta solitamente l’immigrato come tele-serie.
un pericolo sociale: i riferimenti identitari Si passa così da una triangolazione
sono generici, e l’asse discorsivo è l’allarme “esclusione-ghettizzazione-ammissione”
sociale. Etichette ulteriori vengono applica- a una nuova terna di temi e relazioni:
te dai media alle persone coinvolte in fatti “assimilazione-integrazione-identificazio-
comunicabili attraverso il frame dell’immi- ne”. Ciò consente ai personaggi stranieri/
grazione: la rappresentazione giornalistica migranti di muoversi nelle fiction potendo
dell’immigrato è sempre ricolma di ogni generare contatti sociali nella sfera familia-
genere di pregiudizi. Accade lo stesso re, professionale e amicale. Le tinte forti e
anche nella narrazione della fiction? fosche lasciano così il posto a un racconto
In realtà, attraverso un minuzioso lavoro più lieve, dove, seppure con un istinto
di analisi socio-semiotica applicato a un narrativo ancora orientato all’esotico, trova
numero esaustivo di prodotti audiovisivi, spazio una forma progressivamente sempre
Charo Lacalle rende conto di una certa più comune di messa in scena dell’identità
evoluzione narrativa, che a sua volta riman- e dell’alterità migrante. Mondo dentro il
da a una discussione e trasformazione di nostro mondo.
stereotipi. Nella prima parte del decen-
nio inaugurale del XXI secolo la fiction Stefano Cristante
tv presenta lo straniero/migrante come
protagonista di vicende oscure e preva-
lentemente criminali: d’altronde anche le
serie poliziesche rappresentano le forze Gianfranco Marrone
dell’ordine impegnate a distinguere, con
un atteggiamento spesso paternalistico, tra L’invenzione del testo. Una nuo-
immigrati volutamente non integrati (pron- va critica della cultura
ti per l’economia marginale e criminale) e
immigrati solo “irregolari”, per esempio Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 218, € 22,00
non in possesso di permesso di soggiorno
ma desiderosi di mettersi in regola. Vi
è un certo equilibrio, nota Lacalle nelle “Inventare” vuol dire creare qualcosa che
serie spagnole pertinenti, tra immigrati/ prima non esisteva (si pensi all’invenzione
devianti e immigrati/vittime, equilibrio che della ruota o della stampa), ma vuol dire
consente a volte narrazioni decisamente anche ritrovare cose che si erano perdute
“forti” sulle drammatiche condizioni di vita oppure ci sono ma bisogna organizzarle per
sapere dove trovarle (ad es.: fare l’inventa- dell’interno della procedura di modella-

Tessiture 171
rio). “Inventare un testo” quindi vuol dire zione che la genera: la socialità non è ad
ritrovarlo e costruirlo. Su questo doppio essa estrinseca. Non c’è la semiosi umana
livello del ritrovamento e della costruzione (antroposemiosi) e, staccata, la società; c’è
si muove il libro di Marrone: ritrovamento invece la semiosi che si palesa come rete
(e riattraversamento) della problematica sul di rapporti di produzione e riproduzione
testo nella ricerca semiotica contemporanea sociale attraverso la capacità di formazione,
(partendo da Hjelmslev e passando per intreccio o di testualizzazione dell’umano.
Barthes, Greimas, Ricoeur, Derrida, Floch, Testualizzare equivale a semiotizzare; fare
Lévi-Strauss, Lotman, Eco, Rastier) e semiotica equivale ad analizzare testi e pra-
costruzione di una pertinenza teorica della tiche testuali: una semiotica del testo dove
testualità su cui basare “una nuova forma ‘del testo’ è un genitivo soggettivo che dice
di critica della cultura” (p. VI), ovvero una di una semiotica che nasce e cresce nella e
nuova critica semiotica e una semiotica sulla testualizzazione.
critica. Questo libro – dice il suo autore – “Al di fuori del testo non c’è salvezza”
“intende sperare in una doppia rinascita: (Greimas) poiché è l’unico punto di
della semiotica come disciplina sociale e del ancoraggio e di partenza per la scienza dei
sociale; della critica della cultura come de- segni. Con Derrida si può dire “il n’y a pas
siderio di una comprensione delle cose che de hors-texte”, da non intendersi come il
passi per una preliminare, rigorosa spiega- desiderio di rifarsi alla tradizione dell’Er-
zione” (p. VII). Si tratta di uscire dall’au- meneutica, che pone i Testi come origine e
toritarismo del testo come garante di un fine di ogni orizzonte di pensiero, né come
significato univoco, racchiuso nella materia rivendicazione di una chiusura nell’univer-
scrittoria, facendo venire meno il primato so del verbale prescindendo da ogni ricorso
assoluto della lingua verbale e superando a referenti ad esso esterni. L’affermazione
il mero filologismo. Le nuove istanze della derridiana – avverte Marrone – non va tra-
cultura mediatica contemporanea, la perva- dotta con “non c’è niente fuori del testo”,
sività della comunicazione-merce, le nuove bensì con “non c’è un fuori-testo”, poiché
acquisizioni epistemologiche della stessa “uscendo da un testo se ne ritrova un altro,
semiotica (studio della percezione, della e poi un altro ancora, e così all’infinito:
corporeità) richiedono una nozione di testo non esiste altra natura della significazione
più flessibile, aperta, non autoriale. umana e sociale che non prenda la forma
La sociosemiotica diventa semiotica del di un testo” (p. 26). Cade la dicotomia
testo: due facce della stessa medaglia, tra testo e contesto: anche il contesto ha
una doppia natura che esprime la pecu- valenza semiotica; ciò che è testo e ciò
liarità della scienza dei segni. Non c’è da che è contesto non può essere stabilito a
un lato la semiotica e dall’altro la società priori ma solo in relazione a un percorso
e la testualità. La semiotica è sociale in enunciativo. Qualsiasi situazione è anche
quanto risultato del lavoro di costruzione un testo, un intreccio di forme e sostanze
e decostruzione, di formazione e metafor- dell’espressione e di forme e sostanze del
mazione che caratterizza l’animale umano, contenuto. Il contesto è l’intorno di una
l’unico capace di produrre segni di segni determinata porzione del reticolo segnico,
con cui descrivere la semiosi (metasemiosi) cioè del testo, ritagliata da un interprete
e di costruire consapevolmente sistemi all’interno di un interpretante, il che dice
segnici o meglio simbolici, qual è anzitutto che il testo è un costrutto e una “struttura
la società, in cui si esprime la peculiarità culturale”, per usare le parole di Marrone
del suo modo vivere. L’uomo esercita ed (p. 25) di cui si può dispiegare il sistema di
esplica questa sua capacità semiotica nella costruzione, cosa c’è in esso e cosa al di là
società e nelle condizioni che questa gli di esso.
impone. La sociosemiotica pertanto non è Si viene delineando una sociosemiotica
una semiotica applicata ma il fondamento che non si limita a offrire i propri modelli
stesso della semiotica in quanto metase- d’indagine alle scienze sociali ma che si
miosi. La semiotica guadagna il sociale propone quale ricostruzione delle “con-
dizioni di possibilità della società come Coerentemente con la tradizione di ricerca
Quaderni di comunicazione 11 172

oggetto di conoscenza scientifica” (p. 33). della semiotica strutturale entro cui si
Una (socio)semiotica critica non solo in sen- colloca, questo tipo di sociosemiotica
so kantiano ma anche nel senso marxiano supera ogni ontologismo del testo. Tutto è
di analisi della produzione, manipolazione, negoziabile, a iniziare dai confini del testo.
interpretazione della comunicazione. La negoziazione è costitutiva perché la
Il senso che nei testi prende forma non fondamentale caratteristica della testualità,
è un dato empirico bensì il manifestato e in essa della semiosi in generale, è quella
di una configurazione socio-culturale di della “presupposizione reciproca di due
cui occorre individuare le condizioni di piani, espressione e contenuto, ognuno dei
funzionamento. Marrone riporta l’esempio quali dotato di una materia (relativamente
della ricerca di Jean-Marie Floch, uno dei non pertinente) e di una forma (invece co-
primi studiosi di semiotica del marketing, stitutiva). A fondare il testo è la solidarietà
il quale, piuttosto che occuparsi generica- di base fra una forma dell’espressione e una
mente dei modi in cui la pubblicità cerca forma del contenuto” (p. 72).
di persuadere i consumatori ad acquistare Prevale il modus, la forma: non si progetta
determinati prodotti, “ricostruisce a monte una casa ma un modo di abitarla, così come
il sistema delle scelte di consumo che si tro- un paio di occhiali è un modo di mostrare/
vano rappresentate nei testi pubblicitari”. nascondere il viso. Su questi temi insiste
Emerge che il consumatore sceglie un pro- Marrone nei capitoli del suo libro dedicati
dotto proiettando su di esso una propria alle tecnologie dello sguardo, al discorso
visione del mondo e determinati valori. di oggetti come lo sbattitore, ai modelli
Nel campo degli studi linguistici comune- discorsivi dell’esperienza delle sostanze stu-
mente intesi è con Hjelmslev che sorge la pefacenti, all’analisi semioestetica del testo
nozione di testo come forma di comunica- giornalistico, prendendo in considerazione
zione verbale e non verbale. Il testo, per la programmazione telegiornalistica italiana
Hjelmslev, è la realizzazione del sistema, (Studio Aperto, Tg1, Tg2, Tg3, Tg4, Tg5) di
ciò a partire da cui inizia il lavoro d’indagi- prima serata dal 31 agosto al 2 settembre
ne, a prescindere dalla sostanza espressiva 2001.
assunta da tale realizzazione” (pp. 16-17). Un testo non è semplicemente un libro
Ci preme sottolineare che la glossematica (questa è solo una sua forma materiale),
hjelmsleviana non supporta una visione “ma ciò che emerge quando lo si legge” (p.
testualista in senso forte, vetero-testualista 73): una forma di contenuto, interdipen-
e riduzionista, anzi, concependo il testo dente con una forma espressiva, che dice
come un processo sintagmatico illimitato, della possibilità di “navigare” al di fuori del
varca i limiti della testualità tradizionale testo presente, creando link con altri testi
e consente di volgere lo sguardo verso il assenti, di intraprendere viaggi testuali o
continuum testuale della semiobiosfera. avviare nuove costruzioni semiotiche.
Un oggetto o un testo, dice la semiotica
glossematica, può essere studiato scientifi- Cosimo Caputo
camente soltanto attraverso la descrizione
delle sue funzioni con altri oggetti o testi:
da un lato attraverso la descrizione delle
sue funzioni interne, delle funzioni tra le Piero Dorfles
sue componenti, dall’altro attraverso il suo
inserimento in un complesso funzionale Il ritorno del dinosauro. Una
più ampio, descrivendone le funzioni con difesa della cultura
altri oggetti (testi) esterni. Comprendere un
testo vuol dire comprenderne le relazioni Garzanti, Milano, 2010, pp. 207, € 18,60
e le correlazioni interne ed esterne. Non si
cerca l’essenza del testo e cade l’illusione
di considerarlo come mero dato empirico, Se, ogni notte, qualcuno si introducesse in
precostituito. casa nostra e ci inoculasse dosi progressiva-
mente più massicce di veleno, probabilmen- atteggiamenti e le coscienze degli italiani at-

Tessiture 173
te, al nostro risveglio, non avendo alcuna traverso tre generazioni. Il secondo, antico
consapevolezza di quanto accadutoci la quanto un dinosauro, ha a che fare con le
notte precedente ed avendo sviluppato una emozioni e con le parole attraverso le quali
certa insensibilità al farmaco, non saremmo esse prendono forma divenendo monito,
in grado non solo di riconoscere in noi i disapprovazione, ribellione, esortazione;
sintomi di una possibile intossicazione, parole che scuotono le coscienze e curano
ma ancor più di distinguere il reale dallo dall’alienazione sociale, dall’indifferenza e
stato di costante allucinazione procurato. dal conformismo, parole drammatiche che
Se, però, scoprissimo l’accaduto, saremmo riflettono la fragilità dell’uomo, ma che, allo
assaliti da un’angoscia tremenda mentre stesso tempo, lo spronano a riappropriar-
terribili domande ossessionerebbero i nostri si – seppur con sofferenza – della propria
pensieri: “ho ancora coscienza di me e del vita. Un dinosauro terapeuta? Certamente
mondo che vivo”? “chi è l’estraneo che ogni un educatore alla riscossa, uno di quelli
notte, senza che io me ne accorga, s’impa- che oggi è sempre più raro incontrare! Un
dronisce dolcemente della mia libertà”? Ma maestro che sia, fondamentalmente, ancora
soprattutto: “esisterà un antidoto che mi in grado di insegnare la lingua italiana ai
possa salvare restituendomi alla realtà? E suoi alunni. Ma che allo stesso modo sia in
sarò ancora in tempo per assumerlo”? grado di infondere il senso, il significato e il
Senza dubbio, si tratterebbe di una sco- valore della cultura nello sviluppo socio-
perta terrificante, ma chi sarebbe disposto educativo dei bambini, degli adolescenti,
a rinunciare alla verità su di sé? Probabil- dei giovani. Un maestro che sappia ribel-
mente nessuno, se il rischio fosse quello di larsi e combattere la clientela, le meschine
vivere una non-vita. insicurezze di quei genitori che crescono
Ebbene, è proprio contro questo rischio i loro pargoli a raccomandazioni, favori e
che Piero Dorfles cerca di ammonirci dif- regalucci. Maestri che sappiano riappro-
fondendo tra le pagine del suo ultimo libro priarsi del loro ruolo e della loro funzione
Il ritorno del Dinosauro. Una difesa della formativa all’interno del sistema Istruzione.
cultura, l’antidoto contro quell’involuzione Maestri che sappiano insegnare l’indi-
culturale che come un veleno ci mitridatiz- gnazione quando di fronte alle sciagurate
za verso una condizione di inerzia e apatia azioni di riforma ministeriale si preferisce
esistenziale. risparmiare sulla cultura, condannandoci a
Prima ancora che giornalista e critico un futuro di mediocrità e false libertà.
letterario, in questo libro Piero Dorfles è un Lontano, dunque, da ogni possibile inter-
maestro, un mentore figlio del dopoguerra, pretazione reazionaria che l’idea di un mil-
tempo in cui l’educazione e la formazione lenario lucertolone potrebbe popolarmente
intellettuale erano ancora considerate la suggerirci, il nostro dinosauro è tutt’altro
prima e fondamentale condizione per lo che un conservatore. La sua generazione,
sviluppo e la maturazione di un uomo sicuramente, non si è formata nutrendosi di
libero, autonomo e indipendente, capace tecnologia, smanettando in internet e socia-
di decidere di sé senza costrizioni, padrone lizzando tra i vari social network presenti in
dei propri pensieri, consapevole delle pro- rete, ma non ha, con ugual sicurezza, nem-
prie azioni, geloso della propria libertà. Un meno partecipato al declino della cultura,
uomo d’altri tempi, dunque: un dinosauro. alla dissoluzione dei valori e dei principi
Ed è con esso che Piero Dorfles ha deciso politici, sociali, relazionali che un tempo
di farci interloquire. Per due motivi: uno costituivano la base sicura dell’uomo della
più storiografico e l’altro di metodo. Il pri- modernità.
mo dà valore e significato alla sua funzione Ma cosa è accaduto? Di certo, la comples-
di intellettuale e critico dei processi cul- sità della crisi culturale e insieme sociale,
turali, alla saggezza e alla competenza con politica, economica e psicologica che oggi
le quali analizza e decostruisce i sistemi, le viviamo, non è riconducibile a una causa
istituzioni, le politiche e i fatti che hanno unica e ben definita. Essa ne ha tante e, so-
caratterizzato e influenzato i costumi, gli prattutto, è il risultato di un processo fatto
di contraddizioni, di classi dirigenti inette, deriva”. Così ha esordito Marco De Marco,
Quaderni di comunicazione 11 174

prive di una benché minima sensibilità eti- direttore del Corriere del Mezzogiorno,
ca, di cittadini inconsapevoli, probabilmen- intervenuto Il 29 ottobre 2009 all’Istituto
te, ben rappresentati dai suoi governanti, degli Studi Filosofici di Napoli durante la
di un voto di maggioranza determinato presentazione dell’ultimo libro di Agata
più dalla speranza di acquisizione di utili Piromallo Gambardella.
che da una adesione ideologica al partito, La regola, invocata dall’autrice, è l’equi-
di un dibattito politico quasi completa- librio tra incanto e disincanto e coincide
mente trasformato in dibattito economico con il senso di responsabilità che, solo, può
a scapito di una progettazione sociale che garantire un equilibrio stabile. Il mondo
realizzi e attivi azioni e pratiche finalizza- dell’informazione è incendiato: l’informa-
te alla creazione, al potenziamento e alla zione è ovunque; la concorrenza giornali-
salvaguardia della serenità e del benessere stica tiene viva la passione ma senza una
psicologico dei cittadini, di un pensiero norma si prospetta una totale deregulation.
politico che pratichi l’equa distribuzione Lucio d’Alessandro ha a sua volta sottoli-
delle opportunità, di una informazione che neato come il libro della Piromallo sia un
si riappropri della sua funzione sociale, testo generazionale, a tratti profetico, che
di una stampa che la smetta di vendere racconta come la generazione passata abbia
e svendere emozioni e di una radio e di dovuto gestire lo stupore, l’incanto infinito
una tv programmate per avere audience. dei media in rapida evoluzione; un libro
Basta, con una informazione fatta di notizie che rivela una certa nostalgia, un afflato
superficiali che parlano di animali, moda, religioso, una tensione verso l’alto. Agata
cibo e vacanze, basta con i palinsesti e le Piromallo esprime una grande sensibilità
trasmissioni televisive che discutono di per la dimensione umana e sovraindividua-
pettegolezzi e banalità imbastite da qualun- le e una forte preoccupazione pedagogica,
quisti senza né arte né parte. Il dinosauro un approccio costante alla regola che si
non ne può più! E con esso tutti coloro che dipana attraverso la prudenza e la ricerca.
si sentono deprivati, prigionieri, ricattati, Nel commentare il testo, Aldo Trione ha
non ascoltati e non rispettati ma lucidi, parlato di “un’indagine legata alla feno-
consapevoli, disposti a guardare in faccia menologia della postmodernità”, segnata
le storture della realtà, a non accettare più dal soggettivismo, dalla caduta di molti
nulla senza prima averne compreso il per- schemi universalistici e da un edonismo
ché, a non essere indifferenti, a ribellarsi, a legato ad un approccio disinvolto all’etici-
contestare seguendo le orme del dinosauro, tà. Il libro insomma si configura come una
grandi e profonde, visibili e rassicuranti, sorta di “diario fenomenologico” legato al
tracce di un percorso che porta al futuro. connubio inscindibile tra comunicazione
Seguiamole: forse sperare potrà essere e pensiero ed è uno studio sorretto da una
ancora possibile! tensione etica. La Piromallo è interessata
alla “dimensione ontologica della costru-
Stefania De Donatis zione immaginaria” e si pone all’interno
dei registri in cui si confrontano l’io e il tu,
dove, nel segno della comunità, si deter-
minano procedure, modelli, strategie. La
Agata Piromallo Gambardella studiosa parla dell’idea estetica tout court,
come una sorta di rimodulazione del pro-
La comunicazione tra incanto e cesso comunicativo che va a risignificarsi
disincanto nei suoi modelli e nelle sue intenzioni. Non
c’è però estetica senza etica: le grandi op-
Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 117, € 15,00 zioni etiche si ripropongono perché senza
di esse la comunicazione non ha senso.
Bianca Maria D’Ippolito ha voluto ricor-
“Senza incanto non c’è luogo, ma senza dare quanto scrive Leopardi nello Zibal-
il disincanto della regola si andrebbe alla done, ovvero che gli uomini non vogliono
conoscere ma sentire infinitamente. Tema incontrollata di significazione. Nella civiltà

Tessiture 175
fondamentale del libro della Piromallo è, dell’immagine lo spazio pubblico re- incan-
appunto, secondo la filosofa, un’indagine tato non è più il luogo di elaborazione di
intorno al sentire. Nella dimensione strut- regole. Il virtuale reinventa il luogo dove
turale del testo emerge un rinvio costante l’etica del discorso può di nuovo inscriver-
dal desiderio al sentire e dal sentire al si. La riscoperta della parola scritta legata
desiderio. L’indagine sul sentire e sulla sua ai nuovi media tende alla rifondazione di
natura è collocata tra immagine e parola. un nuovo spazio pubblico e di un nuovo
La parola è alata, è continuo dubbio e teatro della memoria condivisa. Su questo
costante circolazione; si rivolge ad altro inedito scenario si può passare dall’incanto
ed implica una lontananza che deve essere della follia al disincanto della ragione, si
colmata. L’immagine invece è una struttura può riconsiderare il senso del limite e il
duplice, enigmatica, che rinvia a ciò che è ritorno della regola come una frenata che
immaginato e, allo stesso tempo, trattiene eviti una caduta libera verso il mare infinito
presso di sé perché è calda, piena di sentire. delle scelte. L’unica strada per non smarrire
C’è un rapporto di scambio tra immagine il senso è dunque quella di scoprire l’incan-
e parola ma anche di contraddittorietà. to delle cose che ci circondano.
L’immagine tende a riassorbire la parola
che rinvia invece costantemente ad un’altra Diana Salzano
parola in un allargarsi continuo del ciclo.
Nella società mediatica l’immagine assume
connotati inquietanti che, sotto un certo
profilo, sembrano assicurare la felicità
perché l’immagine è carnale, ha un peso,
«Alfabeta» 2
un corpo, un sentire. Questo essere di carne
Numero 1, luglio/agosto 2010, Editore
pone però il pericolo di essere riassorbiti in
GeMS (Gruppo editoriale Mauri Spagnol),
qualcosa che non ha più intenzionalità. La
Milano, pp. 48, € 5,00.
perdita dell’intenzionalità è il richiudersi
nella corporeità dell’immagine e perdere la
Apologia dei grilli parlanti: così si sarebbe
comunicazione.
dovuto intitolare l’articolo con cui Umber-
Nel libro della Piromallo l’eros è inteso
to Eco apre il primo numero della nuova
come rapporto con l’altro che non si
serie di “Alfabeta”. I grilli parlanti in que-
configura mai come appropriazione. L’ethos,
stione sono, ça va sans dire, gli intellettuali,
invece, è uno spirito che la comunicazione
come del resto anticipato dal provocatorio
deve sempre invocare di fronte al pericolo
titolo generale del numero: “Intellettuali
della perdita di soggettività che si presenta
senza”, citazione di una fortunata seria di
quando l’immagine diventa autoreferen-
interventi che impegnò vari numeri della
ziale, istaura un finto rapporto, ingoia la
serie “storica” della rivista (1979-1988).
realtà.
L’insulto implicito in quel titolo – con la
Marino Niola ha infine sottolineato come
sua non velata allusione alla mancanza di
l’esplosione contemporanea della comu-
attributi – nasceva da una duplice presa
nicazione è figlia di un’accelerazione dei
d’atto: da un lato, si denunciava la filo-
dispositivi di scambio comunicativo e di
sofia del “si salvi chi può” che ispirava le
produzione di immagini che determinano
scelte di molti (ex) intellettuali di sinistra,
un nuovo reincanto del mondo che segue il
impegnati a trovare una ricollocazione
disincanto della modernità, caratterizzata
di fronte al rifluire dei movimenti che
dal dominio della tecnica e della ragione.
avevano agitato il decennio 1968-1977;
Il reincanto mediatico digitale è legato a
dall’altro lato, si puntava il dito contro il
quell’estetizzazione diffusa che accomuna i
colpevole silenzio della categoria di fronte
media e l’arte, rendendo comunicante l’arte
all’arresto (avvenuto il 7 aprile del 1979) di
e bella la comunicazione, assoggettando
un gruppo di intellettuali dell’Autonomia
entrambe ad un medesimo format che
Operaia, accusati di complicità nel seque-
produce una moltiplicazione proliferante e
stro e nell’omicidio di Aldo Moro (accusa Merito di un rigore etico e intellettuale
Quaderni di comunicazione 11 176

rivelatasi priva di ogni fondamento). Fra le al limite dello snobismo; merito anche e
vittime di quell’operazione giudiziaria c’era soprattutto di un costante rifiuto dell’ac-
il poeta Nanni Balestrini, storico esponente cademismo e del conformismo ideologico
del Gruppo 63, costretto a rinunciare alla (massima apertura e libertà di confronto,
direzione di Alfabeta e a rifugiarsi a Parigi spesso ai limiti della rissa); doti che le con-
per sfuggire all’arresto. Per il racconto di sentirono di esercitare un ruolo indiscuti-
come gli altri membri del comitato di dire- bilmente egemonico sulla cultura di sinistra
zione (Umberto Eco, Maria Corti, Antonio del decennio. Vent’anni dopo il senso di
Porta, Paolo Volponi, Francesco Leonetti, quegli “intellettuali senza” rischia di subire
Pier Aldo Rovatti, Mario Spinella, Omar un rovesciamento, al punto che varrebbe la
Calabrese, Maurizio Ferraris e chi scrive) si pena di invertire i termini titolando “senza
organizzarono per svolgere collegialmente intellettuali”. In molti articoli del primo
il ruolo di Balestrini, rinvio al mio articolo numero della nuova serie (penso, fra gli
sul primo numero della nuova serie, mentre altri, a quelli firmati da Andrea Cortellessa,
qui preferisco concentrare l’attenzione Andrea Inglese e da chi scrive) emerge in-
sulle ragioni della riproposizione di quel fatti la consapevolezza di dover fare i conti
titolo a vent’anni di distanza. Torniamo con la radicale trasformazione dello statuto
dunque all’articolo di Eco che, adottando e del ruolo (fino alla quasi neutralizzazione)
la forma (cara alla vocazione “enciclope- della categoria, provocata dai processi di
dica” dell’autore) di una successione di scolarizzazione di massa, dalla mutazione
voci di alfabeto, tenta di rispondere a due dell’industria culturale e dalla transizione a
domande di fondo: chi sono gli intellettuali un modo di produzione “informazionale”,
e perché la destra li odia. Semplificando fondato sullo sfruttamento della creatività
radicalmente, le risposte di Eco ai due que- dei lavoratori della conoscenza. Come si
siti sono: 1) gli intellettuali (senza ulteriori, riconfigura il ruolo di coscienza critica nel
fuorvianti caratterizzazioni associate ad nuovo contesto? Esiste ancora la possibi-
aggettivi quali organici, impegnati, ecc.) lità di trasformare in egemonia culturale
sono quei soggetti dotati di talento creativo i saperi dispersi nei mille rivoli dei nuovi
e competenze tecniche sufficienti a mettere specialismi produttivi? È possibile colmare
in pratica tale talento (scienziati, filosofi, l’enorme gap linguistico/espressivo che si
ricercatori sociali, letterati, artisti, ecc.) che è aperto fra le generazioni? La possibilità
esercitano la propria capacità critica (che di un secondo miracolo targato Alfabeta
fanno cioè i grilli parlanti) anche sui temi dipende dalla possibilità – tutta da verifi-
etici e politici della vita pubblica, senza la- care – di rispondere positivamente a questi
sciarsi confinare nell’orticello delle proprie interrogativi.
competenze specifiche; 2) questa vocazione
non ha connotati ideologici (esistono intel- Carlo Formenti
lettuali di sinistra e di destra), ma suscita
prevalentemente, benché non esclusiva-
mente, l’odio della destra, perché il rifiuto
di riconoscere limiti “tecnici” alla propria
intelligenza critica implica il rifiuto del
principio di autorità su cui la destra fonda
i propri valori. Il miracolo della “vecchia”
Alfabeta fu quello di svelare che negli anni
Ottanta, in barba al riflusso, di intellettuali
(nell’accezione appena evocata del termine)
ne esistevano ancora molti: basti pensare
che la rivista – assai poco disposta a sacrifi-
care la complessità di problemi e linguaggi
alle esigenze di mercato – riuscì a vendere
a lungo fra le dieci e le quindicimila copie.
Autori

Pietro Clemente è Professore di Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze ed


è Presidente della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici
(SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro dei comitati scientifici di riviste e di
fondazioni museali di ambito antropologico. Tra le pubblicazioni più recenti:
La comparazione, la guerra, la differenza, in P.Clemente, C.Grottanelli, Comparativa/mente,
Firenze, SEID, 2009, pp. XV-XXXV, I fiumi, la sete, il pianeta. L’acqua degli antropologi
in G. Resti, a cura di, Ombrone, un fiume tra due terre, Pisa, pacini, 2009, pp. 177-186, La
smemoratezza del moderno in L. Ronzon, a cura di, Manifattura Tabacchi /Milano, Milano,
Fondazione Museo della scienza e della tecnologia, 2009, pp. 14-40, Prossimità nella di-
stanza, in (a cura di D. Jalla) Héritage(s). Formazione e trasmissione del patrimonio culturale
valdese, Torino, Claudiana, 2009, pp. 297-307.
pietro.clemente@unifi.it

Fabio Dei è professore associato di Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si


è occupato di storia ed epistemologia degli studi antropologici, pubblicando fra l’altro
Ragione e forme di vita (con A. Simonicca, Milano 1990), La discesa agli inferi. J.G. Frazer
e la cultura del Novecento (Lecce, 1998). Conduce ricerche sulla memoria della violenza
di massa nel Novecento (Antropologia della violenza, Roma 2005; Poetiche e politiche del
ricordo, con P. Clemente, Roma 2005) e sui rapporti tra cultura popolare e cultura di massa
(Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma 2002; Culture del dono, con
M. Aria, Roma 2008)
f.dei@stm.unipi.it

Duccio Demetrio è professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e prati-


che della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca, fondatore della rivista
Adultità (ed A.Guerini). È autore di studi e saggi dedicati all’educazione degli adulti in
una prospettiva prevalentemente filosofica e narratologica.
duccio.demetrio@unimib.it

Luciana Dini è professore ordinario di Anatomia Comparata e Citologia nell’Università


del Salento. È referee di numerose riviste scientifiche nazionali ed internazionali. È autrice
di tre libri di testo “Tecniche microscopiche per lo studio degli alimenti” Manni editore;
Citologia ed Istologia Idelson-Gnocchi Editore; Biologia dello Sviluppo McGrowHill Edi-
tore. Ha ricevuto il premio della “ Società Nazionale di Scienze Lettere ed Arti” in Napoli
in Biologia Cellulare (1987). Ha ricevuto la Laurea ad honorem in Medicina dalla Medical
State University of Yerevan, Armenia, (2005). Le sono state conferite due medaglie d’oro
Quaderni di comunicazione 11 178

della University of Yerevan, Armenia (2003 e 2005). È stata inserita nel: “Who’sWho in
Science and Engineering” 2003-2007; “2000 outstanding scientists of the 21st century”.
luciana.dini@unisalento.it

Silvia Gravili è professore a contratto di Economia Aziendale nel corso di Laurea in Scien-
ze della Comunicazione dell’Università del Salento. Si occupa di marketing e comunica-
zione per il settore business to business negli Stati Uniti e ha collaborato con l’Ufficio Co-
municazione e Knowledge Management dell’IFC - CNR di Lecce. Lavora come consulente
di comunicazione per enti pubblici, privati e del terzo settore ed è responsabile del settore
Marketing e comunicazione d’impresa per la Granosalis - Core communication di Lecce.
Recentemente si è occupata di comunicazione di crisi per il portale Macitynet (2010) di
comunicazione d’impresa. Tra le sue ultime pubblicazioni: La comunicazione d’impresa
come racconto autobiografico, in “Quaderno di Comunicazione” 2009, n.10)
silviagravili@gmail.com

Eugenio Imbriani è professore di Antropologia culturale all’Università del Salento, Facol-


tà di Scienze sociali, politiche, del territorio; ha prodotto numerosi volumi e saggi, i suoi
interessi scientifici riguardano particolarmente la cultura popolare, la scrittura etnografica
(degli studiosi e degli autori semicolti), le pratiche di costituzione dei patrimoni cultu-
rali tra narrazione, memoria, oblio. Tra le pubblicazioni più recenti: La sarta di Proust.
Antropologia e confezioni, Bari, Edizioni di Pagina, 2008; Le identità albanesi, a cura di P.
Fumarola, E. Imbriani, Nardò, Besa, 2008; La lotta e la miseria, in Archivio Ernesto de
Martino, Lettere di contadini lucani alla Camera del Lavoro 1950-1951, a cura di Clara Gal-
lini, Calimera, Kurumuny, 2008, pp. 17-27; Sul “Carnevaletto” delle donne, in Il Carnevale
e il Mediterraneo. Atti del convegno internazionale di studio. Putignano 19-21 febbraio
2009, a cura di Pietro Sisto e Piero Totano, Progedit, Bari, 2010, pp. 101-109; Una strana
avventura l’etnografia, in “Revista Europeia de Etnografia da Educação”, Ethnography and
Scientificity, n. 7-8, 2009-2010, pp. 359-366.
eugenio.imbriani@unisalento.it
eimbriani@libero.it

Charo Lacalle es catedrática de la Facultad de Ciencias de la Comunicación de la Univer-


sidad Autónoma de Barcelona (UAB). Codirige el Màster de Investigación “Innovación
y Calidad Televisivas” (realizado conjuntamente por la UAB, la Universidad Universidad
Pompeu Fabra y la Televisión de Catalunya, y coordina el equipo español de OBITEL
(Observatorio de la Ficción Iberomericana). Ha impartido cursos y seminarios en nume-
rosas universidades europeas y latinoamericanas. Especialista en análisis audiovisual, entre
otras muchas publicaciones es autora de El discurso televisivo de la inmigración (Gedisa),
Los formatos de la televisión (Gedisa) y Terciopelo azul. Estudio crítico (Paidós).
Rosario.Lacalle@uab.cat

Daniele Lamuraglia è scrittore e regista. Direttore artistico del Teatro del Legame, ha rea-
lizzato spettacoli di contenuto civile ed impatto visivo, collaborando con Antonio Tabucchi
per Cristo Gitano (2002); con Alessandro Serpieri per Shakespeare Messages System (2003),
un’opera di video-teatro che mette a confronto i messaggeri d’amore di Shakespeare con
quelli delle nuove tecnologie (sms, chat, blog); con Angela Torriani Evangelisti in opere
di teatro-danza per La maschera è stanca di Antonio Tabucchi e Il Diritto del Sogno, dove
si reinterpreta La vita è sogno di Calderon De La Barca in relazione alla Convenzione dei
Diritti dell’Infanzia dell’ONU. Ha realizzato due film: Firenze 17 luglio 1944 (2002) e Il

Gli autori 179


piccolo grande senso del dovere (2010). Ha pubblicato “Il Libro di Cristo Gitano” (Pagnini
editore 2005) con la prefazione di Antonio Tabucchi, e “I 100 geni che hanno cambiato il
mondo” (Mondadori 2010) con le illustrazioni di Marco Serpieri.
lamuraglia.daniele@gmail.com

Franco Martina è professore ordinario di Filosofia nei licei e collaboratore della rivista
“Belfagor”. Tra le sue pubblicazioni: Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali
salentini tra cultura e politica, (1987) e numerosi saggi e interventi in volumi collettanei.
Collabora con “Belfagor”.
francomartinaf@libero.it

Angelo Nestore è laureato in Traduzione e Interpretazione nell’Università di Forlì. Ha in


corso un dottorato di ricerca in Traduzione e studi di genere nell’Università di Malaga. Nel
2010 ha conseguito il secondo livello di cinese. Nel 2008 ha conseguito la Certificazione
linguistica europea superiore spagnola DELE Superior. Nel 2004 la Certificazione lingui-
stica europea superiore di inglese Proficiency (C2).
dioniso.86@hotmail.it

Mimmo Pesare è Dottore di Ricerca in Etica e Antropologia e Assegnista in Pedagogia


sociale della comunicazione presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Uni-
versità del Salento, dove svolge la sua attività di ricerca e di didattica, all’interno del Corso
di Laurea in Scienze della Comunicazione (Facoltà di Lettere e Filosofia). Si occupa e ha
scritto di filosofia dell’educazione e del rapporto tra la filosofia contemporanea, la media-
education e le discipline psicodinamiche. La sua ultima monografia è Abitare ed esistenza.
Paideia dello spazio antropologico (Mimesis, Milano, 2010). È co-fondatore della rivista
Krill-Quadrimestrale sull’immaginario.
pesary@libero.it

Alessio Rotisciani ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Teoria e Ricerca Sociale


presso l’Università del Salento. Si è occupato di storia contemporanea (La memoria di mio
nonno, un contadino antifascista, “Nuovi Argomenti”, n. 19, Milano, Mondadori, 2002),
linguaggio cinematografico (Fight Club: un doppio come scacco alla società dei consumi,
“Nuovi Argomenti”, 2001, n. 13), semiotica del testo e media education (“I molti volti della
media education”, in I. Cortoni, a cura di, A scuola di comunicazione, Roma, Nuova Cultu-
ra, 2006). Attualmente collabora con “Comunicazionepuntodoc”, Rivista del Dottorato in
Scienze della Comunicazione della “Sapienza” Università di Roma e sta approfondendo
il tema del rapporto tra adolescenti e nuove forme di comunicazione in rete (Network
Meridiani. Internet e instant messaging nella vita degli adolescenti salentini, Roma, Carocci,
2010).
alessio.rotisciani@gmail.com

Diana Salzano è professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi.


Insegna “Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa” presso il corso di laurea in Scien-
ze della comunicazione e “Sociologia dell’industria culturale” presso il corso di laurea
in Lettere (Editoria e pubblicistica) dell’Università di Salerno dove dirige l’Osservatorio
“Violenza Media Minori”. È docente e membro del comitato organizzativo del Master
di “Media Education: Progettazione e gestione della conoscenza” dell’Università Suor
Orsola Benincasa e dell’I.P. E (Istituto per attività di ricerca) di Napoli. Tra le sue ultime
Quaderni di comunicazione 11 180

pubblicazioni: “Violenza, Media e Minori” in Sanguanini B. (a cura di), Comunicazione e


partecipazione. Sociologia per la persona nella “Società-Display”, Quiedit, Verona 2010; “Le
coordinate del sé nella geografia dei media”, in Dire di sé, Quaderno di comunicazione,
n.10, Mimesis, Sesto San Giovanni 2009; “La poetica dell’esplorazione: giovani surfers nel
mare della rete”, in Ammaturo N. (a cura di), I consumi culturali dei giovani, C.E.I.M. Edi-
trice, Mercato San Severino 2008; Etnografie della rete. Pratiche comunicative tra on line e
off line, Franco Angeli, Milano 2008.
diana_salzano@yahoo.it

Angelo Semeraro è professore ordinario di Pedagogia della comunicazione nell’ateneo


salentino. Ha insegnato a Siena, Napoli Orientale e Bari. È autore di numerosi saggi, tra i
quali – negli ultimi anni, Lo stupore dell’Altro, Palomar, Bari 2004; Omero a Baghdad. Miti
di riconoscimento, Meltemi, Roma 2005. (Premio internazionale di Pedagogia “Raffaele
Laporta” 2006); Del sensibile e dell’Immaginale, Icaro, Lecce 2006; Pedagogia e comunica-
zione. Paradigmi e intersezioni, Carocci, Roma 2007; Hypomnémata, Besa, Nardò 2009.
semerang@alice.it

Lelio Semeraro è copywriter e giornalista free-lance. Collabora con agenzie pubblicita-


rie milanesi. Finalista al concorso di letteratura Subway 2010 con Fuori dal Tavolo e nel
premio letterario Arturo Loria 2005 con Omar al prestito. Tra le sue pubblicazioni: Persa
in Partenza, vedi alla voce pubblicità in “Krill”, n.1, 2009; La rivoluzione creativa in QC,
Meltemi, 2007; Far sorridere la principessa, “Indice dei libri del mese”, marzo 2006.
50000neuroni@gmail.com

Luigi Zoja ha lavorato in clinica a Zurigo, poi privatamente a Milano, a New York e ora
nuovamente a Milano come psicoanalista. Presidente del CIPA (Centro Italiano di Psi-
cologia Analitica) dal 1984 al ‘93. Dal 1998 al 2001 presidente della IAAP (International
Association for Analytical Psychology), l’Associazione che raggruppa gli analisti junghiani
nel mondo, poi Presidente del Comitato Etico Internazionale della stessa. Già docente
presso il C.G. Jung Institut di Zurigo e presso l’Università dell’Insubria.
Pubblicazioni di libri e articoli in 14 lingue. Due suoi testi hanno vinto il Gradiva Award
negli Stati Uniti.
Testi in italiano: Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Cortina, Milano 1985
e 2003; Coltivare l’anima, Moretti&Vitali, Bergamo 1999; Il gesto di Ettore. Preistoria,
storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2000; (a cura di) L’incu-
bo globale. Prospettive junghiane sull’11 settembre, Moretti&Vitali, Bergamo 2002; Storia
dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti&Vitali, Bergamo 2003; Giustizia
e Bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007; La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009;
Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
luigizoja@fastwebnet.it
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