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Sociologie della Media Education giovani e media al tempo


dei nativi digitali
Sociologia dell'Educazione (Università degli Studi di Torino)

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Giovani e Media al tempo dei nativi digitali

La rilevanza sociale della Media Education nell’era dei media partecipativi

Ogni giorno ci confrontiamo con la presenza costante e pervasiva di numerosi dispositivi di comunicazione,
che usiamo in modo sistematico e apparentemente naturale. Il fatto che “al di là dello schermo” ci siano
persone con cui interagiamo e ci relazioniamo dovrebbe far riflettere sul peso e l’importanza della nostra
capacità di comunicare e di recepire i messaggi mediali.

I media hanno letteralmente “colonizzato” la nostra vita quotidiana e continuano a subire processi di
domesticazione, tanto che li percepiamo come parte integrante del nostro ambiente. L’habitat in cui siamo
cresciuti e viviamo è oggi dominato dalla presenza dei social media e delle piattaforme partecipative, in cui
aumentano le opportunità di espressione identitaria offerte agli utenti e in cui si moltiplicano le occasioni di
vetrinizzazione, anche involontaria, delle nostre vite. È più che mai opportuno interrogarsi da una parte sul
ruolo giocato dai media nei processi di socializzazione (quanto i media contribuiscono a costruire e formale
le nostre identità) e dall’altra sugli attuali stili di socializzazione ai media (quanto e, soprattutto, in che modo
usiamo i media). Si intende quindi riflettere sulla centralità dell’EDUCAZIONE ALLE TECNOLOGIE MEDIALI.

La Media Education, alla ricerca dei fondamenti sociologici

La riflessione sui fondamenti sociologici della Media Education si inquadra in quel segmento della ricerca
teorica che Pier Cesare Rivoltella, tra i primi in Italia a fornire un contributo scientifico in questo campo di
studi, ha definito metateorie: esse investono lo statuto epistemologico della disciplina, la ricostruzione dei
suoi paradigmi di riferimento e del suo apparato metodologico. Queste teorie producono un vero e proprio
effetto di agenda setting fissando ciò che deve e ciò che non deve entrare nel quadro di azione dei ricercatori
e degli educatori.

Un aspetto delle metateorie riguarda il posizionamento disciplinare della Media Education. La Media
Education è oggi insegnata in un numero rilevante di sedi universitarie italiane, dove è alternativamente
presente, nella maggior parte dei casi, sotto l’etichetta della sociologia dei processi culturali e comunicativi o
delle discipline pedagogiche. Il suo duplice inquadramento disciplinare ne connota la versatilità e la profonda
natura trasversale.

Secondo i partecipanti alla Conferenza di Toulouse (1990, incontro internazionale sul futuro della Media
Education in tutto il mondo), l’educazione ai media:

è insieme una pratica e un processo di tipo educativo destinato a permettere ai membri di una collettività di
partecipare in modo creativo e critico all’uso dei mezzi elettronici e tradizionali, allo scopo di sviluppare e liberare gli
individui e la collettività e di democratizzare la comunicazione

Questa definizione si focalizza sulla potenzialità democratizzante e sul significato profondamente politico
dell’educazione ai media, che permetterebbe di utilizzare criticamente i mezzi elettronici e quelli tradizionali,
ai fini della maturazione di una cittadinanza piena e consapevole. Essa si concentra, inoltre, anche sul
concetto di creatività, che consentirebbe ai membri di una società di offrire un contributo pienamente
partecipativo e critico.

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La prima definizione “ufficiale” (in ambito accademico) circoscrive questo campo di studi all’ambito delle
scienze dell’educazione, attribuendo alla disciplina una connotazione prevalentemente pedagogica,
specificando il fatto di concepire i media come un ambiente globale entro cui collocare le pratiche formative,
secondo Rivoltella:

quel particolare ambito delle scienze dell’educazione e del lavoro educativo che consiste nel produrre riflessione e
strategie operative in ordine ai media intesi come risorsa integrale per l’intervento formativo

Una seconda definizione maturata nell’ambito della sociologia della comunicazione evidenzia il forte
carattere di inter-personalità e condivisione:

è un movimento collettivo con evidenti segnali di inter-personalità e di interdisciplinarità fin dalla nascita. Si pone come
attività finalizzata alla conoscenza e all’addomesticamento dell’universo mediale e come esperienza metacognitiva sui
processi di costruzione del messaggio comunicativo. È ricerca e responsabilizzazione, formazione intesa come sviluppo
di “senso critico”, indispensabile per una valutazione consapevole della comunicazione

Quest’ultima prospettiva si concentra sulla componente movimentista della Media Education, che ha
originato due distinte realtà associative: il Med (Associazione italiana per l’Educazione ai media e alla
comunicazione) fondato da Roberto Giannatelli, sacerdote salesiano e la Sirem (Società Italiana di Ricerca
sull’Educazione Mediale). Entrambe contribuiscono ad attivare legami con il territorio, con gli insegnanti, con
le istituzioni e con il mondo dell’Università. Il radicamento territoriale della Media Education è ben
rappresentato da Zaffiria, centro pubblico che ogni due anni organizza un convegno, Medi@tando, che
accoglie interventi di carattere nazionale e internazionale ed esperienze provenienti dalla scuola, dai giovani
e dal territorio. Nel 2002 è stata firmata da Carta di Bellaria (sede del centro pubblico), contenente una
proposta di definizione di Media Education e l’individuazione di una serie di obiettivi da perseguire.

Le sociologie della Media Education

Le definizioni di Media Education sono rappresentative di due punti di vista, quello delle scienze
dell’educazione e quello delle scienze della comunicazione. Il confronto ha dato origine a contributi che hanno
evidenziato l’apporto determinate delle scienze della comunicazione nel definire numerosi concetti e
pratiche operative.

Le sociologie che possono contribuire in modo consistente alla definizione teoria ed empirica della Media
Education sono:

➢ La sociologia generale (passaggio società moderna a postmoderna)


➢ La sociologia dell’educazione (analisi educazione-società)
➢ La sociologia dei media e della comunicazione (individuazione dei paradigmi della Media Education)

Questi contributi non esauriscono l’apporto che potrebbe essere potenzialmente fornito dalla sociologia;
infatti, il contributo, ad esempio, della sociologia della cultura è indubbiamente rilevante, poiché i media
rientrano nei fenomeni culturali.

MODELLO DEL DIAMANTE CULTURALE – Wendy Griswold

Analizza i rapporti tra quattro elementi: oggetti culturali (simboli, credenze, valori e pratiche); creatori
culturali (organizzazioni e sistemi che distribuiscono oggetti culturali); ricevitori culturali (pubblici della
cultura); mondo sociale (luogo in cui la cultura viene creata ed esperita). Questo modello richiama alcuni
elementi di cui occorre tenere conto quando si analizza un prodotto mediale con logiche e strumenti della
Media Education.

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Socio-archeologie della Media Education

L’aspetto strettamente disciplinare della Media Education può essere localizzato quasi esclusivamente negli
insegnamenti universitari, mentre si possono più facilmente trovare indizi “non istituzionalizzati” di questa
sensibilità nei contesti formali (ad esempio della scuola) e soprattutto in quelli informali (realtà associative).

A partire dagli anni Ottanta, si individuano tre approcci che ben rappresentano una sorta di “sensibilità
anticipatoria” dei valori della Media Education, come la percepiamo oggi:

➢ Rapporto tra scuola parallela e mass media (Roberto Genovesi); il tema della scuola parallela,
collocata nell’ambito dell’educazione extrascolastica, contemplava la presenza dei mezzi di
comunicazione di massa intuendone e anticipandone il valore educativo. Questa si distingue per
l’intenzionalità di azioni, soprattutto di tipo ludico, che si svolgono nel tempo libero di bambini e
adolescenti, facendo leva su aspetti emotivo-affettivi. Inoltre, Genovesi affermava che: “ogni attività
educativa si sostanzia nella comunicazione; e oggi la comunicazione passa soprattutto attraverso i
mass media, quindi è inconcepibile pensare la scuola parallela al di là di un utilizzo organico e
multidimensionale dei mass media”. Affronta in modo ancora più incisivo il tema quando avverte che
la scuola si rifiuta di comprendere i mezzi di comunicazione di massa, disprezzandoli.
➢ Riflessioni su infanzia e mass media (Renato Porro); l’autore prende in esame alcune indagini
condotte dalla Rai intorno alla prima metà degli anni ’70, da cui emergeva che i piccoli fruitori di TV
erano in grado di percepire la conseguenzialità e le correlazioni tra le singole azioni di un programma.
Fino a 7-8 anni si isolavano singole immagini, mentre dal decimo anno di età si manifestava la
capacità di leggere un programma nella sua interezza, dando consequenzialità alle azioni (indagini
che si ispirano alla Media Literacy). “Non si può parlare del pubblico come di un unicum
indifferenziato, il ruolo dei singoli media deve essere analizzato alla luce dei modi e dei livelli di
fruizione che interessano l’intero sistema comunicazionale”.
➢ Concetto di dieta mediale (Enrico Menduni); Menduni registra una differenza tra didattica
multimediale ed educazione, chiarendo come l’introduzione delle nuove tecnologie educative, come
il PC in classe, avesse poco a che fare con la didattica sui media o ai media. La scuola potrebbe giocare
un ruolo rilevante su temi quali: il riconoscimento della gerarchia delle fonti, la capacità di maturare
senso critico nella scelta dei programmi televisivi. L’autore quindi suggeriva di attuare strategie di
ottimizzazione del consumo mediale. La proposta di ricerca-intervento era formulata in forma di
“dieta”: così come si limitano i cibi, si può ridurre, per un breve periodo, il consumo di TV (progetto
promosso dal corso di laurea in Scienze della Comunicazione, 1995-96). La dieta, della durata di otto
settimane, consisteva nell’impegno a non superare il punteggio quotidiano di cento punti. Ogni
settimana gli insegnanti distribuivano ai ragazzi i palinsesti delle maggiori emittenti nazionali, con la
relativa attribuzione di punteggi a ciascun programma trasmesso. In questo progetto, ruolo rilevante
era attribuito alla famiglia. Dai risultati raccolti (tramite questionari) è emerso che l’esperienza della
dieta ha favorito una responsabilizzazione e un’evidente riduzione della quantità di consumo
televisivo.

Dalla Media-Education alle Multiliteracies

David Buckingham definisce la Media Education, educazione ai media, come il processo di insegnamento e
apprendimento centrato sui media, distinguendola dalla Media Literacy, alfabetizzazione ai media, che ne
costituirebbe il risultato e coinciderebbe con la conoscenza e le competenze che gli studenti acquisiscono
in tema di mezzi di comunicazione.

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Secondo Sonia Livingstone la Media Literacy fa riferimento all’abilità di accedere, analizzare, valutare e
creare messaggi, azioni che costituiscono, insieme, un approccio sistematico basato sulle competenze.

Il discorso sulla Media Education si articola quindi in due parti:

➢ Educazione ai media;
➢ Competenze corrispondenti, che dovrebbero essere garantite da tale processo: accesso, analisi,
valutazione e creazione di contenuti.

ACCESSO: accedere ai media, non significa soltanto disporre di mezzi di comunicazione, ma possedere le
competenze necessarie per acquisire le informazioni di cui si ha bisogno, cercando di evitare i pericoli.

ANALISI: Buckingham propone uno schema a sei dimensioni che ha l’obiettivo di individuare le questioni e i
temi che dovranno essere oggetto di insegnamento per gli studenti: media agency, media categories, media
technologies, media languages, media audiences e media representations. Sonia Livingstone riprende il
modello individuando quattro dimensioni: rappresentazione (capacità di individuare e decodificare strategie
di selezione e costruzione della realtà messe in campo dal medium); linguaggio (conoscere i codi per
comprendere la grammatica dei siti web, struttura e organizzazione grafica); logica di produzione (internet
dovrebbe rendere chiara e riconoscibile agli utenti la natura dell’emittente che comunica); pubblico (il
destinatario dovrebbe essere consapevole della propria posizione di fruitore).

VALUTAZIONE CRITICA: i criteri e le pratiche di costruzione dei contenuti tipici dei media di massa vengono
messi in discussione dalle logiche molto più fluide e meno strutturate della rete, dove i tradizionali dispositivi
di mediazione ed intermediazione culturale vengono meno, a favore di sempre più frequenti processi di
disintermediazione. In conseguenza, l’alfabetizzazione critica ai media, attribuisce all’utente la
responsabilità di cercare informazioni, selezionare e ordinare dati e fonti, giudicandone l’attendibilità.

PRODUZIONE: inedita possibilità di diventare contemporaneamente emittenti e riceventi della


comunicazione.

Il termine LITERACY descrive il set di competenze richiesto dal nuovo ambiente comunicativo integrato.

Joshua Meyrowitz parlava di Multiple Media Literacies facendo riferimento a tre tipi di Media Literacy,
ciascuno connesso a una differente concezione dei media: la Media Content Literacy (i media come canali
per veicolare messaggi), la Media Grammar Literacy (i media come linguaggi con distinte grammatiche), la
Medium Literacy (i media come ambienti che influenzano la comunicazione in modo particolare). I termini
più adeguati per dare conto di questo processo evolutivo sono New Media Education o New Media Literacy,
che si riferiscono ad un processo di apprendimento collettivo, condiviso e partecipato, che coinvolge spazi
formali, ma soprattutto informali, che prevede la presenza di canali di comunicazione multipli, che veicolano
culture e punti di vista altrettanto differenziati.

Il concetto di Multiliteracy è stato invece elaborato da Cope e Kalantzis, facendo riferimento alla molteplicità
di codici, culture e realtà con le quali il soggetto si interfaccia quotidianamente e che richiedono la conoscenza
di grammatiche multiple, di codici e domini semantici differenti e specifici.

Infine, l’educazione con i media (teaching with), fa riferimento alla dimensione strumentale della Media
Education, cioè all’integrazione dei media nelle pratiche di insegnamento delle singole discipline;
l’educazione ai media (teaching about), interpreta invece i media come oggetto dell’intervento educativo:
in questo caso, i messaggi mediali nella loro specificità, interessano gli educatori, che applicano ad essi
metodologie e tecniche di analisi specifiche.

Un’alternativa al termine Media Education è Media Awareness, nel caso della Media Education l’enfasi è sui
linguaggi (alfabetizzazione), nel caso della Media Awareness si fa riferimento alla consapevolezza che il

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ragazzo dovrebbe maturare nei confronti delle pratiche di consumi e dei significati intriseci dei messaggi
mediali.

Il contributo della sociologia generale: quale società per la Media


Education?

Per affrontare quest’analisi, riteniamo sia indispensabile fare ricorso alla sociologia, che grazie ai suoi
strumenti critici e operativi, è in grado di descrivere il quadro di riferimento complessivo di questi
cambiamenti. La sociologia nasce per studiare la complessità del sociale applicando un metodo scientifico,
che tuttavia si differenzia da quello utilizzato per lo studio dei fenomeni naturali, poiché le leggi che regolano
la società sono profondamente diverse dalle leggi della natura.

L’analisi sociologica contemporanea si è concentrata sul passaggio da un modello di società tradizionale a


una società postmoderna, che ha contribuito a delineare un nuovo paradigma di lettura delle strutture e dei
rapporti collettivi.

Gianni Vattimo rilevava alla fine degli anni Ottanta il ruolo centrale, nella società, della comunicazione e, in
particolare, dei mass media: radio, televisione, giornali, erano diventati assi portanti di una generale
esplosione e moltiplicazione di visioni del mondo.

Volendo sintetizzare le caratteristiche del nuovo modello di società, che altrove è stato definito fragile (S.
Tirocchi), possiamo ricorrere ad alcune idee chiave, che accomunano le ricostruzioni di più studiosi:

1) La ridefinizione delle coordinate spazio-temporali; modifica delle dinamiche spazio-temporali entro


cui si situano le azioni sociali. Con la postmodernità assistiamo ad una ristrutturazione del tempo e
dello spazio. È recente la teoria della società in rete di Manuel Castells, in cui spazio e tempo trovano
una riformulazione, nei concetti di spazio dei flussi e tempo senza tempo. Con il primo concetto si
definisce uno spazio circoscritto dai flussi di informazione, fatto di nodi e reti, ovvero di luoghi
interconnessi da reti di comunicazione attraverso cui si ha la condizione temporale di pratiche
elaborate in uno spazio (es. mercati finanziari, network mediatici); il tempo senza tempo o tempo
acrono descrive un rapporto con il tempo intrinsecamente legato all’uso delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, che consentono di comprimerlo e valorizzarlo grazie alla
pratica del multitasking, mediante la quale è possibile svolgere più attività contemporaneamente
oppure mescolare passato, presente e futuro.
Baumann fa inoltre riferimento ad un tempo puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di
particelle separate.
John Thompson menziona la simultaneità despazializzata e la possibilità di condividere le medesime
esperienze pur vivendole in spazi diversi.
La messa in crisi delle certezze culturali tipiche della modernità si riflette nella moltiplicazione degli
stili di vita, nella nascita di contro-culture e nell’affermarsi di istanze individualistiche, fino a confluire
nella costituzione di uno spazio estetico autonomo che si differenzia dallo spazio sociale societario.
2) La corsa all’individualismo; l’identità umana si trasforma da un qualcosa di dato, fisso e statico, a un
compito, e nell’attribuzione agli attori della responsabilità rispetto alla realizzazione di questo
compito e delle conseguenze delle loro azioni. Con il termine individualizzazione si intende il
processo attraverso cui le distinzioni sociali tradizionali perdono progressivamente la loro
importanza nell’influenzare la vita delle persone. Tale processo pone l’attore sociale in una
condizione di inedita libertà, sotto il segno dello sperimentalismo esistenziale, dove è fondamentale
il concetto di rischio.

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3) La festa dei consumi; importanza del fenomeno del consumo per definire l’identità. La soggettività
stessa si trasforma in una merce tra le altre, pur di uscire dalla massa e dall’invisibilità, fenomeno che
viene definito come feticismo della soggettività: un soggetto totalmente in balia di una società di
consumi, che lo limita ad un insieme di scelte di acquisto.
4) La ri-personalizzazione dell’etica; progressiva distanza tra morale collettiva ed etica individuale. Negli
assetti moderni il senso dell’agire individuale si integrava nel senso collettivo della condotta di vita
ed era collegato ad un sistema di valori coerente, mentre nelle società moderne la forza delle
istituzioni e dei tradizionali sistemi sembra venire meno, a favore di un pluralismo etico e di un
conseguente relativismo normativo e valoriale.
5) L’esplosione della comunicazione; la comunicazione si connette in modo indissolubile ai processi di
democratizzazione ed è oggi considerata indispensabile per il funzionamento della società, in quanto
portatrice di conoscenza, apertura e di tutto ciò che è alla base della modernizzazione. Saper
comunicare significa anche possedere gli strumenti necessari per interpretare la realtà sociale e per
potervi agire in modo incisivo, in base agli obiettivi che ci si pone.
6) L’attività riflessiva; riguarda la riflessione del soggetto su se stesso, si ciò che gli accade, ai fini della
valutazione e della messa in atto di un agire razionale, volto ad affrontare il mondo circostante e a
costruire la propria identità.

Questi fattori sono pensati come indipendenti.

ANTHONY GIDDENS: La società riflessiva

Secondo Giddens non è utile fare ricorso ad un termine come postmodernità per descrivere il nuovo assetto
sociale, quanto, invece, guardare alla natura della modernità stessa, caratterizzata proprio da discontinuità.
Giddens fa derivare il dinamismo della modernità da tre fattori:

1) Separazione del tempo e dello spazio e la loro riconfigurazione; ha come effetto lo sviluppo
dell’organizzazione razionalizzata. I rapporti sociali si svincolano dai contesti locali di interazione e si
ristrutturano attraverso altri archi spazio-temporali. Ciò avviene attraverso la creazione di emblemi
simbolici (es. la moneta) e di sistemi esperti.
2) La disaggregazione dei sistemi sociali;
3) L’ordinamento e il riordinamento riflessivo dei rapporti sociali;

Il concetto di riflessività globale emerge nell’opera di Giddens come esame continuo delle pratiche sociali e
come loro trasformazione in conseguenza della presenza di nuovi dati. Se la modernità stessa è
profondamente e intrinsecamente sociologica, allora possiamo affermare che la sociologia è fondamentale
per un’analisi riflessiva della Media Education nella modernità.

ZYGMUNT BAUMAN: L’AFFASCINANTE METAFORA DELLA LIQUIDITA’

Il termine “liquido” utilizzato per connotare la condizione sociale contemporanea, è entrato nella letteratura
scientifica come nei dibattiti di attualità, al punto che quando si vuole definire una condizione di instabilità,
precarietà e flessibilità tipica del contemporaneo, oggi si utilizza proprio questa parola. Bauman descrive la
società liquido-moderna in contrapposizione a quella solido-moderna, laddove la prima si caratterizza per
una straordinaria mobilità, fluidità e leggerezza delle parti che la costituiscono (liquefazione dei legami che
trasformano le scelte individuali in progetti e azioni collettive). La vita liquida non consente agli individui la
possibilità di fermarsi a “stabilizzare” e concretizzare i propri obiettivi: ciò per cui l’individuo si era preparato
diventa in pochi attimi inutile, di fronte al repentino e continuo cambiamento delle circostanze sociali. Gli

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individui non possono vedere realizzati i propri risultati in beni duraturi. Le situazioni cambiano in fretta e in
modo imprevisto e imprevedibile. Per cui la vita liquida si presenta come una successione di nuovi inizi. Il
soggetto deve reinventarsi, rinnovare il proprio bagaglio di competenze per adeguarsi ai nuovi contesti e alle
opportunità che si presenteranno, attuando un riciclaggio continuo della propria identità. Così la sfera
affettiva è caratterizzata da una continua libertà e revocabilità di impegni, per cui anche i rapporti
sentimentali sono provvisori e soggetti a una “data di scadenza”. Questa società valuta i propri membri
soprattutto nel loro tratto identitario di consumatori.

Dagli scritti di Bauman emerge anche l’attività individualizzatrice della società moderna, dove l’identità
diventa un compito, qualcosa da scegliere, con piena autodeterminazione, tra un’infinità di proposte
disponibili. Il corpo è sempre più al centro di rilevanti trasformazioni e manipolazioni che lo rendono un fulcro
dei processi di costruzione dell’identità stessa.

Si diffonde così una sensazione di paura che riflette anche il timore del cambiamento. Questa percezione di
incertezza viene sfruttata anche come strategia di marketing delle aziende.

Da non trascurare, anche le riflessioni sull’educazione, dove l’autore evidenzia la necessità di adeguare i
modelli formativi ai cambiamenti della società e dei target di riferimento della formazione.

ULRICH BECK: RISCHIO DUNQUE SONO

Privilegia la chiave della riflessività, conosciuto come il teorico della società mondiale del rischio. Il rischio è
una delle caratteristiche che connota in modo più insistente la società contemporanea, descritta in tutta la
sua fragilità e insicurezza endemica (propria). Individua una differenza tra la prima e la seconda modernità:
l’irreversibilità della globalità, cioè il fatto di vivere in una società mondiale. Lo scenario sociale pieno di rischi
e pericoli che caratterizza questo modello di società, evolve nella coesistenza di tre logiche dei rischi globali:
crisi ecologiche, crisi finanziarie globali e pericoli terroristici e rischi biografici connessi all’individualizzazione.
Beck mostra come i processi di globalizzazione, individualizzazione e perdita progressiva della tradizione
confluiscano nella costruzione di una vita sperimentale, vissuta in assenza di modelli storici di riferimento,
all’insegna dell’autorealizzazione e dell’autodeterminazione e all’interno di processi di riflessività sociale.

I giovani, secondo l’autore, interpretano in modo particolarmente sentito i loro mondi vitali come habitus di
ricerca e sperimentalità estrema nella costruzione della propria vita, pur non rinunciando al perseguimento
di una standardizzazione e di una normalizzazione che li conduca il più lontano possibile dalla devianza,
attraverso la valorizzazione dei momenti rituali.

L’insicurezza e il rischio sono visti come elementi da elaborare e gestire individualmente, interpretandoli
come un’opportunità da cogliere: occorre imparare e insegnare tenendo presente lo strapotere delle
insicurezze sulla propria vita e su quella globale.

MANUEL CASTELLS: L’INDIVIDUO NELLA RETE

Castells descrive l’affermazione di un nuovo paradigma che avrebbe superato la fase della modernità e si
sarebbe definitivamente affermato, quello dell’età dell’informazione, informazionalismo. La fonte di
produttività principale risiede nella tecnologia della generazione del sapere, dell’elaborazione delle
informazioni e della comunicazione simbolica. La differenza rispetto al passato risiede nelle reti digitali e nella
loro natura globale, in grado di trascendere i confini territoriali e istituzionali grazie a reti di computer in
telecomunicazione. La rete è definita come un insieme di nodi interconnessi, la cui funzione e il cui significato
dipendono dai programmi della rete stessa e dall’interazione con altri nodi. Nella vita sociale le reti sono
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strutture comunicative ed elaborano flussi di informazione. Lo spazio della società in rete è costituito da tre
elementi:

➢ Luoghi dove le attività e gli individui sono situati;


➢ Reti materiali che legano queste attività;
➢ Contenuto e geometria dei flussi di informazione che operano le attività in termini di funzione e
significato;

EDUCARE/SOCIALIZZARE CON I MEDIA? LA SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

La sociologia dell’educazione costituisce insieme alla sociologia dei media e della comunicazione, il secondo
polo forte della relazione, in chiave sociologica, tra i due termini MEDIA ed EDUCAZIONE. L’educazione è
diventata oggetto di interesse per i sociologi nel periodo di affermazione dell’industrialismo, accompagnato
dall’esplosione scolastica. Secondo la definizione di Vincenzo Cesareo, la sociologia dell’educazione è:

lo studio delle istituzioni formative sia nei loro rapporti con la società globale sia in quelle che sono le loro
caratteristiche intrinseche

Per Elena Besozzi:

il rapporto educazione-società rappresenta l’oggetto fondamentale di studio della sociologia


dell’educazione, che si occupa di analizzare il legame tra i fatti e i processi educativi con la realtà sociale e
con i diversi aspetti e dimensioni della società

I temi di interesse individuati sono i seguenti:

➢ Studio della funzione sociale dell’istruzione e della scuola;


➢ Studio dei soggetti istituzionali del sistema educativo (insegnanti e studenti);
➢ Studio dei processi di socializzazione (contesto extrascolastico);
➢ Analisi delle macro-relazioni tra sistema formativo e sistema economico, politico, culturale;
➢ Analisi del rapporto tra scuola e stratificazione sociale (ricerche sulla selezione scolastica)

Inizialmente l’attenzione della sociologia dell’educazione era scuolacentrica, poco attenta alle dimensioni
extrascolastiche dei processi formativi, più recentemente si sono invece valorizzate anche le altre dimensioni
di esperienza del soggetto, in una dimensione globale e inclusiva dei processi educativi.

CONCETTO DI SOCIALIZZAZIONE POSTO A CONFRONTO CON CONCETTO DI EDUCAZIONE

Generalmente la socializzazione è concepita come un processo più ampio dell’educazione, fa riferimento


all’acquisizione, da parte degli individui, dei valori, delle norme e dei modelli di comportamento necessari per
prendere parte alla vita della società. Nell’educazione è invece rilevante ed esplicita l’intenzionalità
dell’azione volta a far acquisire modelli e valori. La socializzazione avrebbe come esito la costruzione di
comportamenti e stili di vita, mentre l’educazione farebbe emergere un progetto esplicito di formazione della
personalità nell’ambito del quale il soggetto acquisisce i valori morali e culturali del gruppo sociale cui
appartiene. La socializzazione, di particolare interesse per la Media Education, è oggi un processo multiforme,
affidato a una pluralità di agenzie che svolgono contemporaneamente numerose attività.

ISTRUZIONE, EDUCAZIONE E FORMAZIONE

Secondo Schizzerotto e Barone l’istruzione riguarda propriamente l’apprendimento di conoscenze generali


e astratte, di metodi conoscitivi e schemi di pensiero, investendo così una dimensione prevalentemente
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formale. L’educazione avrebbe a che fare con orientamenti di valore e principi normativi, mentre la
formazione sarebbe ricondotta all’acquisizione di abilità di carattere pratico e strumentale, orientate al
mondo del lavoro.

Nella letteratura scientifica si è registrato il passaggio da un modello integrazionista (classico) ad un modello


comunicativo (società postmoderna). Nel primo caso il riferimento teorico più vicino è quello dello struttural-
funzionalismo di Talcott Parsons: il soggetto verrebbe formato dall’alto con il preciso obiettivo di inserirlo in
un contesto sociale che si presume rigido e stabile, nell’ambito di un sistema di aspettative reciproche. Il
secondo modello rispecchia i presupposti dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead, poiché
interpreta il processo di socializzazione come un’interazione costante e dialettica tra il soggetto e il sociale,
finalizzata alla costruzione di un’identità originale e autonoma.

Le agenzie di socializzazione classiche sono la famiglia, la scuola e la religione. Con la trasformazione della
società, anche queste agenzie sono cambiate nella loro conformazione e nella percezione individuale e
collettiva del loro ruolo all’interno della società. La famiglia, agenzia di socializzazione primaria, ha subito un
processo di progressiva modernizzazione e privatizzazione, cioè un ripiegamento nella dimensione privata
che si è tradotto in una maggiore attenzione alla dimensione emotivo-affettiva dei suoi membri. La scuola è
l’agenzia esplicitamente formale cui sono affidate la funzione di socializzazione secondaria e quella di
selezione scolastica, ha attraversato anch’essa cambiamenti piuttosto importanti. Oggi scuola e società
vivono un rapporto di reciproca interdipendenza.

Con l’avvento dei media si afferma nell’ambito del paradigma comunicativo, una lettura dei processi di
socializzazione che tende sempre più a valorizzare le potenzialità dei mezzi di comunicazione e la loro
capacità di porsi come interessanti opportunità di costruzione dell’identità che si affiancano alle agenzie
tradizionali. Si formulano nuovi modelli teorici, uno dei più interessanti è il DOPPIO CANALE DELLA
SOCIALIZZAZIONE (Morcellini, 1997), con il quale si fa riferimento all’esistenza di due percorsi “paralleli” di
socializzazione, qualche volta apparentemente incompatibili, ma non per questo mutuamente esclusivi. Il
primo canale, quello della socializzazione mediata, evoca uno stile formativo prevalentemente tradizionale,
fondato sulla centralità delle istituzioni (scuola, famiglia, religione) e sulla forza della mediazione sociale;
mentre la socializzazione immediata esprime la centralità delle agenzie di socializzazione informali, con una
valorizzazione della dimensione del tempo libero, dei media e del gruppo dei pari e soprattutto del soggetto
stesso. Porre enfasi sui media e sulle loro potenzialità non vuol dire sottovalutare il ruolo fondamentale e
ineliminabile della scuola o della famiglia, il concetto vuole, piuttosto, cogliere la capacità dei mezzi di
comunicazione di porsi come interlocutori convincenti, capaci di rapportarsi con facilità al mondo giovanile,
veicolando abilmente valori, modelli, schemi cognitivi. I media sono parte integrante dei processi di
socializzazione, per cui è fondamentale che il loro uso sia consapevole per evitare una socializzazione
eterodiretta. L’alternanza dei due modelli di educazione/socializzazione riproduce la differenza tra le
istituzioni riconducibili al modello-scuola e quelle che fanno riferimento all’extrascuola.

➢ ISTITUZIONE SCUOLA: rigidità, conservazione, dominanza, rapporti asimmetrici, coercizione formale


e ripetitività;
➢ NON SCHOOLISH: flessibilità, innovazione, democrazia, rapporti paritetici, libertà, informale,
creatività;

La presenza dei social media non fa che rafforzare la tesi del doppio canale ponendoci di fronte ad un luogo
ancora diverso di socializzazione. La network sociability descrive le forme di socialità favorite dall’uso delle
tecnologie digitali e basate sui networks. Educare e socializzare con i media è possibile soltanto a patto che
si riescano ad attivare processi di appropriazione e negoziazione consapevole dei contenuti mediali, basati
sulla conoscenza profonda dei linguaggi e sulla capacità di rielaborazione critica e rimediazione dei contenuti.

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LA METODOLOGIA E TECNICA DELLA RICERCA SOCIALE – LA RICERCA EMPIRICA NELLA


MEDIA EDUCATION

La Media Education intrattiene un rapporto stretto con la ricerca prevedendo la coesistenza e l’integrazione
di teoria e prassi. L’ambito sociologico che viene chiamato in causa è la metodologia e tecnica della ricerca
sociale, indicando il discorso sul metodo e le specifiche procedure operative utilizzate per fare ricerca. È utile
fare riferimento al lavoro di Elena Besozzi e Maddalena Colombo, in merito alla ricerca sul campo nei contesti
socioeducativi: si intendono ambienti e spazi (scuola, famiglia, associazioni, etc.) in cui si svolgono attività di
tipo esplicitamente educativo, ma che mantengono un legame stretto anche con aspetti dell’educazione
informali, latenti e non intenzionali.

La ricerca nella Media Education implica il coinvolgimento, oltre che dei classici luoghi di formazione e
socializzazione, di altri spazi sociali (es. social network sites) e dei processi di costruzione e consumo culturale
in cui sono coinvolti i media tradizionali e quelli digitali.

È opportuno recuperare il dibattito che vede contrapporsi metodi quantitativi e qualitativi, tecniche di ricerca
standard e non standard. La letteratura scientifica ha dimostrato come questa antitesi sia spesso limitante e
pericolosa, poiché più produttivo sfruttare le diverse tecniche di ricerca in base alle situazioni considerate.
La ricerca quantitativa si caratterizza per una maggiore standardizzazione degli strumenti di ricerca (es.
questionario), delle procedure di analisi impiegate e dei risultati, presentati in forma di matrici, grafici e
tabelle numeriche. La ricerca qualitativa mostra un minor grado di standardizzazione delle tecniche di ricerca
(es. interviste in profondità, focus group, approccio etnografico), basate soprattutto sulla capacità
interpretativa del ricercatore.

Per l’analisi quantitativa, una tecnica di ricerca sociale ampiamente utilizzata in Media Education è
l’inchiesta, ricerca che si avvale di tecniche standardizzate per la raccolta delle informazioni, per registrare
gli stati con cui si presentano determinate proprietà in un insieme di casi che corrispondono alla popolazione
della ricerca o a un campione rappresentativo di essa. È un approccio finalizzato alla descrizione di fenomeni
di diversa natura, che fa ricorso al questionario e che produce un output di natura statistica.

Un altro esempio di impiego delle tecniche quantitative rivolto allo studio dei contenuti mediali è l’analisi del
contenuto, insieme di metodi orientati al controllo di determinate ipotesi su fatti di comunicazione che
utilizzano procedure di scomposizione analitica e di classificazione a destinazione statistica, di testi e di altri
insieme simbolici. Può essere utilizzata per far emergere i significati veicolati dai testi mediali, per rilevare la
ricorrenza di alcuni termini nell’ambito dei testi mediali considerati, per individuare le caratteristiche delle
rappresentazioni di differenti problemi o categorie sociali. Alcune tipologie di analisi del contenuto possono
prevedere l’intreccio con tecniche qualitative che consentono di esprimere giudizi di tipo valutativo.

Nell’ambito della ricerca qualitativa, una tecnica utilizzata nella ricerca in Media Education è il focus group,
basato sulla discussione di gruppo intorno a un argomento, al fine di far emergere opinioni, ma soprattutto
motivazioni e rappresentazioni sociali su un determinato tema. Prevedono la presenza di un
ricercatore/moderatore con un certo grado di esperienza, che deve guidare la discussione offrendo una serie
di stimoli e sollecitando l’interazione tra i partecipanti. Possono differenziarsi per composizione del gruppo
(estraneità soggetti o conoscenza pregressa, omogeneità o eterogeneità del gruppo, numero partecipanti
quindi mini o full group, tradizionali o a più stadi con sollecitazione ripetuta in momenti diversi), grado di
strutturazione del gruppo (gruppi autogestiti, con uso di traccia d’intervista, semi-strutturati, con tecniche
standardizzate), ruolo del moderatore (posizione molto marginale, ruolo che agevola la discussione, ruolo
ampio sulla discussione).

Per la Media Education possono essere sintetizzate diverse aree della ricerca sociale:

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1) Studi sulla condizione giovanile, filone di indagine condotto dall’istituto di ricerca Iard (Buzzi, Cavalli,
De Lillo) e indagini su cambiamenti della socializzazione e orizzonti valoriali dei giovani (Besozzi et
al.);
2) Studi sul rapporto tra giovani e consumi mediali, culturali e digitali, indagini sul panorama
comunicativo italiano condotte dal Censis, studi sulla dimensione del consumo giovanile, studi sulle
forme di socievolezza sviluppate nell’ambito dei social network sites;
3) Analisi della condizione sociale degli insegnanti, filone di ricerca sviluppato dall’istituto Iard;
4) Studi sulla professione insegnante in relazione all’uso delle tecnologie mediali;
5) Analisi dei dati Ocse-Pisa, Pisa come acronimo di Programme for International Student Assessment,
studio internazionale con l’obiettivo di valutare i sistemi educativi di tutto il mondo testando le
competenze e la conoscenza degli studenti quindicenni. A partire dal 2000, ogni tre anni, un gruppo
di studenti scelti con criteri casuali, fa il test nelle materie-chiave.

LA CENTRALITA’ DEL MEDIUM – IL CONTRIBUTO DELLA SOCIOLOGIA DEI MEDIA E DELLA


COMUNICAZIONE

Una questione molto complessa riguarda il potere dei media nella società, che giustifica in parte anche la
domanda di Silverstone, sul perché studiare i media. Il cuore della riflessione sociologica sulla Media
Education si concentra sull’analisi dell’universo mediale, sulla sua evoluzione e sull’impatto delle tecnologie
comunicative. Il contributo della sociologia dei media e della comunicazione è particolarmente rilevante. I
media non sono semplici supporti tecnici che garantiscono il passaggio e la diffusione dei messaggi, ma sono,
in primo luogo, linguaggi e dispositivi che veicolano valori, modelli e rappresentazioni culturali e che
connettono e rendono visibili i rapporti sociali. La centralità e l’importanza del medium è stata evidenziata
per la prima volta da Mashall McLuhan: “il mezzo è il messaggio”, che significa che la natura dei media e la
loro specifica consistenza, hanno il potere di influenzare la società e di determinare le forme e i contenuti del
cambiamento sociale più dei contenuti trasmessi. A McLuhan si deve la distinzione tra media caldi e media
freddi, differenziati in base al livello di partecipazione richiesto al fruitore. I media caldi (stampa, cinema)
estendono un unico senso fino a un’alta definizione, mentre i media freddi (televisione e telefono) chiedono
all’utente un grado di partecipazione più elevato.

I PARADIGMI DELLA MEDIA EDUCATION E GLI EFFETTI SOCIALI DEI MEDIA

Secondo la ricostruzione offerta da Noelle Neumann e successivamente ripresa in Italia la storia degli effetti
sociali dei media può essere convenzionalmente suddivisa in tre fasi:

➢ Periodo dei media potenti, 1920-1940;


➢ Fase degli effetti limitati dei media, 1940-1960;
➢ Ritorno ai media potenti, 1960-1980;

Denis McQuail alle prime tre fasi aggiunge l’Influenza negoziata dei media, caratterizzata dall’enfasi sulla
costruzione dei significati e sulla loro incorporazione da parte dei pubblici.

Wolf, illustrando il modello della ricostruzione degli effetti sociali, cosiddetto per compresenza e antitetico
a quello classico per cicli, segnala come in uno stesso periodo storico sia possibile identificare diverse idee del
potere dei media.

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Da un contributo di Halloron e Jones, ripreso da Masterman e rielaborato da Rivoltella, è possibile


individuare quattro grandi idee della Media Education che coinciderebbero con altrettanti periodi delle teorie
e degli effetti sociali dei media:

1) Approccio inoculatorio;
2) Approccio della lettura critica;
3) Approccio ideologico;
4) Approccio delle scienze sociali;

1. IL PARADIGMA INOCULATORIO E GLI EFFETTI FORTI

Definito da Masterman anche approccio morale, poggia sull’assunto che i media siano in grado di plasmare
e manipolare le coscienze. I media in generale sono visti come una malattia infettiva, come un’anti-cultura,
critiche già rivolte ai teatri a basso costo, alle fiere e alle forme di intrattenimento popolare.

La teoria ipodermica (Wolf) anche definita teoria del proiettile magico (De Fleur, Ball-Rokeach) o della
cinghia di trasmissione, si impone nel periodo tra le due guerre mondiali, dominato dagli studi sulla
propaganda e sulla sua efficacia per motivare le truppe. Secondo questa teoria, i media avrebbero la capacità
di esercitare un potere fortissimo sugli individui e quindi inoculare sotto pelle, come un ago ipodermico, i loro
messaggi. Si fa riferimento anche alla metafora del proiettile magico, che sarebbe in grado di colpire con
precisione chirurgica il proprio bersaglio, costituito da un soggetto sostanzialmente indifeso di fronte agli
stimoli mediali. Questa teoria si fonda sugli assunti della società di massa, sul concetto di pubblico come
massa intesa come aggregato indistinto di individui isolati privi di legami sociali, moltitudine indifferenziata
e priva di qualsiasi ordine e organizzazione.

Questa concezione dei media sottintende un’idea precisa del rapporto tra l’emittente (i media) e il
destinatario (gli individui), rimandando a: modello comunicativo di Lasswell e la teoria matematica
dell’informazione (Shannon, Weaver). Lasswell propone un’idea della comunicazione basata su una serie di
semplici domande: chi dice cosa a chi attraverso quale canale e con quali effetti?; questa proposta
rappresenta una relazione comunicativa in cui l’attenzione viene rivolta all’intenzionalità dell’emittente e agli
effetti sul destinatario, trascurando le caratteristiche del messaggio e le reazioni cognitive, emotive e
comportamentali del ricevente. Si tratta di un modello lineare che trova rispondenza nella teoria matematica
dell’informazione e in modello comunicativo broadcast (lanciare largo), mentre lo schema psicologico di
riferimento è il behaviorismo (meccanismo stimolo-risposta).

La costante è l’idea di un medium forte da una parte e di un soggetto sostanzialmente passivo dall’altra.

In Europa si sviluppa la teoria critica, espressione delle idee della Scuola di Francoforte (gruppo di studiosi
che fa capo a Theodor Adorno e Max Horkheimer). L’idea chiave è che i prodotti culturali sono considerati
alla stessa stregua di merci e di prodotti di consumo. Da questa idea deriva la distinzione tra cultura alta e
cultura bassa, in questo senso, prodotti come la narrativa di consumo, i romanzi rosa, il fumetto, la pubblicità,
sono considerati oggetti di “serie B”, intrisi di stereotipi e banalità, in contrapposizione alla creatività della
cultura “alta”.

Gli insegnanti in questo periodo negano la presenza dei mezzi di comunicazione oppure attivano un
atteggiamento di resistenza, si può parlare di educazione contro i media; lo studente è visto come un
individuo indifeso, considerando il soggetto come tabula rasa. Il ruolo della scuola è favorire lo sviluppo del
gusto per comprendere la differenza tra i valori della cultura alta e quelli dei mass media commerciali, per
questo si studiano pubblicità e forme letterarie popolari.

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Da questo paradigma trae origine il dibattito tra apocalittici e integrati. Indica due posizioni antitetiche,
corrispondenti al rapporto instaurato tra media, da una parte, e bambini e adolescenti, dall’altra. Importante
è il contributo della sociologia dell’infanzia. Il punto di vista degli apocalittici (approccio casual-
deterministico) ritiene che i media siano responsabili della corruzione delle coscienze; questo approccio si è
concentrato quasi esclusivamente sugli effetti negativi e dannosi della televisione sui bambini. Karl Popper
(“Cattiva maestra televisione”) è ricordato come uno dei rappresentanti più significativi di questa prospettiva.

Neil Postman firma un volume che tematizza la scomparsa culturale dell’infanzia, l’autore denuncia la
scomparsa dell’idea di infanzia, concettualmente costruita in età moderna dalla stampa e poi “eliminata”
dall’azione del telegrafo e della televisione, che avevano cancellato i vincoli spazio-temporali offrendo gli
stessi contenuti a tutti e cessando di preservare i bambini dai contenuti non idonei. L’autore elabora inoltre
una riflessione sul rapporto tra televisione e scuola, che concepisce come due distinti curricula. La televisione,
per peso e importanza, sembra essere diventata il primo curriculum, poiché il tempo che i ragazzi dedicano
alla fruizione dei suoi contenuti è sempre più elevato. La scuola è a base di punizioni, la TV no, inoltre il
curriculum scolastico richiede processi di attenzione ben più complessi. Pur senza condannare
completamente il mezzo, Postman avverte l’esigenza di stabilire in quale misura le influenze della
televisione possano essere bilanciate da quelle degli altri sistemi di informazione, in particolare della
scuola.

Nell’ambito delle posizioni apocalittiche, Giovanni Sartori utilizza la metafora “homo videns” per descrivere
un’infanzia completamente schiacciata sulla dimensione audiovisiva e assolutamente incapace di attivare un
pensiero razionale.

Oggi l’obiettivo delle lamentele si è spostato dall’eccessivo consumo di TV da parte dei ragazzi, ad Internet
ed ai videogiochi, opportunità tecnologiche “nuove”. Nicholas Carr (“Google is making us stupid?”) afferma
che Internet sta contribuendo a ri-mappare i neuroni del nostro cervello, riprogrammando la nostra
memoria e le nostre menti; nell’arco di pochi anni saremo tutti superficiali, incapaci di concentrarci per più
di qualche minuto nella lettura di un libro.

Mark Bauerlein parla de “la generazione più stupida”, la rivoluzione digitale instupidisce i giovani americani
mettendo a rischio il nostro futuro. La generazione digitale non legge, non visita i musei, non è coinvolta nella
vita della comunità e soprattutto non sa nulla, né di storia, né di attualità.

Su un opposto versante si collocano gli studiosi che riconoscono il potenziale positivo delle tecnologie
comunicative, considerandole come parte integrande dell’ambiente sociale. Joshua Meyrowitz definisce i
media in base ai loro usi sociali, attribuendo importanza al codice di accesso utilizzato per entrare in contatto
con i loro contenuti. Descrive la fusione tra sfere pubbliche e sociali un tempo ben distinte e l’indebolimento
dei luoghi di socializzazione. I cambiamenti della società determinano una sempre minore importanza
dell’età cronologica. I media elettronici, diversamente dai procedenti, rendono particolarmente flessibile il
codice di accesso e mettono a disposizione dei bambini contenuti che un tempo i libri riuscivano a mantenere
tali.

Roberto Farnè parla della “buona maestra TV”, attraverso un’analisi della programmazione televisiva del
nostro paese, descrivendo positivamente il ruolo performante della TV pedagogica degli esordi, esemplificata
dal contributo del maestro Alberto Manzi, definibile come media educator ante litteram, è ricordato
soprattutto per aver condotto, negli anni ’60, la trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”; il maestro
elementare, attraverso una semplice lavagna di ardesia, dei gessetti ed una buona dose di creatività, insegnò
a leggere e a scrivere a migliaia di italiani. È stato anche maestro in carcere e per quasi quarant’anni nella
scuola. Per ricordare e far conoscere il lavoro di Manzi, è stato aperto a Bologna il Centro Alberto Manzi,
rivolto a studenti, scrittori, insegnanti, formatori, mediatori culturali, operatori sociali ed educatori.

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2. L’APPROCCIO DELLA LETTURA CRITICA O MOVIMENTO DELLE ARTI POPOLARI: L’ATTENZIONE AL TESTO
COMUNICATIVO

Prende le mosse dall’ambiente culturale sviluppatosi intorno alle riviste “Cahiers du cinéma”, fondata nel
1951 e “Screen”, anni Settanta. I “Cahiers du cinéma” formularono le basi della critica cinematografica,
contribuendo all’elaborazione di teorie filmiche mediante la diffusione della politique des auteurs. Essa si
basava su una valutazione qualitativa del lavoro di alcuni registi. I collaboratori della rivista cinematografica
“Screen” elaborarono una teoria mirata a svelare i meccanismi simbolici del discorso filmico, che
illuderebbero lo spettatore di possedere una soggettività e di essere protagonista della visione. Lo spettatore
sarebbe invece imprigionato e guidato dalle strategie ideologiche del testo. La principale conseguenza in
Media Education fu quella di far assurgere il cinema e in particolare il film a oggetto privilegiato di studio
e di riflessione, mediante la metodologia della lettura critica. Il centro di interesse cominciò ad essere anche
il “cinema popolare”, ma l’approccio mantenne un carattere discriminatorio ed elitario (educazione tra i
media), dal momento che anche l’interesse per questo nuovo linguaggio e per i contenuti che esso veicolava,
tradiva quasi sempre un’intenzionalità valutativa.

Un secondo elemento teorico di rilievo è l’approccio usi e gratificazioni, il quale prevede l’abbandono della
prospettiva degli effetti a favore di una rivalutazione del soggetto consumatore. I media possono essere
utilizzati da soggetti (attivi) per soddisfare un’ampia varietà di bisogni, da quelli di informazione, a quelli di
integrazione individuale e sociale, sino al bisogno emotivo e a quello di svago e intrattenimento.

3. L’APPROCCIO IDEOLOGICO. IL POTERE DEI PUBBLICI

Il paradigma degli “effetti forti” entra definitivamente in crisi, in favore di un’attenzione sempre maggiore
per i luoghi di consumo e per i contesti di fruizione individuale e collettiva.

“Media di comunità” si basa sull’analisi classica dei media come strumenti attraverso i quali il capitale
riproduce se stesso. “Immagini e coscienza” si concentra sui media come sistemi di rappresentazione da
smontare e analizzare. In questa fase il contributo della sociologia dei media e della comunicazione è
particolarmente ricco, emerge il concetto di ricevente/fruitore attivo dei contenuti mediali, un soggetto
che acquisisce gradualmente competenze di natura semantica.

I modelli che segnano il passaggio da una concezione passiva del ricevente della comunicazione e il ruolo
attivo dell’emittente sono il modello semiotico-informazionale e il modello semiotico-testuale, elaborati da
Umberto Eco e Paolo Fabbri. Nel modello semiotico-informazionale, il messaggio è concepito come un
insieme di significante e significato, veicolati dall’emittente e variamente recepiti dal ricevente, sulla base di
codici e sottocodici in loro possesso. In conseguenza del mancato riconoscimento dei codici, si possono
verificare casi di decodifica aberrante, cioè interpretazioni del messaggio che si discostano dalle
intenzionalità comunicative dell’emittente. A partire dal modello semiotico-testuale si introduce il concetto
di testo mediale, che si differenzia dal messaggio per la sua maggiore complessità e articolazione e per la
presenza sinergica di molteplici sostanze espressive e codici diversi (audio, video, parola scritta).

L’approccio dei Cultural Studies, conosciuti anche come Scuola di Birmingham è caratterizzato da una forte
impronta ideologica. Questo filone si caratterizza per la rivalutazione, come oggetti di studio, di fenomeni
molto vicini alla cultura popolare (fumetti, letteratura rosa) e per l’enfasi posta sulla capacità del ricevente
di decodificare e interpretare i contenuti fornendone un’interpretazione soggettiva, in opposizione alla pura
centralità del testo. Può essere utile il modello Encoding/Decoding elaborato da Stuart Hall, che prevede tre
livelli di interpretazione da parte del ricevente: la Lettura Preferita, la Lettura Negoziata, la Lettura
Oppositiva, distinte sulla base dell’adesione del destinatario alle convinzioni ideologiche dell’emittente.
Possiamo essere o non essere d’accordo sul modo in cui le notizie vengono confezionate e proposte e, di
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conseguenza, interpretare sulla base delle nostre convinzioni e dei nostri orizzonti di attesa le letture degli
eventi che ci vengono offerte. I Cultural Studies inoltre, determinano la cosiddetta “Svolta Etnografica”, che
ha generato nuovi modi di analizzare e di interpretare i pubblici, ovvero tentativi di delineare il senso che i
consumatori dei media attribuiscono ai testi e alle tecnologie incontrati nel corso della loro vita quotidiana.

4. IL PARADIGMA DELLE SCIENZE SOCIALI: I MEDIA COME FORZE ISTITUZIONALI

Il paradigma delle scienze sociali prende in considerazione il ruolo dei mezzi di comunicazione nella
costruzione della realtà sociale e nei processi di socializzazione. I media agiscono nella società al pari di altre
forze istituzionali con cui intrattengono relazioni di tipo complesso (McQuail). Il ruolo centrale dei media nei
processi di socializzazione emerge dalla teoria della coltivazione di George Garbner. Secondo tale teoria, i
media e più in particolare la televisione, hanno la capacità di coltivare immagini di realtà, cioè determinare il
modo in cui i soggetti sociali percepiscono il mondo circostante. Secondo i risultati del programma di ricerca,
la categoria sociale più rappresentata in TV è quella degli uomini bianchi. Le rappresentazioni stereotipate
della realtà rafforzano pregiudizi già radicati nella società, la televisione quindi costruisce una sorta di
curriculum nascosto di immagini e messaggi allarmanti e funzionali a una società orientata al mantenimento
dello status quo. Garbner esprime l’esigenza di un’educazione liberale, che sia in grado di fornire gli strumenti
per evitare di essere succubi di questo ambiente pervasivo e avvolgente. Alla TV viene riconosciuta una
fortissima influenza, come organo di governo e di formazione culturale e, al contempo, essa non richiede
mobilità, alfabetizzazione o particolare concentrazione.

Dal punto di vista dell’interpretazione del rapporto tra medium e fruitore, ci troviamo nell’ambito di un
paradigma socio-costruzionista, che vede il soggetto come competente, in grado di interagire con i media
all’interno di contesti situati.

PARADIGMI DELLA MEDIA EDUCATION ED EFFETTI SOCIALI DEI MEDIA

Paradigma

Inoculatorio - Teorie Ipodermica Medium Forte Educazione Contro i


- Scuola di Media
Francoforte
- Modello di
Lassewell
Lettura Critica - Chaiers du Medium Educazione Tra i Media
cinema/Screen Forte/Medium come
- Approccio usi e autorialità
gratificazioni
Ideologico - Cultural Studies Medium Educazione Con i Media
- Approccio Debole/Rivalutazione
Semiotico del pubblico
- Ricerca qualitativa
sull’audience
Scienze Sociali - Modello del BFI Interazione tra media Educazione Ai Media
McQuail e istituzioni sociali
- Teoria della
Coldivazione
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LE TRASFORMAZIONI DELL’AMBIENTE MEDIALE: IL WEB 2.0 E LA CULTURA CONVERGENTE

L’ambiente di rete nel quale eravamo abituati a muoverci fio a qualche tempo fa era il cosiddetto Web 1.0,
diffuso fino agli anni ’90, comporto da siti web statici, senza alcuna possibilità di interazione con l’utente. Il
Web 2.0 presenta Internet come una piattaforma e si caratterizza per lo User Generated Content o User
Created Content, contesto che si distingue per la presenza di uno sforzo creativo. Le tipologie di contenuti
generate dagli utenti possono essere diverse e vanno da testi a foto, a inserti audio e video. Questi materiali
possono essere distribuiti e offerti attraverso differenti piattaforme come blog, wiki, siti di social networking
(natura crossmediale). La propensione degli utenti a produrre contenuti è favorita dalla grande disponibilità
di strumenti che consentono di compiere queste pratiche in modo semplice e a basso costo. Tessarolo
individua tre tipi di utenti:

➢ Chi pubblica e condivide video per interesse personale;


➢ Chi li produce e condivide all’interno di gruppi di interesse, per mostrare il proprio coinvolgimento;
➢ Chi lo fa a scopo di lucro per costruire un business;

Tecnologie e servizi che rientrano nel contenitore del Web 2.0:

➢ Blog;
➢ Wiki;
➢ Servizi di Social Networking e File Sharing;
➢ Podcasting (distribuzione di file multimediali digitali);
➢ Uso dei Feed (flussi o unità di informazioni codificate);
➢ Siti di Social Bookmarking (uso di tag, etichette);

Le profonde trasformazioni del web sono espressione della cultura convergente, concetto introdotto da
Henry Jenkins, per indicare un nuovo modo di intendere la cultura che implica un inedito protagonismo dei
consumatori, divenuti produttori attivi della loro realtà sociale. Oggi i blog, i social networks e altre
piattaforme 2.0 creano reali occasioni di condivisione e di convivenza comune. La cultura descritta da Jenkins
fa riferimento a uno scenario mediale in cui emittenti e riceventi della comunicazione sono entrambi posti
nelle condizioni di elaborare messaggi in modo autonomo. La prima dimensione individuata è l’appartenenza
mediale, con la quale ci si riferisce alla convergenza del singolo all’interno di aggregazioni sociali che si
configurano come comunità mediate. La seconda dimensione, l’espressività mediale, allude alla produttività
dei pubblici, che partecipano alla realizzazione di universi narrativi scritti e audiovisivi. Altre due
caratteristiche della cultura partecipativa sono il problem solving e la condivisione di flusso. La prima fa
riferimento alle pratiche collettive rivolte alla costruzione di conoscenza, mentre la seconda allude alla
tendenza a “mettere in comune” contenuti mediali creando molteplici occasioni di scambio anche con altri
individui. Con l’espressione “spreadable media”, si fa riferimento al fatto che i media cambiano forma, così
come il loro contenuto che si modella in funzione delle diverse piattaforme che devono ospitarlo. Un
esempio è il cosiddetto transmedia storytelling, che dimostra come il contenuto possa diventare un tema,
una storia che viene riprogettata in modo diversi per differenti piattaforme mediali (es. la Fiction può
trasformarsi in fumetto o video).

QUALI GIOVANI PER LA MEDIA EDUCATION? FENOMENOLOGIA DEI NATIVI DIGITALI

Una generazione vetrinizzata

Un primo modo di definire i giovani è pensarli come parte di una generazione che costituisce una forma non
rigida di appartenenza collettiva. Una prospettiva di ricerca definisce le generazioni come identità sociali e
culturali condivise, con alcuni tratti ascritti e altri acquisiti.

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Una generazione interessante per la Media Education, perché calata nella contemporaneità, è quella dei
Post-Televisivi, cresciuti in un tempo contrassegnato dal dopo: dopo la caduta del muro di Berlino, dopo la
fine dei regimi totalitari dell’Europa dell’Est, dopo l’affermazione politica di Berlusconi, dopo l’11 settembre.

L’assenza di fiducia nel futuro, di obiettivi a lungo termine e la sensazione di insicurezza diffusa, emergono
anche dalla stessa percezione dei giovani nei confronti delle modalità di rappresentazione sociale prevalenti,
oltre che dai loro modelli di autopercezione. I giovani avvertono, quale loro rappresentazione prevalente,
quella di una generazione che attribuisce grandissima importanza all’apparire e un soggetto che pone se
stesso sopra ogni cosa. Si delinea un quadro per cui amicizia, famiglia e amore restano ancora valori
importanti, anche se i media e la TV contribuiscono all’affermazione di nuovi modelli e modi di pensare.
Acquistano sempre più visibilità immagini sociali della gioventù che riconducono a un sostrato di devianza
che si esprime con forza sempre più dirompente. Nella società dell’apparire nascono e si diffondono in modo
virale mode e pratiche che mirano a far sentire i soggetti protagonisti del palcoscenico dei media, secondo la
tendenza della vetrinizzazione sociale o teatralizzazione. Un primo comportamento deviante è costituito
dalle corse clandestine, gare in macchina condotte sfidando tutti i limiti di sicurezza. Il collegamento
mediatico è al film della saga “Fast & Furious”, che contribuirebbe a seguire la moda del “drifting”, cioè della
guida con intenzionale perdita di controllo del veicolo, nelle curve in percorsi tortuosi.

Il balconing è una pratica nata in Spagna, consiste nel saltare da un balcone o da una finestra posti nei piani
più alti di un palazzo, direttamente all’interno di una piscina o di un altro balcone, attività svolta sotto l’effetto
di alcool o droghe. Il ghost-riding the whip consiste nel salire su un tettuccio di un’auto in movimento,
passando dal finestrino, il ghost-riding consiste nell’abbandonare lo sterzo della propria auto lanciata a forte
velocità, sprovvista del guidatore. L’idea nasce da una canzone rap del cantante E-40. L’eyeballing è una
pratica estrema legata al consumo di superalcolici, si fa aderire all’occhio il collo della bottiglia o il bordo del
bicchiere pieno di alcool e si versa, come se fosse un collirio. In questo modo l’alcol è immediatamente
assorbito dalla mucosa oculare ed entra in circolo nell’organismo, provocando uno sballo assoluto. L’ultima
pratica estrema riguarda un gioco con il nome di choking game, consiste nel bloccare per alcuni secondi
l’afflusso di ossigeno al cervello esercitando una pressione sulla carotide e quindi simulando uno
strangolamento. In questo modo si causa una sorta di svenimento o sincope, seguito da uno stato di euforia
e stordimento al momento del risveglio.

Ma l’aspetto caratterizzante dei “nativi digitali” è soprattutto il rapporto con le tecnologie comunicative,
che hanno sempre costituito un ambiente di costruzione ed espressione dell’identità. La propensione ad
appropriarsi con facilità dei nuovi strumenti comunicativi, è valsa alle “nuove” generazioni la definizione di
insegnanti di nuove tecnologie, proprio per la loro abilità a gestire i dispositivi di comunicazione legati alle
nuove culture dello schermo. Le definizioni dei giovani fornite negli ultimi anni sono centrate, in modo
eccessivamente deterministico, sulla capacità di relazionarsi alle tecnologie digitali: digital generation,
generazione X, blog generation, net generation, new millenium leaners.

Don Tapscott descrive l’ascesa e progressiva costituzione della Net Generation, contraddistinta dalla
condivisione di valori quali: libertà, personalizzazione, valutazione, integrità, collaborazione, intrattenimento,
velocità, innovazione. Quella di Tapscott è una prospettiva deterministica che attribuisce un grandissimo
potere alle tecnologie. Una delle più recenti espressioni utilizzate per descrivere i giovani è bricoleur high
tech, tratto da un’espressione di Pierre Levy per definire un processo di appropriazione delle tecnologie
della comunicazione e la capacità di combinare facilmente vecchi e nuovi media sfruttandone le
potenzialità e scegliendo il mezzo più adatto per comunicare in un determinato momento. Le nuove
generazioni sono interpreti della convergenza multimediale e delle crossmedialità (possibilità di fruizione
dello stesso contenuto su diversi supporti). L’addomesticamento è la caratteristica generale e distintiva dei
processi di appropriazione comunicativa dei ragazzi, poiché evidenzia la loro capacità di familiarizzare con i
media, sino a renderli parte integrante e “naturale” del proprio ambiente domestico.

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I GIOVANI E LA TV: PUBBLICI DINAMICI DAL GENERALISMO AI SOCIAL MEDIA

Oggi la TV fa ancora parte della vita quotidiana di bambini e ragazzi ma il suo ruolo si è radicalmente
trasformato, soprattutto in conseguenza dell’ingresso di nuovi, temibili, competitors. Il primo elemento da
segnalare riguarda una crescente disaffezione nei confronti del consumo televisivo tradizionalmente inteso
e la ricerca di una fruizione diffusa e dislocata sui nuovi supporti mediali. In questo periodo la televisione
generalista vive una fase di crisi che coincide con la diffusione della tecnologia satellitare e del digitale
terrestre, che guadagnano consensi. Il futuro della fruizione televisiva sarà dunque caratterizzato da
fenomeni di ibridazione tra televisione e web.

NON SOLO SMS: IL CELLULARE

Il telefonino è espressione del processo di individualizzazione sociale e mediatica che mette in discussione le
modalità tradizionali di costruzione dei legami sociali. L’uso del cellulare ha determinato cambiamenti in
numerose sfere della vita sociale: dal punto di vista dei luoghi, che sono sempre più associati alle identità
dei soggetti che li abitano; dal punto di vista del tempo si è giunti ad una parcellizzazione e generalizzazione
della strutturazione temporale e ad una pubblicizzazione del tempo privato. Il cellulare, inoltre, si fa
interprete di relazioni di natura emozionale, crea bolle comunicative che consentono di ritagliare spazi
individuali di comunicazione all’interno di ambienti ben più ampi.

Caronia e Caron sintetizzano le caratteristiche del telefono parlando di delocalizzazione e multilocalizzazione


del Sé, ibridazione del tempo e scomparsa del silenzio. Per quanto riguarda la delocalizzazione, le tecnologie
determinano una ridefinizione degli spazi pubblici e privati, creando il concetto di spazio intermedio, luogo
di incontro non più per forza spazio fisico. La multilocalizzazione fa riferimento alla possibilità di trovarsi in
più luoghi, svolgendo contemporaneamente più ruoli sociali. Il silenzio, in questa fase, è percepito come
qualcosa da superare, uno spazio da riempire.

LE RELAZIONI SOCIALI IN RETE: L’IRRESISTIBILE ASCESA DEI SOCIAL NETWORK SITES

La rete è, in questa fase storica, uno degli spazi sociali maggiormente frequentati dai giovani. Lo scenario
sociale contemporaneo è fortemente segnato dal problema delle disuguaglianze digitali. Si parla di divario
digitale relativo, facendo riferimento alle disuguaglianze che caratterizzano la società nel suo insieme, di un
divario digitale contestuale per descrivere le disuguaglianze determinate dalla mancata possibilità di
accedere a Internet nei contesti scolastici e/o lavorativi e infine di divario digitale assoluto per indicare quei
ragazzi che, pur avendo le risorse necessarie per accedere ad Internet, non le usano.

Oggi assume particolare importanza l’universo che si addensa intorno ai social media, più in particolare
intorno ai social network sites. Si tratta di spazi significativi di socializzazione e di produzione dell’identità
individuale e sociale, in costante interazione e continuità con le relazioni sociali offline. Forniscono anche uno
strumento per la manutenzione di una visibilità costante, legata alla ricerca dell’approvazione sociale e al
desiderio d’apparire.

Per quanto riguarda l’uso dei Social Network Sites su contesti a noi vicini, si fa riferimento ai risultati di un
progetto di ricerca di carattere sperimentale coordinato nel 2011 dall’Università di Torino. Il progetto ha
previsto la realizzazione di 10 interviste in profondità con studenti di età compresa tra 20 e 28 anni. Facebook
è il social network più usato. Il cellulare resta il mezzo privilegiato per mantenere un contatto. Il social
network viene valutato in modo ambiguo: da un lato è un mezzo che serve per rimanere in contatto in una
forma gratuita ma soprattutto simpatica; dall’altro trasforma la comunicazione in un esercizio ludico e questo

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spazio sociale viene visto come un’attività che sottrae tempo. Avere Facebook comporterebbe, secondo
alcuni studenti, la riduzione della vita sociale “all’aperto” di molti ragazzini. Facebook fa bruciare le tappe,
ma farebbe crescere nel modo sbagliato. Lo spazio del Web 2.0 costituisce, inoltre, un luogo di incontro tra
adulti e ragazzi, in cui i primi possono accedere al retroscena dei secondi, rovesciando i rapporti di forza
stabiliti e ratificati del mezzo televisivo. Non sono, inoltre, da trascurare, gli usi dei social network sites legati
al marketing e alle aziende, che utilizzano i social per monitorare costantemente il mercato dei potenziali
consumatori o per promuovere nuovi prodotti.

Critica dei nativi digitali

Nativi digitali è un termine utilizzato per indicare i soggetti appartenenti a una generazione nata e cresciuta
con e dentro gli ambienti delle tecnologie digitali, che pertanto parla da “nativa”, i linguaggi tipici di questi
mezzi. Marc Prensky afferma che i giovani studenti, nati tra il 1980 e il 1994 sono “native speakers” del
linguaggio digitale dei computer, dei videogiochi e di Internet, perché nati in un mondo segnato dalla
presenza dei linguaggi digitali. Gli adulti, i cosiddetti Digital Immigrants, imparano ad adattarsi al nuovo
ambiente mantenendo il loro specifico accento. L’”accento degli immigrati digitali” si riflette in alcuni
specifici atteggiamenti, quali, ad esempio, quello di rivolgersi soltanto in seconda battuta ad Internet per
ottenere informazioni, oppure leggere un manuale di istruzioni o stampare una e-mail o un documento
scritto al computer. Prensky attinge alla teoria della neuroplastica, che suggerisce che il nostro cervello è
plastico, flessibile e soggetto a modifiche nel corso della vita, in risposta ai cambiamenti dell’ambiente.
Secondo questa lettura, i cervelli dei giovani si sarebbero sviluppati in modo diverso rispetto a quelli degli
adulti.

Il divario digitale tra ragazzi ed insegnanti quindi si manifesta per gli stili comunicativi e i contenuti. I docenti
dovrebbero imparare a comunicare nel linguaggio, nei modi e nello stile dei loro studenti. L’autore individua
due tipologie di contenuto: Il “legacy”, ovvero leggere, scrivere, aritmetica, pensiero logico, tutto ciò che fa
parte del curricolo tradizionale e il “future content” digitale e tecnologico, include software, hardware,
robotica e nanotecnologie, ma considera anche etica, politica, sociologia ed è più vicino al mondo dei giovani.

In un intervento del 2007 nel suo blog “Confessions of an Aca Fan”, Henry Jenkins sottolinea la debolezza
della metafora, facendo notare come non tutti i giovani possono essere definiti nativi digitali. Questi
condividono una cultura globale che non è definita esclusivamente dall’età, ma da attributi ed esperienze
correlate al modo di interagire e rapportarsi con le tecnologie. Ci sono spazi e ambienti in cui adulti e giovani
interagiscono in modi totalmente differenti rispetto a quelli generalmente previsti nell’ambito delle
tradizionali gerarchie che regolano istituzioni come la scuola, la chiesa o la famiglia; in questi ambienti
giovani e adulti possono relazionarsi in modo paritario, attraverso un processo di apprendimento
reciproco. Inoltre, secondo Jenkins, parlare di “immigrati” digitali nei termini in cui ne parla Prensky,
potrebbe contribuire a rafforzare gli stereotipi tipici del dibattito sull’immigrazione. Lo stesso Prensky torna
a ridiscutere criticamente il suo modello concettuale, riconoscendo che nell’era della tecnologia digitale, la
distinzione tra nativi e immigrati sta diventano meno significativa. Questa suddivisione può essere
sintetizzata nel concetto di saggezza digitale (digital wisdom), che trascende il divario generazionale definito
dalla distinzione immigrato/nativo. Prensky descrive l’Homo sapiens digital o digital human il nuovo
soggetto digitalmente consapevole, in grado di sviluppare la saggezza, intesa come capacità di individuare
soluzioni pratiche, creative, appropriate ed emotivamente soddisfacenti a problemi umani complicati; esso
accetta il digitale come un fatto naturale, ne riconosce la capacità di accrescere le abilità innate e di facilitare
i processi decisionali. Il saggio digitale sa distinguere la saggezza dalla semplice intelligenza digitale (digital
cleverness) e combatte e sradica la stupidità digitale (digital stupidity) attribuita anche a chi pensa che chi
non usa le tecnologie sia superiore a chi le usa. La destrezza digitale prevede la padronanza della tecnologia
nella vita quotidiana e nel lavoro.
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La definizione originale di Prensky, considerava nativi digitali i soggetti nati dopo il 1980; l’aumento delle
applicazioni del Web 2.0 potrebbe aver creato una seconda generazione di nativi digitali. L’attuale
generazione di ragazzi nati dopo il 1990 viene identificata come seconda generazione di nativi digitali.

Rivoltella replica a chi sostiene l’ipotesi dei nativi digitali utilizzando tre tipi di argomentazioni: la ricerca
educativa, la sociologia della conoscenza, l’approccio neuroscientifico. Utilizzando il lavoro di Bennet, Maton
e Kervin, osserva come possano essere messi in discussione i due assunti che sostengono che una
generazione di nativi digitali esista e che l’educazione debba cambiare per venire incontro ai loro bisogni.
Non tutti i nativi si muovono agevolmente con le tecnologie, sul loro comportamento incidono fattori socio-
economici e geografici. Dal punto di vista della sociologia della conoscenza, il concetto utilizzato è quello di
moral panic, elaborato da Cohen, secondo quest’idea, i nativi digitali, in quanto gruppo ritenuto portatore di
particolari valori e comportamenti, diventa sistematicamente oggetto di attenzione da parte del sistema
mediale, che lo pone al centro dei suoi discorsi sociali, contribuendo a una riduzione e semplificazione della
complessità del reale. Infine, sul versante neuroscientifico si mette in dubbio che il gap generazionale possa
fondarsi su un piano biologico, non ci troviamo di fronte a una generazione geneticamente diversa dalle
precedenti; non stiamo assistendo ad una mutazione genetica su base evolutiva.

L’appartenenza ad una generazione non è una variabile sufficiente a definire la condizione di “nativo
digitale”, poiché ci sono una quantità di fattori coinvolti, che vanno al genere, all’istruzione, all’esperienza,
all’ampiezza d’uso.

Esercizi di media education: strumenti ed esempi di analisi dei testi mediali

Un esempio di applicazione della Media Education è offerto dall’analisi dei testi mediali (articoli di giornale,
trasmissioni televisive, spot pubblicitari, siti web). Un importante e utile esercizio può essere quello di
riflettere sul contenuto di questi testi e sui loro significati impliciti. È indispensabile servirsi di categorie
concettuali già decodificate e sperimentate, come quella proposta dal British Film Institute. Il modello
prevede l’identificazione di una serie di descrittori che mostrano le modalità con cui il messaggio è stato
confezionato:

➢ Media Agencies (chi comunica e perché);


➢ Media Categories (di che genere si tratta);
➢ Media Technologies (tecnologie e loro peculiarità);
➢ Media Languages (caratteristiche linguistiche del testo);
➢ Media Representations (idea, significato);
➢ Media Audiences (identificazione audiences)

Un altro strumento da affiancare è il modello semiotico-enunciazionale. L’emittente e il destinatario


assumono il nome di enunciatore ed enunciatario della comunicazione. Essi si sdoppiano in due figure:
l’enunciatore empirico, che è esterno al testo e che lo produce e l’enunciatario empirico, anch’esso esterno
al messaggio. Sia l’emittente, sia il destinatario, proiettano all’interno del testo dei sistemi di aspettative che
rappresentano se stessi e quelli del loro interlocutore. Si può considerare enunciatore empirico l’emittente
che manda in onda il programma e enunciatario empirico il pubblico che lo segue da casa. L’emittente
determina la forma dei propri messaggi.

Un altro esempio di analisi empirica socio-mediaeducativa sperimentata nell’ambito dei corsi di Media
Education all’Università di Torino, riguarda la costruzione di griglie di analisi del contenuto, applicate a diverse
trasmissioni televisive (es. titolo programma, emittente, genere, fascia oraria, durata, interruzioni
pubblicitarie, telepromozioni, tema prevalente, valori di cui si parla, valori svalutati, conduttore, valletta,
ospiti, sigla iniziale e finale, spazio scenico, presenza di inserti visivi, inquadrature, pubblico in studio e a casa).
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In questo ambito è stato realizzato un progetto riguardante la trasmissione Uomini & Donne, confrontato con
il programma spagnolo Mujeres y hombres y viceversa. Sono stati somministrati 20 questionari a giovani
spagnoli e 30 a giovani italiani. Il questionario prevedeva una prima parte riguardante il profilo del fruitore
ed una seconda parte riguardante le caratteristiche percepite della trasmissione. Dai risultati emerge che, il
pubblico che segue il programma ha come obiettivo prioritario lo svago; spesso gli interpellati forniscono
giudizi negativi e non si mostrano propensi a partecipare in prima persona al programma.

Una riflessione sulle rappresentazioni sociali: l’immagine della donna nei


media contemporanei

Uno dei temi centrali della Media Education è il concetto di rappresentazione sociale. Per quanto le immagini
fornite dai mezzi di comunicazione possano sembrare realistiche o comunque credibili, esse non sono mai
una semplice presentazione diretta e fedele del mondo. Sono sempre qualcosa di costruito.

Uno dei temi classici delle rappresentazioni mediali è il ritratto che viene offerto delle donne, spesso
presentato in modo non realistico e stereotipato, centrandosi sull’importanza del corpo e dell’aspetto
esteriore. Il percorso di cambiamento dei nuovi modelli femminili di corporeità transita anche attraverso i
modelli incarnati dalle bambole destinate alle bambine, che contribuiscono all’elaborazione e diffusione
sociale di nuovi modelli corporei di femminilità, primo tra tutti quello della velina. I valori veicolati sono
l’apparire belle, intriganti, seduttive e competitive, fare di tutto per mettersi in mostra. Un saggio che riporta
alla luce in maniera accattivante il dibattito sui modelli di bellezza femminile è il volume Sporche Femmine
Scioviniste di Ariel Levy, nel quale si elabora una riflessione sull’affermarsi di una nuova forma di
femminismo, tutta fondata su una sessualità aggressiva che è propria della cultura raunch, termine che
rimanda a “oscenità” e “volgarità”. Le donne di cui parla Levy fanno di se stesse e delle altre donne, un
oggetto di desiderio sessuale. La Raunch Culture si fonda sull’industrializzazione della pornografia e delle sue
star, sull’estensione del porno al settore dello sport, alla progressiva espansione della chirurgia estetica a
donne di tutte le età. I modelli e le rappresentazioni sociali del corpo femminile diffuse nella
contemporaneità sono create ed elaborate a uso e consumo dell’immaginario maschile e rischiano di
tradursi pericolosamente in una alterata distribuzione dei rapporti di forza tra i sessi.

In questo scenario, la chirurgia estetica viene ad assumere un ruolo di primo piano, ponendosi quale
strumento di realizzazione del desiderio di ricostruire un corpo nuovo, che sappia far fronte all’esigenza delle
donne di oggi di essere sempre esteticamente piacevoli. Questa sta diventando anche la nuova ossessione
degli adolescenti.

Un esempio di attività riflessiva sulla Media Education che riguarda questo tema, potrebbe essere
organizzato e realizzato a partire dalla visione del video “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, partendo
dalle domande elaborate da Lasswell.

1) Analisi dell’emittente: identificato come appartenente a un gruppo femminista;


2) Analisi del messaggio: critica della donna come merce; messaggio percepito da molti come
eccessivamente moralista. L’immagine della donna in TV rispecchierebbe quella prevalente nella
società. TV come responsabile della costruzione dell’immagine della donna. La modifica del corpo è
stata interpretata come un modo di reagire della donna sulla scia del “nuovo femminismo” che vede
l’uso del corpo femminile come strumento di emancipazione sociale.
3) Analisi del destinatario: target generico, pubblico sostanzialmente passivo. La visione del video
riporta all’idea dei media di massa, gli utenti sono visti come soggetti acritici e plasmabili.

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ALCUNI TEMI IN AGENDA: LA TUTELA DEI MINORI NEI MEDIA, IL PROBLEMA DELLE COMPETENZE
DIGITALI, LA SCUOLA DIGITALE

LA TUTELA DEI MINORI AL TEMPO DELLA CULTURA CONVERGENTE

La tutela dei bambini e degli adolescenti in rapporto all’impatto dei mezzi di comunicazione ha sempre
costituito un tema particolarmente sensibile. Fino a qualche tempo fa, la ricerca si interrogava sulle forme di
protezione da attuare riguardo alle immagini veicolate dalla carta stampata o, al massimo, sugli effetti della
televisione sui bambini e sugli adolescenti. Oggi l’irrompere delle nuove tecnologie digitali e la progressiva
affermazione della cultura convergente impedisce di ragionare in termini di singoli mezzi di comunicazione,
mostrando l’assoluta inefficacia di modelli centrati esclusivamente sull’inibizione all’accesso o sul controllo.
Il panorama normativo del nostro paese si caratterizza per una insufficienza strutturale. Per questi motivi,
occorre acquisire consapevolezza che il problema della tutela dei minori nei media non può risolversi nella
semplice emancipazione e applicazione di norme, ma deve accompagnarsi ad un lungo e paziente processo
di costruzione di una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza.

TUTELA DEI MINORI E CONFINI DEL DIRITTO DI CRONACA: LA CARTA DI TREVISO

In Italia la tutela dei minori nei media si articola in modo diversificato a seconda dei diversi mezzi considerati.

La tutela nei mezzi di informazione è regolata da uno specifico codice, si tratta della Carta di Treviso, varata
il 10 ottobre 1990, dall’Ordine dei giornalisti e dalla Fnsi (Federazione Nazionale della Stampa Italiana)
d’intesa con Telefono Azzurro e con Enti e Istituzioni della Città di Treviso. In base ai contenuti, i giornalisti
sono tenuti a porre particolare attenzione nella trattazione di fatti di cronaca in materia di minori, in
particolare quelli coinvolti in procedimenti giudiziari. Nell’esporre i fatti, dovrebbero garantire l’anonimato
dei soggetti. Dovrebbero evitare la pubblicazione di tutti gli elementi che possano facilitare l’identificazione
e qualsiasi altra indicazione, foto e filmati televisivi non schermati, messaggi e immagini online. La Carta vieta
qualsiasi orma di spettacolarizzazione e strumentalizzazione da parte degli adulti, con riferimento allo
sfruttamento dell’immagine dei minori. Le norme della Carta sono estese anche al giornalismo on-line
multimediale.

TV E TUTELA: OLTRE IL CONCETTO DI FASCIA PROTETTA

Per quanto riguarda la tutela in relazione ai contenuti televisivi, negli anni Novanta si assiste ad una ripresa
dell’iniziativa legislativa, volta a ridefinire le regole del sistema. Si ha l’approvazione della legge 223/90, la
cosiddetta Legge Mammì, dove l’articolo 15 dispone il divieto di trasmettere “programmi che possano
nuocere allo sviluppo psichico o morale dei minori, che contengano scene di violenza gratuite o pornografiche,
che inducano atteggiamenti di intolleranza basata su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità”. I
meccanismi di controllo erano affidati al Garante per la radiodiffusione e l’editoria che poteva infliggere
sanzioni pecuniarie o sospensioni temporanee. Con la legge 249/90 viene istituita l’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni, che prevede la costituzione del Consiglio Nazionale degli Utenti e della Commissione
per i servizi prodotti, che ha il compito di verificare il rispetto delle norme in materia di tutela dei minori.

La legge 112/04, Legge Gasparri, dedica l’articolo 10 al tema della tutela dei minori, introducendo il Codice
di Autoregolamentazione tv e minori; questo si basa sul concetto di fascia protetta che prevede tre livelli di
protezione: generale (estesa a tutte le fasce orarie); rafforzata (7-16, 19-22.30); specifica (16-19). Per vigilare
sull’applicazione del codice è stato istituito un Comitato di Controllo costituito da 15 membri effettivi tra
rappresentanti delle emittenti televisive firmatarie e delle istituzioni degli utenti.

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Il progetto speciale ricerca per la tutela dei minori

Nell’ottobre 2001 l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha avviato il Progetto Speciale Ricerca per
la tutela dei minori, finalizzato ad incoraggiare il dibattito e l’approfondimento sui temi più rilevanti relativi
all’arricchimento della “cultura della tutela”, con l’obiettivo di promuovere un processo di miglioramento
del rapporto tra minori e media. Sono state indette due consultazioni pubbliche riguardanti la fascia protetta
e la tutela dei minori nelle reti telematiche. Dall’analisi delle risposte fornite emerge l’elevato numero di
risposte provenienti dalle famiglie, in coda troviamo operatori dei media e minori.

La fascia protetta è considerata come qualcosa di necessario e non eliminabile. È percepita come uno
strumento di tutela, ma anche di prevenzione e vigilanza. Dalle risposte emerge la richiesta di procedere ad
un ampliamento della fascia oraria protetta. Una seconda indicazione riguarda l’esigenza di andare oltre la
limitazione oraria, estendendo l’attenzione alla qualità dei contenuti, compresi quelli pubblicitari. Gli
intervistati hanno suggerito alcuni strumenti per la tutela dei minori alternativi alla fascia protetta, che
spaziano dal generico buon senso, sino a dispositivi di inibizione e controllo dell’accesso ai contenuti
televisivi, si trovano anche dispositivi più invasivi come filtri, password, televisori e telecomandi intelligenti
che impediscono ai minori l’accesso ai programmi o canali inadatti. Uno di questi dispositivi è il tasto blind,
utilizzato per oscurare e rendere addirittura inaccessibili ai bambini alcuni canali televisivi. Gli intervistati si
esprimono anche a favore della presenza di un responsabile della programmazione dedicata ai minori, con il
compito di supervisionare e selezionare il materiale da mandare in onda. Le icone di segnalazione sono
ritenute utili poiché garantiscono una valutazione immediata dei contenuti del programma da parte dei
genitori, ma potrebbero anche suscitare eccessiva curiosità nei minori. Le guide ai programmi potrebbero
essere utili come strumento di conoscenza, di approfondimento e consentire una pianificazione dei
programmi da guardare, a condizione che siano redatte da persone competenti.

La tutela nei media digitali

La necessità di vigilare sulla navigazione dei più giovani si scontra, da sempre, con l’esigenza di mantenere la
natura libera e paritaria che caratterizza internet e di salvaguardare la sua particolare fisionomia. La difficile
regolamentazione della rete è disciplinata dal Codice di autoregolamentazione Internet e Minori,
sottoscritto nel 2003 dai maggiori soggetti imprenditoriali nell’area dell’ICT e di Internet. I sottoscrittori del
codice, predisponendo apposite indicazioni sulle proprie pagine web, si impegnano a rendere disponibili
forme di tutela per aiutare le famiglie e prevenire i pericoli per i minori, specialmente on riguardo alla
diffusione della pedofilia e dei contenuti pornografici on-line. La vigilanza sulla corretta applicazione del
Codice di autoregolamentazione è affidata a un Comitato di Garanzia Internet@minori, costituito da 11
membri effettivi, esperti in materia.

In merito ai rischi e alle opportunità della rete, uno dei contributi più recenti e interessanti su questo tema è
offerto dai risultati del Safer Internet Program che ha finanziato il progetto di ricerca EU Kids Online,
coordinato da Sonia Livingstone. Il rischio è stato concepito come parte integrante del processo di
socializzazione e distinto in modo chiaro dal danno, visto come possibile esito negativo dell’uso della
tecnologia. L’Italia si colloca tra i paesi meno a rischio per quanto riguarda l’uso delle tecnologie
comunicative, anche perché più bassa è la frequentazione della rete da parte dei ragazzi e il suo radicamento
nelle abitudini quotidiane. I rischi più diffusi in Italia e in Europa derivano dal contatto con Ugc pericolosi (es.
siti che incitano all’odio su determinate categorie, alla violenza e comportamenti autolesionistici, anoressia,
bulimia, consumo di sostanze stupefacenti).

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Il cyberbullismo: il bullismo ai tempi di Internet

Una ragazza canadese, Amanda T., si sarebbe uccisa in seguito a ripetuti episodi di violenza online, tra cui la
diffusione di immagini private in rete, insulti sui social network, inviti a farla finita. Circa un mese prima di
togliersi la vita, Amanda aveva deciso di raccontare la sua storia con un video, pubblicato su YouTube, in cui
faceva scorrere una serie di cartelli che spiegavano l’intera vicenda. Il cyberbullismo, anche quando non
mostra esiti così drammatici, è comunque uno dei rischi maggiormente diffusi tra gli adolescenti. Definire i
giovani cyberbulli significa etichettarli come soggetti fragili e devianti, contribuendo a diffondere
un’immagine negativa dell’essere giovane. Shariff definisce il cyberbullismo peer to peer come un bullismo
latente, psicologico, che viene attuato attraverso i media elettronici come cellulari, blog, siti web, chat-
room e social network. Esso può essere definito come un’offesa volontaria e ripetuta inflitta attraverso la
mediazione del testo elettronico o messaggio diffamatorio, che contiene bullismo, molestia o
discriminazioni, rivela informazioni personali o include commenti offensivi, volgari o critici. Una delle ultime
tipologie di cyberbullismo riguarda la bash board, una sorta di “centro messaggi” dove vengono postati
messaggi generalmente maliziosi e odiosi.

Il cyberbullismo si differenzia dal bullismo tradizionale perché ha a che fare con comportamenti comunicativi
che sfuggono dagli adulti e perché si avvantaggia dell’anonimato consentito dall’uso delle tecnologie. I ragazzi
possono fare o dire cose che normalmente non farebbero, o esiterebbero a fare di persone, poiché il
feedback della vittima non è immediato e tangibile. Generalmente si tratta di preadolescenti e adolescenti
svegli e tecnologicamente equipaggiati. Le ragazze mettono in atto un bullismo prevalentemente relazionale,
che ha l’obiettivo di distruggere la vita sociale delle vittime, utilizzano maggiormente i telefoni cellulari per
l’invio di minacce.

Prospettive per le policies future

Una delle soluzioni prospettate potrebbe consistere nel conciliare co-regolamentazione ed


autoregolamentazione come strumenti complementari alla legislazione italiana. Un altro aspetto da non
trascurare riguarda la combinazione di politiche di protezione e responsabilizzazione dei minori, mirate
all’accrescimento della consapevolezza dei rischi e delle opportunità, al fine di promuovere la rete come
spazio sociale di educazione e di sperimentazione. L’insufficienza delle attuali strategie di regolamentazione
della tv della rete e degli altri strumenti digitali, chiama in causa anche la quasi totale assenza istituzionale di
progetti di educazione mediale, con la conseguenza di uno scarso coinvolgimento di scuola e famiglia su tali
temi.

Il problema della tutela a fronte dello sviluppo dell’ambiente web e ancor più dei nuovi ambienti social, è
particolarmente complesso da affrontare, poiché la presenza di uno spazio aperto in cui possono essere
facilmente diffuse informazioni false, impedisce ai ragazzi di usare i media in modo critico e creativo. La
promozione di un rapporto corretto con le nuove tecnologie digitali, e in particolare con la rete, dovrebbe
prevedere una stretta collaborazione tra la sfera formale e informale, tra la scuola, la famiglia e gli altri
ambienti significativi.

Il problema delle competenze digitali. Verso le competenze 2.0?

Il tema della tutela è conseguente alla Media Literacy e chiama in causa la questione dell’acquisizione delle
competenze digitali. I processi di alfabetizzazione alle nuove tecnologie digitali, potrebbero costituire una
chiave di accesso alla cultura della tutela. La competenza si distingue dall’abilità, intesa come la capacità di
applicare le conoscenze e di utilizzare know how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nella
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Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2016, si delinea il concetto di
competenza digitale che consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della
società dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Nell’ambito delle competenze
necessarie ad approcciarsi e socializzare con i media digitali, Sara Bentivenga distingue a un primo livello la
computer literacy che consente di operare con un personal computer e la digital literacy, capacità di
comprendere e utilizzare informazioni che assumono formati diversi che provengono da un vasto raggio di
fonti e che vengono presentate tramite il computer. L’autrice cita inoltre l’information literacy, capacità di
padroneggiare grandi quantità di informazioni, la multimedia literacy, abilità di comprendere e produrre
contenuti in formato multimediale, la computer mediated communication literacy, capacità di gestire forme
di comunicazione online.

Applicato al contesto scolastico, il tema delle competenze digitali si declina, secondo Antonio Calvani, come
competenza digitale consistente nel saper esplorare ed affrontare in modo flessibile situazioni tecnologiche
nuove, analizzare, selezionare e valutare dati e informazioni.

Henry Jenkins fornisce un elenco delle nuove abilità derivanti dalla diffusione della cultura partecipativa:
gioco, simulazione, performance, appropriazione, multitasking, conoscenza distribuita, intelligenza collettiva,
giudizio, navigazione transmedia, networking, negoziazione.

Il problema delle competenze digitali e delle competenze 2.0 è strettamente collegato al raggiungimento
della cittadinanza digitale e all’ampio tema della formazione e, in particolare, del lifelong learning, per riferirsi
a quell’insieme di processi formativi che spaziano dall’educazione formale a quella non formale e infine quella
informale. È considerato un concetto vicino a quello di educazione permanente o di educazione che dura
tutta la vita, di educazione degli adulti o di formazione continua.

La scuola verso il cambiamento: la “scuola digitale” e il progetto cl@ssi 2.0

La scuola italiana è stata spesso accusata di non essere riuscita ad integrare in modo stabile il
cambiamento, compreso quello tecnologico, nella pratica quotidiana. La didattica tradizionale, infatti, si è
sempre orientata su un modello di trasmissione della conoscenza fondato su un’unità di tempo, di luogo e di
studio come la classe, sulla sequenzialità, sulla linearità dell’apprendimento e sulla mono-medialità dei
linguaggi. Per questa ragione, anche gli insegnanti sono stati oggetto di critica da parte della società, perché
troppo spesso è stata messa in dubbio la loro capacità di interpretare i mutamenti sociali.

Il Piano di sviluppo delle tecnologie didattiche (Pstd), promosso tra il 1996 e il 2000 si fondava su tre
obiettivi. Il primo era l’educazione alla comunicazione e alla multimedialità, il secondo riguardava il supporto
che le nuove tecnologie avrebbero potuto fornire all’efficacia didattica, mentre il terzo obiettivo si
concentrava sul miglioramento della professionalità dei docenti attraverso la possibilità di impiego di
supporti informatici. La filosofia del progetto si fondava sulla considerazione delle tecnologie multimediali
come nuovi ambienti di insegnamento/apprendimento. Nell’ultimo decennio gli insegnanti sono stati
protagonisti di numerosi esperienze formative per l’uso delle Ict. Giovanni Biondi, dirigente Indire e
attualmente dirigente presso il MIUR, sintetizza cos’ le caratteristiche di una scuola che possa definirsi
innovativa:

➢ Sviluppo delle competenze;


➢ Capacità comunicativa avanzata per i giovani;
➢ Educazione alla flessibilità;

Una scuola che voglia rinnovarsi dovrebbe essere in grado di promuovere e sviluppare le competenze
valorizzando la dinamicità comunicativa dei giovani e favorendo una capacità di gestione e adattabilità a

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diversi processi e contesti. Una scuola innovativa è una scuola che usa le ICT in modo globale e diffuso al fine
di implementare metodi innovativi di insegnamento e apprendimento, di riorganizzare gli spazi scolastici e la
gestione dei tempi, di supportare la personalizzazione dei processi di insegnamento e apprendimento, di
sviluppare relazioni più strette con il territorio. Questa proposta di innovazione è stata sintetizzata con
l’etichetta di Scuola Digitale. In questo progetto le nuove tecnologie sono pensate come ambienti che
superano il concetto di classe-laboratorio sostituendolo con il concetto di laboratorio in classe, cioè la
possibilità di integrare i media digitali all’interno dei contesti didattici.

Il progetto Cl@ssi 2.0 lanciato nel 2009 dal Ministero dell’Istruzione è orientato a realizzare una sistematica
integrazione delle tecnologie nelle pratiche didattiche e negli ambienti di apprendimento. Obiettivo
dell’iniziativa è stato ed è tuttora quello di modificare l’ambiente di apprendimento tradizionale mediante
l’allestimento di classi tecnologicamente avanzate, cioè ambienti caratterizzati dalla presenza delle
tecnologie digitali. Inizialmente il programma ha coinvolto le scuole secondarie di primo grado, selezionate
attraverso la partecipazione ad un bando. Le classi prescelte si sono impegnate a realizzare un progetto di
durata triennale e a inserirlo nel Piano dell’Offerta Formativa. Ciascuna classe sperimentale ha ottenuto dal
Ministero dell’Istruzione un finanziamento dei 30.000 euro per rinnovare il proprio ambiente di
apprendimento attraverso l’acquisto di tecnologie digitali, LIM, computer e altri devices. Il progetto ha infine
previsto una fase di monitoraggio per valutare le soluzioni progettuali adottate e per la somministrazione di
prove di verifica degli apprendimenti predisposta da Invalsi.

Cl@ssi 2.0 in Piemonte: un’esperienza di ricerca

In Piemonte si è adottato un approccio teorico che si è tradotto in una serie di ipotesi di lavoro che hanno
guidato la raccolta e l’analisi dei risultati del progetto:

1) Superamento del determinismo tecnologico: le tecnologie non costituiscono l’unico vettore del
cambiamento.
2) Importanza dell’educazione ai media: le tecnologie comunicative hanno bisogno di processi di
alfabetizzazione finalizzati all’acquisizione di abilità di lettura critica e consapevole dei contenuti
mediali (media literacy e media education).
3) Scuola e tecnologie comunicative sono parte di un ecosistema integrato che tiene conto
dell’evoluzione dell’ambiente web.
4) Consapevolezza dell’esistenza di differenze generazionali che condizionano il rapporto con i media
digitali, pur all’interno di un continuum di posizioni eterogenee e sfumate. Le nuove piattaforme
tecnologiche favoriscono lo scambio e il dialogo tra giovani e adulti, ragazzi e insegnanti.
5) Sviluppo delle competenze sociali e cognitive richieste per gestire il cambiamento dei setting scolastici
costituisce un processo fortemente radicato nei diversi contesti.

Le scuole che in Piemonte hanno preso parte al progetto erano distribuite nelle diverse province ed erano in
particolare: Asti, Biella, Cigliano, Felizzano, Galliate, Grugliasco, Moretta, S. Antonino di Susa, Sommariva del
Bosco, Torino, Tetti Francesi di Rivalta, Villadossola. Tra gli acquisti più frequenti troviamo la LIM, i notebook,
i notepad, videocamere, microfoni, fotocamere.

Il progetto Cl@ssi 2.0, almeno in Piemonte, ha modificato radicalmente gli attori della formazione, gli
insegnanti e i ragazzi, costringendoli a ridefinirsi in relazione all’ambiente di apprendimento condiviso e alle
dinamiche relazionali implicate nei processi didattici e in quelli dell’ambiente extrascolastico. Gli insegnanti,
alle prese con le nuove culture partecipative, si scoprono nuovi mediatori della cultura transmediale, cioè
della cultura 2.0, che attraversa la cultura tradizionale e interagisce con essa. Gli studenti si sono trovati per

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la prima volta a gestire un rapporto peer to peer con i loro insegnanti, con l’unico scopo comune di costruire
insieme nuove forme di appropriazione e partecipazione della conoscenza.

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