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IL FUTURO AL CENTRO - Mihaela Gavrila

INTRODUZIONE
Il futuro vedrà nei minori di oggi, sempre di meno sul piano numerico, gli abitanti legittimi
bisognosi di adeguate politiche di tutela e di cura soprattutto a seguito della pandemia da
Covid-19.
Partiamo con il delineare i nodi tematici che stanno alla base di questo libro:
1. La società del 30%. I minori nelle prospettive del Paese —> dall’inizio di questo
secolo si parla con una certa preoccupazione di un progressivo invecchiamento della
popolazione, documentato dalle varie indagini e dai dati del censimento Istat del
2022. Nel 2022, la popolazione degli over 65 anni (in uscita o fuori dal mercato del
lavoro) rappresenta il 23,8% del totale e, rispetto al 1992, è aumentata del 60%.
Sulla base delle previsioni demografiche, tra vent’anni il 33,7% la popolazione sarà
costituito da anziani; solo 11,5% verrà rappresentato da bambini e ragazzi; il 24,4%
da giovani. Al progressivo aumento della platea degli anziani e alla diminuzione di
quella giovanile, si aggiunge una revisione della sequenza dei cicli di vita: passiamo
da un’infanzia sempre più breve ad una giovinezza sempre più lunga; poi si diventa
adulti, il più tardi possibile; infine arriva l’età in cui si è considerati anziani. In Italia
l’età media è di oltre 47 anni e mezzo, circa quattro in più nell’ultimo decennio. A ciò
si affianca l’evidente e diffusa tendenza a spostare in avanti la giovinezza, a dirsi
‘giovani’ più a lungo, tanto più quando si invecchia: si parla di una fatica di diventare
adulti. In questo quadro di preoccupazioni per il futuro, tra le varie fasi dell’età, a
catturare l’attenzione è l’adolescenza nel suo rapporto con l’universo dei media:
incertezza, vulnerabilità, rischio, transizioni, mutevolezza, ricerca dell’identità, sono
tutte caratteristiche che si applicano all’età della transizione che è l’adolescenza.
Grazie ai media si partecipa all'elaborazione del carattere simbolico della vita sociale,
dove forma e contenuto, pubblico e privato, sé e altro si mescolano e contribuiranno
al divenire del soggetto. Si potrebbe asserire che i media addirittura potenziano la
forma di riflessiva del sé, perché sottopongono il processo di costruzione identitaria a
stimoli e richieste senza precedenti, fornendo materiali simbolici con cui confrontarsi
e a cui riferirsi a livello di lettura delle pratiche sociali. Ecco che i media non soltanto
esercitano forti influenze nel processo riflessivo di costruzione dell’identità per
l’abbondanza di materiali simbolici che forniscono all’individuo, ma anche a livello
relazionale perché attualizzano pratiche sociali con altri soggetti con i quali si
condividono gusti e costumi mediali (Thompson). Thompson pensa al fandom: la
relazione che si instaura tra celebrità e fan come qualcosa di intimo e normalizzato.
É anche attraverso il fandom o, a livello più generale, l’esperienza connessa
all’essere fan di un contenuto o un personaggio mediale, che gli individui tessono la
loro trama di relazioni e costruiscono i loro immaginari e l’identità di gruppo (oltre che
di genere) —> i giovani fan considerano le celebrità come la loro immagine del sé
idealizzata, cercano di sviluppare o ridefinire atteggiamenti e personalità in modo che
combaciano il più possibile con quelli dei loro idoli.
2. Le paure e la fuga dal futuro —> è legato alla diffusione del ‘sentiment’ di paura reale
e coltivata dai media e l’incidenza sulla percezione del futuro. Infatti, il sentimento
confuso e spiazzante di paura è effetto e causa delle narrazioni mediali intorno a
molti fattori che caratterizzano il mondo contemporaneo, dai cambiamenti climatici
alle migrazioni, dalla criminalità e le guerre alla pandemia; infine la paura domina le
relazioni sociali e le politiche pubbliche intorno alle emergenze dei nostri tempi,
culminate con il terrore e l’insicurezza sociale generali dal COVID-19 e dalla guerra
in Ucraina. Criminalità, terrorismo internazionale, problemi ambientali, pandemie,
amplificati dal nuovo mainstream digitale, sono argomenti che chiamano in causa
una riflessione sull’incidenza dei media nella costruzione dell’idea di realtà, del senso
di sicurezza o della paura per il futuro, nel fornire l’accesso alla cultura condivisa
attraverso le tematizzazioni prevalenti delle televisioni e della grande cassa di
risonanza della rete. Niente più della paura mal gestita può avere effetti devastanti
sulla natura biologica e sociale dell’essere umano, sgretolando la già fragile
piattaforma della fiducia reciproca, oltre a quella delle istituzioni, e il ‘sentiment’ di
sicurezza. Vecchi problemi mai insanabili affiorano più forti e accentuati dalla
stratificazione di paure: povertà, divari sociali, marginalità, immigrazioni,
sottofinanziamento dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, sono stati zittiti dalle
grida di dolore di un paese e di un mondo inginocchiato davanti all’epidemia.
3. L’infanzia e l’adolescenza tra schemi interpretativi e schemi digitali —> i media
audiovisivi determinano una iper-stimolazione di un soggetto ovviamente non ancora
formato. L’impatto sulla mente del bambino, sulle sue abitudini, sulla sua attenzione,
rappresenta un’evidenza empirica, al punto da immaginare un cambiamento
profondo della gestualità del bambino, con interessanti sviluppi di precoci forme di
autonomia e di navigazioni del nuovo (es. la loro capacità di utilizzare i pollici per
svolgere molte dell’attività della vita quotidiana attraverso le tecnologie touch).
Educare ai media significa allenare la mente al pensiero critico, allinearsi ai tempi
che cambiano, in termini di innovazione dei linguaggi e alleanze reciproche, proprio
nel momento in cui la distribuzione dei saperi (incentivata dai media) implica una
democratizzazione dell’accesso e un aumento delle chances di vita.
4. Dentro il mainstream. Culture e politiche per l’infanzia e per la comunicazione —>
occorre entrare in punta di piedi nell’universo dell’infanzia e dell’adolescenza,
partendo dall’analisi del mezzo che più si è instaurato anche nella vita di minori: la
televisione e l'audiovisivo. Spetta ancora ai media mainstream, in sinergia con le
istituzioni, le scuole, il mondo degli adulti, immaginare strategie di continuità con gli
altri universi mediali anche in termini di tutela e di accompagnamento dei minori nel
complesso universo del cambiamento. Nel mainstream si cercano le risposte nei
momenti di difficoltà, come accaduto durante il periodo della pandemia o quando ci
siamo trovati immersi in un conflitto russo-ucraino. Si può ipotizzare che, in situazioni
di difficoltà e di aumento della paura, si individua nei media e nella buona
comunicazione, la via della conciliazione, della ricomposizione dei legami fra le
generazioni e della convergenza culturale tra soggettività e pratiche sessuali
eterogenei, la strategia per vincere le paure: da questo progetto di società non può
mancare una attenzione ai bambini e ai ragazzi.

CAPITOLO 1 Offerta. Nella prateria audiovisiva


L’offerta tra mediazione e rappresentazione
I media moderni, la cui nascita è collocabile tra la fine del XIX e l'inizio del XX, determinano
un'ulteriore rimodulazione del vivere sociale: cioè introducono una nuova variabile
socio-culturale, ovvero la “mediazione tecnologica”, intesa come «un ponte tra esperienza e
astrazione» che accompagna e sostiene lo spettatore nell'elaborazione di una visione
separata dal tempo e dallo spazio, ma comunque radicata nella sua esperienza reale.
Connesso con il concetto di mediazione è quello di “rappresentazione”, nato con le antiche
arti grafiche e sviluppatosi con la diffusione dei media moderni nei termini di «un'ulteriore
riproduzione della realtà verso il compimento di una perfetta ricreazione illusoria del mondo
sensibile».
Fotografia, cinema, televisione e - oggi - il web rivestono, dunque, il ruolo duplice di
mediatori e rappresentatori della realtà sociale. Si passa cioè dalla logica mcluhaniana
secondo cui il «medium è il messaggio», a una medialità sempre più umanizzata (i media
siamo noi).
Attraverso l’interazione dell’uomo con i media digitali, il potere dei produttori dei media e
quello dei consumatori convergono in modi imprevedibili: concretizzano la cultura della
partecipazione, dove ciascuno - indipendentemente da competenze, ruoli e status - può
partecipare attivamente alla creazione e distribuzione di nuovi contenuti.
Mediazione e rappresentazione smettono così di essere pratiche esclusive in mano a
strutture istituzionali e si estendono a tutta l’umanità. Infatti, una sola persona può incarnare
le tre funzioni mediali nate separate: essere allo stesso tempo produttore, consumatore e
distributore.
Per esempio, scattare una foto con uno smartphone significa innescare un meccanismo
produttivo e contemporaneamente fruire del contenuto realizzato che potrà qualche istante
dopo essere distribuito attraverso le pratiche di condivisione social. La participatory diventa
così una nuova ‘human’ e ‘social skills’, facilmente acquisibile sia perché priva di
impedimenti tecnici (grazie all'accessibilità dei device digitali e all'intuibilità delle
piattaforme), sia perché favorita dalla presenza di pubblici individuali (ogni Internet user ha
una molteplicità di audience). Ma soprattutto perché riflette la creatività, ovvero la «capacità
presente in ogni essere umano di produrre qualcosa di nuovo» e di «affrontare le
incertezze», permettendo di costruire nuove modalità di adattamento all'ambiente, di
comprensione della realtà e di produzione di nuovi significati.
L'individuo è auto-artefice dell'organizzazione dei tempi, spazi e modalità di produzione. Il
suo rapporto con i media risulta, dunque, sempre più privo di mediazioni, ossia sempre più
immediato e ipermediato.
Chiunque, indipendentemente dalla sua posizione, dal suo grado di scolarizzazione e da
altre variabili sociometriche, può offrire qualcosa, ossia diventare fonte e opportunità di
conoscenza e apprendimento per gli altri. Nell'era digitale «tutti gli esseri umani hanno il
diritto di vedersi riconoscere un'identità di sapere».

Lo scenario post-mediale
La digitalizzazione del sociale ha, di fatto, dato inizio a quella che Ruggero Eugeni definisce
la «condizione postmediale».
Usiamo tranquillamente carte di credito, navigatori satellitari, telefoni cellulari, senza
neppure sospettare la complessità delle strutture e dei processi tecnologici con i quali i nostri
semplici gesti interagiscono. D'altra parte gli stessi dispositivi tecnologici tendono a divenire
piccoli, maneggevoli, portabili: gli schermi televisivi si appiattiscono; i computer vengono
integrati agli stessi schermi che ne visualizzano i dati, oppure si rimpiccioliscono in vari
dispositivi portatili e indossabili (orologi, occhiali, talvolta veri e propri vestiti).
Rapportarsi con i dispositivi post-mediali significa anzitutto «riempirli di senso», ovvero dare
forma al nostro genio creativo. Vuol dire quindi relazionarsi con un pubblico, spesso
differenziato e carico di aspettative nei nostri confronti. Tutto questo avviene in spazi di
connessione permanente che destrutturano l'esperienza tecnologica sempre meno percepita
come difforme da quella sociale, ma a essa sovrapposta e naturale.
Se il nostro rapporto con gli artefatti tecnologici si è sempre giocato nell'ottica di accensione
e spegnimento (accendo e spengo il televisore), di spazi e tempi imposti (devo vedere quel
programma a quell'ora e in quel determinato luogo fisico), oggi si stanno sviluppando
sempre più configurazioni di vita digitale caratterizzate da un'integrazione tra on e off.

Le tre età (più una) dell'offerta mediale


● La prima (nata con i media otto-novecenteschi) è il broadcasting, il modello da «uno
a molti» tipico, per esempio, della radio o della televisione generalista. Broad
(diffuso) rimanda a una programmazione che offre «tutto a tutti» ed è in grado di
attrarre un pubblico ampio e indifferenziato. In questo sistema trasmissivo rientrano i
contenuti prodotti dalla paleo e neo televisione. Indipendentemente dai linguaggi, i
generi e le tipologie di trasmissioni, il legame tra produttori e consumatori seguiva,
nella prima fase, una rigida gerarchia. Al vertice c'erano i media che irradiavano e
disseminavano i propri contenuti alla massa degli utenti, disinteressandosi totalmente
di chi fossero.
Man mano però che aumentavano le consapevolezze, le competenze e i desideri dei fruitori,
l'offerta mediale tende a settorializzarsi e specializzarsi. Il modello «da uno a molti» risulta
insufficiente per rispondere alla molteplicità di domande.
● Si delinea così la seconda fase, il narrowcasting (trasmissione «ristretta», da «pochi
a pochi»). Un modello televisivo «narrow» è la pay per view, una tipologia
trasmissiva che, attraverso un abbonamento periodico, consente di fruire di contenuti
specializzati e tematici rivolti, non più a utenti indistinti, ma a una cerchia ristretta di
affezionati. Piattaforme video come Netflix o audio come Spotify (nella sua versione
a pagamento) legittimano questo modello decretando il declino (e la futura
scomparsa) dei mass media.
● E anticipano la terza e ultima tappa dell'offerta mediale: il social-casting ossia «la
modalità di trasmissione caratteristica del web sociale e partecipativo, il cui processo
distributivo fa riferimento a una community di persone che decidono in completa
autonomia di aumentare la circolazione di un contenuto grazie alle opportunità di
condivisione rese possibili dalle nuove piattaforme tecnologiche». Con questo tipo di
offerta (tipica del web 2.0) la classica componente tecnologico-trasmissiva si ibrida
con quella socio-relazionale. Sono, infatti, gli individui stessi a decidere in autonomia
le sorti di un contenuto, ampliandone o arginando la circolazione andando a tracciare
un modello «da uno a pochi». Questa autodeterminazione è possibile grazie alle
infinite opportunità di sharing insite nei social media che integrano la dimensione
tecnologica (algoritmica) con una componente simbolica e culturale (umana).
All'interno del complesso universo comunicativo ospitato dalla rete Internet, oltre a contenuti
di tipo verbale, transita una mole gigantesca di materiale: sono filmati di varia natura, dai film
ai trailer, dalle registrazioni ufficiali di eventi (conferenze, lezioni, convention) ai brevi tutorial
amatoriali, dalle inchieste dei telegiornali a brevi frammenti prodotti dagli utenti con il
cellulare, da video originali a materiale di repertorio. Gli utenti della rete sono oggi in grado
di condividere con facilità i video autoprodotti o disponibili sul web: di fatto, il fenomeno del
digital video sharing ha assunto enormi dimensioni, producendo effetti e dinamiche non

● A queste tre tappe se ne sta aggiungendo una quarta caratterizzata dal passaggio
dalla condivisione dei contenuti a un pubblico generalista (come succede sui feed di
Facebook e Instagram) a una condivisione dei contenuti con pubblici sempre più
ristretti attraverso le piattaforme di messaggistica istantanea come WhatsApp o
Telegram. Si tratta di un modello a «uno a pochissimi» tipico dei gruppi di Facebook,
della funzione «amici più stretti» di Instagram o di quella «Circle» di Twitter. Nasce,
quindi, l'era dei social media antisocial abitata da un'utenza giovanile. I più piccoli
vogliono essere se stessi e stabilire amicizie autentiche basate esclusivamente su
interessi condivisi. Desiderano anche privacy, sicurezza e vogliono emanciparsi dalla
moltitudine di persone presenti sulle piattaforme social, che ora includono anche i
loro genitori e i loro nonni.

Le proposte per bambini e adolescenti nella convergenza digitale


Tanto è stato scritto dell'offerta mediale per bambini e adolescenti. In Italia la televisione
degli inizi, essendo pedagogicamente orientata, offre contenuti specifici a partire dal nome
scelto - la tv dei ragazzi - per indicare la programmazione rivolta ai più piccoli. La stessa
logica fu adottata anche dalle emittenti private attraverso una prospettiva prettamente
commerciale: i più piccoli sono un target da fidelizzare al fine di aumentare gli investimenti
pubblicitari.
Oggi - con la convergenza tra tv, web, gaming, offerta satellitare e streaming dedicata a
bambini e ragazzi, autoproduzione e condivisione di contenuti su piattaforme sharing e
social - risulta sempre più difficile parlare in modo esclusivo del rapporto media e minori. Si
sono moltiplicati, infatti, i personaggi, le narrazioni, gli ambienti di gioco all'interno della
televisione digitale, del web e in particolare di YouTube, creando una macro testualità
caotica e sfuggente, con conseguenze in termini etici e di responsabilità.
Districarsi in questo caos diventa, dunque, urgente e sfidante.
Se la produzione tradizionale avveniva (e avviene) sotto l'egida di regole, sanzioni
riconosciute, limiti istituzionali, etica e deontologie professionali, oggi quella digitale riflette la
fragilità di un sistema de-gerarchizzato, aperto, disponibile e usabile intuitivamente.

Emerge la necessità di un processo di educazione all'autonomia comunicativa in termini di


competenza mediale rispettosa degli altri ed eticamente orientata alle virtù del digitale. È
necessaria una Media Education rinnovata e ripensata che sia in grado di andare oltre la
dicotomia rischi/benefici, considerando la moltiplicazione esponenziale dei protagonisti della
scena mediale. L'offerta di contenuto, oggi, ruota intorno a chi decide di offrire quel
contenuto, al suo livello di responsabilità, alla sua qualità etica e al possesso accentuato
delle ‘life skills’ ovvero di: competenze psicosociali e abilità interpersonali che aiutano le
persone a prendere decisioni informate, risolvere problemi, pensare in modo critico e
creativo, comunicare in modo efficace, costruire relazioni sane, entrare in empatia con gli
altri e affrontare e gestire la propria vita in modo sano e produttivi.

Dalla scarsità all'abbondanza. Un percorso a più step


Di fronte alla molteplicità di contenuti ai quali i minori sono esposti, siamo chiamati a
distinguere tra l'offerta specifica per questa fascia di età e i programmi che, seppur non
direttamente indirizzati a questa platea, potrebbero incidere comunque sulla sensibilità e
sviluppo di tali pubblici, tra i più vulnerabili.
Affrontando la prima categoria, ovvero l'offerta specifica per bambini e adolescenti, si rende
opportuno partire dalle metamorfosi subite da tale programmazione nell'ultimo ventennio. In
particolare, si è passati da:
1. Una fase della scarsità dell'offerta, dovuta anche al rilevante ridimensionamento della
programmazione in chiaro,
2. A favore di un progressivo passaggio al digitale terrestre e satellitare,
3. Successivamente, a quella che viene chiamata in causa come “platform society”: un
universo dell'offerta che va a ridefinire le modalità distributive delle principali industrie
mediali e le relative forme di fruizione.
Facendo un passo indietro, si rende opportuno ricondurre a cinque punti il percorso storico
della televisione italiana, nel suo ritratto di gruppo con il target dei minori:
1. 1954-fine anni Settanta. La tv pedagogica come spazio di socializzazione
intergenerazionale;
2. Gli anni Ottanta. Il duopolio e la tv dei ragazzi;
3. Gli anni Novanta/Duemila. Perdere i bambini, perdere il futuro;
4. 2004/2012. Verso le nuove piattaforme satellitari e timidi segnali dal digitale terrestre;
5. Dal 2012 in poi. L'età della convergenza e dell'abbondanza: la programmazione per
bambini e ragazzi nell'ecosistema digitale.

Le prime età della tv dei ragazzi


Nella prima fase evolutiva della televisione non si può parlare di una vera e propria
programmazione per bambini e ragazzi. Con la nascita ufficiale della TV in Italia, il 3 gennaio
del 1954, inizia in Italia una programmazione rivolta a tutta la famiglia e all'interno della
quale al piccolo spettatore è stato riservato uno spazio autonomo, prefigurando una vera e
propria nicchia di offerta televisiva. I primi programmi destinati ai bambini erano già presenti,
anche se non rimandavano a soggettivazioni infantili, non prevedendo pupazzi o personaggi
direttamente riconducibili ai più piccoli, ma adulti che recitavano parti comiche, rubando
sorrisi ai genitori e ai figli.
Certo, il target di minori era già incorporato in quella fase di monopolio pubblico nelle stesse
mission della RAI, basata su un'offerta che rifletteva il suo spirito di educare, informare e
divertire. Con tali finalità, la tv di servizio pubblico italiana si propose come un ponte per
dialogare con le famiglie, diffondendo diversivi e informazione, senza trascurare gli interessi
dei più piccoli, anzi riservando loro un'attenzione di tipo strategico, in quanto sollecitava
l'approvazione dei genitori, che ne condividevano i contenuti.
La caratteristica della programmazione RAI di quegli anni era l'erogazione di programmi
calibrati per fasce d'età e per sesso disponendo di un palinsesto dedicato ai minori,
prevedendo appuntamenti settimanali, suddivisi in tre grandi blocchi:
● Programmi a contenuto divulgativo-didattico,
● Programmi che proponevano fiabe, spettacoli di burattini e marionette,
● Il blocco formato da telefilm e cartoni animati importati dall'estero, nonché
documentari rivolti sia ai bambini sia alle bambine.

Agli inizi degli anni 60 le trasmissioni iniziano a proporre positività e propositivitá,


allontanandosi dai sentimenti miti e riflessivi espressi nel decennio precedente,
sperimentando prime forme di partecipazione e di imitazione dei personaggi.
Con la fine degli anni Sessanta, la società italiana si stava evolvendo e un'ondata di
innovazione, proveniente dagli Stati Uniti, iniziò a imporre nuove richieste che si dirigevano
verso il superamento delle logiche basate sul familismo per sperimentare nuovi stimoli,
incentrati sull'acquisizione delle tendenze pop, che richiedevano l'abbandono delle
impostazioni borghesi.
I programmi iniziarono a essere più moderni, con balli e scenografie e, in tale clima di
cambiamento, anche la tv dei ragazzi cominciò a subirne le influenze. Se fino a quegli anni
la gestione della programmazione per i più piccoli era stata affidata agli stessi responsabili
delle trasmissioni per adulti, a partire dalla fine degli anni Sessanta questo mutamento si
istituzionalizza con la ridefinizione delle strutture aziendali, che fece sì che i programmi per
ragazzi venissero coordinati dalla Direzione Centrale Programmi Tv Culturali e di
Integrazione Scolastica. Venne così introdotta una nuova politica aziendale: in un verso, la tv
per ragazzi venne affidata a professionisti del settore e continuò nelle sue programmazioni
rivolte ai più piccoli, dall'altro venne gestito un palinsesto rivolto alle famiglie, ovvero agli
adulti che si fanno garanti anche dell'interpretazione dei testi televisivi a favore dei minori
che condividono la visione.
Negli anni storici della rivoluzione culturale, occorreva essere in grado di intrattenere senza
cedere alle banalità, visto che il pubblico aveva acquisito un profilo più critico rispetto al
passato. Tuttavia, tale percorso evolutivo rimase schiacciato entro le logiche di dipendenza
della RAI dalla politica e il ruolo dei minori come fruitori venne poco considerato e lasciato in
ombra.

Il nuovo quadro trasmissivo avviato nella seconda metà degli anni Settanta, vedeva le
emittenti private iniziare a programmare animate sia da interessi politici che commerciali e
l'esigenza di procurarsi nuovo pubblico portò all'individuazione di spazi liberi pomeridiani da
dedicare, interamente, all'intrattenimento del pubblico dei più giovani. Iniziò, così, una
disputa concorrenziale che vide la RAI reagire con un mutamento dei palinsesti, guidata
dalla consapevolezza che fosse proprio il pubblico dei più giovani la leva su cui investire.
Fu così che, negli anni successivi, la RAI, nell'ottica di avvicinare i più giovani alle sue
programmazioni, avviò una politica di attenzione al target anche tramite degli studi e
sondaggi aventi a oggetto i loro gusti e preferenze.
Siamo in piena seconda fase di sviluppo della tv per ragazzi in Italia che, oltre alla nascita di
programmi-contenitore a copertura strategica di interi blocchi di palinsesto, la accredita
quale importante spazio di programmazione, rilevante anche sul piano
commerciale/pubblicitario.
Questo percorso andò avanti fino ai primi anni del secondo millennio, vero spartiacque nella
storia italiana della programmazione dedicata ai minori.

I minori dal mainstream ai nuovi spazi di programmazione multichannel


All'interno di questo processo, non è passato inosservato il periodo di «vuoto» dell'inizio di
terzo millennio (terza fase), quando, nonostante l'andamento di audience positivo, i prodotti
per bambini e ragazzi nei palinsesti tradizionali italiani iniziano a essere sempre di meno,
contribuendo a una rottura del patto comunicativo con le reti main-stream e generando un
invecchiamento delle platee tv.
Solo una media di 3,6% della programmazione delle reti tradizionali veniva dedicata, nel
2006, ai cartoni e a trasmissioni ad hoc per ragazzi, mentre risultano particolarmente scarse
le trasmissioni educative pensate per il giovane pubblico. Risulta chiaro il perché della
migrazione dei fruitori bambini e ragazzi dalle reti tradizionali verso l'allora più stimolante e
ricca offerta satellitare.
Pochi anni più tardi, nel passaggio dal 2011 al 2012, a fronte di una perdita di 11,23% della
RAI e di 21,35% delle reti Mediaset, solo sulla fascia di età 4-7 anni, in un solo anno, Sky
guadagna il 27,67%. A fare da guida nella scelta della programmazione Sky è stata forse la
più decisa strategia di differenziazione dell'offerta per bambini e ragazzi, definita attraverso
una chiara numerazione dei canali 600, che permette così a genitori e figli di orientarsi
facilmente. A questa caratteristica si aggiunge la scelta di alcuni editori di evitare la
pubblicità nei palinsesti per i più piccoli.
Con la diffusione della tv satellitare, in Italia si apre davanti all'universo giovanile un nuovo
panorama, ulteriormente ampliato soprattutto dal 2012 in poi, con il passaggio definitivo al
digitale terrestre e l'ingresso progressivo delle varie offerte multipiattaforma.
Si è passati da una limitata programmazione ad hoc dedicata ai minori, all'interno dei soli tre
canali mainstream (RAI 2, RAI 3 e Italia 1) e incastrata entro le logiche rigide del palinsesto,
a un fiorire di programmi e di canali espressamente pensati per questo target.
Un'offerta che apre la stagione dell'abbondanza, attraverso una pluralità di canali digitali
tematici, spesso distinti per fasce di età, che ha provocato un graduale trasferimento di
contatti dalla tv generalista a quella satellitare, e successivamente, a quella digitale terrestre
e, infine, alla vastissima gamma di opportunità dell'ambiente online.

Uno sguardo agli scenari internazionali


Pur consapevoli che i minori non siano esposti soltanto alla programmazione specifica a loro
dedicata, non si può negare la rilevanza sociale e di mercato dell'offerta per bambini e
ragazzi. Un'interessante ricognizione della produzione internazionale di contenuti audiovisivi
per minori e delle sue specificità è fornita da Ofcom, un ente britannico che si occupa di
osservare le dinamiche legate al mercato dei media e della comunicazione, anche nel
rapporto con i target più vulnerabili, come quello dei minori. Alcuni rapporti portano alla
sintesi gli orientamenti della televisione dedicata ai bambini e ragazzi, basati su cinque
diversi modelli:
1. L'obbligo di offerta da parte del servizio pubblico radiotelevisivo nel contesto
dell'offerta generalista;
2. Il finanziamento pubblico di canali dedicati;
3. L'obbligo di programmazione in determinate fasce orarie;
4. L'obbligo di produzione di contenuti per i minori nei confronti delle emittenti
commerciali, spesso come condizione del rilascio delle licenze;
5. Finanziamenti pubblici, diretti o indiretti, a questo tipo di
programmazione/produzione.
Relativamente ai primi due modelli, essi si traducono nell'imporre alle emittenti pubbliche di
garantire la diffusione di tali programmi. Pertanto, le emittenti a finanziamento pubblico o le
cui maggiori risorse derivino da fonti pubbliche, giocano un ruolo importante nel panorama
dell'offerta.
Il terzo e il quarto modello prevedono quote minime di programmazione o produzione di tali
contenuti. Si fa riferimento alle quote minime necessarie per mantenere l’offerta per i
bambini, ed è rivolta alle principali emittenti commerciali che sono esposte al rischio di
perdita della licenza. Per quanto riguarda l'uso delle «quote minime di programmazione e
produzione» di televisione per bambini, esso è diverso da un Paese all'altro. Per esempio in
Francia, gli obblighi che si applicano al principale canale commerciale generalista, TF1, lo
vedono tenuto a trasmettere una quota annua di programmi per minori, di cui una parte deve
essere dedicata ai documentari e di investire una percentuale pari al 20% del budget in
animazione. In Germania invece non sono stabilite quote specifiche per la televisione dei
bambini, mentre negli USA esiste l'obbligo di messa in onda tre ore a settimana di
programmi per bambini, per evitare che l'educazione dei minori e le esigenze informative
dipendano dalla discrezionalità dei singoli conduttori o autori delle trasmissioni.
Oltre all'obbligo di offerta minima, in alcuni Paesi è previsto anche il sostegno economico da
parte del governo nazionale o regionale che si concretizza nel finanziamento diretto di
programmi per bambini e/o in benefici fiscali.
Le diverse analisi sul tema confermano che tutti i Paesi presi in considerazione reputano la
televisione per bambini e ragazzi un compito imprescindibile del servizio pubblico.
Per quanto riguarda il quinto modello, i finanziamenti, erogati sia direttamente sia tramite
agevolazioni fiscali, sono utilizzati in molti mercati anche come un modo per sostenere la
produzione di programmi che riflettono prospettive nazionali o locali e come misura di
sostegno industriale a tale settore, integrando delle finalità di politica sociale.

Dentro il souk affollato dell'offerta multichannel. L'Italia nel contesto europeo


Il contesto europeo appare radicalmente mutato rispetto al precedente secolo, a causa del
progresso tecnologico legato alla digitalizzazione, che ha comportato la scomparsa della tv
analogica e la moltiplicazione delle piattaforme di delivery come DTT (Digitale Terrestre),
Satellite, IPTV (Internet Protocol Television) e Hybrid Tv.
Tali innovazioni hanno consentito la diversificazione dei modelli di business free to air e pay
che spiegano l'accresciuta competizione nel settore. La digitalizzazione ha portato con sé
una crescita esponenziale dei canali televisivi europei: si passa dai 103 canali del 1990, a
849 nel 2000, a 4731 nel 2010, arrivando a più di 9080 reti nel 2022.
L'offerta televisiva in Europa è caratterizzata, dunque, dalla moltiplicazione delle piattaforme
di distribuzione, infatti accanto ai canali digitali terrestri free e pay sono diffusi canali
distribuiti via satellite e ancora via cavo (anch'essi suddivisi in modalità free to air o pay).
In questo contesto, il digitale terrestre (DTT) costituisce la piattaforma più utilizzata dal
mercato televisivo europeo, con una concentrazione molto diversificata in base ai singoli
Paesi: già nel 2016 l'Italia possedeva il mercato con il più alto numero di canali tv (132),
seguita dal Regno Unito (103). A seguire, con un numero inferiore (circa la metà) si
collocano i mercati di Spagna, Germania e Francia: la ridotta presenza di canali tv sul DTT
in questi ultimi due è dovuta alla competizione delle piattaforme satellitari e IPTV,
storicamente rilevanti in questi Paesi (Confindustria Radio Televisioni 2016).

Quanti sono, all'interno di tale sempre più ampia offerta i canali dedicati ai bambini e ragazzi,
lo si può osservare attraverso i dati dell'Osservatorio Europeo sull'Audiovisivo. Si distingue il
caso del Regno Unito, che trasmette il 40% del totale della programmazione europea per
minori, mentre l'Italia copre il 5% dei canali.
Relativamente ai generi di programmazione, sul fronte della DTT free to air (che trasmette
programmi gratuiti) ampio spazio è ancora dedicato al modello generalista (38%),
all'intrattenimento e alla fiction, genere che domina anche nel modello pay insieme allo sport
e ai documentari (18%).
In Europa, dunque, l'offerta free riservata alla tv per minori è pari al 4% sul totale delle
trasmissioni.
Diversa invece la situazione dell'offerta pay, che vede ben 11% del totale dei canali europei
dedicato alla platea dei bambini e dei ragazzi, chiara testimonianza dell'attrattività business
dei contenuti rivolti ai più piccoli.

Ancora diverso è il quadro dell'offerta di canali per bambini e ragazzi accessibile via satellite
che comprende anche l'offerta extra-europea, come, per esempio, programmi trasmessi dal
Bahrain, Iran, Egitto, Mondo Arabo e Hong Kong che approdano nelle case europee anche
sotto forma di contenuti per minori. A questi si aggiungono le reti nazionali norvegesi,
romene, russe, serbe, albanesi e turche che realizzano, tramite il satellite, una discreta
diffusione di programmi per bambini e ancora la ricca offerta di trasmissioni provenienti da
operatori statunitensi. Nella maggior parte dei Paesi europei l'offerta è in sintonia con il
sistema televisivo nazionale.

CAPITOLO 2 Consumo. Tra visione e tele-visioni. Stili e comportamenti di fruizione nella


multi screen tv
Tra vecchi e nuovi trend
Consumatori cioè spettatori. La storia della spettatorialità mediale ha origini antiche. Un
ideale punto di inizio può risalire al 1895, anno in cui i fratelli Auguste e Louis Lumière
girarono “L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat": attraverso la scelta di
un'inquadratura laterale per conferire all'immagine maggiore profondità di campo, la scena
ritrae una locomotiva in movimento che pian piano si ferma arrivando in stazione. La
sequenza fu costruita per un dare un senso di realtà inedito per le competenze visuali
dell'epoca.
Siamo agli albori della cosiddetta «società di massa», una nuova configurazione sociale
nata sotto il segno del ‘pieno’: le città sono piene di gente; le case, piene di inquilini; gli
alberghi, pieni di ospiti; i treni pieni di passeggeri; i caffè pieni di consumatori; ecc. Quello
che prima non soleva essere un problema comincia ad esserlo quasi a ogni momento:
trovare posto.
Il cinematografo riflette questa pienezza in modo duplice: in primo luogo, perché le sale si
riempiono, secondo la logica sperimentata sotto i tendoni dei circhi o sulle platee e gallerie
dei teatri popolari. Dall'altro, perché aggiunge innumerevoli tasselli agli immaginari degli
individui attraverso quello si che si definiva «processo di identificazione con la macchina da
presa», ovvero la possibilità per lo spettatore di andare oltre il mero sguardo meccanico,
riempiendolo di sensazioni ed emozioni personali.
Il cinema, quindi, ridefinisce lo sguardo umano che, da attività naturale tipica del singolo,
diventa pratica di massa poiché riproducibile su vasta scala e raggiungibile
contemporaneamente da un grandissimo numero di persone. Nello stesso tempo, allarga le
possibilità di sognare e le aspirazioni delle esistenze individuali.
Possiamo, cioè, vivere catarticamente porzioni di altre vite attraverso l'identificazione con i
protagonisti delle storie e con le vicende narrate.

La (tele)visione lineare. Il cinema inaugura, quindi, una nuova facoltà dell'individuo


moderno: lo sguardo sociale. Non si tratta soltanto di un'estensione e di un potenziamento
delle facoltà umane: i media collettivizzano la visione, rendendo di «proprietà pubblica»
ciò che prima era un atto realizzato in modo privato. L'avvento della televisione favorisce
questa ‘nuova’ prassi sociale rendendola domestica e gratuita.
Il piccolo schermo interviene soprattutto sulla modulazione della temporalità e della
spazialità sociale: se l'esperienza cinematografica impone luoghi e momenti precostituiti che
prevedono un costo economico (si va in quel determinato cinema a un orario imposto,
pagando un biglietto), la televisione invece “casalinghizza” la visione aprendola a nuovi e
tanti contenuti.
Inoltre, se l'interiorizzazione dei contenuti di un film prima risultava confinata a un’unica
visione (difficilmente si vedeva lo stesso film più di una volta), con la televisione vengono a
crearsi memorie collettive favorite dalla ripetitività dei contenuti trasmessi senza alcuna
interruzione temporale.
Il flusso è il segno più evidente dell'evoluzione del medium televisivo, non più contraddistinto
(come ai suoi albori) da generi e segmenti predefiniti e differenziati tra loro (il telegiornale, lo
sceneggiato, il quiz), ma da un processo scorrevole in cui tutto si assomiglia e che ha come
fine primario quello di trasmettere un messaggio unitario. Questa rimodulazione del sensus
televisivo è anche spinta dalla moltiplicazione dell'offerta privata e dall'introduzione della
pubblicità (che tocca anche il servizio pubblico), opportunità per passare da una logica
prevalentemente informativa e pedagogica ad una commerciale. La tv deve vendere e deve
vendersi: quindi inizia a «comportarsi» come agente sociale autonomo, dotato di una propria
identità riconoscibile, quindi meritevole di apprezzamenti o, di contro, condannabile.
Lo spettatore diventa quindi un consumatore consapevole di un ipermercato fatto di
inesauribili prodotti in serie: se essi sono di suo gradimento, può metterli nel proprio
‘carrello’; oppure può declinare la fruizione grazie al telecomando, tecnologia wireless
dotata sia del tasto di spegnimento sia di quello del cambio di canale.

Quella con la (tele)visione resta una relazione verticale, gestita dall'alto, ovvero da chi
possiede i mezzi di produzione e di distribuzione e, in un certo senso, «subita» da chi e in
basso, una sorta di proletariato mediale che ha da offrire soltanto la propria «forza visiva e di
consumo». Gli spettatori sono sempre in una posizione subalterna che non può essere mai
ribaltata, ma solo interrotta spegnendo l’apparecchio televisivo. Con l'avvento del digitale si
concretizzerà una sorta di lotta di classe: ovvero la spettatorialità audiovisiva sarà investita
da una rivoluzione inimmaginabile.

«Netflixion», ovvero l'occhio digitalizzato. Oggi la visione mediale trascende


l'apparecchio «televisore» e si riposiziona in una pluralità di dispositivi (multiscreen),
conseguenza dello sviluppo tecnologico e dell'innovazione digitale. Si tratta di un processo
iniziato negli anni Novanta del Novecento quando inizia ad affermarsi l'idea di
«convergenza», ovvero del flusso dei contenuti su più piattaforme, della cooperazione tra
più settori dell'industria dei media e della migrazione del pubblico alla ricerca continua di
intrattenimento.
Alla luce di questa metamorfosi, anche consumare un contenuto prodotto dai media diventa
un'esperienza complessa, plurale, ibrida e che va al di là dei comportamenti sociali
consolidati da più di mezzo secolo di offerta televisiva.
All'avvento di Internet e dei media digitali investe le due principali dimensioni della visione: il
tempo e lo spazio:
1. Se ci chiedessero, per esempio, quando guardiamo la televisione (in senso
tradizionale e lineare) saremmo pronti e precisi nel rispondere “la mattina, durante la
colazione, oppure in tarda serata dopo aver cenato”. Diversamente, fatichiamo a
ricordare il momento esatto in cui abbiamo visualizzato un video postato da un nostro
amico su una piattaforma social.
2. Se provassimo a chiedere a qualcuno dove guarda la tv, probabilmente
risponderebbe con precisione: “seduto sul divano, intorno a una tavola imbandita o
steso sul letto”. Potrebbe, altresì, rispondere che si trovava in una stanza specifica
indicando le caratteristiche (es. il colore delle pareti). Di contro, se gli domandassero
dove vedi il video caricato su YouTube, la risposta più probabile sarebbe “ovunque”.

Il consumo digitale è, dunque, multiscreen, frammentato, mobile, dinamico, privo di fili,


espanso in una dimensione spazio-temporale destrutturata, non circoscritta, non conosciuta.
Il dispositivo non è più percettibile, misurabile o collocabile in quanto altro o distante da noi,
ma si fonde con le nostre abitudini sovrapponendosi ai nostri movimenti.
Siamo entrati nell'era della Netflixion (Netflix + vision), la condizione di poter consumare
contenuti in streaming trasmessi via Internet, senza alcun vincolo imposto, ma nella totale
autonomia di opzioni. Un «netflixion user» può fare della visione ciò che desidera: per
esempio può adattare la visione alle sue esigenze temporali, iniziando a guardare un
contenuto a un certo orario, interrompendo la visione e riprendendola in un altro momento,
magari passando da un device wired (il televisore) a uno wireless (smartphone o tablet). Può
rivederlo più volte, tornando indietro e concentrandosi su una determinata sequenza, oppure
(come nel caso di una serie) guardare una puntata alla volta in momenti differenti o ancora
può fare binge watching, usufruendo della visione di diversi episodi consecutivamente,
senza soste.
Queste modalità superano la logica del palinsesto che aveva identificato il consumo mediale
pre-digitale, per ricollocarsi in un time-shifted viewing, ovvero nella visione di un contenuto in
differita rispetto alla prima messa in onda. Si creano così library e playlist corrispondenti non
solo alle preferenze dell'utente in termini di prodotti mediali (un film piuttosto che uno show),
ma soprattutto in relazione ai suoi bisogni esistenziali, al suo tempo a disposizione, al luogo
in cui si trova.
Con l'avvento del digitale, dunque, la visione diventa una pratica più leggera: sia perché il
consumo è personalizzato, sia perché i contenuti si smaterializzano essendo sempre a
disposizione nel proprio archivio digitale.
Questo incremento nel consumo è legato anche all'aumento esponenziale delle informazioni
condivise attraverso i social media avvenute all'inizio degli anni Duemila. Eppure, le pratiche
visuali connesse a Internet, non si limitano soltanto alla ricezione: il numero impressionante
dei social media users (quasi 5 miliardi) unito a connessioni sempre più veloci e al possesso
generalizzato di uno smartphone hanno, di fatto, creato un mega medium costituito da
innumerevoli schermi. Questo «smaterializzazione» dei dispositivi visuali permette agli utenti
di superare definitivamente i confini della programmazione lineare e della rigidità dei
palinsesti tradizionali, consentendo loro di accedere ai contenuti preferiti secondo la logica
«anytime, anyhow, anywhere».

Le quattro tappe della spettatorialità. Negli ultimi due secoli, grazie alla diffusione delle
tecnologie della comunicazione, il vedere è diventato una dimensione propria della
conoscenza. La nostra è “una cultura dell'occhio”, perché in essa il congegno della visione
costituisce l'asse intorno al quale si organizza sia l'attività cognitiva dei soggetti (io so,
perché vedo), e sia la loro vita relazionale (io interagisco, perché vedo).
La storia dell'umanità è da sempre legata al vedere, considerato sin dalle origini un atto
necessario alla conservazione e allo sviluppo della vita stessa. Tuttavia, la meraviglia di
fronte alla varietà e alla bellezza del mondo trasforma una semplice e meccanica attitudine
in un'esperienza molto più ricca e profonda. È questa la trasformazione dell'homo videns
(l'individuo che vede meccanicamente per sopravvivere) in homo spectator, un soggetto il
cui vedere è come una chiave di accesso a una dimensione ulteriore rispetto alla cura
quotidiana. Si parla di «spettatore originario», il cui vedere supera la semplice percezione
per trasformarsi in un'esperienza coinvolgente: lo spettatore, quindi, si evolve aggiungendo
alla competenza ricettiva passiva, l'interazione con immagini, simboli e significati capaci di
dare senso all’esistenza.
L'invenzione della fotografia e del cinema favoriscono la «parabola evolutiva» dello
spettatore che può proiettare il suo sguardo nei diversi dispositivi ottici, dando spazio a nuovi
significati del vedere mediale e inaugurando la seconda tappa della spettatorialità: lo
«spettatore mediale».
I media moderni diventano il palcoscenico sul quale è possibile sia rivivere la propria storia
(es. fotografia, filmini amatoriali), sia interiorizzare e prendere parte delle realtà e delle
memorie prodotte dalla cultura di massa. Data la sua capacità di riprodurre la realtà
continuamente e perfettamente, l'immagine mediale ricrea il mondo e la dimensione della
conoscenza si dota di strumenti tecnologici capaci di far giungere lo sguardo laddove finora
non era arrivato. Tuttavia, pur in un contesto di potenziamento estremo delle sue facoltà, lo
spettatore mediale vive il limite del framing: la realtà delle immagini mediali è sempre
inquadrata, delimitata dai bordi dell'inquadratura, definita da una prospettiva, sempre
orientata da un punto di vista.
Lo spettatore mediale, in definitiva, dipende sempre da scelte altrui, nonostante assuma
sempre più consapevolezza e capacità di lettura dei contenuti. Diventa cioè un consumatore
sempre più consapevole, seppur limitato esclusivamente alla fruizione.
Queste limitazioni termineranno con la successiva configurazione della spettatorialità (la
terza fase) che possiamo definire «spettatore post-mediale»: associare concetto di
post-medialità allo spettatore significa contestualizzarlo all'interno delle piccole e grandi
narrazioni sociali che circolano nell'età del digitale e dei social network.
Il mondo dello spettatore post-mediale si definisce soprattutto per due elementi:
1. Si colloca in una realtà tecnologica nella quale i dispositivi tradizionali sono in fase di
dissoluzione o inglobati e integrati nelle tecnologie digitali, mobili e altamente
personalizzabili;
2. Egli ha a che fare con tipi di visione che implicano non soltanto prassi consumistiche,
ma soprattutto produttive e riproduttive (quindi relative all'offerta).
Per questo motivo può anche essere definito spettAutore, ovvero un soggetto dotato di
«funzione autore»: di lui non contano più tanto le caratteristiche individuali, psicologiche,
biografiche, ma soltanto la sua funzione cioè i suoi atti, le sue scelte buone o cattive che
siano. Per questo lo “spettAutore post-mediale” si trova investito di grandi responsabilità che
non sempre è in grado di prendersi: egli è definibile più come un centro di attività piuttosto
che come il possessore dello sguardo consapevole.
È per questo che l’idea di “spettatore post-mediale” necessita di un'ulteriore evoluzione che
riconosca un’identità spettatoriale in grado di capire l’impatto e le conseguenze dei suoi atti.
Parliamo questo proposito di «spettAttore» (la quarta l’ultima fase), ovvero di un agente
sociale che incide nel web inteso come uno scenario comunicativo e relazionale.
Lo spettAtore si muove in un orizzonte onlife, incide sul contesto in cui gravita, rispetta il
prossimo, ha capacità giuridica ovvero è titolare di diritti e di doveri, partecipa, sa
relazionarsi. In una sola espressione: è un individuo socializzato che ha interiorizzato
l'inconsistenza concettuale della dicotomia on/off e percepisce l'online come un pezzo
indistinto e naturale della sua esistenza tout court. Pertanto, le «sue azioni “digitali” hanno lo
stesso impatto - o forse anche maggiore - delle sue azioni “fisiche”, andando a determinare
positivamente le dinamiche storiche della società e della cultura. Lo spett-attore si
caratterizza così per il contributo attivo che è in grado di dare nello sviluppo della società».
Lo spett-attore è, dunque, un cittadino che rispetta le leggi, gestisce l'affettività e usa
l'empatia, esattamente nello stesso modo in cui è stato abituato ed educato a fare prima
dell'avvento delle tecnologie digitali.

Questa educazione alle virtù è ancora più necessaria in coloro che ancora non sono cittadini
compiuti e per cui il processo di socializzazione è ancora in itinere: i bambini e gli
adolescenti.

Honey, We Lost the Kids. Premesse per un'analisi critica del rapporto tra bambini e
tecnologie comunicative
Un impegno che guarda alla co-responsabilizzazione dei singoli attori coinvolti nei processi
di produzione e fruizione mediale, non può prescindere da una riflessione sugli effetti
dell'esposizione ai testi comunicativi da parte delle fasce più deboli, in particolare dei minori:
possiamo distinguere l'influenza nociva della televisione sulla mente di un bambino e sul
forte condizionamento dell'intera vita di una persona esposta alla fruizione tv durante
l'infanzia:
«Sophie, 2 anni, guarda la tv 1 ora al giorno. Questo duplica le sue chance di avere disturbi
di attenzione quando sarà grande.
Lubin, 3 anni, guarda la tv 2 ore al giorno, triplicando così le sue possibilità di diventare in
sovrappeso.
Kevin, 4 anni, guarda programmi per ragazzi violenti come Dragon Ball Z. Questo
quadruplica la sua possibilità di avere dei disturbi di comportamento quando inizierà la
scuola elementare».
Tale punto di vista estremo trova riscontro sia nelle analisi neurologiche e pediatriche,
interessate soprattutto al medium, a prescindere dal contenuto, sia in una certa letteratura
mediologica, improntata sull'incidenza della tv nella diffusione dei fenomeni come la
violenza, le paure, le insicurezze a vari livelli.
Il dibattito, iniziato già negli anni Cinquanta, rimane ancora aperto e pieno di contraddizioni.
Per contestualizzare la portata del fenomeno, riportiamo un ulteriore riferimento che
documenta che i bambini tra i 0-4 anni trascorrono in media davanti alla TV circa 3-4 ore al
giorno, spendendo così il 30-40% del totale del tempo di veglia. Lo studio arriva alla
conclusione che, almeno fino ai 2 anni, un bambino non dovrebbe essere esposto
assolutamente alla tv. Nei primi due anni di esistenza, il cervello triplica la sua dimensione,
da una media di 333 grammi a 1 kg. L'aumento delle dimensioni è direttamente correlato alla
stimolazione esterna e alle prime esperienze di vita. Le immagini luminose in rapida
successione stancano il cervello dei figli, agitandoli e generando disagi, conclude il
ricercatore.
Tra i risultati dello studio, vengono riportate alcune considerazioni:
1. I programmi televisivi, persino quelli cosiddetti educativi, generano problemi di
sviluppo e ritardo nell’apprendimento dei linguaggi. Il telespettatore-bambino guarda,
ascolta, ma non interagisce con altri oratori, non parla, inibendo o ritardando le
proprie capacità espressive;
2. I bambini in età scolare che hanno guardato spesso programmi televisivi nei primi
due o tre anni di vita hanno performance più deboli nei test di memoria e lettura,
dimostrando anche una più scarsa attenzione e capacità di concentrazione. La
lettura richiede uno sforzo maggiore, un impegno di immaginazione, implica una
concentrazione superiore rispetto alla semplice visione di immagini. Pertanto, ad
esempio, un bambino di 14 mesi può imitare quello che vede in un film, ma
imparerebbe molto di più da una vera e propria esperienza.
Siamo, dunque, in un territorio controverso, che riversa sulla tv le responsabilità di
generazioni con problemi di sviluppo intellettuale, risultati scolastici insoddisfacenti, problemi
di linguaggio, di attenzione, di immaginazione e creatività. Dal punto di vista di questi studi,
sono da mettere sul conto di una scorretta dieta televisiva -somministrata in età precoce- la
violenza, l'alcolismo, disturbi sessuali, comportamenti alimentari sbagliati, obesità e persino
le aspettative di vita.

La programmazione per bambini, dunque, diventa strategica non solo ai fini di


intrattenimento ed educazione delle nuove generazioni, ma anche in quanto familiare, e
dunque particolarmente efficace come mediatore nelle relazioni tra le generazioni. In effetti,
già negli anni Novanta, alcuni studiosi italiani come Morcellini dimostravano il carattere
socializzante della tv Morcellini e quest'abitudine viene riconfermata dalle varie fonti più
recenti analizzate.
Quasi tutte le indagini risultano allineate, a sostegno di questa tesi: i dati Auditel, pur non
rilevando le fasce di età inferiori ai 4 anni, dimostrano la presenza davanti a canali dedicati
ai piccolissimi (es. Cartoonito, RAI YoYo) di giovani adulti, testimoniando il tendenziale
accompagnamento di un figlio in età prescolare da parte dei giovani genitori.
La prima edizione del “Libro Bianco Media e Minori” dell'AGCOM-Autorità per le Garanzie
nelle Comunicazioni (2014) conferma, con l'ausilio dei dati Censis, che il 68,9% dei bambini
di 4-5 anni guarda la tv prevalentemente in compagnia dei genitori e il 20,1% con i nonni.
Solo il 4,7% dei bambini, dimostra la ricerca, viene lasciato solo davanti allo schermo
(Censis 2011). Si conferma, dunque, che la cosiddetta «fruizione congiunta» non è
un'infondata astrazione degli studiosi dei media, ma una realtà che testimonia la funzione
relazionale che la tv e i contenuti audiovisivi disponibili sui vari dispositivi, sempre più
connessi, continuano a mantenere almeno rispetto alle fasce di età più piccole.
Tale orientamento non sfugge ai pubblicitari, ben consapevoli dell'incidenza dei figli piccoli
nella scelta e nell'acquisto di prodotti audiovisivi e multimediali.
Questo trend viene confermato anche nelle stagioni a seguire, con una ancor più chiara
affermazione nel periodo della pandemia da Covid-19, che vede un ritorno senza precedenti
di tutte le fasce di età davanti agli schermi televisivi, integrati da una maggiore confidenza
con l'ambiente online, fin dall'età prescolare.

L'età della dipendenza e dell'esplorazione. Uno sguardo all'infanzia multischermo


Spostando lo sguardo verso la moltitudine di schermi fioriti nel prato digitale, è opportuno
riprendere una ricerca realizzata dall'Accademia delle Scienze francese nel 2013: frutto della
riflessione multidisciplinare di psicologi specialisti per l'infanzia, psichiatri, neuro scienziati,
comunicatori, il rapporto cerca di far luce su una serie di convinzioni, alcune vere e altre
false, e sui cosiddetti “neuro-miti” costruiti intorno all’esposizione massiccia di bambini e
adolescenti davanti agli schermi di qualsiasi tipo.
Mentre tablet, computer e altri schermi vengono presentati come “facilitatori” dello sviluppo
psico-fisico e sociale dei bambini, l'unica incolpata è l'eccessiva televisione senza
«accompagnamento» dei genitori.
È indiscutibile che in questo periodo i bambini siano esposti a vari schermi sempre più
precocemente, anche molto prima del compimento del primo anno d'età. Una varietà di
prodotti, programmi, canali tematici e applicazioni è destinata a questo pubblico.
Sondaggi collegati alle strategie di marketing attorno a questi prodotti tendono a enfatizzare
l'influenza benefica degli schermi sullo sviluppo dell'intelligenza dei bambini e
sull'apprendimento della lingua. D'altra parte, alcuni studi dimostrano che gli stessi schermi
possono provocare un ritardo nello sviluppo delle competenze linguistiche, mentre il modo
migliore per promuovere lo sviluppo del linguaggio nel bambino sia piuttosto l'interazione
con e tra gli esseri umani, raccontando storie e giocando con i propri figli.

Una prima dimensione che restituirebbe al nuovo ambiente digitale una sua funzione
positiva nello sviluppo del bambino, secondo il Rapporto dell'Accademia delle Scienze
francese, è quella esperienziale: mentre nella socializzazione tradizionale l'esperienza del
bambino era limitata al rapporto con l'ambiente familiare di riferimento e con lo spazio fisico
della casa, il nuovo contesto multimediale permette allo stesso di esperire quanto sarebbe
per lui difficile affrontare nello spazio limitato che frequenta. Colori, parole, suoni, volti,
movimenti entrano a far parte e a integrare il suo patrimonio conoscitivo, incentivando in
alcuni casi la sua reattività e capacità di apprendimento e adattamento rispetto a nuove
situazioni.
I supporti visuali e tattili potrebbero generare empowerment, soprattutto quando vengono
introdotti dai genitori, dai nonni o dai bambini più grandi della famiglia, trasformando così il
mondo che passa per gli schermi in quella realtà più affine all'intelligenza dei bambini tra 0 e
2 anni. Di conseguenza, nella costruzione del pensiero simbolico, tra i 2 e i 6 anni, i bambini
devono, per la prima volta, imparare a sperimentare l'alternanza tra il reale e il virtuale (il
verosimile), soprattutto nell'attività di gioco, che inizia nella vita reale, con le bambole e le
persone del suo entourage per poi trasferirsi nelle attività di gioco che vedono la mediazione
degli schermi di qualsiasi tipo.
Tuttavia, quest'età è anche quella in cui, con una certa facilità e spontaneità, il bambino si
può rifugiare e persino nascondere nel mondo degli schermi, dove l'attività specifica
dell'infanzia -il gioco- potrebbe sfuggire agli occhi e alla sensibilità degli adulti. È proprio per
questo che s'impone non il divieto di frequentazione delle tecnologie, ma una pratica
moderata e autoregolata.
Quello che non dobbiamo perdere di vista -concordando con il rapporto elaborato
dall’Accademia delle Scienze francese- è che accanto a un necessario accompagnamento
da parte degli adulti nel mondo degli schermi, i bambini hanno bisogno di un ambiente
formativo istituzionale consapevole delle opportunità e dei limiti delle tecnologie
comunicative.

Non solo palinsesti per bambini e ragazzi. Il caso Covid-19, la «globalizzazione della
solidarietà» e la nuova avanzata dei minori nei canali generalisti
Una volta esplorate le offerte mediali dedicate all'infanzia e all'adolescenza e i principali
trend nei rapporti con le opportunità digitali, emerge l'esigenza di addentrarsi ulteriormente
nella complessità del rapporto minori/testi mediali, con la consapevolezza che i consumi di
queste fasce di età non possano essere assolutamente ricondotti alla sola programmazione
dei canali appositamente progettati
Risulta, pertanto, opportuno iniziare dall'immersione nel «laboratorio dell’audiovisivo», a
partire dalla restituzione di una foto di gruppo del mondo che cambia anche sotto il peso
dell'emergenza pandemica che ci siamo solo in parte lasciati alle spalle.
La televisione sta cambiando irrevocabilmente: alcuni annunciano con gioia la sua morte,
altri sono meno ottimisti, ma insistono sul fatto che la televisione sta cambiando
radicalmente sotto i nostri occhi. I cambiamenti: siamo di fronte all'offerta più ampia di
contenuti per minori di sempre.
Si possono elencare 8 canali free-tv, 15 canali pay-tv, circa 10 App dedicate, l'offerta di video
on demand di Netflix, Amazon, Timvision, Disney+, Warner, la prateria illimitata di YouTube, i
contenuti sui social network sites e i giochi online.
Tuttavia, a partire dalla fine di febbraio 2020 -periodo della pandemia-, si osserva una
tendenza sorprendente tra i pubblici di bambini e ragazzi. Sembravano ormai persi per la
televisione tradizionale quando la paura, il lockdown, la condivisione degli spazi vitali con gli
altri familiari e il bisogno di informazione certificata, li hanno riportati nuovamente e ancor più
numerosi del passato davanti agli schermi televisivi.
I dati di ascolto fanno emergere un riavvicinamento delle platee di bambini e ragazzi alle
televisioni generaliste, con picchi di incremento percentuale dell'ascolto medio delle sette reti
tradizionali italiane nei mesi di marzo/maggio 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019 che
sfiorano il 54% sulla fascia 4-14 anni.
Osservando quello che accade nelle dinamiche della fruizione dei telegiornali nazionali, si
può evidenziare che tutte le principali edizioni dei Tg delle 7 generaliste italiane vedono un
incremento dei propri pubblici, con una sorprendente crescita sui giovani e persino sui
bambini. La vera sorpresa arriva dalla lettura dei valori assoluti, che restituiscono una platea
di minori e giovani under 25 anni più che raddoppiata nel 2020 rispetto al 2019:
● 105.000 contro 53.000 sulla fascia 4-14 anni;
● 62.000 nel 2020 contro i 29.000 del 2019 per la fascia 15-19;
● Una media di 86.000 contro i 39.000 del 2019 per i soggetti tra i 20 e i 24 anni.

Nuove responsabilità per nuovi scenari comunicativi nazionali e globali


Una grande notizia per le reti generaliste, ma anche un richiamo alla responsabilità e alla
qualità dei contenuti per editori e produttori. Mentre formalmente la fascia protetta si può
delimitare nelle tre ore comprese tra le 16 e le 19, orari in cui non si possono trasmettere
contenuti che possano ledere la sensibilità dei minori, nel periodo della pandemia i bambini
e i ragazzi, allontanati dalle scuole e dalle attività quotidiane, rappresentano quella parte
della popolazione più esposta ai messaggi mediali, anche al di fuori di quanto immaginato in
tempi diversi, andando oltre il perimetro stretto della cosiddetta fascia protetta.
È un monito che riguarda tutti gli editori, ma che acquisisce ulteriore rilevanza per la RAI. Il
servizio pubblico ha il compito di tutelare tutti i pubblici e di contribuire a colmare la frattura
sociale e generazionale, svolgendo una funzione di fattore di coesione sociale in grado di
raccontare e radunare intorno alla sua proposta culturale e di intrattenimento di qualità
diverse fasce culturali e generazionali, valorizzando le differenze.
Pertanto, in questi tempi fuori dal comune, sarebbe opportuno rinunciare ai ritorni di
audience e di click, per favorire un'ecologia sociale e mediale, favorevole allo sviluppo dei
bambini e dei ragazzi, ma anche alla rinascita della società nel suo insieme.
Siamo di fronte a scenari che si complessificano ulteriormente con l'ampliamento dell'offerta
lineare e nonlineare: una grande opportunità per media players e pubblici, ma anche una
fonte di nuove vulnerabilità e sovraesposizione a un nuovo spettro di rischi, rispetto ai quali i
bambini potrebbero essere più fragili degli adulti (contenuti nocivi, questioni di sicurezza
digitale e protezione dei dati e privacy precaria).
Genitori, scuole, psicologi, pedagogisti sono chiamati a stringere un’alleanza strategica con
il comparto dei media, per individuare la via della conciliazione tra le caratteristiche e i
fabbisogni formativi, emotivi, relazionali e di empowerment dei minori e le logiche e i
linguaggi narrativi dell’audiovisivo e dei media nella loro complessità.
La qualità del futuro passa anche per la qualità dei testi televisivi, radiofonici, multimediali
che bambini e ragazzi assimilano e traducono in universi simbolici, aspirazioni, progetti di
vita e di società.

Minori, audiovisivo e le nuove sfide degli ascolti


Che tipo di cambiamento ha generato la pandemia da Covid-19 (con platee televisive così
affollate, che superano di quasi 6 milioni di telespettatori il massimo mai raggiunto dalla
televisione italiana) nella sovraesposizione ai media mainstream nei pubblici giovani e
quanto questa trasformazione sia duratura?.
Mentre le evidenze empiriche mostrano un'offerta televisiva rivolta a tale pubblico sempre
più ricca e fulcro di rilevanti investimenti, accompagnati da gratificanti riscontri in termini di
ascolti—> le ultime rilevazioni mostrano che, in particolare, la popolazione di riferimento
della cosiddetta “children television” (0-14 anni di età) ammonta a poco meno di 8 milioni e
mezzo di bambini e bambine tra 0-14 anni (14% della popolazione residente), che nel 99%
dei casi accede ai contenuti della televisione digitale free e, in percentuali inferiori, alle altre
piattaforme pay.
Un esercito di fruitori e fruitrici che, seppur inferiore numericamente alla platea degli anziani,
appare molto interessante per tutte le reti digitali, incluse quelle tradizionali.
Rispetto a chi andava all'asilo nel 2000, nel 2021 il 5% in più di bambini di 3-5 anni guarda la
televisione abitualmente. Nel frattempo, il 50% dei bimbi di 6-10 anni legge almeno un libro
nell'ultimo anno, al di là di quelli scolastici. Una percentuale identica a quella di 15 anni fa.
Ciò significa che la tv è avanzata nelle preferenze degli ascoltatori alla ricerca di diversivi
molto di più della lettura dei libri.
Per i ragazzi più grandi (entro i 14 anni), la tv rappresenta un'abitudine radicata: il 91% degli
italiani con più di 3 anni guarda la televisione, l’80% lo fa quotidianamente, per ore.
Gli utenti maggiormente interessati hanno meno di 10 anni, di cui il 23% guarda la tv in
streaming su altri supporti, come PC, tablet o smartphone. Il 28% sceglie video on demand
da piattaforme commerciali (Netflix, Amazon Prime Video, Disney+).
Nel 2021, il 94% dei bambini e ragazzi ha guardato la televisione e il tempo di fruizione è
stato molto elevato:
● Il 10,9% la guarda per più di quattro ore al giorno;
● Il 31,9% fino a un'ora;
● Il 31,5% da una a due ore;
● Il 13,1% da due a quattro ore;
● Solo il 3,3% dichiara di non guardarla.

Inoltre, per le varie fasce di età considerate, non sono i canali tematici dedicati a registrare le
maggiori performance di audience, ma i canali generalisti come Canale 5, Italia 1, RAI 1:
1. Canale 5 risulta nel 2016 il canale più seguito nel prime time televisivo sia sul target
4-7 anni sia sul target 8-13 anni e 14-17 anni, seguito sempre da RAI 1.
2. Canale 5 si attesta, inoltre, come il canale preferito dai minori tra 8 e 17 anni anche
nel preserale e nella fascia protetta.
Questi dati si confermano anche a distanza di anni. Analizzando una settimana tipo (2-8
aprile 2023) possiamo osservare che, nonostante i tanti canali dedicati al target dei bambini
e dei ragazzi, i minori si trovano coinvolti maggiormente nel mainstream televisivo e, in
particolare, nei network dedicati alle famiglie, come Canale 5 e RAI 1.

CAPITOLO 3 Rischi. I pericoli della foresta incantata


Quando i media sono un rischio
Si è ribadito come oggi lo scenario audiovisivo incontri e si fondi nei territori online. Ogni
discorso riguardante i mezzi di comunicazione risente di questa osmosi rendendo ormai
inefficace la distinzione tra vecchi e nuovi media. Anche le dinamiche audiovisive rientrano
in questo processo di integrazione e fusione e, pertanto, necessitano di continue riletture.
La nostra riflessione sui rischi, dunque, pur sbilanciandosi sull'universo digitale, non può non
partire dalla matrice storica dei media (e in particolare della televisione) che è anche storia
dei relativi effetti negativi —> i media studies, infatti, hanno sempre sottolineato le potenziali
conseguenze negative dei media (es. della teoria dell’ago ipodermico: mass media come
strumenti di influenza e manipolazione).
Il pensiero comunicativo, successivamente, ha concepito i media come meri strumenti in
grado di trasformare (determinare) l'ambiente sociale e, di conseguenza, capaci di definire i
comportamenti e le relazioni degli individui.
La televisione ha giocato un ruolo fondamentale ponendosi come il principale mezzo di
determinazione delle coscienze e delle scelte (es. teoria della coltivazione: chi guarda in tv
massivamente contenuti che parlano e mostrano violenza, considererà il mondo pericoloso e
malvagio).
Tutto questo ha portato a un interesse generalizzato sui legame tra media e minori
soprattutto in termini di fruizione di contenuti violenti e pornografici. Le reazioni sono state
molteplici e hanno coinvolto istituzioni, associazioni, psicologici e medici, tutti impegnati a
cercare dei rimedi ai pericoli derivanti dall'esposizioni di contenuti nocivi da parte degli
spettatori più piccoli. Sono stati stabiliti limiti giuridici come il divieto per i minori di guardare
alcuni contenuti a cui si è affiancata la dimensione educativa, ossia la promozione della
comprensione e della consapevolezza critica dei cittadini riguardo i contenuti proposti dai
media.
Al di là delle scelte politiche, istituzionali, normative, il consumo televisivo ha sempre
riguardato un ambito sociale ristretto, spesso alla propria casa e al contesto familiare: in
esso le limitazioni giuridiche sono più difficili da attivare e anche la Media Education ha
faticato a entrarci. A un genitore non rimaneva, quindi, che il telecomando, pensato come
arma di accensione e spegnimento.

Oggi la logica dell'on e dell'off si indebolisce sempre più, fagocitata dall'iperconnessione,


dalla facilità di utilizzo dei device, dall'enorme disponibilità dei contenuti in Rete. Lo scenario
digitale, se da un lato offre straordinarie occasioni di emersione dell'umano, dall'altro è
territorio fertile di nuovi rischi che possono configurarsi in chiave patologica o criminale.
Nell'universo online un bambino/adolescente può, infatti, essere e fare ciò che desidera,
grazie alle libertà, intuitività e disponibilità, semplicità offerte dai device e dalle piattaforme
nelle quali ormai concretizziamo buona parte delle scelte, relazioni, conoscenze. Se l'essere
digitali può apparire scontato (soprattutto per un utente giovane), ciò che non lo è sono le
conseguenze delle sue azioni.
Come tutti gli spazi di vita, anche quelli digitali possono essere generatori di devianze
diversificate. Si tratta spesso di atti che possiamo classificare secondo tre macro categorie:
1. Media diseasing e disturbi psicologici e psichiatrici;
2. Devianze generiche legate a disturbi di personalità come asocialità, isolamenti,
disadattamenti o distorsioni legate alla percezione del proprio corpo e all'affettività e
sessualità;
3. Reati riconosciuti dalla giurisprudenza (hate speech, pedopornografia online,
revenge porn, cyberbullismo).
Si tratta di pratiche nella maggior parte dei casi borderline, cioè al confine tra la malattia o il
reato, vere e proprie condizioni di pseudo-normalità con manifestazioni devianti.
Può succedere, infatti, che una devianza generica (es. visualizzare continuamente contenuti
online) diventi una patologia generando ansia, stress, panico e depressione. Le ludopatie
(Internet Gaming Disorder) rientrano in entrambe le tipologie essendo considerate da un
lato, disordini compulsivi che possono tradursi in menomazioni cliniche come i sintomi da
astinenza; dall'altro, azioni devianti perché si configurano come processi che incidono sulla
socialità dell'individuo ludopatico, compromettendone le dinamiche relazionali, familiari,
scolastiche, lavorative a causa della quantità di tempo e di energie personali spese
giocando.
Una particolare attenzione riguarda le nuove generazioni perché, a differenza degli adulti, le
possibili ricadute sulla psiche e sulla socialità corrono parallelamente a uno sviluppo
individuale ancora in itinere e possono generare vere e proprie «malattie digitali». Esse
variano in base alle abitudini di utilizzo di Internet degli individui che nei minori è piuttosto
accentuato sia da un punto di vista quantitativo (il tempo vissuto online) sia qualitativo (le
modalità con cui quel tempo è vissuto).

Dall'isolamento alle dipendenze. Introduzione allo scenario patologico


Nel numeroso elenco di patologie attribuite al web si possono distinguere cinque tipi di
disturbi:
1. Quelli legati all'ansia sociale (nomofobia e FoMO): la nomofobia, parola composta
da «no mobile» (non avere lo smartphone) e da «fobia», indica la paura
incondizionata di restare privi di connessione a causa di problemi tecnici o dello
smarrimento del device. Il nomofobico potrebbe anche soffrire di «FoMo» (acronimo
di Fear of Missing Out), ovvero della «paura di essere tagliato fuori» da ciò che
succede in Rete e, quindi, da ciò che considera centrale per costruire e sviluppare la
propria relazionalità. Questi timori possono manifestare ansie e isolamenti minando
l'autostima e trascinando verso un controllo ossessivo di profili e gruppi social. Da ciò
deriva una continua ricerca di apprezzamento, che spinge l'utente a passare sempre
più tempo sulla Rete per produrre contenuti capaci di attirare l’attenzione, creando
così un circolo vizioso di «iper-utilizzo» nel tentativo costante dell'affermazione di sé.
Questi comportamenti possono sfociare in diverse direzioni: dal favorire un
prepotente esibizionismo, fino ad arrivare a provare sentimenti negativi come la
frustrazione e la rabbia.
2. Quelli legati all'isolamento e alla dipendenza (hikikomori, vamping): questi
riguardano anche fenomeni associabili alla vita online come quello degli hikikomori e
del vamping. Il primo è un sostantivo giapponese che rimanda all'azione di staccarsi
dal mondo e rifugiarsi in un luogo percepito come sicuro che è spesso la stanza
dell'abitazione familiare. Nella propria famiglia, infatti, l'hikikomori “non è mai rifiutato,
può provare vergogna senza essere biasimato, la sua rabbia è consentita e persino
la violenza è accettata". Il secondo (vamping) si ispira alle abitudini dei vampiri che
vivono la notte. L'identikit del vamper è, infatti, un adolescente che, durante le ore
notturne, invece di dormire, usa dispositivi connessi al web, presumibilmente perché
si sente libero dagli sguardi indiscreti dei familiari. Questa pratica non intacca
soltanto la questione dell'abuso e della dipendenza da Internet, ma riguarda quelli
che in medicina vengono definiti «disturbi del sonno»: l'uso notturno di device digitali
viene annoverato tra le cause della diminuzione delle ore di sonno nei ragazzi tra i 15
e i 17 anni insieme alla televisione, ai videogiochi e a bevande contenenti caffeina.
3. Quelli legati a disturbi alimentari e alla percezione del proprio corpo (Pro-Ana e
Pro-Mia): oltre al sonno, un altro disturbo mappabile riguarda l'alimentazione.
Pro-Ana (anoressia) e Pro-Mia (bulimia) indicano spazi online dove si promuovono
comportamenti come diete e allenamenti estremi finalizzati a ottenere corpi magri e
tonici. Al di là delle possibili conseguenze in termini di salute e delle implicazioni
giuridiche relative a coloro che propongono illegalmente queste pratiche, il dato più
significativo riguarda i modelli del corpo proposti online. È sempre più evidente,
infatti, scrollando i profili su social network come Instagram e TikTok, che l'archetipo
contemporaneo sia quello «fitness»: un corpo scolpito, definito da ore di palestra o di
allenamenti casalinghi e da una alimentazione sana, biologica, attenta a bilanciare
calorie e materie prime. Sono sempre di più i «content creator digitali» che
«propongono sul mercato brand o temi di cui sono testimonial» e seguirli implica un
processo di fidelizzazione tipico delle logiche di marketing, ma può degenerare
anche in derive comportamentali, quali la frustrazione o degenerazioni dell’anoressia
o bulimia. Pro-Ana e Pro-Mia offrono lo spunto per riflettere su dinamiche tipiche
della Rete che hanno un’incidenza sul corpo degli utenti: essere corpo nella Rete
significa decorpprozzarsi e, nello stesso tempo, incorporare in essa sé stessi, il
proprio aspetto fisico, gli atti personali, i propri volti ed emozioni. Il web, quindi,
esclude il corpo materiale, ma non la sua socialità, i dettagli della sua immagine, i
simboli a cui rimanda.
4. Quelli legati all'alterazione dell'identità (identità multiple o false): fa riferimento a
una configurazione identitaria non integrata e coerente, ma al contrario mascherata,
alterata, sfaldata rispetto alle sue componenti tradizionali di autenticità. È il caso
delle false identità in Rete, che se da un lato rappresentano un reato (furto d'identità),
dall'altro riflettono la distonia tra un sé reale magari poco o per nulla accettato e un
sé ideale. Questo «falso Sé» rimanda al concetto elaborato dallo psicoanalista
infantile Winnicott secondo cui mentre il vero Sé comunica un senso di esistenza
radicato nel corpo e permette all'individuo di sentirsi autentico e creativo, di provare e
trasmettere gioia e piacere, il falsò Sé si svilupperebbe durante l'infanzia come una
struttura difensiva che ha il compito di proteggere il vero Sé dall'aspettativa di eventi
relazionali traumatici. Winnicott lo definiva un vero e proprio «indicatore della salute
mentale», sottolineando l'importanza dei cosiddetti «oggetti transazionali» (es. il
ciuccio) spesso usati dai bambini come dispositivi per calmarsi o addormentarsi e per
simulare una presenza che non percepiscono e sostituiscono, per esempio, con un
orsetto di peluche a cui dedicano attenzione. In questa logica, lo smartphone
rappresenterebbe un superamento del dispositivo transazionale e diventerebbe un
dispositivo esclusivamente «autistico e narcisistico perché con esso intratteniamo
una relazione narcisistica che ci porta alla solitudine, poiché manca la presenza
dell'altro». Ma potrebbe essere anche una transazione quando, attraverso esso,
appaghiamo mancanze personali. Succede appunto quando ci fingiamo qualcun altro
attraverso la creazione di account fake. Questo ego fantoccio, al di là delle
ripercussioni giuridiche derivate da intenzioni fraudolente (truffe o adescamenti),
acquisisce una dimensione patologica quando tocca la sfera dei sentimenti come
l'amore, il desiderio di vendetta o di punizione. Nel vocabolario della Rete questa
pratica si definisce “catfish”.
5. Quelli legati alla dimensione sessuale o affettiva (ghosting, sexting, sex
addiction): riguarda patologie che implicano disturbi legati alla dimensione affettiva o
sessuale. Anche in questo caso risulta difficile tracciare confini definiti perché tali
pratiche possono scadere nell’atto criminale (es. pedopornografia o il revenge porn),
ecc. È il caso del ghosting, una pratica derivante dal dating online e caratterizzata
dall’interruzione improvvisa di una relazione attraverso il silenzio o la spartizione di
uno dei due partner. Uno studio del 2021 associa il ghosting alla cosiddetta “triade
oscura della personalità” formata da narcisismo, machiavellismo e psicopatia, ossia
comportamenti messi in pratica da soggetti caratterizzati da crudeltà, insensibilità,
assenza di empatia e rimorsi. Nella cornice dei «contro digitali» rientrano alcune
pratiche legate a una distorsione della sessualità come la dipendenza da contenuti
pornografici o il cosiddetto cybersex caratterizzato dalla pratica del sexting, ossia
l'azione di inviare messaggi erotici, che possono includere anche foto e video di nudo
o che ritraggono la persona in atteggiamenti sessualmente espliciti. Malgrado questo
comportamento possa riguardare indifferentemente sia minori sia adulti, diverse
ricerche evidenziano come a essere maggiormente coinvolti siano i giovani
adolescenti. In uno studio italiano del 2016 è stato somministrato il Sexting
Motivations Questionnaire con l'obiettivo di valutare tre principali motivazioni del
sexting (flirtare e aumentare l'intimità); strumentali/aggravate (ottenere denaro o
favori); di rinforzo dell'immagine corporea (verificare se si viene reputati attraenti). Da
una ricerca, emerge che le due motivazione principali sono la prima e la terza: «il
sexting è una sorta di pratica sperimentale e i giovani decidono di praticarla sia per
iniziare e migliorare l'attività sessuale, sia per esplorare la rappresentazione del sé,
l'immagine del proprio corpo e la propria identità»

Hate speech, revenge porn e altri crimini


Secondo il report annuale di We Are Social relativo all'anno 2023, il tempo medio giornaliero
speso dalla popolazione mondiale usando Internet supera le 6 ore e mezza. Di questo
tempo ben 2 ore e mezza vengono vissute sui social media: il dato va letto alla luce
dell'iperconnessione, ossia dell'immediatezza e della facilità di accesso alla Rete. Pertanto
“l'essere digitali” risulta diventare sempre più una condizione esistenziale inglobante, senza
alcuna soluzione di continuità.
Materialità e rapporti interpersonali si fondono con digitalità e relazioni online, creando un
unicum socio-culturale che riflette ogni sfumatura dell'umano.
Da quelle belle, vere, giuste, rispettose dell'altro e delle regole a quelle oscure, malate,
devianti. Alla dimensione patologica, si affianca una condizione criminale che fa riferimento
a tutte quelle attività di natura illegale che trovano nel web il proprio territorio privilegiato. Se
agli albori di Internet i crimini venivano commessi perlopiù in ambito finanziario (es. frodi
informatiche), oggi i reati digitali sono aumentati esponenzialmente e includono una gamma
estesa di attività criminali. Questa estensione allaga di fatto il significato del concetto di
cybercrimine, ossia di un atto delittuoso che ha utilizzato il computer come arma per
nuocere. Esempi di cybercrimine sono gli attacchi hacker, lo spionaggio, la pirateria
informatica, il fuori di informazioni sensibili, le truffe, il gioco d’azzardo online.
Si tratta di reati commessi solitamente da criminali che hanno competenze tecniche
altamente qualificate e che, per questo motivo, sono combattuti con strumenti altrettanto
avanzati tecnologicamente.
Esempi sono le attività di cyber security previste dalle organizzazioni o gli antivirus, installati
sulla maggior parte dei dispositivi pedonali. A queste si aggiungono attività di prevenzione,
monitoraggio e sanzione effettuate da appositi organismi istituzionali come la Polizia Postale
o il Nucleo Speciale Tutela Privacy e le Frodi tecnologiche della Guardia di Finanza.

Se volessimo però legare le devianze criminali all'universo dei minori dovremmo andare oltre
la sfera meramente informatica e riposizionarle in un alveo comportamentale che esiste a
prescindere dalle tecnologie. Si tratta, infatti, di comportamenti che non necessitano di
particolari abilità tecniche, ma sono consentite dal semplice accesso alla Rete. Se ne
individuano, a questo proposito, tre macro tipologie:
1. Minacce, calunnie denigrazioni (hate speech e cyberbullismo): il fenomeno
dell'hate speech è un esempio di questa non evidente correlazione con la Rete.
Esso, infatti, si qualifica come indicatore di: “tendenze che non interessano solo la
contemporaneità, non sono appannaggio esclusivo dei linguaggi giovanili ed è
riduttivo correlare sic et simpliciter alla crescente diffusione dei social media. È una
violenza condivisa sia nel mondo reale sia nella rete, ma che nell'online genera rischi
cui vanno incontro soprattutto gli utenti non consapevoli della portata virale che le
parole assumono sul web”. Numerose sono le ricerche sui discorsi di odio, tutte
orientate a confermare uno degli effetti nefasti della comunicazione digitale: la
polarizzazione, ovvero la crescente segregazione degli utenti (facilitata dalla rapidità
della circolazione dei contenuti online) in fazioni contrapposte. Secondo uno studio,
la pandemia ha generato rinnovate forme di intolleranza decretando un aumento del
40% dei discorsi di odio rispetto al periodo precedente all'emergenza Covid. Si tratta
di un odio che «che colpisce in modo trasversale: sessista, omobi-transfobico,
razzista e xenofobo, islamofobo, antisemita, antiziganista, classista. E che aumenta il
rischio di esclusione e di discriminazione di chi è più vulnerabile» come i bambini e
gli adolescenti. Che sono spesso vittime di un altro atto criminale, ossia di
cyberbullismo, un'urgenza sociale così rilevante da diventare non solo oggetto di
analisi, prevenzione e soluzione, ma di regolazione giurisprudenziale. È del 2017 la
legge «Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto al fenomeno
del cyberbullismo» che, per la prima volta, traccia i contorni del fenomeno e ne
affronta le conseguenze, con l'obiettivo di sensibilizzare i più giovani a prendere
consapevolezza dell'importanza di non assumere atteggiamenti aggressivi e
persecutori.
2. Diffusione online di contenuti di natura sessuale (revenge porn): in Italia esiste
anche una norma che stabilisce il reato di revenge porn, ovvero di diffusione di
contenuti di natura sessuale senza il consenso dell'interessato. Si tratta della legge
n.69 del 2019 conosciuta come «Codice rosso», che stabilisce che «chiunque, dopo
averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o
video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il
consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e
con la multa da euro 5.000 a euro 15.000».
3. Sfruttamento sessuale di minori (grooming e pedopornografia online): un reato
specificatamente legato all'universo minorile è la pedopornografia online sanzionata
dall'articolo 600-ter comma 3 del codice penale italiano. Produrre, divulgare,
diffondere e pubblicizzare, anche per via telematica, immagini o video ritraenti
persone minorenni coinvolte in comportamenti sessualmente espliciti non è però
soltanto un'aberrante azione criminale, ma una vera e propria «piaga planetaria e in
crescita vertiginosa».

CAPITOLO 4 Tutela. Società-Media-Minori. La rete delle sinergie intorno all’infanzia e al


futuro
Tutelare i minori per costruire un mondo possibile
Il concetto di «tutela» evoca il dovere di prendersi cura dei bambini e dei ragazzi nel pieno
rispetto delle loro caratteristiche psico-fisiche e dei bisogni di sicurezza sociali e culturali, per
garantire a queste fasce più fragili un sano sviluppo e, dunque, una solida proiezione nel
futuro.
Tra le varie opzioni disponibili per riscoprire il futuro, alla portata di istituzioni nazionali e
transnazionali, di genitori, scuole, mezzi di comunicazione, quella educativa e culturale
sembrerebbe la più convincente e generatrice di opportunità, in quanto dotata di ottimismo e
ricadute a medio/lungo termine. Entro tale dimensione si posiziona una prospettiva
interpretativa della tutela intesa come investimento in un'offerta destinata ai minori e basata
su storie e figure innovative, coraggiose, inclusive, multipiattaforma.
Appare evidente, tuttavia, che relegare i minori solo agli spazi specifici dei palinsesti o ai
canali dedicati risulta alquanto impossibile, oltreché contro-producente, rischiando di
generare una vera e propria ghettizzazione di queste fasce di età. Alle strategie di
produzione di contenuti coerenti con i pubblici più vulnerabili è auspicabile affiancare un
sano lavoro di progettazione sociale e di simulazione delle conseguenze che può generare
la sovraesposizione dei minori a testi e piattaforme mediali poco garantiti.
Nella convergenza tra scenari di cambiamento sociale, cambiamenti organizzativi e
cambiamenti tecnologici, i minori si ritrovano proiettati non sempre dentro gli ingranaggi della
trasformazione virtuosa, ma troppo spesso schiacciati dalle dinamiche di un mondo adulto
che ha smesso di desiderare l'evoluzione e la preservazione del futuro e di uno spazio di
fertilizzazione delle idee e della progettualità, favorevole al compimento e al rispetto di alcuni
diritti umani fondamentali: il diritto all'istruzione, il diritto all'assistenza (e con questo quelli
alla salute, al lavoro e alla giustizia), il diritto all'informazione.
Su tale fronte la società è chiamata a contribuire all'attivazione degli anticorpi sociali che
possano agire contro l'indifferenza e il cosiddetto «disimpegno morale».
Anche le professioni della comunicazione, oltre a garantire il compimento del diritto
all'informazione, si pongono come «servizio di sicurezza nazionale», nella consapevolezza
che buona parte delle nostre paure derivano dai giochi di rappresentazione dei media
tradizionali e innovativi. I professionisti della comunicazione sono chiamati a ricostruire
l'alleanza storica con la società, contribuendo alla costruzione di un'immagine positiva del
cambiamento sociale, della vita, della promessa di futuro per le nuove generazioni.
Inoltre, la sempre più articolata offerta mediale, che oscilla tra online e offline, porta a
complessificare ulteriormente il compito già arduo dei vari soggetti che intervengono nel
garantire equilibrio e qualità allo spazio pubblico mediale.
Infatti, la tutela dei minori esposti o coinvolti nei contenuti audiovisivi si inserisce in un
contesto in continua evoluzione, ormai caratterizzato da una galleria di prodotti e servizi
estremamente variegata, fruibile su molteplici piattaforme.
Le parole chiave sono cambiate rispetto a quella della programmazione tradizionale: all
digital, abbondanza dell'offerta, multicanalità e multipiattaforma, second screen. Si tratta di
caratteristiche distintive dello scenario attuale, che comportano il superamento del concetto
di salvaguardia del minore, inteso come soggetto esposto alla visione esclusivamente
passiva di un flusso di programmi, in determinate fasce orarie, all'interno di un palinsesto
prestabilito dagli editori.
L'integrazione di tecnologie e di differenti device fa sì che le nuove generazioni accedano ai
contenuti audiovisivi con modalità estemporanee, libere e personalizzate, senza ancoraggi a
luoghi fisici o a orari fissi, in una continua e pervasiva connessione in Rete.

Dai media tradizionali alle piattaforme. Un passo avanti con il nuovo Testo Unico per i Media
Audiovisivi
Il percorso di tutte le normative che si sono susseguite nel tempo è scandito in vari
documenti pubblici, tra i quali uno dei più completi e affidabili è Il Libro bianco Media e
Minori dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (2013, 2018).
Tuttavia, tra gli ultimi testi normativi, il recepimento a livello nazionale della Direttiva europea
SMAV* sollecita una particolare attenzione proprio in relazione alla tutela delle fasce deboli e
dei bambini e dei ragazzi nello specifico.
L'approvazione del nuovo *Testo Unico per la fornitura di Servizi di Media Audiovisivi a
livello nazionale ha creato delle aspettative rispetto a una diversa attenzione da parte del
legislatore e delle istituzioni nei confronti della qualità del rapporto che s'instaura tra i testi
audiovisivi e le platee cosiddette «fragili» dei minori.
Il nuovo Testo Unico si presenta come una promessa in termini di maggiore vigilanza
rispetto alla qualità della programmazione dell’abbondante prateria digitale, che vede esposti
i minori.
La pandemia da Covid-19, inoltre, ha costretto a una più decisa riflessione sull’importanza
delle misure di tutela e sulla presa di responsabilità, non solo per via dell’emergenza
sanitaria, ma anche per la sua forte incidenza sulle dimensioni socio-psicologiche, su quelle
relative al cambiamento negli stili di vita e sulla sovraesposizione dei minori ai testi mediali.
In tale contesto si è imposta una riflessione sul ruolo che media, istituzioni e società civile
dovrebbero assumersi in termini di accompagnamento delle fasce più deboli nel
perseguimento dei propri diritti e nella loro tutela. Infatti, il messaggio che dovrebbe orientare
politiche pubbliche della comunicazione e l'agire degli operatori nei confronti delle persone
che hanno trovato rifugio nei testi mediali, è proprio il desiderio di sfruttare la scossa della
pandemia per «guardare oltre», scongiurando la coltivazione di un immaginario negativo sul
futuro delle nuove generazioni.
Si tratta di istanze che stanno a monte del Codice Tv e Minori del 2002, ulteriormente
accentuate dal lavoro portato avanti dal Comitato di applicazione del Codice di
autoregolamentazione Media e Minori e dal Ministero di riferimento.
Infatti, scommettere sui bambini e sugli adolescenti significa scommettere sul futuro delle
nazioni e sul progetto globale dell'umanità. Il futuro si presenta anche come un fatto
complesso mediatico e digitale, prova di una responsabilità condivisa che coinvolge tutti gli
stakeholder nella sua costruzione sicura e consapevole: policy maker, organizzazioni
transnazionali, genitori, istituzione educativa e lettori multimediali e digitali.
L'ambiente digitale da un lato offre grandi opportunità, ricchezza di contenuti, creatività e
supporto all'esperienza offline, dall'altro è anche esposto a trappole, criminalità, reati.
- Una novità importante riguarda l'obbligatorietà del rispetto del Codice di
autoregolamentazione Media e Minori da parte di tutti i fornitori di servizi media, a
prescindere da canale o piattaforma (art. 37, comma 6). L'articolo 37 delega molte
delle responsabilità di tutela all'utilizzo del cosiddetto «parental control»,
presupponendo che la tutela dei più piccoli e dei ragazzi debba far leva su questi
strumenti tecnologici innovativi di protezione e sulla diffusione di una corretta
educazione dell'utenza all'uso di tali dispositivi, dimensione rientrante anche nelle
successive specificazioni relative alle azioni congiunte (iniziative scolastiche «per un
uso corretto e consapevole del mezzo televisivo» o progetti rivolti ai genitori).

Dalla dieta mediale alla qualità dell'alimentazione. Il benessere dei minori e le responsabilità
dell'audiovisivo europeo
Un'attenzione particolare meritano gli aspetti relativi alla protezione dei minori nei confronti
delle comunicazioni commerciali, in particolare del junk food («cibo spazzatura»), a ulteriore
testimonianza di una diversa responsabilizzazione delle istituzioni rispetto alle ricadute dei
contenuti mediali, anche in termini di salute e stili di vita dei minori, adulti del futuro.
«Junk food» è un'espressione popolare inglese utilizzata per indicare alimenti ricchi di sale,
zuccheri semplici e grassi, ma poveri dal punto di vista nutrizionale di vitamine, fibre e
proteine —> “i bambini devono evitare”.
La rilevanza dell'argomento è sottolineata anche dallo studio Global Burden of Disease, che
vede il coinvolgimento di 195 Paesi e che già nel 1998 dimostrava che le diete squilibrate a
livello globale sarebbero state causa di 1 morte su 5.
L'Organizzazione Mondiale per la Sanità invita a lavorare sulla prevenzione dei fattori di
rischio, promuovendo l'adozione di diete equilibrate, a partire dall'infanzia. Tra le
raccomandazioni:
● Introdurre profili nutrizionali, atti a identificare i cibi HFSS - High in saturated fats,
trans fats, free sugars andlor salt;
● Promuovere la loro riformulazione e la riduzione dei consumi di alimenti squilibrati;
● Incentivare l'adozione di rigorosi vincoli a marketing e pubblicità, compresa quella sul
web e sui social network.
Inoltre, l'Organizzazione Mondiale della Sanità evidenzia che un problema da non
sottovalutare è la stretta correlazione tra esposizione dei minori alle comunicazioni
commerciali relative al junk food e problemi quali obesità infantile e malattie correlate.
Tuttavia, una valutazione dello stato di attuazione di tali raccomandazioni evidenzia che le
politiche e i regolamenti emanati dai diversi Paesi sono del tutto insufficienti per affrontare le
continue sfide poste in questo campo dal marketing transfrontaliero e, quindi, a invertire la
rotta di obesità infantile, sovrappeso e malnutrizione, in continua crescita in tutta Europa,
soprattutto nei Paesi mediterranei. Spesso i provvedimenti risultano applicati solo ai media
pre-digitali; ai bambini più piccoli (trascurando il target sensibile degli adolescenti, più
vulnerabile nei confronti della malnutrizione per eccesso o per difetto); ai programmi diretti in
maniera specifica a bambini e ragazzi (piuttosto che a quelli che prevedono un pubblico
composto anche da minori).
Le principali critiche sono:
1. I criteri usati per distinguere un prodotto salutare dal junk food sono troppo vaghi;
2. Restano esclusi dalle restrizioni troppi programmi televisivi guardati regolarmente dai
bambini;
3. Gli impegni presi dalle aziende sono troppo deboli per disciplinare il marketing negli
ambienti digitali;
4. Le industrie non hanno preso alcun impegno su packaging e uso di gadget;
5. Il meccanismo di segnalazione delle violazioni è lento, complesso da utilizzare per i
consumatori e, in generale, tende a favorire le aziende.

Alleanze multistakeholder e Media Education come strumento di cittadinanza


Nel nuovo scenario di overload tecnologico e di «ipercomunicazione» all'interno del quale si
dovrà applicare il nuovo Testo Unico per i Media Audiovisivi, la domanda che insorge
naturalmente riguarda la preparazione degli attori coinvolti (minori, genitori, scuole,
istituzioni, editori, distributori ecc.) a favorire uno sviluppo «sano» dei bambini e dei ragazzi
anche attraverso la continua responsabilizzazione sull'incidenza che i testi mediali di ogni
tipo possono avere sulla qualità del loro rapporto con se stessi, con gli altri, con il mondo
dell'infanzia e degli adulti, con il futuro.
L'ipercomunicazione non è garanzia di qualità della comunicazione. Anzi, proprio entro
l'eccesso non regolamentato si possono annidare «i fiori del male», come la violenza, il
linguaggio dell'odio, la discriminazione, il sessismo, il bullismo ecc.

Alla domanda formulata dal Censis nell'indagine 2022 sull'età giusta per accedere a Internet
senza la presenza degli adulti —> la maggior parte degli intervistati dichiara che tale
accesso debba avvenire preferibilmente dopo i 14 anni (14-16 anni per il 61% degli
intervistati; 17-18 anni per il 26,3%) e persino una volta raggiunta la maggiore età (22%), i
dati reali vedono una situazione totalmente diversa.
Infatti, un'elaborazione Censis a partire dalle rilevazioni Auditel 2022 attesta una situazione
completamente diversa: quasi il 70% dei minori tra i 4 e i 18 anni accede alla Rete prima dei
14 anni, di cui il 61,7 persino prima dei 13 anni. Dai 14 anni in poi l'accesso è rilevato su
tutta la platea dei minori.
Il Ministro dello Sviluppo Economico, d'intesa con il Ministro dell'Istruzione, con l'Autorità
garante per l'infanzia e l'adolescenza e con il Presidente del Consiglio dei Ministri, dispone
la realizzazione di:
● Iniziative scolastiche per un uso corretto e consapevole del mezzo televisivo;
● Di programmi con le stesse finalità rivolti ai genitori, utilizzando a tale fine anche gli
stessi mezzi radiotelevisivi, in orari caratterizzati da ascolti medi elevati e soprattutto
nella fascia oraria compresa tra le ore 19:00 e le ore 23:00, e in particolare i mezzi
della società concessionaria del pubblico servizio radiofonico, televisivo e
multimediale.
A questi provvedimenti normativi si aggiunge l'impegno nel garantire un'azione concertata e
la cooperazione a livello nazionale e internazionale per rispettare, proteggere e realizzare i
diritti dei minori nell'ambiente digitale.
Ormai da decenni i minori sono immersi in contesti di fruizione digitale, in grado di fornire
molteplici opportunità: favoriscono la loro istruzione; migliorano la loro creatività; permettono
di sostenere e diffondere le loro libertà civili; garantiscono opportunità sociali e culturali e di
intrattenimento; contribuiscono persino alle esperienze offline e alla loro integrazione.
Al contempo, tale ambiente si presenta complesso, soggetto a rapida evoluzione e ha la
capacità di modellare e rimodellare la vita dei bambini in vari modi fino all'età adulta,
esponendoli a crescenti rischi (es. cyber bullismo, cyber grooming, auto-isolamento, abuso
di dati personali, violazioni della privacy ecc.).

Strategie di contrasto nazionali e globali alla povertà educativa e digitale


Il quadro teorico e di ricerca fin qui delineato evidenzia la complessità del dibattito sul
rapporto tra media e nuove generazioni, anche in considerazione dei mutamenti introdotti
dalla rivoluzione digitale amplificati dalla pandemia. Una riflessione che non può trascurare
l'apporto prodotto dalle politiche pubbliche, avviate sul piano nazionale e internazionale,
volte a garantire un ambiente mediale sicuro e vantaggioso per i minori, contenuti di alta
qualità e la promozione di consapevolezza e di contrasto alla povertà educativa.
Negli ultimi dieci anni l'attenzione alle politiche di contrasto a questo fenomeno ha
progressivamente caratterizzato le agende e gli impegni di molti Paesi dell'Unione Europea.
Prima della crisi pandemica, i Paesi Membri hanno sollecitato l’inclusione nell’Agenda 2030
delle Nazioni Unite inserendo, ai primi posti tra i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile, la fine
della povertà in tutte le sue forme la garanzia di un’educazione di qualità per tutti.
È soprattutto grazie all’avvio in via sperimentale del Fondo per il contrasto della povertà
educativa minorile, che anche il nostro Paese inizia a dedicare una significativa attenzione
alle necessarie azioni, costruttive e collaborative, da attuare per il bene delle generazioni
future.
Confrontarsi con le questioni legate alla povertà educativa significa interfacciarsi con un
problema sociale ampio che esiste da sempre e che solo negli ultimi tempi è diventato
oggetto di discussione, anche grazie alle stesse istituzioni che hanno avviato una diversa
strategia dell'attenzione investendo risorse nella ricerca pubblica.
Un problema sociale che implica affrontare gli aspetti primari della disuguaglianza, quindi un
ragionamento sugli esiti di un background svantaggiato sui risultati scolastici dei minori, ma
anche sugli effetti che questi producono nel lungo periodo, evidenziando le difficoltà che i
soggetti più giovani possono incontrare nel loro cammino esistenziale, se provengono da
contesti caratterizzati da deprivazione materiale e culturale.
In questa prospettiva, recenti rapporti di ricerca fanno emergere come questa deprivazione
risenta di una nuova transizione digitale che da un lato prevede un'accelerazione del
paradigma bio mediatico (quindi della progressiva compenetrazione tra vita dei soggetti e
dispositivi digitali), ma anche un'accentuazione delle disuguaglianze, soprattutto in relazione
alla categoria dei minori. L'aumento della povertà economica, dovuto a un generale
infragilimento dei contesti familiari di origine, si è infatti accompagnato a una preoccupante
crescita del learning loss, la perdita in termini educativi, favorita dal prolungato mancato
accesso alle attività scolastiche, extra-scolastiche, motorie e ricreative durante l'emergenza
sanitaria.
La povertà educativa, che in Italia già conosceva livelli molto alti nel pre-Covid (circa il
13,5% dei minori abbandonava prematuramente gli studi e 1 su 4 non raggiungeva le
competenze minime in matematica, lettura e scienze), è notevolmente cresciuta con la
pandemia e con l'aumento dell'inflazione, che ha portato a una ulteriore diminuzione delle
spese destinate all'istruzione.
L'aumento della dispersione scolastica, che nel nostro Paese ha di recente registrato il
maggior tasso di incremento a livello europeo, soprattutto tra i bambini e i ragazzi
provenienti dai contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli, in particolare nel
Mezzogiorno, così come il crollo degli apprendimenti, risultano esemplificativi di un trend che
va fortemente a intaccare anche il benessere emotivo e relazionale dei minori coinvolti.
Un'intera generazione che ha dovuto fare tragicamente i conti prima con la discontinuità e la
frammentazione di un'esperienza centrale per il proprio percorso educativo, dovuta alla
chiusura (e all'apertura a intermittenza) delle scuole, e poi con le conseguenze del conflitto
russo-ucraino e della crisi economica.
La perdita di relazioni con i pari, la riduzione delle attività extrascolastiche, la
sovraesposizione ai contenuti mediali e ai rischi annessi a questo tipo di esperienze, hanno
pesato gravemente sullo sviluppo fisico e su benessere psico-sociale dei bambini che hanno
vissuto, con le loro famiglie, un drammatico impoverimento sotto diversi aspetti.

In questo quadro, non può non essere menzionata la povertà educativa digitale, diretta a
colpire prevalentemente i minori che vivono in contesti svantaggiati dal punto di vista
socio-economico, in abitazioni sprovviste di connessione veloce o affollate, dove lo studio
risulta maggiormente problematico. Una povertà sopita che la didattica a distanza ha fatto
emergere in tutta la sua gravità.
Da mezzo importante ma facoltativo per l'apprendimento, la socializzazione e le attività di
svago, la Rete diventa così il modo primario per molti bambini e ragazzi di interagire con la
scuola, gli amici e la famiglia, mettendo in evidenza significativi ritardi nello sviluppo delle
loro competenze digitali (oltre che dei genitori e degli insegnanti).
L'esperienza della pandemia porta così l'intera società a prendere definitivamente atto delle
profonde lacune nella conoscenza e nell'utilizzo degli strumenti tecnologici di un target che
forse troppo frettolosamente era stato etichettato come «nativo digitale», attribuendo a esso
conoscenze, competenze e, soprattutto, consapevolezze non del tutto acquisite. Alle
carenze più evidenti - difficoltà a condividere lo schermo durante una videochiamata, a
inserire un link in un testo, a scaricare un file da una piattaforma della scuola o a utilizzare
un browser per l'attività didattica - si affiancano infatti quelle, più difficili da rilevare, relative
alla consapevolezza digitale (come la protezione dei device, dei dati e della privacy, della
salute e del benessere individuale, dell'ambiente) che fanno emergere un quadro tutt'altro
che rassicurante.

Si pone la necessità di accelerare la legittimazione dell'educazione digitale come percorso di


educazione alla cittadinanza, nonché l'acquisizione di una sua dignità istituzionale anche nel
dibattito pubblico e politico. La Digital Education è infatti un sistema complesso che va oltre il
tecnicismo mediale e sfrutta le potenzialità del digitale secondo una prospettiva ecologica
per migliorare lo svolgimento di attività formative, trasmettere conoscenza, stimolare
capacità individuali, orientare comportamenti sociali, ottimizzare pratiche educative e
organizzative. In questa logica, l'educazione ai media di vecchia e nuova generazione
diventa organica alla didattica e intrecciata con tutti i saperi necessari per la crescita dei
soggetti in età evolutiva, al fine di ridurre le disuguaglianze socio culturali, cognitive ed
emotive, divenendo fattore strategico per il contrasto della povertà educativa digitale.
Oltre a far emergere le criticità di un sistema scolastico che dovrebbe essere ripensato e
riprogettato, mettendo al centro i reali bisogni dei minori, e la necessità di un ampliamento
dell'offerta socio-culturale dei territori, si rileva anche come la responsabilità della crescita di
questo delicato target appartenga all'intera comunità: la convinzione che non spetti solo alla
famiglia e alla scuola presidiare la crescita dei ragazzi risulta condivisa e può essere
considerata come il frutto di un costante lavoro di sensibilizzazione e motivazione collettiva,
dettato dalla necessità di non voler lasciare indietro nessuno.

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