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Byung-Chul Han

Nello sciame
Visioni del digitale

Traduzione di Federica Buongiorno


Nota dell’editore

La trasparenza e i dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro


modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e
alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in
un presente continuo e sempre visualizzabile attraverso uno schermo. Il
soggetto capace di annullarsi in una folla che marcia per un’azione comune,
ha ceduto il passo a uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si
muovono disordinati e imprevedibili come insetti. Han si interroga su ciò
che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per
contare i “mi piace”, quando il privato si trasforma in un pubblico che
cannibalizza l’intimità e la privacy. E su che cosa comporta abdicare al
significato e al senso per un’informazione reperibile ovunque ma spesso
inaffidabile.

“Han è un acuto e imprescindibile osservatore delle trame umane e digitali


del XXI secolo”. Antonello Guerrera, la Repubblica

Traduzione di Federica Buongiorno

Byung-Chul Han, nato a Seul, è considerato uno dei piú interessanti


filosofi contemporanei. Docente di Filosofia e Studi culturali alla
Universität der Künste di Berlino, è autore di saggi sulla globalizzazione e
l’ipercultura. Per nottetempo ha pubblicato La società della stanchezza
(2012), Eros in agonia (2013) e La società della trasparenza (2014).
Indice

Nota dell’editore

Premessa
Senza rispetto
La società dell’indignazione
Nello sciame
De-medializzazione
Hans l’intelligente
Fuga nell’immagine
Dall’agire al giocare con le dita
Dal contadino al cacciatore
Dal soggetto al progetto
Il nomos della terra
Fantasmi digitali
Affaticamento informativo
Crisi della rappresentazione
Dal cittadino al consumatore
Protocollare l’intera vita
Psicopolitica
Note

Colophon
Catalogo
Sgorgano le lacrime, la terra mi ripossiede.
J.W. Goethe, Faust
Premessa

Nel 1964, in riferimento alla rapidissima ascesa del medium elettrico, il


teorico dei media Marshall McLuhan aveva osservato: “La tecnica
dell’elettricità è però in mezzo a noi, e noi siamo storditi, sordi, ciechi e
muti di fronte alla sua collisione con la tecnica di Gutenberg”1. Lo stesso
accade oggi con il medium digitale. Attraverso tale nuovo medium noi
siamo riprogrammati, senza comprendere pienamente questo radicale
cambiamento di paradigma. Arranchiamo dietro al medium digitale che,
agendo sotto il livello di decisione cosciente, modifica in modo decisivo il
nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro
pensiero, il nostro vivere insieme. Oggi ci inebriamo del medium digitale,
senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile
ebbrezza. Questa cecità e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi
dei nostri giorni.
Senza rispetto

Letteralmente, rispettare significa distogliere lo sguardo. È un riguardo.


Nel rapportarsi con rispetto agli altri ci si trattiene dal puntare lo sguardo in
modo indiscreto. Il rispetto presuppone uno sguardo distaccato, un pathos
della distanza. Oggi, questo sguardo cede a una visione priva di distanza,
che è tipica dello spettacolo. Il verbo latino spectare, da cui deriva il
termine “spettacolo”, indica un puntare lo sguardo voyeuristico, al quale
manca il riguardo distaccato, il rispetto (respectare). La distanza è ciò che
distingue il respectare dallo spectare. Una società senza rispetto, senza
pathos della distanza sfocia in una società del sensazionalismo.

Il rispetto costituisce il fondamento della sfera pubblica. Dove esso viene


meno, quest’ultima si corrompe. La decadenza della sfera pubblica e la
crescente mancanza di rispetto si determinano a vicenda. La sfera pubblica
presuppone, tra le altre cose, che si distolga rispettosamente lo sguardo dal
privato: il prendere le distanze è costitutivo dello spazio pubblico. Oggi, al
contrario, domina una totale assenza di distanza, nella quale l’intimità è
messa in mostra e il privato diventa pubblico. Senza distanza non è
possibile alcun pudore2. Anche l’intelligenza presuppone uno sguardo a
distanza. La comunicazione digitale in generale riduce le distanze; la
riduzione delle distanze spaziali si ricollega all’erosione delle distanze
mentali. La medialità del digitale è nociva per il rispetto. Come nell’adyton,
è proprio la tecnica dell’isolamento e della separazione a generare timore
reverenziale e venerazione3.

L’assenza di distanza porta a una commistione di pubblico e privato: la


comunicazione digitale favorisce questa esibizione pornografica
dell’intimità e della sfera privata. Anche i social network si rivelano spazi
di esibizione del privato. Il medium digitale privatizza, in quanto tale, la
comunicazione trasferendo la produzione delle informazioni dal pubblico al
privato. Roland Barthes definisce la sfera privata “quella zona di spazio, di
tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto”4. A considerarla cosí,
noi oggi non avremmo piú alcuna sfera privata, dal momento che non esiste
piú una sfera nella quale io non sia un’immagine, dove non ci sia alcuna
macchina fotografica. I Google Glass trasformano lo stesso occhio umano
in una macchina fotografica: l’occhio stesso produce immagini, di
conseguenza non è piú possibile alcuna sfera privata. Essa è completamente
abolita dalla dominante costrizione iconico-pornografica.

Il rispetto è vincolato al nome. Anonimato e rispetto si escludono a


vicenda. La comunicazione anonima, incoraggiata dal medium digitale,
riduce drasticamente il rispetto ed è corresponsabile della dilagante cultura
dell’indiscrezione e della mancanza di rispetto. Anche la shitstorm5 è
anonima: in ciò consiste la sua violenza. Nome e rispetto sono in stretta
correlazione: il nome è la base del riconoscimento, che avviene sempre
nominativamente. Alla nominalità sono legate anche pratiche come la
responsabilità, la fiducia o la promessa. La fiducia può essere definita una
fede nel nome. Anche responsabilità e promessa sono atti nominativi.
Separando il messaggio dal messaggero, la notizia dal trasmittente, il
medium digitale azzera il nome.

Molte sono le cause della shitstorm. Essa è possibile in una cultura della
mancanza di rispetto e dell’indiscrezione; soprattutto, è un genuino
fenomeno della comunicazione digitale. Essa è sostanzialmente diversa,
dunque, dalla tradizionale posta dei lettori che è legata al medium analogico
della scrittura e si muove in senso esplicitamente nominativo. Le lettere
anonime sono subito cestinate dalle redazioni dei giornali. La posta dei
lettori è caratterizzata da una diversa temporalità: mentre, con fatica, a
mano o a macchina, si scrive la lettera, l’agitazione del momento è svanita.
Al contrario, la comunicazione digitale rende possibile un istantaneo
manifestarsi dello stato d’eccitazione; già per la sua temporalità, la
comunicazione digitale veicola piú stati di eccitazione della comunicazione
analogica. Sotto questo aspetto, il medium digitale è un medium
dell’eccitazione.
La connessione digitale favorisce la comunicazione simmetrica. Chi oggi
prende parte alla comunicazione non consuma le informazioni solo in modo
passivo, ma le produce attivamente. Nessuna gerarchia univoca separa il
trasmittente dal ricevente: ognuno è, insieme, trasmittente e ricevente,
consumatore e produttore. Questo tipo di simmetria però è pericolosa per il
potere: la comunicazione del potere procede in un’unica direzione, ovvero
dall’alto verso il basso. Il reflusso comunicativo distrugge l’ordinamento del
potere. La shitstorm, con tutti i suoi effetti distruttivi, è una specie di
reflusso.

La shitstorm rimanda a slittamenti economici e di potere nella


comunicazione politica: monta nello spazio che il potere e l’autorità
occupano in modo debole. È proprio all’interno di gerarchie appiattite che
ci si lancia con la shitstorm. Il potere come medium di comunicazione si
preoccupa che essa scorra rapida in un’unica direzione: la selezione attiva
di chi detiene il potere è in un certo senso rispettata silenziosamente da chi
vi è sottoposto. Il rumore o il frastuono è l’indicatore acustico di un potere
che comincia a disgregarsi. Anche la shitstorm è un frastuono
comunicativo. Il carisma come espressione auratica del potere sarebbe lo
scudo migliore contro le shitstorms: infatti non permetterebbe loro di
montare.

La presenza del potere rende sempre piú inverosimile che la mia


selezione attiva, la mia decisione volontaria venga assunta per mezzo di
altre: il potere come medium comunicativo consiste nell’incrementare la
probabilità del “sí” rispetto alla possibilità del “no”. Il “sí” è essenzialmente
piú silenzioso del “no”. Il “no” è sempre rumoroso. La comunicazione del
potere riduce notevolmente il rumore e il frastuono, cioè l’entropia
comunicativa. Cosí, la parola decisiva elimina d’un colpo il frastuono in
aumento; genera una quiete, rende possibile un margine per le azioni.

Come medium di comunicazione, il rispetto esercita un effetto simile a


quello del potere. La visione o la selezione attiva della persona rispettabile è
spesso assunta e adottata senza opposizioni né obiezioni; la persona
rispettabile è persino imitata come un modello. L’imitazione corrisponde,
nel caso del potere, all’obbedienza preventiva: proprio là dove svanisce il
rispetto, si sviluppa la shitstorm chiassosa. Non si investe una persona
rispettabile con una shitstorm: il rispetto si costruisce mediante
l’attribuzione di valori personali e morali. Il generale decadimento dei
valori erode la cultura del rispetto: i modelli contemporanei sono privi di
valori interiori e sono contraddistinti soprattutto dalle qualità esteriori.

Il potere è una relazione asimmetrica che fonda un rapporto gerarchico.


La comunicazione del potere non è dialogica. Al contrario del potere, il
rispetto non è necessariamente una relazione asimmetrica: spesso si ha
rispetto per dei modelli o per i superiori, in linea di massima però è
possibile un rispetto reciproco, che si fonda su un rapporto di
riconoscimento simmetrico. Cosí, persino chi detiene il potere può avere
rispetto per chi vi è sottoposto. La shitstorm odierna, in crescita ovunque,
dimostra che viviamo in una società priva di rispetto reciproco. Il rispetto
impone distanza. Come il potere, cosí anche il rispetto è un medium di
comunicazione che realizza una lontananza, che pone una distanza.

Anche la sovranità deve essere ridefinita in relazione alla shitstorm.


Secondo Carl Schmitt, il sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione.
È possibile tradurre questo principio della sovranità nella sfera acustica: il
sovrano è colui che è in grado di generare un silenzio assoluto, di azzerare
ogni frastuono, di far tacere tutti d’un sol colpo. Schmitt non ha avuto
esperienza della connessione digitale: lo avrebbe di certo gettato in una
fortissima crisi. È noto che Schmitt ebbe per tutta la vita paura delle onde:
anche le shitstorms sono delle specie di onde che sfuggono a ogni controllo.
Per la paura delle onde, Schmitt ormai anziano dovette allontanare da casa
propria anche la radio e la televisione; si era spinto persino a riscrivere il
suo famoso principio di sovranità in rapporto alle onde elettromagnetiche:
Dopo la Prima Guerra Mondiale, ho detto: “Sovrano è colui che decide sullo stato di
eccezione”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in vista della mia morte, dico ora: “Sovrano è
colui che dispone delle onde spaziali”6.

A seguito della rivoluzione digitale, dovremmo riscrivere ancora una


volta il principio di sovranità di Schmitt: sovrano è colui che dispone delle
shitstorms in rete.
La società dell’indignazione

Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere


desta l’attenzione. Per via della loro natura fluida e volatile, tuttavia, non
sono in grado di strutturare il discorso e lo spazio pubblici: per questo scopo
sono troppo incontrollabili, imprevedibili, instabili, effimere e amorfe.
Montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente. In ciò
assomigliano agli smart mobs7: manca loro la stabilità, la costanza e la
continuità, irrinunciabili per il discorso pubblico. Perciò, non si lasciano
integrare in uno stabile nesso discorsivo. Le ondate di indignazione si
sviluppano spesso di fronte a degli avvenimenti che hanno una rilevanza
sociale o politica molto ridotta.

La società dell’indignazione è una società sensazionalistica, priva di


compostezza, di contegno. L’insistenza, l’isteria e la riottosità tipiche della
società dell’indignazione non ammettono nessuna comunicazione discreta,
obiettiva, nessun dialogo, nessun discorso. Il contegno, però, è costitutivo
per la sfera pubblica; la distanza, però, è necessaria per la costruzione della
sfera pubblica. Le ondate di indignazione, inoltre, presentano
un’identificazione minima con la società, dunque non costruiscono alcun
Noi stabile, che mostri una struttura di cura per la società nel suo
complesso. Anche la preoccupazione dei cosiddetti indignati non è per la
società nel suo complesso, ma è piú che altro cura di sé. Di conseguenza,
torna a disfarsi rapidamente.

La prima parola dell’Iliade è menin, ossia ira. “Cantami, o Musa, l’ira del
Pelíde Achille”: cosí comincia la prima narrazione della cultura occidentale.
L’ira è, qui, cantabile, poiché sorregge la forma narrativa dell’Iliade, la
struttura, la anima, le dà vita e ritmo. È il medium dell’azione eroica per
eccellenza. L’Iliade è un canto d’ira. Quest’ira è narrativa, epica, perché
produce determinate azioni: è essenzialmente in ciò che l’ira si distingue
dalla rabbia come espressione delle ondate di indignazione. L’indignazione
digitale non è cantabile: non è capace né di azione né di narrazione.
Rappresenta, piuttosto, uno stato affettivo, che non dispiega alcuna forza in
grado di produrre azioni. La dispersione generale, che contraddistingue la
società di oggi, non permette all’energia epica dell’ira di sorgere. Il furore
in senso enfatico è piú di uno stato affettivo: è una capacità di interrompere
uno stato in essere e di farne iniziare uno nuovo. In questo modo produce il
futuro. La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta: le
manca qualsiasi massa, qualsiasi gravitazione necessaria per le azioni. Non
genera alcun futuro.
Nello sciame

Nella Psicologia delle folle (1895) lo psicologo delle masse Gustave Le


Bon definisce l’epoca moderna come l’“età delle folle”. Essa costituirebbe
uno di quei momenti critici in cui il pensiero umano sarebbe in procinto di
trasformarsi. Il presente sarebbe un “periodo di passaggio e di anarchia”. La
società futura dovrà aspettarsi, nella sua organizzazione, un nuovo potere,
ossia quello delle folle. Cosí, Le Bon afferma laconicamente: “L’epoca in
cui entriamo sarà veramente l’età delle folle”8.

Le Bon vede disgregarsi la gerarchia di potere tramandata. La “voce del


popolo” avrebbe ora raggiunto il predominio. Le masse fonderebbero
“sindacati dinanzi ai quali tutti i poteri capitolano, borse del lavoro che, a
dispetto delle leggi economiche, tendono a governare le condizioni del
lavoro e del salario”9. I rappresentanti in Parlamento sarebbero solo i loro
esecutori. A Le Bon la massa appare come una manifestazione del nuovo
rapporto di potere. Il “diritto divino delle masse” sostituirà quello dei re.
Per Le Bon l’insurrezione delle masse porta tanto alla crisi della sovranità
quanto al declino della civiltà. Le masse sarebbero, secondo lui, “distruttrici
di civiltà”. Una civiltà si fonderebbe su “condizioni totalmente inaccessibili
alle folle abbandonate a se stesse”10.

Evidentemente, oggi ci troviamo di nuovo in una crisi, in un passaggio


critico del quale sembra essere responsabile un altro sovvertimento, ovvero
la rivoluzione digitale. Ancora una volta, uno schieramento formato da
molti assedia il rapporto di potere e di dominio esistente: la nuova folla si
chiama sciame digitale e ha caratteristiche che la differenziano
radicalmente dal classico schieramento dei molti, vale a dire dalla folla.
Lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima, uno
spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui
isolati. La folla è strutturata in modo totalmente diverso: ha caratteristiche
che non vanno attribuite ai singoli. I singoli si fondono in una nuova unità,
all’interno della quale non dispongono piú di un proprio profilo. Un
assembramento casuale di uomini non costituisce ancora una folla: ciò
avviene soltanto quando un’anima o uno spirito li saldano in una massa
omogenea, in sé chiusa. Allo sciame digitale manca l’anima della folla o lo
spirito della folla: gli individui che si uniscono in uno sciame non
sviluppano un Noi. Lo sciame non è contraddistinto da alcun accordo che
compatti la moltitudine in una folla attiva. Al contrario della folla, lo
sciame digitale non è in sé coerente: non si esprime come una sola voce.
Anche alla shitstorm manca quell’unica voce; per questo essa è percepita
come frastuono.

Per McLuhan, l’homo electronicus è un uomo della folla:


L’uomo della folla è l’abitante elettronico del globo terrestre e al tempo stesso è connesso con
tutti gli altri uomini, come fosse uno spettatore in uno stadio sportivo globale. Cosí come lo
spettatore allo stadio è un Nessuno, allo stesso modo il cittadino elettronico è un uomo la cui
identità privata è stata cancellata a livello psichico per mezzo di una pretesa smodata11.

L’homo digitalis è tutt’altro che un “Nessuno”: egli conserva la sua


identità privata persino quando si presenta come parte dello sciame. Si
esprime in modo anonimo, ma di norma ha un profilo e lavora senza posa
all’ottimizzazione di sé. Invece di essere “Nessuno”, è insistentemente
Qualcuno che si espone e ambisce all’attenzione. Al contrario, il “Nessuno”
massmediatico non reclama per sé alcuna attenzione: la sua identità privata
è cancellata. Egli si dissolve nella massa. In ciò consiste anche la sua
fortuna: non può, infatti, essere anonimo, perché egli è Nessuno. Di contro,
l’homo digitalis si mostra spesso in forma anonima: non è un Nessuno,
bensí un Qualcuno, e precisamente un Qualcuno anonimo.

Il mondo dell’homo digitalis, inoltre, presenta una topologia


completamente diversa, alla quale sono estranei grandi spazi chiusi come
stadi o anfiteatri, cioè luoghi in cui si radunano le masse. Questi fanno parte
della topologia delle folle. Gli abitanti digitali della rete non si riuniscono:
manca loro la spiritualità del riunirsi, che produrrebbe un Noi. Essi danno
vita a un peculiare assembramento senza riunione, a una massa senza
spiritualità, senza anima o spirito. Sono principalmente individui isolati,
hikikomori12 auto-segregati che siedono soli davanti al display. I media
elettronici come la radio radunano gli uomini, mentre i media digitali li
isolano.

Gli individui digitali si raggruppano occasionalmente in assembramenti,


come per esempio gli smart mobs. Tuttavia, i loro modelli collettivi di
movimento sono, in analogia con gli sciami costituiti da animali, assai
fugaci, instabili e contraddistinti dalla volatilità. Inoltre, spesso agiscono in
modo carnevalesco, scherzoso e disimpegnato. In questo lo sciame digitale
si differenzia dalla massa classica, che (come per esempio la massa dei
lavoratori) non è volatile ma volontaria e non costituisce un modello
transitorio, bensí una formazione stabile. La massa classica, provvista di
un’anima unificata da un’ideologia, marcia in una direzione. Grazie alla
decisione volontaria e alla stabilità, è anche capace del Noi, dell’azione
comune in grado di attaccare frontalmente il rapporto di dominio esistente.
Soltanto la massa decisa a un’azione comune genera il potere. Massa è
potere. Questa decisione manca agli sciami digitali: essi non marciano. Si
dissolvono con la stessa rapidità con cui si sono formati. A causa della loro
fugacità non sviluppano energie politiche. Allo stesso modo, le shitstorms
non sono in grado di mettere in dubbio il rapporto di potere dominante: si
scagliano soltanto contro singole persone, rendendole oggetto di scherno o
di scandalo.

Secondo Michael Hardt e Antonio Negri, la globalizzazione sviluppa due


forze contrapposte: da un lato, istituisce una gerarchia di potere capitalistica
decentrata, deterritorializzata, ossia l’“Impero”; dall’altro, crea la cosiddetta
“moltitudine”, una combinazione di singolarità che comunicano tra loro
attraverso la rete e agiscono insieme. Da dentro l’Impero, la moltitudine si
oppone all’Impero.

Hardt e Negri costruiscono il loro modello teorico sulla base di categorie


storicamente superate, come la classe o la lotta di classe. Cosí, definiscono
la “moltitudine” come una classe che è capace di un agire comune:
Un primo approccio consiste nel considerare la moltitudine come formata da tutti coloro che
lavorano sotto il comando del capitale e dunque, almeno in potenza, come la classe di tutti
coloro che rifiutano il comando del capitale13.

La violenza promanata dall’Impero viene interpretata come violenza


dello sfruttamento esercitato da altri:
La moltitudine è la reale forza produttiva del nostro mondo, mentre l’Impero è un mero
apparato di cattura che si alimenta della vitalità della moltitudine – come avrebbe detto Marx,
un vampiresco regime di lavoro morto accumulato che sopravvive soltanto succhiando il
sangue dei viventi14.

Il discorso sulla classe ha senso soltanto all’interno di una pluralità di


classi: la moltitudine, invece, è l’unica classe. Ne fanno parte tutti quelli
che contribuiscono al sistema capitalistico. L’Impero non è una classe
dominante che sfrutta la moltitudine, perché oggi ciascuno sfrutta se stesso
pur credendosi libero. L’odierno soggetto di prestazione è al tempo stesso
carnefice e vittima. Negri e Hardt evidentemente non conoscono questa
logica dell’auto-sfruttamento, che è molto piú efficace dello sfruttamento
esercitato da altri. Nell’Impero di fatto nessuno domina: esso rappresenta lo
stesso sistema capitalistico che sovrasta tutti. Di conseguenza, oggi è
possibile uno sfruttamento senza dominio.

I soggetti economici neoliberisti non costituiscono un Noi capace di


un’azione comune. Il crescente egotismo e l’atomizzazione della società
restringono radicalmente gli spazi dell’agire comune e impediscono, con
ciò, che si costituisca un contropotere, che sarebbe sul serio in grado di
mettere in questione l’ordinamento capitalistico. Il socius cede il passo al
solus; non la moltitudine, quanto piuttosto la solitudine contraddistingue la
forma sociale odierna, sopraffatta dalla generale disgregazione del comune
e del collettivo. La solidarietà scompare: la privatizzazione si estende fino
all’anima. L’erosione del collettivo rende sempre piú improbabile un agire
comune: Hardt e Negri non prendono coscienza di quest’evoluzione sociale
ed evocano una rivoluzione comunista della moltitudine. Il loro libro si
chiude con una trasfigurazione romantica del comunismo:
Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco, a contrapporre la gioia
di essere alla miseria del potere. Si tratta di una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poiché il
biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente
nell’amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia incontenibile di essere
comunisti15.
De-medializzazione

Il medium digitale è un medium di presenza: la sua temporalità è il presente


immediato. La comunicazione digitale si contraddistingue per il fatto che le
informazioni vengono prodotte, inviate e ricevute senza l’intervento di
intermediari; esse non sono guidate e filtrate da un mediatore: l’azione
dell’istanza mediatrice è sempre piú abolita. Mediazione e rappresentazione
vengono interpretate come mancanza di trasparenza e inefficienza, come un
ristagno di tempo e informazioni.

Un medium elettronico classico, come la radio, ammette soltanto una


comunicazione unilaterale; a causa della sua struttura ad anfiteatro non è
possibile alcuna interazione. La sua emissione, quasi radioattiva, non ha
nessuna riflettività16: irraggia in un’unica direzione. I recettori del
messaggio sono condannati alla passività. La rete mostra una topologia
completamente diversa da quella dell’anfiteatro, il quale dispone di un
centro irradiante che si esprime anche come istanza del potere.

Oggi non siamo piú solo passivi recettori e consumatori di informazioni,


ma siamo anche emittenti e produttori attivi. Non ci accontentiamo piú di
consumare passivamente le informazioni, ma vogliamo produrle e
comunicarle in maniera attiva: siamo al tempo stesso consumatori e
produttori. Questo doppio ruolo fa crescere a dismisura le informazioni: il
medium digitale non offre soltanto finestre per l’osservazione passiva, ma
anche porte attraverso le quali diffondere le informazioni che noi stessi
abbiamo prodotto. Le finestre Windows sono finestre dotate di porte, che
comunicano con altre finestre Windows senza spazi o istanze mediatrici:
attraverso di esse non gettiamo solo uno sguardo su uno spazio pubblico,
ma anche su altre finestre Windows. Su questo punto, i media digitali si
differenziano dai mass media come radio e televisione: media come i blog,
Twitter o Facebook de-medializzano la comunicazione. Oggi la società
dell’opinione e dell’informazione si fonda su questa comunicazione de-
medializzata: ciascuno produce e diffonde informazioni. La de-
medializzazione della comunicazione fa sí che i giornalisti – questi
rappresentanti un tempo privilegiati, questi “opinion makers” e sacerdoti
dell’opinione – appaiano del tutto superflui e anacronistici. Il medium
digitale abolisce ogni casta sacerdotale: la generale de-medializzazione
porta a compimento l’epoca della rappresentazione. Oggi ciascuno vuole
essere direttamente presente e presentare la propria opinione senza alcun
intermediario. La rappresentazione cede il posto alla presenza o alla co-
presentazione.

La crescente spinta alla de-medializzazione investe anche la politica e


mette in difficoltà la democrazia rappresentativa. I rappresentanti politici
non sembrano piú trasmettitori, ma barriere: la spinta alla de-
medializzazione si esprime, perciò, come richiesta di maggiore
partecipazione e trasparenza. Il Partito Pirata17 deve il suo iniziale successo
proprio a questo sviluppo dei media: il crescente obbligo di presenza,
prodotto dal medium digitale, minaccia universalmente il principio di
rappresentanza.

La rappresentanza funziona spesso come un filtro, che produce un effetto


molto positivo: agisce mediante selezione e rende possibile l’esclusività.
Per esempio, case editrici dotate di un programma ambizioso realizzano una
formazione culturale e spirituale, coltivano la lingua. Per redigere notizie
accertate, i giornalisti mettono in gioco persino la loro vita. Al contrario, la
de-medializzazione porta in molti ambiti a una massificazione: lingua e
cultura si appiattiscono. La popolare autrice americana Bella Andre
osserva:
Posso produrre i miei libri rapidamente. Non devo prima convincere qualche agente delle mie
idee: sono in grado di scrivere esattamente il libro che i miei lettori vogliono. Il mio pubblico
di lettori sono io18.

Non c’è alcuna sostanziale differenza tra il dire “il mio pubblico di lettori
sono io” e “il mio pubblico di elettori sono io”. “Il mio pubblico di elettori
sono io” significa la fine dell’uomo politico in senso enfatico, ossia di quel
politico che persiste nel proprio punto di vista e, invece di assecondare il
pubblico degli elettori, li anticipa con una visione. Il futuro, come tempo del
politico, scompare.

In quanto azione strategica, la politica necessita di un potere


d’informazione, vale a dire una piena sovranità sulla produzione e la
distribuzione dell’informazione. Essa, perciò, non può rinunciare del tutto a
quegli spazi chiusi, nei quali le informazioni possono essere
intenzionalmente trattenute. La riservatezza appartiene necessariamente alla
comunicazione politica, ossia strategica. Se tutto viene subito reso di
pubblico dominio, la politica rimane inevitabilmente con il fiato corto, si
ritrova provvisoria e si esaurisce nella loquacità. La trasparenza totale
impone alla comunicazione politica una temporalità che rende impossibile
una programmazione lenta e a lungo termine. Non è piú possibile lasciar
maturare le cose: il futuro non è piú la temporalità della trasparenza. La
trasparenza è dominata dalla presenza e dal presente.

Sotto il diktat della trasparenza non si arrivano a discutere neppure


opinioni divergenti o idee non convenzionali: difficilmente si rischia
qualcosa. L’imperativo della trasparenza genera una potente costrizione al
conformismo. Come la continua videosorveglianza, esso induce la
sensazione di essere osservati: in ciò consiste il suo effetto panottico. Si
giunge infine a un livellamento della comunicazione o alla ripetizione
dell’Uguale:
La costante osservazione mediatica ha comportato il fatto che noi [politici] non fossimo liberi
di discutere apertamente temi e posizioni provocatori o impopolari neppure in una cerchia
fidata. Bisogna sempre calcolare, infatti, la presenza di qualcuno che possa riferirli ai media19.

L’autore Dirk von Gehlen, che tramite crowdfunding sta finanziando il


progetto di un libro collettivo intitolato È disponibile una nuova versione,
avanza la pretesa di rendere trasparente anche la scrittura20. Che cosa
sarebbe, tuttavia, una scrittura del tutto trasparente? Per Peter Handke,
scrivere è una spedizione solitaria che apre all’ignoto, all’impercorso. Da
questo punto di vista, scrivere è simile all’agire o anche al pensare in senso
enfatico: pure Heidegger, pensando, procede nell’impercorso. Il colpo d’ala
di Eros lo sfiora ogni volta che compie un passo essenziale nel pensiero e si
arrischia nell’impercorso21. La pretesa di rendere trasparente anche la
scrittura equivale di fatto alla sua abolizione: scrivere è un’attività
esclusiva, mentre la scrittura collettiva, trasparente è puramente additiva.
Non è in grado di produrre il totalmente Altro, il Singolare. La scrittura
trasparente combina informazioni in modo puramente additivo: l’andatura
del digitale è proprio l’addizione. Una tale pretesa di trasparenza supera di
gran lunga la partecipazione e la libertà di informazione: segnala un
cambiamento di paradigma. È normativa, perché impone ciò che è e che
deve essere. Definisce un nuovo essere.

In un’intervista, Michel Butor constata una crisi dello spirito, che si


manifesterebbe anche come crisi della letteratura: “Non viviamo soltanto in
una crisi economica, ma anche in una crisi letteraria. La letteratura europea
è minacciata. Ciò che sperimentiamo in Europa è, appunto, una crisi dello
spirito”22. Alla domanda: “Da cosa riconosce la crisi dello spirito?”, Butor
risponde:
Da dieci o venti anni non accade quasi nulla in letteratura. C’è un profluvio di pubblicazioni,
ma anche uno stallo spirituale. La causa è una crisi della comunicazione. I nuovi mezzi di
comunicazione sono degni di ammirazione, ma provocano un enorme frastuono.

Il medium dello spirito è il silenzio, che è chiaramente distrutto dalla


comunicazione digitale. L’additività, prodotta dal frastuono comunicativo,
non è l’andatura dello spirito.
Hans l’intelligente

All’inizio del XX secolo, un cavallo tedesco raggiunse fama mondiale: in


apparenza, era in grado di eseguire operazioni aritmetiche. Passò alla
cronaca come Hans l’intelligente. Il cavallo rispondeva correttamente, con
un colpo di zoccolo o con il movimento della testa, a semplici operazioni di
calcolo: per esempio, batteva otto volte lo zoccolo per terra, quando gli si
chiedeva: “Quanto fa 3 piú 5?” Per spiegare questo singolare fenomeno fu
nominata persino una commissione di scienziati, alla quale deve aver
partecipato anche un filosofo. La commissione scoprí che il cavallo non era
in grado di contare: riusciva però a interpretare le minime sfumature
dell’espressione facciale e del linguaggio corporeo di chi gli stava di fronte.
Evidentemente, avvertiva in modo empatico che il pubblico presente
assumeva senza volerlo una postura tesa prima del colpo di zoccolo
decisivo. In presenza di questa percepibile tensione, il cavallo smetteva di
battere lo zoccolo: cosí dava sempre la risposta esatta.

Nella comunicazione la componente verbale è assai limitata: la


comunicazione umana è costituita da forme di espressione non verbali come
la gestualità, la mimica facciale o il linguaggio del corpo, che le
conferiscono tattilità. Con il tatto non s’intende il contatto corporeo, bensí
la pluridimensionalità e la polistratificazione della percezione umana, cui
concorrono anche altri sensi oltre alla vista. Il medium digitale priva la
comunicazione della tattilità e della corporeità.

Per via dell’efficienza e della comodità della comunicazione digitale


evitiamo sempre piú il contatto diretto con le persone reali, anzi proprio il
contatto con il Reale. Il medium digitale porta alla progressiva scomparsa
della controparte reale, la percepisce come un ostacolo. In questo modo, la
comunicazione digitale diviene sempre piú priva di corpo e di volto. Il
digitale sottopone la triade lacaniana di Reale, Simbolico e Immaginario a
una trasformazione radicale: riduce il Reale e totalizza l’Immaginario. Lo
smartphone ha la funzione di uno specchio digitale per la riedizione post-
infantile dello stadio dello specchio: dischiude uno spazio narcisistico, una
sfera dell’Immaginario nella quale rinchiudermi. Attraverso lo smartphone
non parla l’Altro.

Lo smartphone è un dispositivo digitale che lavora con una modalità


semplificata di input-output. Bandisce ogni forma di negatività: per suo
tramite si disimpara a pensare in maniera complessa. Inoltre, lo smartphone
fa avvizzire le forme comportamentali che richiedono ampiezza temporale o
lungimiranza: esige rapidità e miopia, e dissolve ciò che è lungo e lento. Il
“mi piace” totale genera uno spazio della positività. A causa della sua
negatività l’esperienza come irruzione dell’Altro interrompe l’auto-
rispecchiamento immaginario: la positività che è propria del digitale riduce
la possibilità di una simile esperienza. Perpetua l’Uguale. Lo smartphone,
come in generale il digitale, indebolisce la capacità di rapportarsi alla
negatività.

In passato la controparte, per esempio l’immagine, veniva percepita in


modo piú diretto o piú visivo di oggi, ovvero come qualcosa che mi
osserva, che persiste in una crescita, in un’autonomia o vita propria,
qualcosa che mi rimane incontro o che grava incontro23. In passato, la
controparte possedeva chiaramente piú negatività, piú opposizione di
quanta ne abbia oggi. Questa controparte visuale, che mi osserva, mi
riguarda o mi colpisce, scompare oggi sempre piú. Prima c’era piú sguardo,
attraverso il quale – come dice Sartre – si annuncia l’Altro. Sartre non
riferisce lo sguardo unicamente all’occhio umano: l’Altro, inteso come
sguardo, è ovunque. Anche le cose ci guardano:
Senza dubbio, ciò che manifesta piú spesso uno sguardo è la convergenza verso di me di due
globi oculari. Ma uno sguardo può anche essere dato da un fruscio di rami, da un rumore di
passi seguiti da silenzio, dallo sbattere di un’imposta, dal leggero movimento di una tenda24.

La comunicazione digitale è una comunicazione povera di sguardo.


L’autore di un saggio per il decimo anniversario di Skype osserva:
La videochiamata dà l’illusione della presenza e certamente ha reso piú sopportabile la
separazione nello spazio tra gli innamorati. Tuttavia, la distanza residua è sempre percettibile –
tanto piú chiaramente, forse, in un piccolo slittamento: su Skype infatti non è possibile
guardarsi a vicenda. Se si guarda negli occhi il volto nello schermo, l’altro crede che si stia
guardando leggermente piú in basso, perché l’obiettivo è installato sul bordo superiore del
computer. La piacevole particolarità dell’incontro diretto, per cui osservare qualcuno equivale
sempre anche a essere osservati, ha ceduto il posto a un’asimmetria dello sguardo. Grazie a
Skype possiamo essere vicini, ventiquattr’ore al giorno, ma continuiamo reciprocamente a
perderci di vista25.

L’obiettivo della videocamera non è l’unico responsabile del doversi-


reciprocamente-perdere-di-vista, esso è piuttosto da imputare alla
fondamentale mancanza di sguardo, all’assenza dell’Altro. Il medium
digitale ci allontana sempre piú dall’Altro.

Lo sguardo è anche una categoria centrale nella teoria dell’immagine di


Jacques Lacan: “Nel quadro si manifesta sempre qualcosa dello sguardo”26.
Lo sguardo è l’Altro nell’immagine che mi osserva, mi tocca e mi affascina.
È il punctum che spezza il tessuto omogeneo dello studium. Come sguardo
dell’Altro, si contrappone all’occhio che gode dell’immagine: mina il
godimento dell’occhio e mette in dubbio la mia libertà. La crescente
intensificazione narcisistica della percezione porta alla scomparsa dello
sguardo, dell’Altro.

Il digitare sul touchscreen è un movimento che implica una conseguenza


nella relazione con l’Altro: annulla quella distanza che è costitutiva
dell’Altro nella sua alterità. Si può digitare perciò sull’immagine, toccarla
direttamente, perché essa ha già perso lo sguardo, il volto. Dispongo
dell’Altro come se lo tenessi tra pollice e indice. Spostiamo l’Altro con un
tocco di dita, per far apparire la nostra immagine speculare. Lacan direbbe
che il touchscreen si distingue dall’immagine come uno schermo (écran)
che mi ripara dallo sguardo dell’Altro e al tempo stesso lo illumina. Il
touchscreen dello smartphone si potrebbe chiamare schermo trasparente: è
privo di sguardo.

Non esiste un volto trasparente: il volto che desideriamo è sempre opaco.


Opaco significa, letteralmente, messo in ombra. Questa negatività
dell’ombra è costitutiva per il desiderio. Lo schermo trasparente non
ammette alcun desiderio, che è sempre il desiderio dell’Altro. Proprio là
dov’è l’ombra, è presente anche il bagliore. Ombra e bagliore abitano lo
stesso spazio: sono luoghi del desiderio. Ciò che è trasparente non brilla. Il
bagliore si sviluppa dove la luce s’interrompe. Dove non c’è interruzione e
non c’è rottura, non è possibile né Eros né desiderio. La luce uniforme,
piatta, trasparente non è un medium del desiderio: la trasparenza significa la
fine del desiderio.

Sembra che, davanti a un ritratto velato, Leonardo Da Vinci abbia


osservato: “Non iscoprire se libertà t’è cara ché ’l volto mio è carcere
d’amore”27. Questa massima esprime una particolare esperienza del volto,
che non è piú possibile oggi, nell’epoca di Facebook. La faccia (face), che
si espone e ambisce all’attenzione, non è un volto: non è caratterizzata da
alcuno sguardo. L’intenzionalità dell’esibizione distrugge quell’interiorità,
quella riservatezza costitutiva dello sguardo: “In effetti, egli non guarda
nulla; trattiene dentro di sé il suo amore e la sua paura: ecco, lo Sguardo è
questo”28. La faccia esibita non è piú una controparte diretta che mi
incatena e mi cattura: cosí, la prigione dell’amore cede oggi il passo
all’inferno della libertà.
Fuga nell’immagine

Oggi le immagini non sono solo riproduzioni, ma anche modelli. Ci


rifugiamo nelle immagini per essere migliori, piú belli, piú vivi. Per
accelerare l’evoluzione, ci serviamo evidentemente non solo della tecnica
ma anche delle immagini: è possibile che l’evoluzione si basi
fondamentalmente su un’immaginazione? Che l’Immaginario sia costitutivo
per l’evoluzione? Il medium digitale completa quel rovesciamento iconico
che fa sembrare le immagini piú vive, piú belle, migliori rispetto alla realtà
percepita come imperfetta:
Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: “Guarda come sono
spenti; al giorno d’oggi, le immagini sono piú vive delle persone”. Uno dei segni distintivi del
nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario
generalizzato. Prendiamo gli Stati Uniti: là, tutto si trasforma in immagini: là esistono, si
producono e consumano solo immagini29.

Le immagini che, come riproduzioni, offrono una realtà ottimizzata,


annullano proprio l’originario valore iconico dell’immagine. Vengono prese
in ostaggio dal Reale: per questo oggi siamo iconoclasti malgrado, o
proprio a causa, del profluvio d’immagini. Le immagini rese consumabili
distruggono la particolare semantica e poetica dell’immagine, che è piú
d’una mera riproduzione del Reale. Le immagini vengono addomesticate, in
modo da essere rese consumabili. Questo addomesticamento delle immagini
porta alla scomparsa della loro stravaganza. Vengono ridotte, cosí, alla loro
verità.

La cosiddetta sindrome di Parigi indica un disturbo psichico acuto che


colpisce prevalentemente i turisti giapponesi. Chi ne è affetto soffre di
allucinazioni, derealizzazione, depersonalizzazione, angoscia come pure di
sintomi psicosomatici quali vertigini, sudorazione o palpitazioni. Il fattore
scatenante è la grande differenza tra l’immagine ideale di Parigi, che i
giapponesi hanno prima del viaggio, e la realtà della città, che si discosta
notevolmente da quell’immagine ideale. È da supporre che la tendenza
coatta e quasi isterica dei turisti giapponesi a scattare foto rappresenti una
reazione difensiva inconscia, che mira a esorcizzare attraverso le immagini
il Reale che li spaventa. Le belle foto, come immagini ideali, schermano
dalla sporca realtà.

Il film di Hitchcock Rear Window (in italiano: “La finestra sul cortile”)
illustra il nesso tra l’esperienza scioccante provocata dal Reale30 e
l’immagine come schermatura. La vicinanza fonetica tra rear e real ne è un
indizio ulteriore: la finestra sul cortile è una vista meravigliosa. Il fotografo
Jeff (James Stuart), immobilizzato sulla sedia a rotelle, siede alla finestra e
si intrattiene con le spassose vite dei vicini che si offrono all’osservazione
dalla finestra. Un giorno si convince di essere stato testimone di un
omicidio: il sospettato si accorge di essere osservato furtivamente da Jeff
che gli abita di fronte. In quel momento l’uomo guarda Jeff. Questo
inquietante sguardo dell’Altro, questo sguardo proveniente dal Reale rompe
la rear window come vista meravigliosa. Il sospettato, l’inquietante Reale si
introduce infine nell’appartamento di Jeff, il fotografo, che cerca di
accecarlo con il flash della macchina fotografica, vale a dire cerca di nuovo
di esorcizzarlo, e persino di respingerlo nell’immagine. Ma il tentativo non
riesce: Jeff viene gettato giú dalla finestra e il sospettato si svela
effettivamente un assassino. In quel momento la rear window diventa una
real window. La conclusione: la real window si trasforma nuovamente nella
vista meravigliosa, in rear window.

Per quanto riguarda le windows digitali, al contrario della rear window,


non c’è il pericolo dell’irruzione del Reale, dell’Altro. Come finestre
digitali, riescono a schermarci dal Reale piú efficacemente della rear
window. Esse seguono l’Immaginario generalizzato: rispetto ai media
analogici, il medium digitale interpone una distanza maggiore dal Reale.
Tra Digitale e Reale, infatti, vi è minore analogia.

Grazie al medium digitale oggi produciamo enormi quantità di immagini.


Anche questa massiccia produzione di immagini può essere interpretata
come una reazione di difesa e di fuga. Il delirio dell’ottimizzazione investe
oggi pure la produzione di immagini: davanti alla realtà, percepita come
imperfetta, ci rifugiamo nelle immagini. Non si tratta di religioni, ma di
tecniche dell’ottimizzazione, con l’aiuto delle quali ci opponiamo alla
fatticità come il corpo, il tempo, la morte ecc. Il medium digitale è de-
fatticizzante.

Tale medium non ha età, destino e morte. In esso il tempo stesso è


congelato: è un medium senza tempo. Il medium analogico, invece, soffre il
tempo. La sua forma espressiva è la passione:
Non solo essa [la foto] condivide la sorte della carta (è deperibile), ma, anche se è fissata su
dei supporti piú solidi, è pur sempre mortale: come un organismo vivente, essa nasce dai
granuli d’argento che germinano, fiorisce un attimo, poi subito invecchia. Attaccata dalla luce
e dall’umidità, essa impallidisce, si attenua, svanisce31.

Barthes collega la fotografia analogica a un’altra forma di vita per la


quale è costitutiva la negatività del tempo; l’immagine digitale, il medium
digitale, invece, si accompagna a una diversa forma di vita, dalla quale sono
cancellati tanto il divenire quanto l’invecchiare, tanto la nascita quanto la
morte. Essa è caratterizzata da una presenza e da un presente permanenti:
l’immagine digitale non sboccia né risplende, perché nello sbocciare è
iscritta la negatività dell’appassire, nello splendore la negatività dell’ombra.
Dall’agire al giocare con le dita

Il verbo della storia è l’agire [handeln]. Hannah Arendt lo definisce il


potere di “porre un initium”, ossia di far cominciare qualcosa di nuovo, di
totalmente diverso. Inoltre, Arendt eleva la natalità, l’esser-nato a
condizione ontologica dell’agire. Ogni nascita promette un nuovo inizio.
Agire significa realizzare un nuovo inizio, far cominciare un mondo
nuovo32. Rispetto ai processi automatici ai quali è sottoposto il mondo,
l’agire assomiglierebbe a un “miracolo”33. La sua “facoltà […] capace di
operare miracoli” sarebbe il fondamento di “fede” e “speranza”. Questa
dimensione soteriologica dell’agire troverebbe “la sua piú gloriosa e
efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò ‘la lieta
novella’ dell’avvento: ‘Un bambino è nato fra noi’”34.

È ancora possibile, oggi, l’agire in questo senso enfatico? Il nostro fare


non è forse consegnato a quei processi automatici, che non è piú possibile
interrompere neppure attraverso il miracolo del radicale nuovo inizio e nei
quali non siamo piú i soggetti delle nostre decisioni? La macchina digitale e
quella capitalistica non costituiscono un’alleanza inquietante che annienta
una simile libertà dell’agire? Non viviamo, oggi, in un tempo di morti
viventi, nel quale non solo l’esser-nati ma anche il morire sono divenuti
impossibili? La natalità costituisce il fondamento del pensiero politico,
mentre la mortalità rappresenta il dato di fatto sul quale si infiamma il
pensiero metafisico; cosí intesa, l’era digitale dei morti viventi non è
politica né metafisica: piuttosto, è postpolitica e postmetafisica. La nuda
vita, che bisogna prolungare a ogni costo, è priva di nascita e di morte.
L’era del digitale è un’era postnatale e postmortale.

Vilém Flusser profetizza: l’uomo, con i suoi dispositivi digitali, vive già
oggi la “vita immateriale” di domani. Tipica di questa nuova vita è
l’“atrofia delle mani”: i dispositivi digitali lasciano che le mani si
atrofizzino. Essi significano, tuttavia, una liberazione dal peso della
materia: l’uomo del futuro non avrà piú bisogno delle mani. Non dovrà piú
maneggiare e lavorare nulla, perché non avrà piú a che fare con cose
materiali ma solo con informazioni immateriali. Al posto delle mani
subentrano le dita: invece di agire, l’uomo nuovo gioca con le dita. Vuole
solo giocare e godere. La sua vita sarà caratterizzata dall’ozio, non dal
lavoro. L’uomo del futuro immateriale non sarà un lavoratore, un homo
faber, ma un giocatore, un homo ludens35.

L’uomo del futuro, “che gioca con le dita, senza mani”, l’homo digitalis
non agisce. L’“atrofia delle mani” lo rende incapace di agire. Tanto la
manipolazione quanto la lavorazione presuppongono una resistenza: anche
l’azione deve superare una resistenza. Essa contrappone l’Altro, il Nuovo, a
ciò che è dominante: in essa è insita una negazione. Il suo pro è
contemporaneamente un contro. L’odierna società positiva, invece, evita
tutte le forme oppositive e cosí elimina le azioni. In essa dominano
unicamente diversi stati dell’Uguale.

Dal digitale non nasce alcuna resistenza materiale che si debba superare
per mezzo del lavoro. Il lavoro, cosí, si avvicina effettivamente al gioco.
Diversamente da ciò che ipotizza Flusser, tuttavia, la vita immateriale,
digitale non dà avvio al tempo dell’ozio: a Flusser resta sconosciuto il
principio della prestazione, che ostacola di nuovo l’avvicinarsi del lavoro al
gioco. Tale principio toglie al gioco ogni elemento ludico e lo trasforma
ancora in lavoro. Il giocatore si dopa e si sfrutta fino allo sfinimento. L’era
digitale non è l’epoca dell’ozio, ma della prestazione: contrariamente alla
visione di Flusser, l’“uomo che gioca con le dita, senza mani” non è un
homo ludens. Anche il gioco si sottopone all’obbligo di prestazione:
all’atrofia delle mani segue un’artrosi digitale delle dita. L’utopia
flusseriana del gioco e dell’ozio si rivela una distopia della prestazione e
dello sfruttamento.

L’ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tempo


dell’ozio è un altro tempo. L’imperativo neoliberista della prestazione
trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il tempo di lavoro. La pausa
ne è solo una fase. Oggi non abbiamo altro tempo all’infuori di quello
lavorativo: ce lo portiamo dietro, cosí, non solo in vacanza ma anche nel
sonno. Per questo dormiamo agitati; i soggetti di prestazione spossati si
addormentano come si addormenta una gamba. Poiché serve alla
rigenerazione della forza lavoro, anche il riposo non è nient’altro che una
modalità del lavoro: il rilassarsi non è l’Altro del lavoro, ma il suo prodotto.
Anche la cosiddetta decelerazione non riesce a produrre un altro tempo: è
comunque una conseguenza, un riflesso del tempo di lavoro accelerato.
Essa rallenta il tempo di lavoro, invece di trasformarlo in un altro tempo.

Certo, oggi siamo liberi dalle macchine dell’epoca industriale che ci


schiavizzavano e sfruttavano; i dispositivi digitali, tuttavia, producono una
nuova costrizione, una nuova schiavitú. Ci sfruttano in modo ancor piú
efficiente perché – grazie alla loro mobilità – trasformano ogni luogo in un
posto di lavoro e ogni tempo in un tempo di lavoro. La libertà della mobilità
si rovescia nel fatale obbligo di dover lavorare ovunque. Nell’epoca delle
macchine, già soltanto per via dell’immobilità di queste ultime, il lavoro era
circoscritto rispetto al non-lavoro: il posto di lavoro, sul quale ci si doveva
appositamente recare, era nettamente separato dai luoghi del non-lavoro.
Oggi questa distinzione è stata completamente abolita in molte professioni:
anche il lavoro è reso mobile dal dispositivo digitale. Ciascuno si trascina
appresso il posto di lavoro come un campo di lavoro. Cosí, non possiamo
piú sfuggire al lavoro.

Dagli smartphone, che promettono piú libertà, deriva una costrizione


fatale: la costrizione a comunicare. Nello stesso tempo, abbiamo un
rapporto quasi ossessivo, coatto con il dispositivo digitale. Anche qui la
libertà si rovescia in costrizione. I social network rafforzano enormemente
questa costrizione alla comunicazione: essa è prodotta, in ultima analisi,
dalla logica del capitale. Piú comunicazione significa piú capitale: la
circolazione accelerata di comunicazione e informazione porta alla
circolazione accelerata del capitale.

La parola “digitale” rimanda al dito (digitus), che – soprattutto – conta.


La cultura digitale si basa sul dito che conta: la storia, invece, è un
racconto. La storia non conta: contare è una categoria poststorica. Né i
tweet né le informazioni si combinano in un racconto: neppure il diario di
Facebook racconta la storia di una vita, una biografia. È additivo, non
narrativo. L’uomo digitale gioca con le dita nel senso che conta e calcola
ininterrottamente: il digitale assolutizza il numerare e il contare. Anche gli
amici su Facebook vengono soprattutto contati; ma l’amicizia è un
racconto. L’era digitale totalizza l’additivo, il contare e il contabile. Persino
le simpatie vengono contate sotto forma del “mi piace”. Il narrativo perde
notevolmente di significato: oggi tutto viene trasformato in qualcosa di
contabile, per poter essere tradotto nel linguaggio della prestazione e
dell’efficienza. Cosí, tutto ciò che non è contabile cessa di essere.
Dal contadino al cacciatore

“La mano agisce”: cosí Heidegger definisce l’essenza della mano36. Egli
però non concepisce l’agire a partire dalla vita activa. La “mano che
propriamente agisce” è piuttosto la “mano che scrive”37. In tal modo, la sua
essenza si manifesta non come azione ma come scrittura. Per Heidegger, la
mano è il medium dell’“Essere”, che indica il terreno d’origine di senso e
verità. La mano che scrive comunica con l’“Essere”. La macchina per
scrivere, usando la quale si impiegherebbe solo la punta delle dita, ci
allontana dall’Essere:
La macchina per scrivere occulta l’essenza dello scrivere e della scrittura. Essa sottrae
all’uomo la dignità essenziale della mano, senza che egli faccia convenientemente esperienza
di tale sottrazione e riconosca che qui è già mutato il riferimento dell’essere all’essenza
dell’uomo38.

La macchina per scrivere porta a un’atrofia della mano, al declino della


mano che scrive, anzi all’oblio dell’Essere. Senza dubbio Heidegger
avrebbe detto che il dispositivo digitale aggrava ulteriormente quest’atrofia
della mano.

La mano di Heidegger pensa invece di agire: “Ogni movimento della


mano in ciascuna delle sue opere si compie attraverso l’elemento del
pensiero, in esso si mostra come gesto. Ogni movimento della mano si
poggia sul pensiero”39. Il pensare è un lavoro manuale: perciò l’atrofia
digitale della mano atrofizzerebbe lo stesso pensare. È interessante
osservare come Heidegger sottragga in modo tanto deciso la mano all’agire
e l’accosti al pensiero: non l’ethos, bensí il logos ne definisce l’essenza.
Heidegger, inoltre, pensa il logos a partire dalla mano che legge di un
contadino: “Senza questo raccogliere, senza cioè la raccolta [Lese] nel
senso della raccolta del grano e dell’uva, non saremmo mai in grado […] di
leggere una sola parola”40. In questo modo, Heidegger fa apparire il logos
come habitus del contadino, che coltiva il linguaggio come un campo, lo ara
e lo dissoda, comunicando cosí con la terra chiusa che si nasconde, ed
esponendosi alla sua imprevedibilità e alla sua velatezza. Il contadino deve
ascoltare la terra, e in questo modo ubbidirle:
Noi abbiamo orecchi poiché possiamo prestare ascolto con attenzione, ed è mediante questo
atto di attenzione nell’ascolto che possiamo percepire il canto della terra, il suo vibrare e il suo
fremere, che non viene minimamente sfiorato dal rumore frastornante che talvolta l’uomo
produce sulla logora superficie della terra41.

Anche il mondo heideggeriano di “terra e cielo, mortale e divino” è un


mondo contadino: l’uomo in quanto “mortale” non è un agente, gli manca la
natalità del nuovo inizio. Anche il suo Dio è un Dio dei contadini, che
ascoltano e obbediscono. Nella “casa contadina”, Egli ha il suo posto in
quell’“angolo del Signore”, che si deve all’“abitare rustico”42. Nell’Origine
dell’opera d’arte Heidegger descrive le scarpe di van Gogh come scarpe
contadine, e trasfigura cosí il mondo contadino:
Nell’orifizio oscuro dall’interno logoro […] della calzatura è concentrata la durezza del lento
procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile […]. Per le
scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo scuro
rifiuto nell’abbandono invernale43.

Al posto di quell’aspro vento sul campo, sul mondo soffia oggi la


tempesta digitale nella forma della rete. Gli uragani del digitale rendono
impossibile l’“abitare” di Heidegger. La “terra” del contadino
heideggeriano è diametralmente opposta al digitale: incarna
l’“essenzialmente indischiudibile” e l’“autochiudentesi per essenza”44. Il
digitale genera al contrario una costrizione alla trasparenza. La “terra” si
sottrae a ogni trasparenza: la sua impenetrabilità è fondamentalmente
estranea all’informazione. Questa è, per sua stessa natura, qualcosa di
manifestamente dato o che deve manifestamente darsi. L’imperativo della
società della trasparenza suona: tutto deve essere manifestamente dato come
informazione accessibile a chiunque. La trasparenza è l’essenza
dell’informazione, anzi è l’andatura del medium digitale.
La “verità” di Heidegger ama nascondersi. Non è semplicemente data.
Deve prima essere “strappata” alla “velatezza”; la negatività della
“velatezza” è insita nella verità come il “cuore”45, le appartiene in modo
sostanziale. Come “non-velatezza”, essa è circondata dalla velatezza come
la radura dalla scura foresta. All’informazione, invece, manca lo spazio
interno, l’interiorità che le consentirebbe di ritrarsi o di velarsi. In essa,
direbbe Heidegger, non batte alcun cuore. Una pura positività, una pura
esteriorità contraddistinguono l’informazione.

L’informazione è cumulativa e additiva, mentre la verità è esclusiva e


selettiva: diversamente dall’informazione, la verità non si ammucchia.
Infatti, non si incontra spesso; non esiste una massa di verità, mentre esiste
una massa di informazioni. Senza negatività si arriva a una massificazione
del positivo: per via della sua positività, l’informazione si distingue anche
dal sapere. Il sapere non è semplicemente dato: non si trova facilmente
quanto l’informazione. Spesso il sapere è preceduto da una lunga
esperienza: esso possiede tutt’altra temporalità rispetto all’informazione,
che è estremamente breve e fugace. L’informazione è esplicita, mentre
spesso il sapere assume una forma implicita.

Terra, Dio e verità appartengono al mondo del contadino. Oggi non


siamo piú contadini, ma cacciatori: alla ricerca di una preda, i cacciatori
d’informazione vagano per la rete, come attraverso un terreno di caccia
digitale. Al contrario dei contadini, sono mobili: nessun campo li costringe
a rimanere stanziali. L’uomo nell’epoca delle macchine non è del tutto
libero dall’habitus del contadino, perché è ancora vincolato alla macchina
come al suo nuovo padrone. Essa lo costringe a funzionare passivamente: il
lavoratore si rivolge alla macchina come il servo al padrone. La macchina
costituisce il centro del suo mondo. Il medium digitale produce una nuova
topologia del lavoro: il centro è occupato dal lavoratore digitale. Piú
precisamente, non c’è piú alcun centro. L’utente e il suo dispositivo digitale
costituiscono piuttosto un’unità: i nuovi cacciatori non funzionano
passivamente, come parti di una macchina, ma operano attivamente con i
loro dispositivi digitali mobili, che tra i cacciatori paleolitici si chiamavano
lance, archi e frecce. In tal modo, non si espongono al pericolo, perché
vanno a caccia di informazioni con il mouse: in questo si differenziano dai
cacciatori paleolitici.
Potere e informazione non vanno granché d’accordo. Il potere si
ammanta spesso di segreto: inventa la verità per mettere sul trono se stesso
e insediarsi. Il potere, come il segreto, è contraddistinto da un’interiorità: il
medium digitale, invece, è de-interiorizzante. Ai cacciatori d’informazione
le istanze del potere appaiono come barriere per le informazioni: per questo
la loro strategia è pretendere trasparenza.

I mass media come la radio creano un rapporto di potere: il destinatario è


consegnato passivamente a una voce. La comunicazione procede in un solo
verso, questa comunicazione asimmetrica non è una comunicazione in
senso proprio. Assomiglia a un annuncio: questo tipo di mass media, perciò,
ha qualcosa in comune con il potere e il dominio. Il potere rafforza la
comunicazione asimmetrica: piú alto è il grado di asimmetria, maggiore è il
potere. I media digitali, invece, realizzano un rapporto genuinamente
comunicativo, ossia una comunicazione simmetrica: il destinatario
dell’informazione è al tempo stesso chi la trasmette. È difficile collocare
rapporti di potere in un simile spazio comunicativo simmetrico.

Secondo Flusser, gli uragani mediatici ci costringono di nuovo al


nomadismo. I nomadi, però, sono pastori: manca loro la mentalità dei
cacciatori. La linea di demarcazione tra passato e presente non passa tra
sedentari e nomadi, ma tra contadini e cacciatori. Persino i contadini, oggi,
si comportano come cacciatori. Atteggiamenti come “pazienza”, “rinuncia”,
“calma”, “pudore” o “premura”, che caratterizzano i contadini di
Heidegger, non rientrano nell’habitus del cacciatore. I cacciatori
d’informazione sono impazienti e senza pudore: stanno appostati, non
“aspettano”. Si servono delle cose, invece di farle maturare. L’importante è
raccogliere prede a ogni “click”. La loro temporalità è il presente totale:
tutto ciò che impedisce loro di vedere, deve essere rapidamente tolto di
mezzo. Questa visione integrale sul campo di caccia digitale si chiama
trasparenza: gli abitanti della società della trasparenza sono cacciatori e
raccoglitori di informazioni.

I cacciatori digitali d’informazione andranno in giro con i Google Glass.


Questi occhiali informatici sostituiscono le lance, gli archi e le frecce dei
cacciatori paleolitici. I Google Glass collegano l’occhio umano direttamente
a Internet: chi li indossa è, per cosí dire, onnivedente. Essi introducono
all’era dell’informazione totale. I Google Glass non sono uno strumento,
dunque un “mezzo”, “a portata di mano” nel senso heideggeriano, perché
non si prendono in mano. Il cellulare sarebbe ancora uno strumento: i
Google Glass ci calzano al punto tale da essere percepiti come una parte del
corpo. Questi occhiali completano la società dell’informazione, perché
fanno coincidere integralmente l’Essere con l’informazione. Quel che non è
informazione, non è. La percezione umana raggiunge, per loro tramite,
un’efficienza totale. Si raccolgono prede non solo a ogni click, ma anche a
ogni occhiata46. Vedere il mondo coincide col coglierlo: i Google Glass
totalizzano l’ottica del cacciatore, che accantona tutto ciò che non è preda,
ossia che non promette alcuna informazione. La soddisfazione piú profonda
nella percezione, nel vedere, consiste tuttavia nell’inefficienza: nasce dallo
sguardo prolungato che si sofferma sulle cose senza sfruttarle.
Dal soggetto al progetto

Il contadino heideggeriano è un soggetto, termine che significa


originariamente essere-sottoposto-a (subject to, sujet à). Il contadino si
sottomette al nomos della terra: l’ordinamento terraneo produce soggetti.
Secondo Heidegger, il fondamento dell’esistenza umana è la “gettatezza”
[Geworfenheit]: oggi si dovrebbe scrivere nuovamente l’ontologia
esistenziale heideggeriana, perché si crede di non essere soggetti sottoposti
ma progetti che concepiscono e ottimizzano se stessi. Certo, lo sviluppo del
soggetto in progetto era già in corso prima dell’ascesa del medium digitale,
tuttavia è valida in generale la formula: ogni forma d’essere e di vita
sollecita, nelle sue fasi critiche, forme espressive che trovano la loro piena
realizzazione soltanto in un medium nuovo. Sussiste una dipendenza
mediatica delle forme di vita: questo significa che solo il medium digitale
porta a compimento il processo, entro il quale il soggetto si avvicina al
progetto. Quello digitale è un medium di progetto.

Riguardo al digital turn, Flusser ritiene necessaria una nuova


antropologia, un’antropologia del digitale:
Noi non siamo piú soggetti di un mondo oggettivo dato, bensí progetti di mondi alternativi.
Dalla servile posizione soggettiva ci siamo alzati alla andatura eretta del progettare. Stiamo
diventando adulti. Noi sappiamo di sognare47.

Per Flusser, l’uomo è un artista che progetta mondi alternativi: scompare


la differenza tra arte e scienza, entrambi sono un progetto. Gli scienziati,
sostiene Flusser, sono “artisti del computer avant la lettre”48.

È sorprendente che Flusser fondi la “nuova antropologia” sul


“cristianesimo ebraico”, che “vede nell’uomo solo polvere”49.
Nell’universo puntuale del digitale si perdono tutte le grandezze fisse: non
c’è soggetto né oggetto. “Noi non possiamo piú essere soggetti, perché non
esistono piú oggetti di cui potremmo essere i soggetti, né esiste alcun
nucleo duro che possa essere il soggetto di un qualche oggetto”50. Il Sé è
oggi, secondo Flusser, soltanto “un punto di snodo di virtualità che si
incrociano”. Anche il Noi è un “punto di snodo di possibilità”:
Noi dobbiamo pensarci come curvature o cavità nel campo di relazioni, soprattutto relazioni
interumane, intersecantesi fra loro. […] Anche noi siamo “computazioni digitali” di snodi di
possibilità fluttuanti51.

Il messianismo digitale di Flusser non aveva previsto l’odierna topologia


della connessione digitale, che non è fatta di punti e incroci altruisti, ma di
isole narcisistiche di Ego.

Gli albori della comunicazione digitale erano del tutto dominati


dall’utopismo. Cosí, anche Flusser ha in mente un’antropologia idealizzata
dello sciame creativo: “È, l’uomo telematico, l’inizio di un’antropologia per
la quale ‘essere-umano’ significa essereconnesso telematicamente con altri,
un riconoscersi reciproco finalizzato all’avventura della creatività?”52
Flusser porta costantemente la comunicazione in rete su un piano religioso:
l’etica telematica della connessione in rete corrisponderebbe al
“cristianesimo ebraico, con la sua richiesta di amore per il prossimo”. Nella
comunicazione digitale Flusser ravvisa un potenziale messianico, che la
rende utile per “il profondo ed esistenziale desiderio dell’uomo di
riconoscere l’altro e di conoscere sé nell’altro, in breve dell’amore nel
senso giudaico-cristiano”53. Di conseguenza, la comunicazione digitale
fonda una sorta di società pentecostale: libera l’uomo dal Sé isolato e
produce uno spirito, uno spazio di risonanza.
La Rete vibra, è un Pathos, è una risonanza. È questo il fondamento della telematica, questa
simpatia e antipatia della prossimità. Io credo che la telematica sia una tecnica di amore del
prossimo, una tecnica che realizza il cristianesimo ebraico. La telematica ha per base
l’empatia: annienta l’umanismo in favore dell’altruismo. Il solo fatto che questa possibilità
sussista è già qualcosa di assolutamente colossale54.

La società dell’informazione è, secondo Flusser, una “strategia per


abolire l’ideologia del Sé isolato, in forza della conoscenza che noi
esistiamo gli uni per gli altri e nessuno esiste per se stesso”. Questa
strategia produce “automaticamente una eliminazione del Sé a vantaggio
della realizzazione intersoggettiva”55.

La connessione digitale in rete non è per Flusser un medium di ricerca


coatta del nuovo, bensí di “fedeltà” che conferisce al mondo “un aroma”,
“un profumo specifico”. La comunicazione digitale rende possibile
l’esperienza di una prossimità che rende felici, di un attimo che rende felici
(kairos), facendo sparire come per incanto la distanza spazio-temporale.
Questa è l’immagine che ho: quando comunico per via telematica col mio amico a San Paolo,
non solo si piega lo spazio, ed egli si avvicina a me e io a lui, ma si piega anche il tempo, il
passato diviene futuro, il futuro diviene passato ed entrambi divengono presenti. Questa è la
mia esperienza dell’intersoggettività56.

Questo messianismo della connessione in rete non si è avverato: la


comunicazione digitale, piuttosto, erode massicciamente la società, il Noi.
Distrugge lo spazio pubblico e aggrava l’isolamento dell’uomo: la
comunicazione digitale è dominata dal narcisismo, non dall’“amore per il
prossimo”. La tecnica digitale non è una “tecnica di amore per il prossimo”;
piuttosto, si rivela una macchina egotica. Non è neppure un medium
dialogico: il dialogico, che definisce costantemente il pensiero di Flusser,
domina in maniera eccessiva la sua teoria della connessione in rete.

Il progetto, nel quale il soggetto si libera, si rivela oggi una figura della
costrizione: sviluppa costrizioni sotto forma di prestazione, auto-
ottimizzazione e auto-sfruttamento. Oggi viviamo in una particolare fase
storica, in cui la libertà stessa produce costrizioni: la libertà è in realtà il
vero antagonista della costrizione, ma ora anche questo antagonista produce
costrizioni. Piú libertà significa, perciò, piú costrizione: si tratterebbe della
fine della libertà. Perciò, ci troviamo oggi in un vicolo cieco: non possiamo
andare avanti né tornare indietro. A Flusser sfugge completamente questa
fatale dialettica della libertà, che rovescia quest’ultima nel suo opposto: di
ciò è responsabile il suo messianismo. La società odierna non è una società
dell’“amore per il prossimo” nella quale ci realizziamo reciprocamente, ma
piuttosto una società della prestazione che ci porta all’isolamento. Il
soggetto di prestazione sfrutta se stesso fino a crollare e sviluppa un’auto-
aggressività, che sfocia non di rado nel suicidio. Il Sé come magnifico
progetto si rivela un proiettile, che il soggetto rivolge ora contro se stesso.
Il nomos della terra

Nel corso del digital turn perdiamo definitivamente la terra, l’ordinamento


terraneo. Veniamo con ciò liberati dal peso e dall’imprevedibilità della
terra? La leggerezza e la fluidità digitali non ci precipiterebbero, al
contrario, in un’instabilità? Heidegger è stato l’ultimo grande sostenitore
dell’ordinamento terraneo. La sua “terra” lascia che “ogni indiscrezione
soltanto calcolatoria si rovesci in distruzione”: l’ordinamento digitale
totalizza proprio l’elemento calcolistico o additivo. L’ordinamento terraneo
poggia su un fondamento fermo. La sua legge si chiama nomos: “Invoco la
santa sovrana dei mortali e degli immortali, Legge celeste / che determina la
posizione degli astri / giusto sigillo del pelago marino e della terra”57.
L’ordinamento digitale congeda definitivamente il nomos della terra. Carl
Schmitt elogia la terra soprattutto per la sua stabilità, che ammette chiare
delimitazioni e distinzioni. L’ordinamento terraneo è costituito da muri,
confini e fortezze: all’ordinamento terraneo è da ricondurre anche il
“carattere” fermo, che è completamente abbandonato dal flessibile homo
digitalis. Il medium digitale equivale invece a quel “mare”, nel quale non è
possibile “seminare e neanche scavare linee nette”: non ammette alcun
“carattere, nel significato originario del termine, che deriva dal greco
charessein, scavare, incidere, imprimere”58.

Categorie come spirito, azione, pensiero o verità appartengono


all’ordinamento terraneo: dovranno essere sostituite dalle categorie
dell’ordinamento digitale. Al posto dell’azione subentra l’operazione, che
non è preceduta da alcuna decisione in senso enfatico: l’indugiare o il
titubare, che sarebbero costitutivi dell’agire, vengono percepiti come un
disturbo delle operazioni che danneggia l’efficienza. Le operazioni sono
actomes, ovvero azioni atomizzate all’interno di un processo ampiamente
automatico, al quale manca l’estensione temporale ed esistenziale.
Neppure il pensiero in senso enfatico è una categoria del digitale: esso
cede il posto all’elemento calcolatorio. I procedimenti di calcolo presentano
un’andatura completamente diversa rispetto al pensiero: sono assicurati
contro ogni sorpresa, interruzione o avvenimento. Anche la verità sembra
anacronistica rispetto alla trasparenza: essa vive della negatività
dell’esclusione. Con la verità è posta, nello stesso momento, la falsità: una
decisione produce contemporaneamente il vero e il falso. Anche la
dicotomia di bene e male si fonda su questa struttura narrativa: è un
racconto. Al contrario della verità, la trasparenza non è narrativa: certo,
rende trasparente, ma non è illuminante. La luce, invece, è un medium
narrativo: è indirizzata e indirizzante. Dà luogo, cosí, a percorsi. Il medium
della trasparenza è l’irraggiamento privo di luce.

Anche l’amore è innestato nella tensione negativa dell’odio e occupa,


perciò, lo stesso ordinamento di vero e falso o di bene e male. La negatività
lo distingue dal “mi piace”, che è positivo e, di conseguenza, cumulabile o
additivo. Tanto agli amici di Facebook quanto ai rivali manca la negatività
che distingue il “nemico” dall’“amico” nel senso di Carl Schmitt. Anche
prossimità e lontananza rientrano nell’ordinamento terraneo: il digitale
annulla entrambe in favore dell’assenza di distanza, che significa una
semplice soppressione della distanza. L’assenza di distanza è una grandezza
positiva: le manca la negatività che caratterizza la prossimità. La lontananza
le è propria: alla comunicazione digitale è estraneo il “dolore della
vicinanza del lontano”59.

Lo spirito si desta al cospetto dell’Altro: la negatività dell’Altro lo tiene


in vita. Chi fa riferimento solo a se stesso, chi rimane fermo in sé è privo di
spirito. Lo spirito si caratterizza per la capacità di “sopportare la negazione
della sua immediatezza individuale, il dolore infinito”60. Il positivo, che
allontana ogni negatività dell’Altro, si atrofizza nel “morto essere”61.
Soltanto lo spirito che sfugge alla sua “mera relazione a sé”62 fa esperienza.
Nessuna esperienza è possibile nell’eccesso di positività, in mancanza di
dolore, di negatività dell’Altro. Ci aggiriamo dappertutto, senza arrivare a
nessuna esperienza; contiamo senza fine, e non siamo in grado di
raccontare. Si ha cognizione di ogni cosa, senza arrivare ad alcuna
conoscenza. Il dolore – questo sentimento limite dinanzi all’Altro – è il
medium dello spirito: lo spirito è dolore. La Fenomenologia dello spirito di
Hegel descrive una via dolorosa: la fenomenologia del digitale, invece, è
libera dal dolore dialettico dello spirito. È una fenomenologia del mi piace.
Fantasmi digitali

Già la lettera appariva a Kafka un medium comunicativo disumano, che


avrebbe prodotto nel mondo una spaventosa rovina delle anime. In una
lettera a Milena, scrive:
Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro mediante
lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana
vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane63.

La lettera si rivolgerebbe a dei fantasmi; i baci scritti non giungerebbero


a destinazione: sarebbero intercettati e bevuti dagli spettri durante il tragitto.
La comunicazione postale nutrirebbe solo i fantasmi: ben alimentati, si
moltiplicano in modo inaudito. L’umanità lotterebbe contro un tale
fenomeno: per questo avrebbe inventato la ferrovia e l’automobile, al fine
di “eliminare l’azione dei fantasmi tra uomo e uomo” e di raggiungere il
“contatto naturale”, la “pace delle anime”. La parte avversa però sarebbe
molto piú forte: cosí, dopo la posta avrebbe inventato il telefono e il
telegrafo. A questo punto, Kafka tira le somme: “Gli spiriti non moriranno
di fame, ma noi periremo”.

Nel frattempo, i fantasmi kafkiani hanno inventato anche Internet, gli


smartphone, le e-mail, Twitter, Facebook e i Google Glass. Kafka direbbe
che la nuova generazione di spettri, ossia quelli digitali, sono piú voraci, piú
spudorati e chiassosi. I media digitali non “sorpassano”, in effetti, “le forze
umane”? Non portano a una moltiplicazione rapidissima, non piú
controllabile, degli spettri? Attraverso di essi non disimpariamo
effettivamente a pensare alla creatura umana lontana e ad afferrare quella
vicina?
L’internet delle cose produce nuovi spettri: le cose, che un tempo erano
mute, cominciano a parlare. La comunicazione automatica tra le cose, che si
attua senza alcun intervento umano, nutrirà sempre di piú i fantasmi: essa
rende il mondo spettrale. Il mondo viene come guidato da una mano
spettrale. Forse i fantasmi digitali provvederanno a far finire tutto – prima o
poi – fuori controllo. Il racconto La macchina si ferma di E.M. Forster
anticipa questa catastrofe: sciami di spettri portano il mondo alla rovina.

È possibile descrivere la storia della comunicazione come la storia di una


progressiva illuminazione della pietra. Il medium ottico, che invia
l’informazione alla velocità della luce, conclude definitivamente l’età della
pietra della comunicazione. Lo stesso silicio rimanda ancora al termine
latino silex, che significa “ciottolo”. In Martin Heidegger la pietra ritorna
spesso e proprio come esempio prediletto della “mera cosa”: è qualcosa che
si sottrae alla visibilità. In una lezione giovanile, Heidegger osserva: “[…]
una mera cosa, un sasso non ha in sé alcuna luce”64. Dieci anni piú tardi,
scrive nel saggio sull’opera d’arte: “La pietra è greve e denuncia cosí il suo
pesantore. Ma questo pesantore, mentre ci si contrappone, ci rifiuta ogni
penetrazione in esso”65. La pietra come cosa è un’antagonista della
trasparenza: appartiene alla terra, all’ordinamento terraneo e indica ciò che
è nascosto e chiuso. Oggi le cose perdono sempre piú di significato: si
sottomettono alle informazioni, che però nutrono sempre piú i fantasmi:
“Non la cosa, ma l’informazione costituisce ciò che è economicamente,
socialmente e politicamente concreto. Il nostro ambiente, a vista d’occhio,
diventa sempre piú soft, nebuloso, spettrale”66.

La comunicazione digitale assume una forma non soltanto spettrale, ma


anche virale. Essa è contagiosa nella misura in cui si svolge
immediatamente su un piano emotivo o affettivo; il contagio è una
comunicazione post-ermeneutica, che non propone in definitiva nulla da
leggere o da pensare. Non presuppone delle letture, alle quali è possibile
dare solo una minima accelerazione. Un’informazione o un e-content,
quando anche di scarsa rilevanza, si diffonde furiosamente in rete come
un’epidemia o una pandemia: non è gravato da alcun peso del senso.
Nessun altro medium è capace di questo contagio virale: a tal fine, il
medium della scrittura è troppo lento.
Il segreto, come la pietra e il muro, appartiene all’ordinamento terraneo:
non si accorda alla produzione accelerata e alla diffusione
dell’informazione. È l’antagonista della comunicazione. La topologia del
digitale è costituita di spazi piani, lisci e aperti: il segreto, invece, predilige
spazi che, con anfratti, sotterranei, nascondigli, avvallamenti e soglie,
rendano piú difficile la diffusione delle informazioni.

Il segreto ama il silenzio: ciò che è carico di segreto si distingue cosí da


ciò che è spettrale. Come lo spettacolo, lo spettrale dipende dal vedere e
dall’esser-visto: perciò gli spettri sono chiassosi. Spettrale è il vento digitale
che soffia in casa nostra:
In ogni caso, il vento è per il nomade ciò che per il sedentario è la terra. […] Vi è qualcosa di
spettrale […]. Il vento, questa spettrale inafferrabilità che sospinge in avanti i nomadi e al cui
richiamo essi ubbidiscono, è un’esperienza, diventata rappresentabile per noi come calcolo e
computazione67.

Le cose digitali sono rese spettrali e incontrollabili dalla loro elevata


complessità; quest’ultima, d’altronde, non è un tratto caratteristico del
segreto.

La società della trasparenza ha il suo retro o rovescio: da un certo punto


di vista, è un’apparizione di superfici. Dietro o sotto di essa si aprono spazi
spettrali, che si sottraggono a ogni trasparenza. La locuzione dark pool68,
per esempio, indica il commercio anonimo di prodotti finanziari: le
cosiddette transazioni ad alta frequenza sui mercati finanziari sono, in
ultima analisi, un commercio con i fantasmi o tra fantasmi. Si tratta di
algoritmi e macchine che comunicano e si fanno guerra tra loro. Queste
forme spettrali di commercio e comunicazione “sorpassano”, direbbe
Kafka, “le forze umane”: portano a eventi imprevedibili e spettrali come il
flash crash69. I mercati finanziari di oggi covano anche mostri, che a causa
dell’elevata complessità possono imperversare senza controllo. Tor70 è il
nome della rete, per cosí dire sotterranea, nella quale ci si può muovere in
modo totalmente anonimo: è l’abisso digitale nella rete, che si sottrae a
ogni visibilità. Con la crescente trasparenza, aumenta anche il buio.
Affaticamento informativo

Era il 1936, quando Walter Benjamin definí la forma di ricezione del film
uno “shock”: lo shock sostituisce la contemplazione come atteggiamento
ricettivo di fronte a una rappresentazione. Oggi, tuttavia, esso non è piú
adeguato a caratterizzare la percezione. Lo shock è un tipo di reazione
immunitaria: in ciò assomiglia al disgusto. Ormai, le immagini non
provocano piú alcuno shock: persino immagini raccapriccianti hanno la
funzione di intrattenerci (basti pensare a format simili all’Isola dei famosi),
sono rese consumabili. La totalizzazione del consumo esclude ogni forma di
contrazione immunitaria.

Una violenta risposta immunitaria limita la comunicazione: piú bassa è la


soglia immunitaria, piú veloce diventa la circolazione dell’informazione.
Un’alta soglia immunitaria rallenta lo scambio di informazioni: a favorire la
comunicazione non è la resistenza immunitaria, ma il “mi piace”. La rapida
circolazione delle informazioni accelera anche la circolazione del capitale:
l’immunosoppressione si assicura, in questo modo, che masse di
informazioni penetrino dentro di noi senza l’ostacolo di una risposta
immunitaria. La bassa soglia immunitaria rafforza il consumo di
informazioni: la massa di informazioni non filtrata, però, atrofizza la
percezione ed è responsabile di alcuni disturbi psichici.

L’IFS (Information Fatigue Syndrome), ovvero l’affaticamento


informativo, è la patologia psichica causata da un eccesso di informazioni:
chi ne è affetto lamenta una crescente paralisi della capacità di analisi,
disturbi dell’attenzione, agitazione generalizzata o incapacità a sopportare
le responsabilità. Questo concetto fu coniato nel 1996 dallo psicologo
inglese David Lewis; l’IFS colpiva in primo luogo quelle persone che, per
lavoro e nel corso di un lungo intervallo di tempo, avevano dovuto
elaborare una grossa quantità di informazioni. Oggi chiunque è colpito
dall’IFS, perché siamo tutti messi di fronte a quantità d’informazioni in
rapidissimo aumento.

Uno dei principali sintomi dell’IFS è la paralisi della capacità di analisi:


proprio la facoltà analitica è ciò che determina il pensiero. L’eccesso di
informazione porta all’atrofia del pensiero. La facoltà analitica consiste
nell’escludere dal materiale percettivo tutto ciò che non appartiene
essenzialmente alla cosa: è la capacità, in fondo, di distinguere l’essenziale
dall’inessenziale. Il flusso d’informazioni, al quale oggi siamo consegnati,
pregiudica chiaramente la capacità di ridurre le cose all’essenziale. Al
pensiero, invece, appartiene necessariamente la negatività della distinzione
e della selezione: per questo esso è sempre esclusivo.

Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni


migliori: oggi la quantità crescente di informazioni atrofizza proprio la
facoltà superiore di giudizio. Spesso un “meno” nell’informazione produce
un “piú”: la negatività dell’omettere e del dimenticare è produttiva. Da sole,
informazione e comunicazione maggiori non rischiarano il mondo: neppure
la trasparenza produce lucidità. Da sola, la grande quantità di informazioni
non produce alcuna verità: non getta luce nel buio. Quanta piú informazione
viene liberata, tanto piú il mondo diventa meno chiaro e spettrale. Da un
certo punto in poi, l’informazione non è piú informativa, ma deformativa; la
comunicazione non è piú comunicativa, ma meramente cumulativa.

All’affaticamento informativo sono da ricondurre anche sintomi tipici


della depressione, che è soprattutto una patologia narcisistica. Alla
depressione porta l’eccessiva autoreferenzialità, che è carica in modo
patologico. Il soggetto narcisistico-depressivo percepisce solo la sua stessa
eco: ci sono significati soltanto là dove egli riconosce in qualche modo se
stesso. Il mondo gli appare unicamente nella forma di adombramenti del Sé:
alla fine, il soggetto annega in sé, esaurito e logorato da se stesso. La nostra
società diventa oggi sempre piú narcisistica: i social media come Twitter o
Facebook acutizzano questo sviluppo, perché sono media narcisistici.

Nella sintomatologia dell’IFS rientra anche l’incapacità di sopportare le


responsabilità. La responsabilità è un atto connesso a determinate
condizioni mentali e anche temporali: presuppone innanzitutto impegno.
Come il promettere o il fidarsi, impegna il futuro. Questi atti stabilizzano il
futuro. Oggi i media, invece, promuovono l’assenza di impegni, la
vaghezza e la provvisorietà. Il nostro mondo si contraddistingue per il
primato assoluto del presente: il tempo è ridotto a una mera sequenza di
presente disponibile. Il futuro si atrofizza, cosí, in un presente ottimizzato:
la totalizzazione del presente annienta le azioni che danno tempo, come
l’assumersi responsabilità o il promettere.
Crisi della rappresentazione

Roland Barthes descrive la fotografia come un’“emanazione del


referente”71: la sua essenza è la rappresentazione. Da un oggetto reale, che
c’era un tempo, sono partiti dei raggi che impressionano la pellicola: la
fotografia conserva le tracce quasi materiali del referente reale. Essa ha il
suo referente “sempre al seguito”: la fotografia e il suo referente sono
“contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa o funebre, proprio in
seno al mondo in movimento”72. La fotografia e il suo referente
sono appiccicati l’uno all’altra, membro per membro, come, in certi supplizi, il condannato
incatenato al cadavere; simili anche a quelle coppie di pesci […] che vanno di conserva, come
fossero uniti da un coito eterno73.

Secondo Barthes, la verità della fotografia consiste nel fatto di essere


fatalmente inseparabile dal referente, ovvero dall’essere vincolata
all’oggetto reale cui si riferisce; nel fatto di rappresentare l’emanazione del
referente. La fotografia è caratterizzata dall’amore e dalla fedeltà al
referente: essa non è lo spazio della finzione o della manipolazione, ma uno
spazio di verità. Barthes parla di una “caparbietà del referente”74. La
camera chiara ruota attorno a una fotografia invisibile di sua madre nel
giardino d’inverno: la madre è il referente per eccellenza, al quale sono
rivolti il lutto e l’elaborazione del lutto. La madre è la custode della verità.

Barthes pensa evidentemente al dipinto di René Magritte con il motto


“Ceci n’est pas une pipe”, quando scrive: “Per sua natura, la Fotografia […]
ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre una pipa,
inesorabilmente”75. Per quale motivo rivendica in modo tanto enfatico la
verità per la fotografia? Intuisce la prossima era digitale, nella quale
avviene il definitivo distacco della rappresentazione dal referente reale?
La fotografia digitale mette radicalmente in dubbio la verità della
fotografia e porta definitivamente a compimento l’era della
rappresentazione, segna la fine del Reale: in essa non è piú presente alcun
rimando al referente reale. Cosí, la fotografia digitale si avvicina
nuovamente alla pittura: “Ceci n’est pas une pipe”. Come iper-fotografia
essa presenta un’iper-realtà, che dev’essere piú reale della realtà. Il Reale vi
è ancora presente soltanto come citazione e frammento. Le citazioni dal
Reale vengono riferite l’una all’altra e mescolate all’Immaginario: cosí,
l’iper-fotografia dischiude uno spazio autoreferenziale, iper-reale,
completamente sganciato dal referente. L’iper-realtà non rappresenta nulla,
essa presenta.

La crisi della rappresentazione fotografica ha un corrispettivo nella sfera


politica. Nella Psicologia delle folle Gustave Le Bon osserva che i
rappresentanti in Parlamento sarebbero gli esecutori della massa lavoratrice.
Questa rappresentazione politica è forte: è immediatamente connessa ai suoi
referenti. Essa difende, davvero, gli interessi della massa lavoratrice che
viene rappresentata. Oggi il rapporto di rappresentazione è gravemente
disturbato, come nella fotografia: il sistema economico-politico è diventato
autoreferenziale. Non rappresenta piú i cittadini o la sfera pubblica. I
rappresentanti politici non sono piú percepiti come esecutori del “popolo”,
ma come esecutori del sistema, divenuto autoreferenziale. Il problema sta in
questa autoreferenzialità del sistema: la crisi della politica si potrebbe
superare soltanto riuscendo a riagganciarla ai referenti reali, agli uomini.

Le masse, che un tempo potevano organizzarsi in partiti e associazioni ed


erano animate da un’ideologia, si frantumano ora in sciami di singoli
chiassosi, ossia negli isolati hikikomori digitali, che non costruiscono piú
uno spazio pubblico e non partecipano ad alcun discorso pubblico. Gli
individui isolati, che non agiscono politicamente, si contrappongono al
sistema autoreferenziale: il Noi politico, che sarebbe capace di un’azione in
senso enfatico, si disgrega. Quale politica, quale democrazia sarebbero oggi
pensabili rispetto a una sfera pubblica che scompare, a fronte di una
crescente trasformazione egotica e narcisistica dell’uomo? Sarebbe forse
necessaria una smart policy, che renderebbe del tutto superflue le elezioni,
le campagne elettorali, il Parlamento, le ideologie e le assemblee dei
membri – una democrazia digitale, nella quale il tasto “mi piace”
sostituirebbe integralmente la scheda elettorale? A cosa servono oggi i
partiti, quando ogni singolo è esso stesso un partito, quando le ideologie,
che una volta costituivano un orizzonte politico, si disgregano in un’infinità
di opinioni e opzioni individuali? Fino a che punto la democrazia è
pensabile anche senza discorso?
Dal cittadino al consumatore

Negli anni ’70 esisteva, negli Stati Uniti, un sistema interattivo di tv via
cavo chiamato QUBE (question your tube). Il termine question richiama la
possibilità dell’interazione: il sistema dispone di una tastiera che consente
una scelta, per esempio, tra piú capi d’abbigliamento presentati. Questo
dispositivo rende possibile anche una semplice procedura elettorale: sullo
schermo, per esempio, vengono mostrati dei candidati per il posto di
direttore di una scuola elementare. Con un tasto ci si può esprimere per un
candidato.

Flusser distingue nettamente le decisioni all’interno del sistema QUBE


dalle decisioni esistenziali: tra una decisione esistenziale e le sue
imprevedibili conseguenze si spalanca un “abisso temporale ed
esistenziale”76. Non è possibile conoscere subito le conseguenze di una mia
decisione: cosí, a ogni decisione esistenziale si ricollega il dubbio.
Esitazione e titubanza la accompagnano. Flusser ammette che il sistema
QUBE permetterebbe di scomporre le decisioni esistenziali in “decisioni
puntiformi, atomiche”, ossia in actomes la cui “efficacia” è “immediata”.

A partire dal sistema QUBE Flusser immagina una democrazia del


futuro: il sistema QUBE renderebbe possibile una “democrazia diretta di
villaggio”77. Egli ha in mente una “democrazia de-ideologizzata”, nella
quale contano solo sapere e competenza: “Ciò significa che nel sistema
QUBE la competenza di ogni interessato e il peso di ogni competenza,
liberati da ogni ideologia, emergono chiaramente alla luce”78. In questa
democrazia de-ideologizzata i politici sono sostituiti dagli esperti, che
amministrano e ottimizzano il sistema; tanto i rappresentanti politici quanto
i partiti sarebbero allora superflui.
Flusser, inoltre, lega il sistema QUBE a una forma di vita utopistica,
nella quale il tempo libero e l’impegno politico coincidono:
Per gli abbonati al sistema QUBE l’ozio è già ora il luogo di decisioni efficaci, il guardare il
teleschermo è già il luogo del loro impegno politico, sociale e culturale, e il loro spazio privato
è per essi già la repubblica, la cosa pubblica79.

La politica è musa: nel magnifico futuro flusseriano la partecipazione


politica ha luogo senza alcun “discorso” faticoso e complicato. Oggi quel
“sistema QUBE straordinariamente perfezionato e a cui partecipa gran parte
dell’umanità”80 sognato da Flusser è diventato realtà: esso rende possibili
scelte digitali, che avvengono giornalmente e in ogni momento. La politica
procede, quindi, quasi incidentalmente. Il pulsante “mi piace” è la scheda
elettorale digitale, internet o lo smartphone sono i nuovi seggi e il click del
mouse o una rapida digitazione sostituiscono il “discorso”.

La “democrazia diretta di villaggio” di Flusser presenta, come la sua idea


della connessione in rete, tratti utopistici. Diversamente da quanto crede, la
decisione politica è sempre in senso proprio una decisione esistenziale.
Quelle “decisioni puntiformi, atomiche”, la cui “efficacia” è “immediata”
scivolano sul piano di una decisione d’acquisto priva d’impegno e di
conseguenze. Sullo schermo del QUBE viene completamente abolita
persino la differenza tra votare e acquistare: si vota come si compra. La
“musa” si rivela, cosí, lo shopping. Il suo soggetto non è l’homo ludens, ma
l’homo oeconomicus.

Il comprare non presuppone alcun discorso: il consumatore compra ciò


che gli piace. Segue le proprie inclinazioni individuali. Mi piace è il suo
motto. Egli non è un cittadino: il cittadino si caratterizza per la
responsabilità nei confronti della comunità, che invece manca al
consumatore. Nell’agorà digitale, nella quale seggio e mercato, polis ed
economia coincidono, gli elettori si comportano come consumatori. È
prevedibile che internet sostituirà definitivamente il seggio elettorale. A
quel punto, votare e comprare avrebbero luogo, come nel QUBE, sul
medesimo schermo, ossia sullo stesso piano di coscienza. Gli spot elettorali
si mischierebbero a quelli commerciali. Anche l’attività di governo si
avvicina al marketing: il sondaggio politico assomiglia, allora, a una ricerca
di mercato. Gli umori degli elettori vengono esaminati mediante il data
mining81. Umori negativi sono risolti attraverso nuove, allettanti offerte; qui
non siamo piú agenti attivi, non siamo piú cittadini, ma utilizzatori passivi.
Protocollare l’intera vita

Nel panottico digitale non è possibile alcuna fiducia, che anzi non è neppure
necessaria. La fiducia è un atto di fede che diventa obsoleto di fronte a
informazioni facilmente disponibili. La società dell’informazione scredita
ogni fede. La fiducia rende possibili relazioni con gli altri anche in
mancanza di cognizioni piú precise su di essi: la possibilità di raccogliere in
modo semplice e rapido le informazioni è nociva per la fiducia. Vista in
questa luce, l’odierna crisi della fiducia è causata anche dai media. La
connessione in rete facilita a tal punto la raccolta di informazioni che la
fiducia come pratica sociale perde sempre piú significato e cede al
controllo. Cosí la società della trasparenza presenta una prossimità
strutturale alla società della sorveglianza: dove le informazioni possono
essere procurate in modo estremamente facile e veloce, il sistema sociale
passa dalla fiducia al controllo e alla trasparenza. Da qui deriva la logica
dell’efficienza.

Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa
ricostruibile. Ovunque dietro di noi lasciamo tracce digitali: la nostra vita
digitale si imprime fedelmente nella rete. Attraverso il controllo, la
possibilità di protocollare l’intera vita sostituisce integralmente la fiducia.
Al posto del big brother c’è il big data82: questo protocollare l’intera vita
porta a compimento la società della trasparenza.

La società della sorveglianza digitale presenta una peculiare struttura


panottica: il panottico benthamiano è costituito di cellule isolate l’una
dall’altra. I detenuti non possono comunicare tra loro: le pareti divisorie
fanno in modo che non possano vedersi l’un l’altro. Vengono esposti alla
solitudine perché possano migliorare. Gli abitanti del panottico digitale,
invece, si connettono e comunicano intensamente l’uno con l’altro: il
controllo totale è reso possibile non dall’isolamento spaziale e
comunicativo, bensí dalla connessione in rete e dall’iper-comunicazione.

Gli abitanti del panottico digitale non sono prigionieri: vivono


nell’illusione della libertà. Nutrono il panottico digitale d’informazioni,
esponendo e illuminando volontariamente se stessi. L’auto-illuminazione è
piú efficace dell’illuminazione da parte di altri. Vi è qui un parallelismo con
l’auto-sfruttamento: quest’ultimo è piú efficace dello sfruttamento
esercitato da altri, perché si accompagna al sentimento della libertà.
Nell’auto-illuminazione l’esibizione pornografica e il controllo panottico
coincidono: la società del controllo si compie là dove i suoi abitanti si
confidano non per costrizione esterna, ma per un bisogno interiore; dove,
quindi, la preoccupazione di dover rinunciare alla propria sfera privata e
intima cede al bisogno di esporsi senza pudore alla vista; ossia, dove libertà
e controllo diventano indistinguibili.

Sorveglianza e controllo sono una parte essenziale della comunicazione


digitale. Il tratto caratteristico del panottico digitale consiste nel fatto che la
distinzione tra big brother e detenuti sfuma sempre piú. Qui ciascuno
osserva e sorveglia ogni altro: non ci spiano solo i Servizi segreti di Stato.
Imprese come Facebook o Google lavorano esse stesse come Servizi
segreti: illuminano le nostre vite per trarre profitto dalle informazioni che
carpiscono. Le aziende spiano i loro dipendenti; le banche esaminano i
potenziali creditori. Lo slogan di SCHUFA83 – “Noi creiamo fiducia” – è
puro cinismo: in realtà SCHUFA distrugge completamente la fiducia e la
sostituisce col controllo.

“Noi vi offriamo uno sguardo a 360 gradi sui vostri clienti”: con questo
slogan la Acxiom, un’azienda americana di analisi dei big data, si procaccia
incarichi. Acxiom è una delle aziende che si occupano di dati, il cui numero
sta crescendo vertiginosamente: gestisce un’enorme banca dati con migliaia
di server. La sua sede legale, nello Stato americano dell’Arkansas, è protetta
da cancelli e strettamente sorvegliata come fosse un edificio dei Servizi
segreti; l’impresa dispone dei dati personali di circa trecento milioni di
cittadini americani, cioè quasi tutti. Chiaramente, Acxiom sa di piú sui
cittadini americani di quanto ne sappia l’FBI o l’IRS (l’agenzia delle entrate
americana).
Nel frattempo, il lato economico dello spionaggio è difficilmente
separabile dal suo uso da parte dell’intelligence. Quel che fa Acxiom non si
differenzia poi molto dall’attività dei Servizi segreti. Evidentemente
Acxiom lavora in modo piú efficace dei Servizi americani: in occasione
delle indagini sugli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, Acxiom
forní alle autorità i dati personali di undici sospettati. Il mercato della
sorveglianza nello Stato democratico presenta una pericolosa prossimità
allo Stato di sorveglianza digitale: nell’odierna società dell’informazione, in
cui lo Stato e il mercato si confondono sempre di piú, l’attività di Acxiom,
Google o Facebook si avvicina a quella dei Servizi segreti. Spesso si
servono dello stesso personale e gli algoritmi di Facebook, della borsa e dei
Servizi segreti eseguono operazioni analoghe; ovunque si aspira al massimo
rendimento delle informazioni.

Grazie al passaggio poco clamoroso al protocollo Internet Versione 6, il


numero di siti web disponibili è oggi pressoché illimitato. È possibile cosí
assegnare a ogni cosa, nella quotidianità, un indirizzo internet. I chip di tipo
RFID (dall’inglese Radio-Frequency Identification, ovvero “identificazione
di radio-frequenza”) trasformano anche le cose in trasmettitori attivi e in
attori della comunicazione, che inviano autonomamente informazioni e
comunicano tra loro. Questo Internet delle cose porta a compimento la
società del controllo: le cose attorno a noi ci osservano. Veniamo
sorvegliati, cosí, anche dalle cose che usiamo quotidianamente: esse inviano
senza sosta informazioni su ciò che facciamo e non facciamo. Operano
attivamente per protocollare la nostra intera vita.

I Google Glass ci promettono una libertà illimitata: il fondatore di


Google, Sergey Brin, si entusiasma per le meravigliose immagini che i
Google Glass producono grazie alla loro funzione di scattare in auto-matico
una foto ogni dieci secondi. Senza i Google Glass queste fantastiche
immagini non sarebbero assolutamente possibili: proprio i data-occhiali,
invece, ci consentono di essere costantemente fotografati e filmati da
estranei. Con i data-occhiali ognuno indossa, in pratica, una telecamera di
sorveglianza: proprio cosí, i data-occhiali trasformano anche l’occhio
umano in una telecamera di sorveglianza. Il vedere coincide integralmente
con il sorvegliare: ciascuno sorveglia ogni altro. Ognuno è big brother e
prigioniero allo stesso tempo. È questo il compimento digitale del panottico
benthamiano.
Psicopolitica

Secondo Foucault, a partire dal XVII secolo il potere non si manifesta piú
come potere di morte in mano al sovrano, ma come biopotere. Quello del
sovrano è il potere della spada che minaccia di morte: il biopotere, invece,
ha “funzioni d’incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza,
di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette”84. Esso
mira “a produrre delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a
bloccarle, a piegarle o a distruggerle”. Il potere di morte in mano al sovrano
cede a una scrupolosa amministrazione e al controllo della popolazione: il
biopotere ha maglie essenzialmente piú strette, è piú preciso del potere di
morte che, a causa della sua rozzezza, non presenta alcun potere di
controllo. In tal modo, esso interviene nei processi biologici e nelle leggi
dalle quali la popolazione è diretta e guidata.

Il controllo biopolitico, però, investe solo fattori esterni come la


riproduzione, il tasso di mortalità o lo stato di salute; non è nella condizione
di intervenire o di penetrare nella psiche della popolazione. Anche il big
brother nel panottico benthamiano si limita a osservare il comportamento
apparente dei detenuti muti, privi di parola. I loro pensieri rimangono
nascosti al suo occhio.

Oggi si sta realizzando un ulteriore cambiamento di paradigma. Il


panottico digitale non è una società disciplinare biopolitica, ma una società
della trasparenza psicopolitica: al posto del biopotere subentra lo
psicopotere. Grazie alla sorveglianza digitale, la psicopolitica è in grado di
leggere e controllare i pensieri: la sorveglianza digitale sostituisce l’ottica
inaffidabile, inefficiente, prospettica del big brother. È cosí efficace perché
è a-prospettica. La biopolitica non permette alcun subdolo accesso alla
psiche degli uomini: lo psicopotere, invece, è in grado di introdursi nei
processi psicologici.

Qualche tempo fa Chris Anderson, il caporedattore di Wired, ha


pubblicato un articolo di notevole interesse dal titolo “La fine della teoria”.
Egli sostiene che quantità incredibilmente grandi di dati renderebbero
superflui i modelli teorici: “Oggi le società come Google, cresciute in
un’epoca di enormi masse di dati, non devono piú accettare dei modelli
sbagliati. Anzi, non devono piú accettare alcun modello in generale”85.
L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che
rendono possibili anche delle previsioni: al posto dei modelli basati su
ipotesi subentra il confronto diretto dei dati. La correlazione sostituisce la
causalità. La domanda sul com’è? diventa inutile, rispetto al cosí è:
È finito il tempo di qualsiasi teoria sul comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia.
Dimenticatevi la tassonomia, l’ontologia e la psicologia. Chi sa per quale motivo la gente fa
quello che fa? Il punto è che è cosí, e noi possiamo registrarlo e misurarlo con una precisione
senza precedenti. Con una quantità sufficiente di dati, i numeri parlano da soli.

La teoria è un’ipotesi, uno strumento che compensa la mancanza di dati.


Se è disponibile una quantità sufficiente di dati, la teoria è superflua. La
possibilità di ricavare modelli comportamentali delle masse dai big data
annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale.

Ogni nuovo medium rivela qualcosa di inconscio: cosí, la cinepresa offre


l’accesso all’“inconscio-ottico”:
Con il primo piano si dilata lo spazio, con il rallentatore il movimento […]. Diviene cosí
percepibile che la natura che parla alla cinepresa è diversa da quella che parla all’occhio.
Diversa specialmente in quanto, al posto dello spazio elaborato dalla coscienza, interviene uno
spazio elaborato inconsciamente […]. Se in linea di massima siamo abituati al gesto di
afferrare l’accendino o il cucchiaio, ignoriamo però quasi del tutto quello che avviene
veramente tra la mano e il metallo, per non parlare poi del modo in cui ciò varia a seconda
degli stati d’animo in cui ci troviamo. In questo caso interviene la cinepresa con i suoi mezzi
ausiliari, con il suo scendere e salire, con il suo interrompere e isolare, con il suo dilatare e
comprimere il processo, con il suo ingrandire e rimpicciolire. Grazie a essa, facciamo
esperienza dell’inconscio ottico, cosí come grazie alla psicoanalisi facciamo esperienza
dell’inconscio pulsionale86.
La cinepresa è un medium che porta alla luce quel che si sottrae al puro
occhio, ossia l’inconscio-ottico. Il data mining rende visibili modelli di
comportamento collettivi dei quali, come singoli, non siamo mai consci.
Cosí, esso rende accessibile l’inconsciocollettivo. Possiamo chiamarlo, in
analogia con l’inconscio-ottico, anche inconscio-digitale: lo psicopotere è
piú efficace del biopotere in quanto sorveglia, controlla e influenza gli
uomini non dall’esterno, ma dall’interno. Richiamandosi alla loro logica
inconscia, la psicopolitica digitale si impossessa del comportamento sociale
delle masse. La società della sorveglianza digitale, che ha accesso
all’inconsciocollettivo, al futuro comportamento sociale delle masse,
sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al
controllo. Finisce, in tal modo, l’era della biopolitica. Entriamo oggi
nell’era della psicopolitica digitale.
Note

1
Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, Penguin, Harmondsworth 1964,
p. 18.
2
L’autore gioca qui con i termini tedeschi Abstand (“distanza”) e Anstand (“pudore”, “decenza”).
[n.d.t.]
3
Nel tempio greco, l’adyton è lo spazio completamente chiuso all’esterno.
4
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino
2003, p. 16.
5
Shitstorm (letteralmente: “tempesta di merda”) è il termine inglese, ormai diffuso come anglicismo
nella lingua tedesca, con cui si indica il fenomeno in rete (soprattutto nei blog e sui social network) di
discussione e critica massiva attorno a questioni di dominio pubblico, con l’uso di un linguaggio
fortemente connotato in senso negativo e talvolta violento. Nel 2012 un’apposita commissione di
linguisti tedeschi ha scelto il termine come anglicismo dell’anno, ovvero il vocabolo inglese che nel
2011 si è rivelato piú utile alla lingua tedesca. [n.d.t.]
6
Christian Linder, Der Bahnhof von Finnentrop. Eine Reise ins Carl Schmitt Land, Matthes & Seitz,
Berlin 2008, pp. 422-423.
7
Con il termine smart mobs si definiscono raggruppamenti spontanei di persone con un fine sociale e
politico di protesta (in ciò si distinguono dai flash mobs); un classico esempio è dato dalle forme di
critical mass composte da ciclisti in varie città del mondo. [n.d.t.]
8
Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, trad. it. di A. Montemagni, Edizioni Clandestine, Marina di
Massa 2013, p. 2.
9
Ivi, p. 3.
10
Ivi, p. 5.
11
Marshall McLuhan, op. cit., p. 174.
12
Hikikomori è il termine giapponese con cui si indicano quei soggetti, generalmente adolescenti,
che optano per un totale isolamento e una radicale auto-esclusione sociale, relegandosi in casa e
rifiutando di uscirne. Il governo giapponese considera il fenomeno una patologia psichica da
diagnosticare in presenza di sintomi specifici, come il ritiro assoluto dalla società per periodi
superiori ai sei mesi, o l’inversione del ritmo sonno-veglia con un conseguente e continuato uso di
internet e dei videogiochi. [n.d.t.]
13
Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, trad.
it. di A. Pandolfi e S. Visentin, Rizzoli, Milano 2004, p. 130.
14
Michael Hardt, Antonio Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, trad. it. di A.
Pandolfi, Rizzoli, Milano 2002, p. 72.
15
Ivi, p. 382.
16
L’autore gioca in queste righe con i termini tedeschi Ausstrahlung (“trasmissione”, “emissione”) e
Rückstrahlung (“riflettività”, “riverbero”) per rafforzare l’idea di comunicazione unilaterale del
medium elettronico. [n.d.t.]
17
Il Partito Pirata (Piratenpartei) è un partito politico attivo in Germania dal 2006, sul modello
dell’omonima formazione svedese, che incentra il suo programma sulla questione dell’identità
digitale, della trasparenza nella rappresentanza politica e nel trattamento dei dati personali, sulla
riforma del diritto d’autore, del diritto di riproduzione e del sistema dei brevetti. [n.d.t.]
18
Citazione tratta da Die Zeit, 23/08/2012.
19
Citato dall’intervista a Ole von Beust, l’allora sindaco di Amburgo, in Die Zeit, 31/01/2013.
20
Il volume di Dirk von Gehlen, Eine neue Version ist verfügbar (Metrolit, Berlin 2013), è il
risultato di un esperimento mediatico iniziato nel 2012 e ancora in corso durante la stesura di questo
saggio. Gli aspiranti co-autori (circa 350) hanno acquistato spazi del volume ancora in bianco
partecipando attivamente alla sua nascita e scrittura, fino alla pubblicazione del libro collettivo.
[n.d.t.]
21
Martin Heidegger, “Mein liebes Seelchen!”: Briefe Martin Heideggers an seine Frau Elfriede
1915-1970, hrsg., ausgew. und kommentiert von G. Heidegger, DVA, München 2005, p. 264.
22
Questa citazione, come la seguente, è tratta da Die Zeit, 12/07/2012.
23
L’autore usa qui due termini heideggeriani: entgegenweilen (“rimanere incontro”) è il verbo con
cui Heidegger connota il presente (Gegenwart) all’inizio di Tempo e essere. Entgegenlasten (“gravare
incontro”) è l’azione attribuita alla pietra nel saggio L’origine dell’opera d’arte. [n.d.t.]
24
Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, trad. it. di G.
Del Bo, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 304.
25
Citazione tratta da Süddeutsche Zeitung Magazine, dicembre 2013.
26
Jacques Lacan, Il Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi. 1964, trad. it. di
A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 99.
27
Citato in Horst Bredekamp, Theorie des Bildakts: Frankfurter Adorno-Vorlesung 2007, Suhrkamp,
Berlin 2013, p. 17.
28
Roland Barthes, op. cit., p. 112.
29
Ivi, p. 118.
30
L’autore si sta riferendo al Reale in senso lacaniano, che costituisce – insieme al Simbolico e
all’Immaginario – uno dei tre registri psichici teorizzati da Lacan a partire dagli anni ’50. Il Reale
(anche chiamato l’Altro) indica la mancanza assoluta, l’imponderabile causa di sofferenza che il
soggetto non riesce a categorizzare attraverso il linguaggio (il Simbolico) né mediante
l’Immaginario. [n.d.t.]
31
Roland Barthes, op. cit., p. 94.
32
Hannah Arendt, Vita activa: la condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1997, p.
46.
33
Ivi, p. 246.
34
Ivi, p. 247.
35
Vilém Flusser, La cultura dei media, a cura di A. Borsari, trad. it. di T. Cavallo, Bruno Mondadori,
Milano 2004, p. 205.
36
Martin Heidegger, Parmenide, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 162.
37
Ivi, p. 156.
38
Ivi, p. 64.
39
Martin Heidegger, Che cosa significa pensare. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, trad. it. di U.
Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1978, p. 109.
40
Ivi, p. 79.
Qui Heidegger gioca sulla comune radice in tedesco del sostantivo Lese (“raccolta”) e del verbo lesen
(“leggere”). [n.d.t.]
41
Martin Heidegger, Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del
Logos, trad. it. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, pp. 163-164.
42
Martin Heidegger, “Costruire abitare pensare”, in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia,
Milano 1991, p. 107.
43
Martin Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La
Nuova Italia, Firenze 2000, p. 19.
44
Ivi, p. 32.
45
Martin Heidegger, “La fine della filosofia e il compito del pensiero”, in Tempo e essere, trad. it. di
C. Badocco, Longanesi, Milano 2007, p. 92.
46
L’autore gioca qui con l’assonanza dei termini tedeschi Klick (gesto e suono tipico dell’era
digitale) e Blick (“sguardo”, “occhiata”). [n.d.t.]
47
Vilém Flusser, La cultura dei media, cit., p. 236.
48
Ivi, p. 237.
49
Ivi, p. 235.
50
Ivi, pp. 236-237.
51
Ivi, p. 235.
52
Vilém Flusser, Kommunikologie weiter denken. Die Bochumer Vorlesungen, Fischer-Taschenbuch,
Frankfurt a.M. 2009, p. 251.
53
Ivi, p. 299.
54
Ivi, p. 251.
55
Vilém Flusser, La cultura dei media, cit., p. 155.
56
Vilém Flusser, Kommunikologie weiter denken, cit., p. 46.
57
“Inno orfico a Nomos”, in Inni Orfici, a cura di G. Ricciardelli, Mondadori, Milano 2000, fr. 60.
58
Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, trad. it.
di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1998, p. 20.
59
Martin Heidegger, “Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?”, in Saggi e discorsi, cit., p. 71.
60
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte III: La
filosofia dello spirito, trad. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 2009, § 382.
61
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni e C. Cesa, Laterza,
Roma-Bari 2008, vol. II, sez. I, cap. II/A (“L’identità”).
62
Ibid.
63
Questa citazione di Kafka, come le seguenti, è tratta da Franz Kafka, Lettere a Milena, trad. it. di
E. Pocar, Mondadori, Milano 1979.
64
Martin Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin e A. Marini,
Il Melangolo, Genova 1991, p. 369.
65
Martin Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, cit., p. 32.
66
Vilém Flusser, La cultura dei media, cit., p. 203.
67
Ivi, p. 167.
68
La dark pool è una forma di borsa finanziaria elettronica, nella quale lo scambio di azioni avviene
in modo anonimo e senza rendere noti i prezzi o i volumi delle transazioni. Questi scambi, afferenti
alla tipologia degli alternative trading systems, presentano un alto rischio di volatilità e speculazione,
legato all’anonimato e all’eccezionale velocità delle contrattazioni. [n.d.t.]
69
L’espressione flash crash indica un rapido e improvviso crollo di un indice borsistico ed è stata
usata per la prima volta in occasione del grave crollo dell’indice Dow Jones della borsa americana
avvenuto il 6 maggio 2010. [n.d.t.]
70
Tor (The Onion Router) è un software sviluppato a partire dal 2002, che funziona come un sistema
parallelo di comunicazione anonima via internet, in grado di schermare gli utenti dall’analisi del
traffico in rete grazie a una serie di router (onion router) gestiti da volontari. Il sistema dovrebbe
garantire una maggiore privacy. [n.d.t.]
71
Roland Barthes, op. cit., p. 81.
72
Ivi, p. 7.
73
Ivi, pp. 7-8.
74
Ivi, p. 8.
75
Ivi, p. 7.
76
Vilém Flusser, La cultura dei media, cit., p. 135.
77
Ivi, p. 137.
78
Ibid.
79
Ivi, p. 138.
80
Ibid.
81
Con data mining si intende l’insieme di tecniche e metodologie volte a estrarre una quantità
considerevole di dati ai fini del loro utilizzo scientifico o industriale, mediante l’applicazione di
sistemi automatici combinati a fattori statistici. [n.d.t.]
82
La locuzione big data indica una raccolta di data set (non solo strutturati, ma anche derivati da
traffico e-mail e GPS, dai social network e altre fonti eterogenee) di volume e complessità tali da
esigere il trattamento con strumenti non convenzionali di acquisizione, analisi e condivisione: l’utilità
maggiore è per le ricerche di mercato. [n.d.t.]
83
SCHUFA è la sigla dell’azienda privata tedesca preposta alla raccolta dei dati di natura economica
e finanziaria relativi ai cittadini e alle imprese, a vantaggio delle agenzie di credito e degli eventuali
partner commerciali. Si calcola che l’azienda sia in possesso dei dati di circa 66 milioni di persone,
ossia piú o meno i tre quarti della popolazione tedesca. Sono previste misure di protezione dei dati
sensibili, ma la discussione sulle politiche adottate dall’azienda è assai articolata. [n.d.t.]
84
Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it. di P. Pasquino e G.
Procacci, Feltrinelli, Milano 2011, p. 120.
85
Questa citazione di Anderson, come la seguente, è tratta da Wired Magazine, 16/07/2008.
86
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Rizzoli, Milano
2013, cap. XVI.
ISBN 978-88-7452-541-6
Titolo originale: Im Schwarm. Ansichten des Digitalen
© 2013 MSB Matthes & Seitz Berlin
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Progetto grafico: Dario Zannier
In IV di copertina foto di Byung-Chul Han: © Merve Verlag
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Indice
Copertina
Frontespizio
Colophon
Indice
Nota dell’editore
Premessa
Senza rispetto
La società dell’indignazione
Nello sciame
De-medializzazione
Hans l’intelligente
Fuga nell’immagine
Dall’agire al giocare con le dita
Dal contadino al cacciatore
Dal soggetto al progetto
Il nomos della terra
Fantasmi digitali
Affaticamento informativo
Crisi della rappresentazione
Dal cittadino al consumatore
Protocollare l’intera vita
Psicopolitica
Note
Catalogo
Table of Contents
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Colophon
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Nota dell’editore
Premessa
Senza rispetto
La società dell’indignazione
Nello sciame
De-medializzazione
Hans l’intelligente
Fuga nell’immagine
Dall’agire al giocare con le dita
Dal contadino al cacciatore
Dal soggetto al progetto
Il nomos della terra
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