Una cornice globale complessa: oggi si vive in un tempo globalizzato, in cui sono possibili due
comportamenti: può prevalere una logica di individualismo secondo la quale l’altro è il nemico da distruggere
oppure ci si può far invadere da ciò che è diverso da noi. La crisi di tutto questo e soprattutto la grave crisi
finanziaria che ha colpito la il mondo hanno incrinato una situazione già di per sé fragile, povera in termini di
affetti, legami, parole, cultura, scoprendo le debolezze di questo nostro tempo storico. Nel libro Con Gli Occhi
del Nemico, David Grossman, scrittore israeliano parla delle motivazioni dello scrivere: una di queste è
l’aspirazione a rimuovere, ciò che mi difende dall’altro, abbattere quella parete che mi separa dal prossimo.
In realtà, però, siamo sulla difensiva e ci difendiamo dal prossimo. Tuttavia, l’altro non è un nemico ma una
ricchezza. Per approfondire questo concetto, si può fare riferimento ad un film recente, dal nome La Zona,
uscito nel 2007 (Messico). In una ipotetica città messicana esiste una zona, un quartiere protetto dal mondo
esterno e dalle favelas limitrofe da un muro alto e da recinzioni, filo spinato e telecamere. All’interno, nel
territorio protetto dal muro, tutto è ordinato. Un giorno alcuni ragazzini riescono ad entrare nella zona e
vengono sopresi mentre rubano in una casa. Due di loro vengono uccisi e l’altro cerca rifugio nel quartiere
benestante. Conclusione: lo sporco e il caos del fuori stridono con l’ordine e la pulizia del dentro, ma ciò che
stride davvero è la diversità delle relazioni vuote e senza significato dentro, relegate a giochi di potere,
categorizzate in pregiudizi e stereotipi, piene di paure. Questi due mondi si intrecciano.
Povertà e benessere: spesso nella società della crisi si parla di povertà. Il dibattito è centrato sull’aumento
del costo della vita, sul rincaro dei prezzi, sui nuovi poveri ecc. Secondo Giovanni Pieretti, gli input dati alla
nozione di povertà nel corso dei secoli sono così numerosi da non poterne più dare una definizione
sufficientemente esauribile. È possibile quindi definire la povertà e il benessere? Nell’opinione comune, il
benessere è associato al possesso di beni, alla conformità economica rispetto alla società in cui si vive, ma
questo concetto sarebbe meglio definirlo come “ben-avere”, indicando la somma di beni di cui si può
usufruire, che si possono consumare, fondamentali per la nostra sopravvivenza, ma anche per mantenere,
raggiungere uno status sociale. il termine ben-essere acquista in questo senso un altro significato ovvero
rispecchia la qualità di vita di un individuo, e quindi si pone su un piano diverso della semplice equazione
“possesso= condizione di star bene”. il nostro stare bene è una condizione trasversale a tutti i diversi aspetti
della nostra esistenza. Siamo arrivati a stabilire che il benessere va oltre il possesso dei beni e coinvolge in
maniera più ampia la qualità della vita di un individuo. Bisogna poi considerare la visione che ogni persona
ha della propria condizione, i desideri, il concetto di felicità e quindi la possibilità reale di raggiungere quella
condizione che si considera ottimale per il proprio benessere e che varia da persona a persona. È quindi un
processo dinamico, una crescita personale continua, che cambia come cambia la vita nel suo evolversi.
Povertà: fenomeno multidimensionale che tocca diversi aspetti della vita di un individuo, da quello
economico materiale a quello sociale relazionale. È inoltre un fenomeno multifattoriale ponendo l’accento
sulla varietà dei diversi elementi che provocano l’ingresso di un individuo nella povertà e il loro ripercuotersi
sull’esistenza. È quindi dinamica. Valutare la povertà come un processo comporta di conseguenza l’idea che
possa essere un tratto della vita di un individuo, che possa far parte di un percorso e diventare un’esperienza
di più o meno lunga durata. Ciò trasforma la povertà in un percorso eterogeneo che varia da persona a
persona e che coinvolge non più solo soggetti collocabili negli strati bassi e marginali della società ma anche
coloro che si definiscono integrati. Ciò è in linea con la società postindustriale moderne, caratterizzata
dall’incertezza, dall’instabilità degli status, delle posizioni e delle relazioni e dall’estrema mobilità dei processi
produttivi e lavorativi che pone l’individuo di fronte a sempre nuovi processi di adattamento e riqualificazione
e che influenza direttamente vita, pensiero e relazioni di tutti i suoi membri. La povertà viene ad assumere 3
caratteristiche, che tentano di darne una definizione: l’eterogeneità delle situazioni di impoverimento, il suo
carattere processuale, la minor garanzia di essere esclusi da situazioni di impoverimento. Ciò comporta un
cambiamento di visuale, uno sposamento dalle cose alle persone e alle loro modalità di azione. Povero: chi
ha poche risorse a disposizione e non è in grado di utilizzarle appieno e vive in una situazione di esclusione
sociale, ovvero non è in grado di muoversi come gli altri cittadini e d usufruire dei servizi e dei diritti che sono
a disposizione. La dimensione della povertà assume poi un’ulteriore specificazione che chiama in causa la
nozione di microfratture: il malessere può rimanere inconscio, latente, interno anche per un lungo periodo.
Così come la nozione di impoverimento, anche il concetto di microfratture non si riferisce a determinate
categorie di soggetti. In quest’ottica di analisi si pongono anche le considerazioni che riguardano le diverse
povertà dei giovani d’oggi, che non vanno lette solo in chiave materiale, ma anche in termini di vulnerabilità
rispetto al contesto sociale, di marginalità e posizioni liminali, di incapacità a trasformare le proprie risorse
in benessere, di microfratture con la famiglia, la scuola, la società. È quindi urgente un incontro, proprio nelle
zone di confine, per evitare che la vulnerabilità si trasformi in processi di desaffiliation, per valorizzare le
capacità di ognuno e per recuperare le microfratture inquadrandole in un senso e in un contesto superabili
e non latente. La nostra società del consumo, in realtà, ci sommerge e ci fa perdere di vista la differenza tra
ben-essere e ben-avere. L’avere più cose è quindi lungi dal significare essere felici, vivere meglio. La crescita
della ricchezza non è correlata al bene-essere e non comporta una diminuzione della povertà in termini
generali e globali.
Tra i giovani: vari tipi di povertà: 1) materiali: le cause possono essere personali ma anche del contesto
familiare (precarietà, disoccupazione, carenze educative). Si ha però una contraddizione: da un lato si dice
che i giovani spendono di più di quanto hanno, supportati dalle famiglie, dall’altro, si ha una rilevazione
dell’Istat secondo la quale i giovani sono più poveri rispetto alle altre fasce della popolazione. Essi vogliono
fare parte della società del consumo senza averne le reali possibilità. 2) relazionale: si vive in una società
individualista, a partire anche dal contesto familiare (genitori separati). Ciò comporta una visione del mondo
e delle relazioni sempre più egoistica ed egocentrica, che non si cura dell’altro, ma solo dei propri bisogni ed
interessi. Ciò si manifesta anche nell’atteggiamento di rifiuto e chiusura verso il mondo adulto. 3)
Progettuale: si ha paura del futuro e viene a mancare il senso di costruzione e realizzazione. Si vive in un
presente carico di ricchezza ed opportunità consentito dalla protezione della famiglia, ma l’autonomia e la
sicurezza svaniscono nell’immediato futuro, perché fuori dal limbo si ha l’incertezza che spaventa. Nell’era
tecnologica, l’unica dimensione riconoscibile è quella del tutto e subito, di una presentificazione costante,
tutto è ricondotto al presente e non si pensa al futuro. Perciò: difficoltà nei giovani a costruire relazioni
significative e durature con le figure adulte, a fidarsi delle istituzioni, a impegnarsi e a fare fatica, ad ascoltare
gli altri, ma anche se stessi, a condividere valori, ad attribuire importanza a scuola, lavoro e cultura. Ciò si
traduce in forme di disagio, ricerca del rischio e della trasgressione, fino ad arrivare alla violenza. Altre forme
di povertà possono poi essere date da situazioni di disagio e di devianza. Negli adolescenti pesa il sentirsi
fuori posto o smarriti, la mancanza di punti di riferimento o di un equilibrio fra appartenenze multiple (ciò
sia in ragazzi italiani che in quelli di altre provenienze). Si ha poi la povertà data dall’emarginazione sociale,
soprattutto legata al degrado metropolitano: nei nuovi agglomerati urbani, i rapporti tra le persone si
dequalificano e degradano, condizionano le capacità relazionali, incrementandone la passività, la
frustrazione, la violenza, l’indifferenza. Povertà culturale e formativa: a ciò si legano i temi della dispersione
e dell’abbandono scolastico, ma anche dell’ignoranza e dell’incapacità di usare in maniera adeguata ed
educata le nuove tecnologie, da parte di soggetti travolti o tagliati fuori da un contesto virtuale invadente,
ingombrante, importante nella società moderna.
Un mondo globale: opportunità e rischi per l’educazione: globalizzazione: fenomeno irreversibile, connotato
da complessità e contraddizioni. Da un lato offre nuove e grandi possibilità di produttività, efficienza, di
sviluppo, non solo in termini economici, ma anche di scambio e conoscenze; dall’altro vede l’incremento di
disuguaglianze e squilibri, dove a pagare sono i più deboli. Si ha una polarizzazione della ricchezza, alla
crescita del divario tra ricchi e poveri e altri problemi (inquinamento, degrado ambientale, dissociazione tra
ben-essere e ben-avere e la confusione tra i due piani, da cui scaturisce una diversa scala valoriale che regola
i rapporti tra le persone e si riscontra nel disagio crescente della nostra società, nel peggioramento della
qualità della vita, nell’esclusione e nell’emarginazione dei più deboli. Le ricchezze sono aumentate ma sono
concentrate nelle mani di pochi. Inoltre, il 20% ricco, ha uno stile di vita che comporta uno spreco delle risorse
disponibili. Questa economia è basata sulle logiche del profitto ma tale mentalità non si ferma solo alla
regolamentazione delle leggi del mercato, si insinua anche nelle relazioni tra le persone, regola sempre più i
rapporti della nostra società. Educare, oggi quindi combattere contro questa mentalità dello sfruttamento,
sulla competizione e sullo spreco. L’ideale di vita dato dagli educatori non deve essere quello fondato su
denaro, successo, potere ma deve essere sostituito da una ricchezza non più basata sul superfluo e sui beni,
ma sulla ricerca di relazioni nuove e profonde, che riempiano il vuoto della solitudine, che siano intrecci
arricchenti per noi e per l’altro. Le storie degli adolescenti devono essere lette alla luce del contesto di micro
e macro. Secondo il livello ecologico di Bronfenbrenner, il contesto a diversi livelli condiziona la vita di
ciascuno. L’ambiente, che influenza lo sviluppo e la crescita della persona, è rappresentato come un sistema
concentrico formato da 4 diversi piani che interagiscono fra loro. Il macrosistema è costituito dalle persone
che direttamente sono a contatto con l’individuo, la famiglia, la scuola, gli amici. Il mesosistema si riferisce
alle relazioni che si instaurano tra i diversi microsistemi in cui l’individuo è inserito. L’ecosistema è composto
da quegli ambienti sociali, che, pur non interagendo direttamente sulle persone, ne influenzano la vita, come
ad esempio l’ambiente lavorativo dei genitori può avere ripercussioni negative o positive sugli stati d’animo
e sulle dinamiche relazionali all’interno delle famiglie. Macrosistema: comprende l’insieme delle ideologie,
delle strutture culturali e sociali a largo raggio di cui un individuo è la parte. I sistemi sono collegati: le
decisioni prese ad un livello possono incidere sugli altri. Secondo tale modello, abbiamo un ruolo di influenza
nella vita delle persone a livello di micro e di mesosistema, ma allo stesso tempo abbiamo una responsabilità
collettiva rispetto all’ecosistema, al mondo nella sua globalità. In riferimento a questa teoria ecologica, non
si può comprendere il mondo sociale senza riferirci al contesto storico e culturale che stiamo vivendo. La
forbice che esprime il divario tra ricchi e poveri si allarga molto quando si fa riferimento ai bambini. La
disparità di aspettative, bisogni ed opportunità, qualità di vita fra paesi ricchi e poveri (non solo tra nord e
sud del mondo) è tale che è sempre più complesso trovare parametri comuni. È necessario che il lavoro di
educatore abbracci i principi etici di sviluppo, giustizia, equità perché le future generazioni si riconoscano in
tali principi.
Le caratteristiche della globalizzazione sono: la mondializzazione dell’economia, delle leggi di mercato e delle
produzioni di merci; la velocità delle trasformazioni per l’automazione e l’informatizzazione dei sistemi
produttivi; la globalizzazione dei sistemi di informazione che offre nuove possibilità di comunicazione virtuale
e omologa i bisogni e i consumi. In questo processo irreversibile si hanno aspetti positivi e negativi: la
possibilità di avere uno sguardo globale, lontano da logiche di individualismo; uniformazione degli stili:
bisogni e consumi appiattiti ad una logica di consumo e di mercato. Si appiattiscono poi e si omologano le
culture, tutto diventa un affare ma anche e soprattutto una forma di controllo, che ci vede come consumatori
e oggetti di mercato e non come persone e soggetti liberi. Nella società è poi aumentata la difficoltà
nell’interpretare gli avvenimenti quotidiani, data dalla co-determinazione dei fatti sociali, non più univoci, e
dalla moltiplicazione delle rappresentazioni soggettive e personali della realtà. Morin in Terra Patria descrive
i sistemi complessi identificando come caratteristiche peculiari i seguenti valori: procedono per salti
qualitativi e non logici; la conoscenza di un tutto non è data dalla conoscenza degli elementi; si ha una
componente che fugge al controllo. Effetti che tale sistema ha sugli individui e sulla società: difficoltà nella
costruzione di una propria identità, difficoltà nella regolamentazione. Crisi della nostra civiltà, contraddistinta
da diversi aspetti: sfiducia verso il futuro, senso di impotenza e di disgregazione sociale, contestazione del
principio di autorità (che porta a confusione ed arbitrarietà); ricerca dell’estrema giovinezza; scomparsa del
concetto di persona. È una società in cui l’informazione è alla portata di tutti. Rischio: essere sommersi da
queste informazioni. Inoltre, ci viene data una visione della cultura limitata alla sola consumazione, la mente
delle persone è considerata solo da un punto di vista riproduttivo e non metacognitivo, né fanta-cognitivo
(così siamo totalmente a servizio dell’immagine, una cultura che si fa sempre più complice di omologazione).
Società focalizzata sull’individuo e sull’apparire e non sull’essere. Per essere parte di una società bisogna
apparire in un certo modo, è la logica distorta del ben-avere e non del ben-essere. Si vede nel denaro l’unica
fonte di benessere e autonomia perché libertà e felicità sono connotate dall’avere di più. Il consumo si lega
molto all’individualismo perché è un’attività solitaria. La persona di fronte al mercato si sente sempre
inappagata e insoddisfatta. In quest’ottica il povero è inutile, senza senso. Al consumo e all’individualismo è
legato anche il tema della competizione che Lorenz considera un fattore di selezione negativo poiché ostacola
lo sviluppo e la sopravvivenza della specie umana. La competizione diventa fattore esasperato per misurare
il proprio successo e costruire le relazione con gli altri, genera paura e angoscia, ma soprattutto isolamento,
poiché l’uomo tende a difendersi dall’esterno. L’unica strada possibile è riconoscere che la continua crescita
e il continuo sviluppo non sono sempre un bene, che benessere e ben-avere non coincidono tout-court.
L’uomo ha dei bisogni ma essi sono al servizio della vita. Bisogna quindi riconoscere i falsi bisogni. Facciamo
parte di una società in cui nei giovani si ha un ritardo nella responsabilizzazione e nella crescita, dove le
prospettive di un lavoro e di un’autonomia si allontanano sempre di più. Sono relegati in spazi protetti, esclusi
dal mondo degli adulti. I giovani sono trasformati secondo Franco la Cecla in rimbambiti incapaci di leggere
la complessità, ma così facendo si priva di un’importante esperienza di crescita. Bambini e adolescenti non
trovano più nella nostra società punti di riferimento stabili che li aiutino nella crescita, nella costruzione di
una propria e personale identità. Bisogna quindi ritagliare spazi di vivibilità. Ci si deve poi soffermare sul
concetto della vulnerabilità, affrontato da Robert Castel che, in linea con l’idea di una povertà dinamica e
processuale, elabora uno schema in cui espone le 3 aree che un individuo può attraversare nel corso
dell’esistenza e che rappresentano una sorta di percorso di impoverimento. Queste aree sono caratterizzate
dalla presenza di due dimensioni: lavorativa (che veicola il legame sociale), relazione (che può essere fattore
di dissociazione). La prima area è quella dell’integrazione, in cui tutti gli individui sono inseriti in una
situazione occupazionale e relazionale e social stabile, indipendentemente dallo status. La seconda area è
quella della vulnerabilità, dove si situano tutti gli individui che vivono in condizioni fragili e precarie, sia nel
contesto lavorativo che in quello relazionale. La terza area è quella della desaffiliation, dove si possono
collocare quanti vivono in condizioni di emarginazione sociale e di disoccupazione. A dividere queste tre aree
si hanno confini mobili, definibili solo in relazione alle fasi economiche, lavorative e sociali che possono
verificarsi lungo il corso di vita degli individui. La vulnerabilità viene associata ad un senso di insicurezza,
impotenza, incapacità a progettare il proprio futuro o quello della propria famiglia; tali problematicità
possono essere generate delle ristrettezze economiche, dall’indebitamento, dalla diminuzione del potere di
acquisto o dalle difficoltà economiche, e possono coinvolgere anche aspetti psicologici, sociali, relazionali,
cognitivi. Acquistano importanza quindi le reti sociali “parentali ed amicali” che l’individuo si è costruito. Altro
concetto mutuato dagli studi sulla povertà è quello di capabilities (Amartya Sen), ovvero le capacità che un
individuo ha di poter trasformare le opportunità in risorse, i beni in sviluppo e in benessere. Non tanto il
reddito ma il modo in cui viene utilizzato: a parità di reddito gli individui usano in modo diverso le risorse a
disposizione. Questi concetti sono stati elaborati per definire una rappresentazione di povertà di tipo
dinamico, in un’esistenza in cui spesso è normale sperimentare delle fragilità. Per questo i concetti di
integrazione, di vulnerabilità e di disaffiliazione possono essere ricondotti non solo all’analisi della povertà.
Dalle ricerche emerge che gli immigrati e i giovani sono coloro a rischio: i primi perché combinano il disagio
abitativo con diversi fattori (esempi: famiglie numerose, bassa scolarizzazione, posizione lavorativa
generalmente medio-bassa del capofamiglia); i secondi perché colpiti da un forte rischio abitativo, instabilità
e incertezza nel lavoro, assenza di un patrimonio da cui attingere per le spese. Si può parlare di vulnerabilità
anche in riferimento alle seconde generazioni. La migrazione, spesso non scelta, dei minori, ricade sulle loro
spalle come fatica che si somma alle sfide del crescere e della costruzione di una propria identità di adulto,
ma anche come risorsa. In questa complessità risiede la vulnerabilità di un’esistenza in costruzione, una
fragilità che è propria di chi deve rispondere in maniera efficace e pronta a sfide specifiche. Graziella Favaro
parla di vulnerabilità silenziosa, riferendosi alle seconde generazioni. Il concetto di vulnerabilità, dinamico ed
aperto, sta a indicare un rischio e una possibilità e sottolinea anche la responsabilità e il ruolo della famiglia
e dei servizi nel creare le condizioni che prevengono o attenuino tale rischio. Non è quindi una condizione
predeterminata e definita ma un’ipotesi di cui tenere conto e alla quale prestare attenzione cura. I fattori
che ne delineano tale specificità sono il viaggio, le perdite, la condizione di immigrazione che li costringe a
vivere in un modo dai riferimenti instabili. La vulnerabilità si può trasformare in disagio quando le risorse
interne della persona e l’appoggio degli adulti di riferimento e dei pari, non sono in grado di dare risposte
adeguate alle sfide che un giovane immigrato deve affrontare.
Identità, culture, meticciati: allargare i confini: tutti ci costruiamo un cerchio intorno a noi stessi (zona
comfort), dentro al quale sappiamo come muoversi, tutto è codificato ed ha un senso, ci è familiare. La
creatività, l’apertura, il superamento dei confini, dei pregiudizi, dello scontato, nasce quando proviamo a
uscire da questa zona di comfort, quando proviamo ad uscire dagli schemi. Dobbiamo provare a spostarci
sempre un po’ più in là. È una cosa rischiosa, ma accettare e accogliere la condizione di rischio che è propria
del mestiere educativo significa porsi in una condizione che consente di dislocare e organizzare le proprie
risorse in uno spazio aperto e neutro, che permette l’incontro vero e che è la precondizione essenziale per
trasmettere e ricevere conoscenza, per costruire storie possibili. La nostra identità, la nostra cultura di
appartenenza, contesti e le situazione che conosciamo, che ci sono familiari, sono la nostra zona di comfort,
costellata anche da pregiudizi. Uscire dalla zona di comfort vuol dire arricchirsi, perché la conoscenza e
l’incontro danno sempre qualcosa. Le identità e le culture si costruiscono negli incontri e nelle mescolanze:
nella realtà si incontrano sempre gli individui portatori di molteplicità e differenze. Le culture ci aiutano a
definire i confini che sono però processi dinamici, e in quanto tali, evolvono e mutano. L’agire si colora di
intenzionalità. In questo entra in gioco l’intercultura, come prospettiva di dialogo e di scambio. Le differenze
ci arricchiscono.
Agio, disagio e devianza: il concetto di agio è oggi fortemente legato al sentire della persona, al suo vivere
quotidiano. Intorno a noi ci sono due atteggiamenti: da un lato si ha una parte di adolescenti e preadolescenti
che adottano stili devianti, si sentono esclusi e frustrati dal modello consumistico, apparentemente (ma
falsamente) alla portata di tutti. Dall’altro si assiste ad una complessità nuova, a intrecci inaspettati e alla
diversificazione di situazioni di disagio in cui emergono nuove figure: adolescenti con forme più o meno gravi
di sofferenza e di disagio psichico, giovani con dipendenze, giovani con difficoltà nella sfera relazionale e
comunicativa, i giovani integrati ad abituati al tutto subito ma incapaci di gestire le relazioni interpersonali.
Nella nostra epoca non si può non notare che i confini tra ciò che è normale e ciò che è deviante si sono
assottigliati, si ha una cultura basata sull’individualismo e l’esaltazione del soggettivo. Cò che è considerato
normale, spesso trasmette messaggi di esasperazione di libertà, di superamento dei limiti, di ridefinizione dei
valori comuni. Si tratta di relativismo morale, ovvero della relativizzazione dei sistemi di significato rispetto
al qui e ora, che comporta una logica di compromesso: la trasgressione vista in maniera permissiva come
espressione e realizzazione del sé. In tutto questo ha peso la visione nuova dell’uomo come consumatore, i
cui bisogni sono apparentemente illimitati e a cui va incontro un sistema che offre sempre apparentemente,
ogni possibilità di accesso e appagamento. La devianza si lega così al soddisfacimento dei bisogni, all’uomo
come cercatore di sensazioni, alla soddisfazione immediata. Franco Prima evidenzia alcuni tratti che
connotano la stretta relazione tra questi valori condivisi dello sfondo socioculturale e le devianze: il ricorso
alla violenza per la risoluzione dei conflitti; la rappresentazione della violenza come normale strumento
relazione e risolutivo verso problemi e difficoltà, l’assenza di investimento verso valori condivisi, la diffusione
del modello dell’io onnipotente; l’altro inteso come strumento per i propri obiettivi. Tutto ciò deve
accompagnarsi alla consapevolezza della complessità degli intrecci, dei vissuti, dei fattori che spesso
innescano percorsi non prevedibili ed inaspettati: c’è certamente una componente di rischio, ma si rintraccia
anche una componente che lascia il margine per una possibile modificazione dei percorsi. In questo approccio
c’è un’attenzione: agli orientamenti culturali, alle persone, agli elementi che danno da sfondo alle scelte
possibili, condizionando le potenzialità dell’individuo ad agire, le sue risposte rispetto ai bisogni, agli stimoli
e alle opportunità. Inoltre, in una società in costante cambiamento, è inevitabile che ci sia una componente
di fragilità e relatività e che quindi sia sempre più difficile la trasmissione di valori condivisi, di punti fermi.
Ovviamente, all’agire del singolo entrano in gioco altri fattori come le opportunità di valutazione e di azione,
le condizioni materiali e relazionali del proprio contesto, il funzionamento delle istituzioni; a questi dati
esterni bisogna aggiungere il loro intrecciarsi con la personalità propria di ciascun individuo, con le sue
modalità di vedere e comprendere la realtà, di pensiero, di comportamento, di azione, che danno luogo ad
esiti non scontati. Ogni individuo: non è soggetto passivo di fronte alle modalità di socializzazione, ma ha un
ruolo; con le sue azioni si prefigge un obiettivo, compie azioni coscienti, anche se diverso può essere il grado
di consapevolezza e la capacità di prevedere razionalmente rischi e conseguenze; è protagonista delle proprie
scelte. Tutto ciò sottolinea come sia difficile ricercare le cause della devianza, con il rischio di incorrere in
pregiudizi. Tuttavia, nell’opinione pubblica si avverte la necessità di trovare la causa dei comportamenti
devianti, e ci si concentra più sull’individuo e sulla responsabilità personale rispetto alle sue scelte. È comune
infatti cercare di ridurre le complessità per cercare soluzioni comode e veloci. Bisogna però pensare a lungo
termine, ragionare e stare in mezzo alle complessità per comprendere. Anche i fenomeni come rischio,
disagio e devianza, vanno letti in questo senso: non sono semplicemente da considerare come patologici ma
come inglobati in un sistema che oscilla incessantemente fra ordine e disordine, giusto e sbagliato, normale
e deviante, e che da essi trova lo stesso sostentamento per la sua esistenza. In questo quadro, va letta la
difficoltà a definire disagio e devianza. Il disagio può essere visto come una difficoltà a gestire la complessità
sociale. Come tale è frutto stesso della società e della normalità ed è sentimento comune ai suoi membri. Il
disagio è una parte importante della crescita. Ha una natura relazionale e comunicativa, coinvolge coloro che
con difficoltà si riconoscono in altri soggetti significativi, in particolare in figure adulte educative. Sono i
rapporti che l’individuo instaura con il mondo che sono incerti e fonti di problematiche più o meno
complesse. È quindi un processo di difficoltà relazionali, che può rimanere anche invisibile. Il disagio è dato
anche dall’accumulazione di fattori di rischio: sono le caratteristiche del processo, del percorso a generare
condizioni di difficoltà. Disagio evolutivo: legato ai compiti di sviluppo che si presenta maggiormente nelle
fasi adolescenziali ma anche in altre della vita. Disagio socioculturale: legato al disorientamento proprio della
società complessa. In assenza di punti di riferimento certi, il disagio diventa stabile poiché è legato
all’incertezza del futuro, all’instabilità e al disorientamento. Adolescenza: insieme delle difficoltà che aiutano
a superare i cambiamenti ed è in questo senso un fenomeno da accompagnare. Potrà avere sia esiti positivi,
favoriti dal contesto circostanziale che negativi, portando a devianza o forme di emarginazione.
Adolescenti e giovani oggi: tra disagio e povertà: il mondo giovanile deve essere visto alla luce delle relazioni
con il mondo degli adulti e delle capacità che queste relazioni hanno di far crescere. L’adolescenza è il mondo
della nascita sociale dell’individuo. Poiché gli adulti hanno lasciato il suo ruolo propositivo di trasmissione di
valori comuni, manca fuori dalle mura domestiche, un’identità culturale con cui confrontarsi, il che produce
un generale disorientamento. Forme del disagio giovanile: asintomaticità; presunzione soggettiva del disagio,
vissuta come privazione; la labilità delle scelte, caratterizzate da minor chiarezza; la caduta di valori simbolici
forti. Si parla pertanto di microfratture che incidono nelle storie di ciascuno, intrecciandosi con il percorso
individuale. Ciò complica il lavoro educativo. Si hanno anche alcune condizioni educative che producono il
disagio: 1) Famiglia: ciò in determinate condizioni: svantaggio economico, basso livello di istruzione dei
genitori, isolamento relazionale nel contesto urbano, genitori separati, assenza o carenza del ruolo normativo
dei genitori, comunicazione violenta verso i figli. 2) scuola: incidenti relazionali con insegnati, conseguente
perdita di fiducia in queste figure e caduta rovinosa di interesse verso lo studio; 3) gruppo dei pari: disagio
per le norme presenti all’interno del gruppo stesso. La violenza agita o subita è spesso uno strumento di
affermazione, un linguaggio talvolta diffuso e riconosciuto all’interno dei gruppi che genera meccanismi di
etichettamento e paura da parte di chi osserva dall’esterno. 3) Città: esempi, i quartieri ghetto dove si
concentra la popolazione marginale o deviante e dove manca un’identità storico-culturale. 4) carenza del
lavoro. 5) incertezza rispetto al futuro 6) autodistruttività espressa attraverso suicidi o tentativi di suicidi.
Oggi si assiste a passività o disinteresse nei confronti dei giovani e del loro mondo.
Devianza: rischi e prevenzione: i fattori che la provocano non sono lineari ma interattivi. Di Leo afferma che
per affrontare il fenomeno devianza bisogna considerare: 1) la dimensione personale che si articola in a)
coping (capacità di affrontare discontinuità e rischi nella risoluzione dei problemi e nel ricercare supporti
sociali), b) autoefficacia percepita: la convinzione individuale propria della persona in contesti di impegno
specifico e/o di resistere alle pressioni del gruppo dei pari; c) disimpegno morale: capacità o incapacità di
disimpegnarsi moralmente attraverso strategie cognitivi dalle regole e dalle azioni trasgressive. 2)
Dimensione ambientale: a) monitoraggio: un alto fattore proiettivo è dato da un’adeguata qualità di
monitoraggio da parte delle figure adulte. B) autoefficacia collettiva: la convinzione collettiva della propria
efficacia/inefficacia rispetto a controllo, gestione, prevenzione della devianza. C) intervento sociale e
istituzionale: non sono mai neutri, alle volte raggiungono i propri obiettivi di prevenzione e protezione, altre
volte si instaurano dinamiche non previste, paradossali, controproducenti che rafforzano il percorso
deviante. D) funzioni e disfunzioni familiari: fonte principale di sviluppo e socializzazione, il ruolo della
famiglia ha particolare importanza nella crescita di un individuo. E) funzioni e disfunzioni scolastiche: capacità
e incapacità di gestire e prevenire rischi come dispersione, abbandono, insuccesso, isolamento, bullismo, ecc.
E’ importante analizzare la devianza perché nella società di oggi, caratterizzata dall’incertezza, comporta che
il rischio sia entrato a fare parte pienamente della vita individuale e collettiva. Perciò da un lato si cerca la
sicurezza, dall’altra siamo più disponibili a correre rischi. Atteggiamenti rischiosi: accettazione fatalistica della
condizione di marginalità; spettacolarizzazione della vita; relativizzazione dei sistemi di significato e delle
appartenenze; esperienze di affrontamento, per mettere alla prova se stessi; i deficit culturali delle nuove
generazioni; cultura dello sballo e dell’eccitazione. Comportamenti che sono una sfida verso l’insignificanza
del quotidiano e che oggi sfuggono alla supervisione dell’adulto. Per definire un individuo deviante, non basta
più osservare solo i comportamenti che mette in atto, ma è necessario leggerli in riferimento al contesto, alle
norme, ai vincoli sociali, all’interpretazione che degli stessi ne danno gli interessati, al posto che l’individuo
occupa. Quindi un comportamento può essere letto come deviante oppure essere accettato e ritenuto
normale a seconda del contesto e della chiave di lettura con cui viene interpretato. Criteri per individuare
soggetti e comportamenti problematici: visibilità (più visibilità, più possibilità di essere etichettati come
devianti); disordine (caos e disordine che provocano fastidio, più visibili e quindi più sanzionati); mostruosità
o l’eccezionalità (azioni eccezionali o ripugnanti che turbano l’opinione comune); ribellione (atteggiamenti
visti come pericolosi verso l’ordine costituito); la condizione di straniero (percezione associata a gruppi o
etnie di persone e quindi estesa a tutti coloro che rientrano in tale categoria); indisponibilità al ravvedimento:
saranno considerati maggiormente devianti coloro che rifiutano una forma di reinserimento sociale). Spesso
è il soggetto stesso che compie delle scelte con una certa dose di autonomia e decide di occupare una certa
posizione. È quindi un processo di codeterminazione. Se si accetta questa definizione di devianza, essa
comprende molti soggetti.
Adolescenze di seconda generazione: l’Italia è da qualche tempo terra di immigrazione. Le storie migratorie
sono eterogenee. Nel contesto italiano si possono riconoscere: minori nati in Italia da genitori stranieri,
minori arrivati dopo la nascita per ricongiungimento famigliare, i minori giunti soli (minori non
accompagnati), minori rifugiati, minori arrivati per adozione internazionale, figli di coppie miste. Maurizio
Ambrosini definisce come seconda generazione tutti i figli di almeno un genitore immigrati nati all’estero
quanto in Italia. Fattori come l’età di arrivo e le modalità migratorie influenzano in modo netto il vissuto
personale di bambini e adolescenti. Lo statunitense Rumbaut ha introdotto una classificazione di ispirazione
aritmetica. Partendo dalla definizione di seconda generazione in senso stretto, riferita ai minori nati nel paese
di immigrazione da entrambi genitori stranieri, ha definito “generazione 1,5”, i bambini arrivati per
ricongiungimento o scelta migratoria in età compresa tra i 6 e 12 anni, cioè durante la scolarizzazione di base;
in ordine inversamente proporzionale rispetto al presunto grado di acculturazione nel paese d’origine, ha
aggiunto la generazione 1,75 (età pre-scolare) e la generazione 1,25 (adolescenti arrivati dopo i 12 anni
d’età). Generazione 2,5= figli delle coppie miste. Rumbaut ha evidenziato che l’età di arrivo è importante.
Tuttavia, l’eccessiva rigidità di numeri ed etichette, rende facilmente attaccabile il suo impianto
classificatorio.
I figli degli sconosciuti: riferimento a Zadie Smith e al suo libro, Denti Bianchi, che affronta alcune di queste
tematiche. Anni Ottanta, Italia: primi flussi migratori, in maggioranza dal Nord Africa (molto spesso uomini
soli). Queste persone vennero collocate nei contesti lavorativi meno agevoli. In seguito, ci furono i primi
ricongiungimenti famigliari che insieme agli alti tassi di natalità e ai matrimoni misti, diedero vita a nuove
esistenze ibride. I figli degli immigrati iniziarono infatti a popolare le scuole. La trasformazione della società
italiana in multiculturale è avvenuta in modo progressivo e quasi inconsapevole, poiché il mondo politico-
istituzionale non è stato mai in grado di elaborare precisi piani di insediamento e accoglienza per i nuovi
arrivati, fondando ogni norma e iniziativa sulle situazione del momento, senza alcun disegno di continuità o
proiezione futura. L’inclusione degli immigrati è avvenuta in prima istanza attraverso il mercato del lavoro,
tramite la copiosa offerta di mansioni manuali e poco gratificanti, i lavori delle cinque P: pesanti, precari,
pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente. I sociologi chiamano integrazione subalterna, il tacito
presupposto all’integrazione degli immigrati da parte della società italiana: gli stranieri sono accolti in quanto
forza lavoro in occupazioni sgradite e dequalificanti, a condizione che non protestino; le manifestazioni di
attaccamento alla cultura di origine relegate alle mura domestiche. La presenza degli immigrati è percepita
come provvisoria (anche dagli stessi immigrati); ciò però in molti casi non avverrà. Quindi: all’accettazione
nel sistema economico viene a contrapporsi una diffusa resistenza verso la presenza sociale dei lavoratori
stranieri. La realtà degli eventi ha trasformato spostamenti che si volevano temporanei in durevoli; le
immigrazioni per lavoro sono diventate di popolamento. Non a caso, grande è l’investimento sulla scuola
come motore di emancipazione economica e sociale, da parte delle famiglie. Sono cambiate le condizioni, il
bagaglio di competenze culturali possedute dai ragazzi stranieri. È cambiato il modo in cui percepiscono
l’appartenenza territoriale: con spontaneità accettano di definirsi nuovi italiani, così come nuovi italiani, sono
anche i coetanei che ancora li discriminano, ma pure le persone appartenenti alle generazioni precedenti,
che siano italiani o immigrati, che abbiano mentalità aperte oppure chiuse. “Nuovi Italiani” non è uno status
quo ma una necessità, la direzione lungo la quale tutti noi siamo trasportati da trasformazioni ed eventi che
nel corso degli ultimi decenni hanno rivoluzionato la nostra società, mettendo in discussione le basi su cui in
precedenza si fondavano i concetti di ordine sociale e appartenenza nazionale.
Adolescenze inquiete o adolescenze inquietanti? Ogni cambiamento è una rivoluzione: per essere accettato
deve superare ostacoli e inibizioni. Una delle principali strategie di difesa consiste nella negazione del nuovo
presente, col conseguente ancorarsi a un passato rimasto identico a se stesso, vissuto non più come prologo,
ma come fossile che si vorrebbe attuale. Non si riconoscono quindi i cambiamenti finché non sono troppo
evidenti per essere ignorati. La nostra società sta cambiando, l’appartenenza nazionale sulla base dell’unità
di terra, lingua, razza e religione è in crisi: i ragazzi di seconda generazione ne sono la prova. Sono giovani che
sono portati a forme di appartenenza e identificazione col territorio fisico e sociale in cui vivono; allo stesso
tempo, dissonanze interiori, percezione pubblica e condizione politico-giuridica sembra ostacolare questo
processo. I ragazzi di seconda generazione sono nati in Italia, oppure vi sono arrivati giovani, ma le loro
provenienze violano l’unità di terra, così come il bilinguismo e le lingue dei genitori violano l’unità di lingua.
Nonostante tutto però, i ragazzi appartengono e si identificano nelle manifestazioni della nostra società, ne
sono potente fattore di trasformazione nonostante la legge dello ius sanguinis. I ragazzi reclamano un loro
spazio nella vita sociale e nel mercato del lavoro qualificato: qualora non vi riuscissero, le reazioni potrebbero
essere nette. In Italia, l’allarme innescato dalle seconde generazioni, è storia più recente rispetto a quanto
avvenuto altrove in Europa e corrisponde al momento in cui questi ragazzi si sono affacciati all’adolescenza.
Non sono più relegati alla sfera domestica ma si vedono anche fuori, in strada. Esempio: immigrazione
ecuadoriana a Genova. Negli anni Novanta sono le donne ad arrivare seguite poi dagli adolescenti maschi.
Minori possibilità economiche, particolari contesti di vita, difficoltà linguistiche, hanno portato alla
formazione di compagnie di soli adolescenti maschi, che erano sotto gli occhi di tutti. Alcuni episodi di cronaca
nera provocarono degli allarmismi nei confronti di questi ragazzi. Le donne ecuadoriane sono quindi
stigmatizzate come madri di quei ragazzi. I ragazzi di seconda generazione non solo hanno origini straniere,
ma vivono anche una fase considerata critica nella vita dell’individuo: l’adolescenza. È un’età di forte
sperimentazione sociale e ricerca di indipendenza: nel caso dei ragazzi di seconda generazione, motivi di
indipendenza possono essere riscontrati aderendo a modelli di comportamento propri della società di
accoglienza e poco padroneggiati quando non respinti dai genitori; la cultura paterna può poi costituire un
porto franco in cui ritirarsi per soddisfare il bisogno di certezze. L’adolescenza è l’età della rottura con
l’infanzia e nel caso dei figli degli immigrati si accompagna all’elaborazione del vissuto di emigrazione del
quale sono stati direttamente o indirettamente protagonisti. Ragazzi di seconda generazione: da un lato, alle
prese coi processi di ridefinizione identitaria propri dell’adolescenza e con quelli relativi all’eredità etnica
ricevuta dai genitori; dall’altra stigmatizzati in quanto persone di origine straniera e nello stesso tempo
adolescenti.
Studio condotto sugli immigrati indiani di prima e seconda generazione residenti nel quartiere londinese di
Wembley. I figli hanno acquisito un accento più simile a quello dei coetanei britannici: ciò si spiega con la
quotidiana frequentazione di istituzioni e coetanei londinesi e con la forte volontà di marcare la propria
identità, diversa rispetto a quella paterna.
Nella gran parte dei contesti, i ragazzi immigrati di seconda generazione risultano intraprendere percorsi
meno prestigiosi, abbandonare la scuola con più frequenza rispetto agli autoctono, maggiori difficoltà di
entrata nel mondo del lavoro, e nel caso di riuscita, spesso si devono accontentare di professioni più dure e
meno appetibili, ottenendo salari inferiori. Le componenti che intervengono nella riuscita o mancata
emancipazione scolastica sono molteplici. Fondamentali sono le caratteristiche individuali dei singoli
soggetti, le competenze cognitive, linguistiche, relazionali e caratteriali, a loro volta influenzate da vissuti
diretti e indiretti, primo fra tutti l’essere nati nel paese in cui si abita, o l’avere esperito la migrazione in prima
persona. Anche l’appartenenza religiosa è importante, specialmente con i musulmani, spesso vittime di
pregiudizi. L’essere maschio o femmina in certe tradizioni culturali condiziona i percorsi scolastici e lavorativi.
Il grado di istruzione dei genitori è correlato al sostegno che possono dare ai figli impegnati nello studio e
all’importanza che attribuiscono agli esiti scolastici come strumenti di promozione sociale. i genitori tendono
a fare amicizia con le famiglie della medesima origine, costituendo comunità etniche che possono aiutare ad
affrontare con compattezza e coraggio le avversità che si presentano; allo stesso modo possono evolvere in
eccessiva chiusura nei confronti della cultura maggioritaria, anche in relazione a diversità meno conciliabili.
In alcuni quartieri, l’isolamento culturale diviene segregazione abitativa e scolastica, con annesso degrado,
povertà e marginalizzazione. La scuola è l’istituzione che più direttamente si rivolge ai ragazzi,
determinandone gli esiti sociali presenti e futuri. I figli degli immigrati raggiungono i risultati migliori, laddove
anche gli autoctoni li conseguono, a testimonianza di come la qualità dell’istruzione debba considerarsi
imprescindibile. Le esperienze europee e americane evidenziano come nei periodi maggior crisi, gli episodi
di discriminazione e razzismo tendono ad aumentare, proprio mentre le possibilità di emancipazione e ascesa
sociale si assottigliano.
Il grande crogiuolo statunitense: Greenwich, opera di Basquait: un uomo nero fissa minacciosamente lo
spettatore. Sullo sfondo si ha il monito E Pluribus, usato da Jefferson e Franklin nel 1776 per esortare i
cittadini a sentirsi parte di un unico popolo al di là delle differenze, sulla base dei principi della Rivoluzione
francese. Nel corso dei decenni infatti, gli USA hanno accolto flussi di gente man mano diverse, rispondendo
con politiche di integrazione contestualizzate ai tempi che correvano, alternando fasi di maggiore apertura,
ad altre di maggiore chiusura. Flusso di persone ma importante: America First. Tuttavia, lotta, pregiudizi e
discriminazioni hanno da sempre caratterizzato l’insediamento dei nuovi gruppi. L’assimilazione nonostante
in alcuni casi sia vista come ottimista, in altri risulta molto difficile. I pregiudizi sono influenzati anche dagli
eventi su scala mondiale: per esempio: i figli degli dei primi migranti tedeschi saranno visti con sospetto
durante le guerre mondiali. Nonostante le discriminazioni, però, l’assimilazione lineare delle giovani
generazioni non mancò di suscitare consensi negli ambienti accademici. Nelle città americane sono frequenti
i ghetti che rappresentano vere e proprie città nere nel cuore della città. Emanciparsi vuol dire uscire dal
ghetto. L’emancipazione degli afroamericani (anni Sessanta) fu comunque difficile e loro stessi credevano
che il diventare americani avrebbe procurato meno certezze che in passato. L’essere afroamericani diventò
un motivo di orgoglio. In riferimento ad alcuni fenomeni di discriminazione, il sociologo Alejandro Portes ha
introdotto il concetto di assimilazione segmentata, sottolineando come il processo di assimilazione non sia
necessariamente orientato ad un miglioramento delle condizioni socioeconomiche, e come non sia così
immediato il legame tra emancipazione socioculturale e acculturazione. Al contrario, un appropriato
bilinguismo e la sussistenza di forti legami con il gruppo etnico di appartenenza favorirebbero mobilità sociale
e integrazione per le seconde generazioni. Verrebbe così a delinearsi una situazione in cui una parte degli
immigrati di seconda e terza generazione, sarebbe destinata a inserirsi nella classe media USA e ad ambire a
posizioni di crescente prestigio, mentre la maggioranza continuerebbe ad alimentare le fila delle classi sociali
più marginali.
L’assimilazione francese e i suoi fuochi: 27 ottobre 2005: due adolescenti di origine magrebina in una banlieu
parigina muoiono fulminati nel recinto di un trasformatore elettrico a cielo aperto. I due erano inseguiti dalla
polizia. Ciò è l’inizio di una serie di rivolte all’interno delle banlieu. Esse sono quelle aree intorno alla città
riservate agli individui più poveri, marginali e pericolosi. Secondo dopo guerra: Francia: boom economico e
piena occupazione. 1974: crollo della domanda di manodopera; il governo chiude le frontiere, non riuscendo
però ad arginare i nuovi arrivi. Sempre più immigrati popolano le banlieu, servizi e scuola pubblica entravano
in crisi, cresceva la disoccupazione. In questo contesto compaiono per la prima volta i figli dei primi migranti,
nati in Francia o arrivati molto giovani. Percepiti come elementi di disordine potenziale, si cerca di far
assimilare loro gli i valori e i codici della Repubblica francese. Anni Ottanta: politiche di riabilitazione
urbanistica e di assistenza alle persone. I ragazzi delle banlieu cominciano a percepirsi distanti dalle istituzioni
e dalle società civili. Si chiudono in loro stessi e creano anche un loro gergo, il verlan. Anni Ottanta e Novanta:
ventennio buio: epoca dei Beurs: movimento giovanile di figli di immigrati nordafricani decisi a rendere
pubblico il rifiuto nei confronti di un’assimilazione radicale nella società e nella cultura francese, a tutela del
riconoscimento delle proprie specificità di migranti. Essi tentarono anche l’avventura politica ma il loro
movimento finì. Nel 2005, ragazzi che diedero vita ad una rivolta in Francia. Essi avevano la fedina penale
pulita e appartenevano ad una generazione sacrificata e messa da parte. Si definiscono rat e sono pronti ad
invadere la società. Questi ragazzi hanno una debolissima consapevolezza di appartenere a un’entità
nazionale., sentimento rafforzato dall’inadeguatezza di un sistema scolastico in ritardo coi tempi. Le ragioni
delle rivolte nelle banlieu vanno rintracciate nel mondo globalizzato, caratterizzato da centri industrializzati
accanto a deserti improduttivi. Come in Africa il lavoro dei poveri non è più necessario, così nelle banlieu i
lavoratori hanno perso il riconoscimento della propria utilità sociale. Il malessere di questi ragazzi nasce dal
fatto di essere assimilati per quanto riguarda i riferimenti e le prospettive culturali, ma esclusi dal quel mondo
sociale in cui vorrebbero trovare uno spazio. Anche i legami con la cultura di origine sono blandi. Si ha quindi
del malessere. Ciò che accomuna i ghetti americani e i banlieu sono le marcate precarietà economiche, la
disoccupazione e la segregazione (che diventa anche scolastica). I ragazzi hanno anche difficoltà a scuola.
Tutti questi fattori intervengono notevolmente nel momento dell’ingresso nel mondo del lavoro. Per
concludere: gli italiani, gli spagnoli, i polacchi arrivati in Francia nella prima metà del Novecento hanno
affrontato difficoltà ma la loro appartenenza europea e cattolica ha fatto sì che l’assorbimento all’interno
della società francese procedesse in modo positivo. Con l’avvento degli africani, la differenza culturale e
somatica diviene evidente. La volontà assimilazionista si fa più violenta perdendo di credibilità.
Multiculturalismo britannico e le sue voragini: attentato Londra 7 luglio 2005: 4 ragazzi colpevoli, 3 di loro,
figli di pakistani e uno giamaicano. Ragioni: volontà di combattere contro un Occidente che calpesta i diritti
dei musulmani e l’adesione alle iniziative dei fondamentalisti islamici. Sondaggio realizzato nel 2006 rivela
che meno della metà dei musulmani considera l’Inghilterra il suo paese, mentre una ricerca portata avanti
dal PEW rivela che i giovani musulmani residenti nel Regno Unito tendenzialmente collocano l’appartenenza
religiosa davanti a quella musulmana. I musulmani britannici ritengono di avere più cose in comune con i
musulmani di altri paesi piuttosto che con i cittadini inglesi. Allo stesso modo, i ragazzi delle seconde
generazioni tendono a rifiutare determinate usanze patriarcali. Il Regno Unito conobbe un poderoso
aumento dei flussi nel secondo dopoguerra, quando penetrò nei confini un cospicuo numero di europei.
Furono soprattutto i migranti di provenienza coloniale a subire violente manifestazioni razziste e a destare
precoci preoccupazioni presso una classe operaia che percepiva minacciati i propri posti di lavoro. I flussi
continuarono poi ad intensificarsi portando in primo piano l’emergenza razziale. 1967: Race Relation Act: per
incoraggiare l’associazionismo etnico e comunitario e a ribadire la libertà religiosa e di espressione culturale,
affermando l’idea della società britannica come società multiculturale. Anni Ottanta: figli di immigrati.
Presentano degli atteggiamenti per molti aspetti in rottura con i padri. Movimenti per far riconoscere le
diversità culturali. Discriminazioni, diversità linguistiche e culturali, peggiori condizioni abitative, difficoltà
insite nei processi migratori, genitori poco istruiti e debole tenuta della rete sociale sono fattori che
contribuiscono a indirizzare i giovani verso professioni meno prestigiose, talvolta anche in caso di uguale
qualifica rispetto ai nativi. Considerando la distanza socioeconomica e culturale che intercorre tra le
minoranze etniche e gli autoctoni, Peach ha introdotto l’indice di dissimilarità: più elevato è il punteggio,
minore è il livello di integrazione (UK punteggi più alti per i gruppi di origine afrocaraibica (41), indiana (45),
pakistana (61) e bengalese (73)). Numeri significativi, violenti episodi di discriminazione: la convinzione delle
molteplici realtà sociali parallele manifesta con forza le contraddizioni, il modello multiculturale chiede di
essere rivisto.
Il tramonto del sogno olandese: morte del sogno multiculturale per un fatto di sangue. Omicidio del regista
del cortometraggio Submission, che trattava il maltrattamento delle donne musulmane. Storicamente
segmentata in due grandi culture subalterne (cattolica e protestante), negli anni Sessanta del secolo scorso
la società olandese cominciò a sperimentare una profonda trasformazione, con l’arrivo dei primi lavoratori,
generalmente poveri e poco istruiti, dalle ex colonie. La loro presenza si rivelò stanziale, sollevando tra gli
olandesi delle preoccupazioni soprattutto nei confronti dei musulmani. 1981: governo che decide di attuare
politiche che promuovessero la loro integrazione. 1973: crisi, perdita del lavoro di parecchi immigrati. 1987:
governo decide di ampliare il numero dei dipendenti pubblici provenienti dalle minoranze etniche e nel 1990
stipulò accordi con il settore privato. 1985: fondi per l’integrazione a scuola dei figli degli immigrati. Crisi del
modello pluralista olandese: disoccupazione, tensioni sociali, segregazione culturale e residenziale.
Attualmente le seconde e le terze generazioni di europei appaiono tutto sommato a loro agio con lo stile di
vita olandese, ottengono soddisfacenti risultati scolastici e riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro meglio
dei loro padri ma non come gli autoctoni. Giovani di origine turca e marocchina: condizioni ancora peggiori.
Si devono accontentare delle occupazioni meno gratificanti, spesso a causa di un’istruzione poco elevata, dei
pregiudizi e dell’espulsione dal mondo del lavoro sperimentata dai padri. Comunque, i figli di origine turca e
marocchina riescono ad ottenere risultati scolastici migliori rispetto ai loro padri. Spesso le ragazze hanno
risultati scolastici migliori. Figli dei marocchini (a differenza dei turchi): più attratti dalla cultura dominante.
Recenti studi hanno riscontrato in Olanda un tasso più alto di schizofrenia: ciò per lo svantaggio
socioeconomico, i lunghi periodi di separazione dai genitori durante l’infanzia e l’adolescenza, la residenza in
quartieri con persone della stessa origine, la discriminazione percepita, le diversità culturali. Spesso anche
malattie croniche.
La recente apertura tedesca: 1973: aumentata presenza dei lavoratori turchi visti come pericolosi. Nel 2000:
nuova legge sulla cittadinanza. Si concede agli immigrati e ai loro figli l’accesso alla cittadinanza per il puro
fatto di vivere o essere nati in Germania. In questo modo la Germania: status di paese di immigrazione. I figli
degli immigrati risultano più partecipi e coinvolti allo stile di vita tedesco, ma si rivelano comunque insicuri:
abbandono scolastico e disoccupazione continuano a caratterizzare le carriere di parecchi ragazzi di seconda
generazione. 2005: quartieri ad alta densità di famiglie musulmane, rappresentati come paludi di stagnazione
sociale, disoccupazione e povertà, pericolose perché dominate da un codice valoriale violento e patriarcale.
Vacillante tolleranza svedese: immigrati: eguaglianza con i nativi. Ma, controllo sugli ingressi, accogliendo
basse quote annuali e privilegiando uomini e donne di provenienza europea, in gran parte celibi e nubili, in
modo che venissero garantite loro piena occupazione e mobilità sociale. Seconda metà degli Anni Settanta:
nuovi migranti a tradizione musulmana, cominciarono a popolare le aree urbane e suburbane di Stoccolma,
Goteborg e Malmo, suscitando sospetto e apprensione presso l’opinione pubblica. Crisi economica: tassi di
disoccupazione e i nuovi immigrati furono spinti ai margini della società. Ragazzi di seconda generazione:
generati da matrimoni tra svedesi e immigrati. Essi sono più soggetti a disoccupazione e a stipendi inferiori.
A causa di queste difficoltà: spesso inclini al suicidio.
Filo diretto tra Spagna e Italia: la Spagna è divenuta paese di immigrazione, ma non è stata in grado di
proporre un proprio modello per l’integrazione, limitandosi a procedere attraverso permessi di soggiorno e
sanatorie. Anche la Spagna: attentati (11 marzo 2004, Madrid). 2000: brutali manifestazioni razziste in una
cittadina dell’Almeria nei confronti non solo delle famiglie marocchine lì residenti ma anche di coloro che
erano sospettati di simpatie verso gli immigrati. Rivolte che durarono 3 giorni (dal 5 al 7 febbraio). Seguirono
poi scioperi: frattura tra immigrati marocchini e popolazione spagnola fu sancita in modo inequivocabile.
Anni Ottanta: marocchini= minoranza etnica più numerosa. Anni Novanta: sempre più massiccia la presenza
di uomini, e di donne sudamericane, in molti casi arrivate da sole e poi raggiunte dai figli. Ragazzi di seconda
generazione: mansioni più dure ma, in questo modo, i tassi di disoccupazione sono più bassi rispetto ai nativi.
Ragazzi sudamericani: meno lavoro. Ciò stride con il buon livello di occupazione posseduto dalle madri. Può
darsi poi, che il maggior inserimento dei marocchini nel mondo del lavoro, dipenda anche dal fatto che la
loro storia migratoria è cominciata molto primo rispetto a quella dei sudamericani. Bande delle Pandillas di
giovani latinoamericani, dedite ad azioni di piccola criminalità, episodi violenti spasmodici. Caratteristiche di
questi gruppi: tatuaggi, bandiere, vestiti larghi, musica hip hop, reggaeton e rock.
Preme nella maggior parte dei figli degli immigrati l’esigenza di riflettere sulla propria realtà, di essere
soggetti comunicanti e non solo oggetti per ricerche condotte da altri. Per questo libro sono state realizzate
31 interviste a ragazzi di età compresa tra i 14 e i 22 anni, nati in Italia o arrivati in momenti diversi, con origini
e provenienze eterogenee.
Le dimensioni parallele, quando il passato rincorre il presente: per molti dei ragazzi di seconda generazione,
l’esperienza italiana ha preso il via il giorno in cui si sono trasferiti. Si tratta spesso di un viaggio imposto,
voluto dai genitori e da cui i bambini spesso sono tenuti all’oscuro. Se invece sono informati in anticipo, i
bambini e i ragazzi hanno modo di elaborare il distacco e immaginare il paese in cui sono diretti. In ogni caso
le paure e le incertezze sono inevitabili: partire significa per gli adolescenti, interrompere sul nascere i
progetti di vita che cominciavano a delinearsi parallelamente alla conquista di nuovi spazi di libertà, di
amicizie forti e di modalità più consapevoli di vivere la quotidianità. Al momento dell’arrivo in Italia, possono
rimanere delusi da questa nuova terra. L’arrivo provoca difficoltà per i genitori, a causa delle difficoltà a
trovare adeguate abitazioni e un lavoro, nell’esprimersi nella nuova lingua, nel rispondere alle esigenze
imposte dal contesto e nel mediare con nuovi modelli educativi e culturali. Nel caso di ricongiungimento
famigliare, si assiste spesso a dei traumi: il bambino si ricongiunge ad un genitore che lo aveva lasciato anni
prima, ma si scopre che non è più lo stesso: cambiano i comportamenti, le mentalità, il modo di porsi. Si
hanno difficoltà anche quando il genitore rompe i rapporti con il coniuge. Inoltre, la difficoltà emerge anche
nel momento in cui il ragazzo si trova a doversi riavvicinare ad un genitore in un’età in cui sarebbe naturale
un progressivo allontanamento. Si hanno anche difficoltà linguistiche che interferiscono con la possibilità di
fare nuove amicizie. I primi giorni di scuola sono caratterizzati da disorientamento: alle difficoltà linguistiche
si aggiunge l’impatto con una nuova realtà con un’impostazione diversa rispetto a quella sperimentata in
precedenza. Chiusure, silenzi, imbarazzi, solitudini o comportamenti eccentrici sono reazioni cui sottendono
vissuti di inadeguatezza e di discriminazione reale o soltanto percepita, alla luce di una diversità
inequivocabile nei confronti dei compagni, che si manifesta a partire dall’aspetto fisico e dalla lingua per poi
estendersi all’abbigliamento, alle espressioni della personalità e del retroterra famigliare. In sintesi, per
indicare i principali fattori che determinano i vissuti dei figli degli immigrati nei primi periodi nel nuovo paese,
si può far riferimento all’età, al contesto di partenza e di arrivo, alla disponibilità di una rete parentale di
sostegno, alle attitudini personali, alla padronanza linguistica, alla tipologia migratoria, agli eventi imprevisti
o accidentali, al momento storico-sociale. Accanto ai ragazzi che compiono un viaggio, si hanno poi coloro
che il viaggio non l’hanno mai compiuto, perché nati in Italia. Sono stati quindi i genitori a sostenerlo per loro.
Vulnerabilità della madre nel momento del parto che avviene in un mondo a lei nuovo. La madre si deve
prendere cura di un infante in un modo che lei stessa non conosce. Secondo periodo di vulnerabilità: quando
i ragazzi iniziano ad andare a scuola. I bambini crescono, diventano adolescenti ed altri coetanei si uniscono
nelle classi multiculturali. Con l’adolescenza si completa la cerchia dei periodi di massima vulnerabilità. I figli
degli immigrati non ancorano radici sul suolo che quotidianamente calpestano, ma lo relativizzano
intrecciando paragoni con i luoghi che hanno dovuto abbandonare o che visitano periodicamente d’estate, e
professano un futuro aperto a nuovi spostamenti in funzione delle opportunità e delle possibilità di essere
felici. Essi vogliono poi adattarsi ai comportamenti generazionali di massa, ormai connotati a livello globale;
ma continuano a mantenere un legame al loro paese d’origine. Con i telegiornali si mantengono informati su
ciò che avviene nei posti dove vivono i nonni e i vecchi amici. Raramente i genitori si oppongono in modo
drastico al processo di osmosi che proietta nei figli i modelli occidentali; fanno il possibile per cercare di non
perdere il controllo su di loro senza che questo possa pesare, ma quando lo ritengono opportuno non
transigono nell’imporre i vincoli (esempio: questione del sabato sera). Ciò riguarda specialmente le femmine.
Occorre notare come i comportamenti trasgressivi che, assumono nell’opinione pubblica le dimensioni di
ragazzate o poco più, quando ad attuarli sono i figli degli immigrati, sono interpretati con maggiore sospetto.
Per i figli di immigrati appena arrivati è più immediato stringere contatti col medesimo retroterra di
provenienza; col passare dei mesi, il progressivo ambientamento e la migliore padronanza linguistica
potranno portare ad allacciare stretti rapporti anche con ragazzi autoctoni o di altra provenienza. Soprattutto
tra coloro che sono arrivati adolescenti, permane la sensazione di trovare maggiore affinità e reciproca
connessione tra gli amici con medesimi origini, poiché accomunati dalle storie di vita e dalle condizioni di
migranti, mentre i coetanei italiani sarebbero adeguati a passare il tempo in modo divertente senza
addentrarsi in eccessive confidenze. Altri ragazzi vedono i ragazzi come modelli dai quali imparare molte cose
e li preferiscono agli stranieri. Molti credono comunque che gli amici migliori siano quelli lasciati al momento
della partenza. La solitudine: compagna fedele nelle giornate di questi ragazzi. Anche per quanto riguarda gli
amori, ci sono ragazzi che preferiscono partner italiani, altri che prediligono quelli con le medesime origini,
altri che non fanno differenze. Alla base di ciò sta anche la loro mentalità (se più vicina al paese d’origine o a
quello in cui risiedono). Rischio: non essere visti di buon occhio. Molti giovani frequentano gruppi formali a
carattere sportivo, religioso, ludico, artistico, sociale, di volontariato, stimolanti per la socializzazione e per
l’impegno personale. Tra questi gruppi i più importanti sono 3: l’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia,
l’Associna e la rete G2. Esse sono create e gestite da figli di immigrati, consentono momenti di incontro e
confronto online e faccia a faccia, portano avanti battaglie e rivendicazioni, promuovono iniziative volte a
sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica sulla condizione delle seconde generazioni. Il loro successo è
riconducibile in buona parte all’utilizzo di blog, siti e forum virtuali, attraverso cui i ragazzi riescono ad
interrogarsi su loro stessi e la loro condizione. Per i ragazzi di seconda generazione è esperienza quotidiana
fare i conti con il proprio passato, in modo particolarmente intenso durante l’adolescenza. I ragazzi si
chiedono per esempio come sarebbero diventati se avessero vissuto in un altro paese; le ragazze sono
consapevoli di avere libertà non possibili nel loro paese di origine. I ragazzi e le ragazze di seconde
generazione riconoscono la ricchezza che nasce dal confronto con culture diverse, allargando i loro punti di
vista, le coordinate entro cui orientarsi e considerare gli eventi. Allo stesso tempo, si hanno sentimenti di
mancanza, abbandono e nostalgia verso abitudini, eventi e persone, coi quali ancora a lungo, forse per tutta
la vita dovranno convivere. Spesso si chiedono se il posto in cui vivono è realmente il loro posto. La diversità
può diventare vulnerabilità e portare a pensare che forse la vita sarebbe stata più semplice nel paese di
origine, mimetizzati perché più simili ad agli altri, senza trovarsi sempre nella posizione di dover dimostrare
qualcosa, di dover giustificare la propria specificità. Ad alimentare poi le insicurezze è in Italia una legge sulla
cittadinanza molto restrittiva, fondata prevalentemente sul diritto di sangue secondo cui è cittadino italiano
chi discende da cittadini italiani; per gli altri ottenere la cittadinanza significa intraprendere percorsi intricati
e mai scontati del matrimonio e della naturalizzazione. Ciò porta al fatto che molti ragazzi sono disinteressati
nei confronti della politica. Molti non vedono poi di buon occhio i nuovi arrivati, come se il fatto di essere
giunti prima costituisse motivo di privilegio. Non mancano però posizioni più empatiche nei confronti di
questi ragazzi. A conciliare le diverse posizioni riguardo al fenomeno migratorio subentra la condivisa
constatazione di come discriminazioni, stereotipi, pregiudizi, nei confronti degli immigrati siano ancora diffusi
tra anziani, adulti, e ragazzi. Si tratta di reazioni provocate dal disorientamento che la diversità suscita.
Nonostante questo, gli adolescenti si mostrano più interessati a valorizzare ed assimilare gli aspetti positivi
di mentalità e carattere dei coetanei italiani, consapevoli di come anche le caratteristiche negative stiano
progressivamente entrando a far parte di loro. I ragazzi assumono poi diversi punti di vista nei confronti delle
famiglie dell’Occidente, del modo in cui i ragazzi si rapportano con esse. Alcuni pensano che questo sia un
buon modello, altri valorizzano il modello dato dal loro paese d’origine.
Luoghi geografici ed emotivi: dissonanze generazionali: spesso i ragazzi e le loro famiglie non riescono a far
visita frequentemente ai loro parenti (a causa per esempio dei voli troppo costosi). Molti idealizzano quindi
il loro paese d’origine. Inoltre, la lontananza trasforma le relazioni tra le persone. Pur continuando a mostrare
profonda gratitudine nei confronti dei nonni e dei parenti che nel passato sono state per loro figure
fondamentali di riferimento, i ragazzi sanno che qualcosa è cambiato. Coloro poi che non hanno avuto modo
di passare periodi prolungati presso nonni e parenti, si ha spesso distanza affettiva e comunicativa nei
confronti di queste figure. Spesso poi i figli degli immigrati vengono visti come italianizzati. Cambiano anche
i rapporti con gli amici che non hanno avuto modo di partire (i cui rapporti sono comunque supportati dalla
posta elettronica). Il punto di vista dei ragazze e delle ragazze sui paesi d’origine dei genitori è strettamente
connesso ai sentimenti che li tengono legati a quei luoghi. L’età in cui si è arrivati in Italia, i rapporti con amici
e parenti, lo stato di benessere raggiunto nel nuovo contesto di vita, la frequenza dei rientri, sono alcuni dei
fattori che influenzano i livelli di attaccamento e nostalgia che i ragazzi provano nei confronti dei paesi
d’origine. Al di là delle dichiarazioni d’affetto, sono comunque pochi i ragazzi che progettano in tempi brevi
ritorni definitivi. Spesso non prendono neppure in considerazione quest’eventualità. I genitori possono
pensare ad un ritorno nei paesi d’origine in caso di preoccupazione nei confronti dei nonni; poiché però il
ricongiungimento è stato difficile, è altrettanto difficile che i genitori pensino ad un ritorno a casa.
Generalmente, nelle migrazioni, il marito è il primo a partire. La scelta del luogo dipende anche dalla presenza
di amici o parenti cui potersi appoggiare, dalla disponibilità dei posti di lavoro e da contingenze fortuite.
L’avvenuto ricongiungimento impone la ridefinizione dei ruoli e delle aspettative da parte del genitore e del
figlio; spesso devono passare anni affinché le incomprensioni reciproche possano essere riassorbite. I padri
dei ragazzi di seconda generazione si trovano ogni giorno a frequentare persone italiane; c’è chi si trova
meglio con gli autoctoni e chi preferisce frequentare persone dello stesso paese. Per le madri dei ragazzi di
seconda generazione, le occasioni di socialità si riducono sensibilmente, legandosi tra gli altri fattori, al ruolo
assegnato alla donna nei paesi di provenienza, alla padronanza linguistica, alle contingenze, alla presenza di
una rete parentale con cui condividere il tempo libero, al numero di anni trascorsi in Italia. Le donne possono:
abbracciare con gioia la nuova vita oppure rimpiangere quella passata. Nelle case degli immigrati troviamo
poi oggetti che rimandano al paese d’origine e altri italiani, secondo un modello che vede nei figli i paladini
delle istanze occidentali e nei genitori i custodi, pur non immuni da contaminazioni. Tra genitori e figlie i
contrasti più frequenti riguardano le restrizioni e le proibizioni imposte sulle uscite serali, sulla scelta delle
amicizie, sulla frequentazione di ragazzi, che, specie se italiani, rischiano di minacciare la fedeltà alle origini
culturali e famigliari. A minori restrizioni verrebbero sottoposti i fratelli, pur non godendo di tutta la libertà
concessa ai coetanei. Le raccomandazioni dei genitori a non rinnegare mai la cultura d’origine possono
provocare conflitti interiori e diverbi in un’età in cui l’omologazione ai comportamenti degli amici diviene
essenziale veicolo di costruzione identitaria. Dall’altra parte della barricata i genitori intendono riaffermare
la centralità dei loro ruoli, minacciati dall’invadenza dell’ambiente esterno. Generalmente genitori e figli
riescono a trovare soluzioni di mediazione tra le rispettive posizioni e, passati gli anni più turbolenti, i rapporti
tendono a convergere verso modalità più idilliache; allo stesso tempo, non mancano episodi di estrema
radicalizzazione del conflitto intra-famigliare. Più a loro agio nel mondo occidentale, i figli spesso si
sostituiscono ai padri nei rapporti con le istituzioni con conseguente perdita di autorevolezza da parte dei
genitori e con eccessiva responsabilizzazione e precoce adultizzazione dei ragazzi, costretti a farsi carico di
adempienze sconosciute ai coetanei autoctoni, rischiando di sviluppare vissuti di solitudine. I figli mostrano
poi maggiore competenza nella lingua italiana, spesso maggiore a quella nella lingua madre. La trasmissione
della lingua madre costituisce però un forte collante identitario e di riconoscimento reciproco, un modo per
alimentare il rapporto con le origini e dare voce ai ricordi. Perderla significa sacrificare una componente
importante dei legami di appartenenza sull’altare della distanza e delle nuove spinte culturali.
Gioie e dolori sui banchi di scuola: i figli degli immigrati raggiungono tassi di bocciatura più alti rispetto agli
autoctoni, con casistiche strettamente legate al livello di istruzione dei genitori, alla qualità della
scolarizzazione precedente, all’età di arrivo in Italia, alla capacità di allacciare relazione interpersonali con gli
insegnanti, alla padronanza della lingua italiana. Un’evidenza importante merita il bilinguismo, purtroppo
osteggiato da alcuni insegnanti, ma in realtà prezioso supporto a livello cognitivo ed emozionale, per un
apprendimento della lingua italiana fondato su più idiomi. Il successo a scuola non dipende solo dalle
potenzialità individuali ma anche da alcune dimensioni pubbliche e strutturali relative al funzionamento del
sistema scolastico in cui i ragazzi sono inseriti. Si hanno molte difficoltà nel caso di arrivo dei ragazzi alle
superiori: difficoltà linguistiche, solitudini, discriminazioni e ghettizzazioni nei cortili sono ostacoli molto duri
da superare in età adolescenziale, anche se la forte connotazione multiculturale della popolazione scolastica
può aiutare ad ambientarsi in modo più rapido e sereno. Gli interventi di recupero linguistico sono giudicati
positivamente ma spesso si denuncia la scarsa attenzione verso gli aspetti psicologici e sociali
dell’integrazione, dovuta a disinteresse o impreparazione del corpo docente. Spesso problemi anche con i
professori (ciò si nota per esempio anche nel momento della scelta della scuola superiore. I ragazzi stranieri
vengono spesso indirizzati verso istituti professionali ignorando le loro vere capacità). Si notano anche delle
difficoltà nei rapporti tra genitori e professori spesso causate dai differenti modelli educativi proposti a casa
e a scuola.
Potere della fede anche quando presunta: diversi rapporti con la fede. Praticanti: coloro che praticano con
regolarità e coerenza la propria religione. L’appartenenza religiosa diviene motivo di aggregazione
comunitaria che permette di salvaguardare elementi linguistici e culturali ricevuti dai padri. Radicali:
prendono le distanze da una società e da una cultura percepiti come ostili, barricandosi nelle forme
estremizzate e distorte della religione. Secolarizzati: non pregano, non frequentano i luoghi di culto e rifiuti
la pratica devozionale, però partecipano a quei riti che veicolano importanti messaggi di identificazione
culturale e affetto famigliare (esempio Ramadan). Devoti a un Dio personale: approccio privato e personale
al divino. Atei e agnostici. Il clima di ostilità nei confronti dell’islam viene sofferto molto dai ragazzi
musulmani. Argomento tipico è quello del velo. L’aspetto religioso e quello sociale interagiscono fortemente
nella pratica del velo, la cui scelta può essere n modo per ribadire il ruolo centrale attribuito alla religione,
pur non opponendosi al contesto occidentale circostante. Indossare il velo significa seguire canoni
comportamentali che talvolta comportano sacrifici e rinunce, significa vestirsi in un certo modo, condurre
una vita di un certo tipo, responsabilità che molte ragazze sentono di non poter condurre e quindi scelgono
di non velarsi. Nonostante le discriminazioni, sembra possibile vivere in un paese occidentale senza rinnegare
la propria religione. La strada per farsi accettare sarebbe quella del reciproco rispetto.
Pugni chiusi e rabbia giovane: spesso tra i giovani si formano delle bande. I motivi di ciò sarebbero il
malessere, la solidarietà di gruppo talvolta trasformata in solidarietà di branco, necessità di essere ascoltati
e segregazione amicale. Felicità e sconforto si alternano nei ragazzi appartenenti alla seconda generazione.
In qualsiasi mondo in cui vivranno vogliono ribadire una propria collocazione.
Diversità e continuità nelle parole dei ragazzi: la migrazione egiziana è caratterizzata da un partenza
dell’uomo, inizialmente con un chiaro progetto di rientro dopo un periodo di lavoro. Una volta raggiunto
l’obiettivo che ha avviato il progetto, ci sarà il rientro in patria. Partenza spesso consigliata da un parente o
amico che si trova in Italia, a cui il migrante inizialmente si appoggerà. In seguito, si passerà alla fase che
supera la provvisorietà e che si caratterizza come strutturale e durevole. Dopo un primo periodo di
assestamento si avrà una pratica di ricongiungimento e di stabilità, spesso richiesta dalla donna, che non
vuole vivere più da sola. È comunque difficile per le donne partire e seguire i mariti. Quando sono madri, a
volte si trovano anche costrette a lasciare i figli in affido ai nonni o ai parenti nel paese d’origine, a causa
della difficoltà degli iter burocratici. Ricongiungimento= difficile= i parenti si trovano a dover ristabilire un
nuovo equilibrio, ricostruendo legami affettivi lasciati in sospeso per anni; è poi indispensabile che i genitori
permettano ai figli di ambientarsi e crescere serenamente nel paese ospitante. La scolarizzazione dei figli
pone alla famiglia la necessità di une intensa partecipazione alla vita sociale dei figli stessi e di un approccio
educativo nuovo, capace di coniugare le due culture: quella propria del paese d’origine e quella del paese
ospitante. Questa sfida coglie i genitori impreparati, poiché non hanno avuto abbastanza tempo per
rielaborare in prima persona il nuovo ambiente e la nuova vita. il ricongiungimento rappresenta per la
famiglia la necessità di offrire ai figli una nuova stabilità sulla base della quale poter ricostruire un nuovo tipo
di progettualità di vita. progettare il futuro nel paese ospitante, in cui i figli si formeranno e socializzeranno
e ridefinire e rivalutare il proprio aspetto migratorio come un’esperienza duratura sono i due aspetti
principali che una famiglia migrante deve affrontare. In questo piano famigliare, spesso non viene
considerato il parere dei figli, che alcune volte non sono contenti di lasciare tutto per qualcosa di ignoto e
altre si mostrano entusiasti del nuovo. I figli rappresentano un elemento chiave, perché costituiscono un
elemento di ancoraggio verso il paese in cui vivono una fase di crescita assai delicata, l’adolescenza. La
maggior parte delle famiglie egiziane segue nell’educazione dei figli il modello della famiglia islamica, con la
netta distinzione dei ruoli e degli spazi femminili e maschili. Nella maggioranza dei casi, l’unica fonte
economica sembra essere il lavoro del marito. La donna contribuisce al sostentamento della famiglia
attraverso qualche attività, in genere lavori di pulizia o in fabbrica. Ciò perché il ruolo della donna è spesso
inteso come educativo. Da questo derivano le scarse competenze linguistiche di molte donne. Le giovani
ragazze, invece, si differenziano dalle loro madri, e terminati gli studi, corrono alla ricerca di un lavoro, che
non è più visto come sola fonte economica, ma rientra a far parte della normalità dell’andamento di vita
comune. Molti ragazzi sono consapevoli di vivere all’interno della quotidianità delle fasi si conflitto interiori,
spesso sentendosi parte di un tutto o di un niente. I giovani possono reagire in vari modi: alcuni di loro
cercano la mediazione, per far capire ai genitori i loro punti di vista. Altri ragazzi si sentono talmente
appartenenti all’una o all’altra cultura che non riconoscono il conflitto in sé. Nell’esperienza migratoria,
soprattutto di coloro che l’hanno vissuta per primi (prima generazione), ciò che rende faticoso e a volte
pericoloso il contatto tra culture differenti è proprio l’assenza di agenti di mediazione tra il vissuto precedente
e quello nel paese d’accoglienza, cioè qualcuno in grado di aiutare a superare lo sforzo enorme che comporta
la realtà del cambiamento d’ambiente, vita, ecc. La mancanza di questo passaggio comporta anche la
mancanza nella capacità di vedere i propri figli come diversi, come appartenenti ad una cultura altra che
porta dentro di sé parti della propria mischiate a quella del paese in cui i giovani vivono la loro quotidianità
la cultura è però in grado di uscire dall’indeterminatezza e dalla confusione, nello sviluppo della persona; in
particolare, è in grado di creare i presupposti per una dialettica del dare/ricevere che arricchisce i rapporti
con le altre identità culturali e la percezione della propria. Per raggiungere questo livello, i genitori e i figli
necessitano di essere accompagnati. La religione incide notevolmente, sia in termini di completa accettazione
e volontà di trasmissione alle future generazione, sia di rifiuto e di negazione. La possibilità di trovare un
buon lavoro, di fare carriera e di portare a conclusione un buon percorso di studi incide sulla volontà e/o
capacità di immaginarsi il futuro.
Figli di badanti e di un impero che non c’è più: le persone che arrivano dall’ex URSS sembrano non essere
avvezze al contatto con gli stranieri, specialmente se di colore; alcuni di loro affermano che gli unici neri che
hanno visto, sono quelli dei paesi africani a regime socialista o comunista che andavano a studiare nelle loro
università. La loro prima reazione nei paesi stranieri è di ignorarli.
Storie di donne, di uomini e di ragazzi: le donne provenienti dall’ex blocco sovietico, così numerose sul nostro
territorio, cominciano a portare anche i figli, mentre in passato si limitavano a lasciarli in patria sotto le cure
delle sorelle o delle nonne. Dal punto di vista fisico, le sentiamo più vicine a noi, ma conoscendole scopriamo
che dal punto di vista culturale sono molto lontane. Spesso sono donne che hanno alle spalle vite complicate
e faticose, che hanno avuto al loro fianco uomini che scontano il trauma del crollo di un mondo e della
mancata ricostruzione di un altro, e quindi spesso caduti in depressione. Molte di queste ragazze cercano di
sposare uomini italiani, non solo per ottenere il permesso di soggiorno. In realtà, quel che si percepisce, è
che vogliono sposarsi per sentirsi al sicuro. Esse hanno paura di rimanere sole, perché una donna senza uomo,
non è ritenuta una vera donna. Alcune donne sono poi spesso in disaccordo con alcuni comportamenti tenuti
dalle donne occidentali.
Premessa: vicenda di Jean Micheal Basquait, artista nero spesso giudicato per il colore della sua pelle. Ciò lo
condurrà al baratro. Morirà giovanissimo a causa di overdose. Varie vicende di ragazzi diversi. Engy Abdellatif:
nella forma di una lettera al proprio padre, EA rielabora la storia e le confessioni di Miriam, 25enne
marocchina trasferitasi da bambina a Reggio Emilia. Accusa il padre di tutto ciò che non ha potuto realizzare
nella sua vita. Diana Ghebrul Iassu: nata a Bologna da genitori eritrei, si è laureata in Educatore Sociale, on
una tesi sull’integrazione dei giovani di seconda generazione. Si considera italiana di origine eritrea. Joy Betti:
indiano, viene adottato da una famiglia trentina. Laureato in Scienze politiche, si è iscritto alla specialistica in
pedagogia. Lavora nel sociale e nella cooperazione internazionale. È presidente dell’associazione bolognese
Turisti non a casa, coordinatore e vicepresidente dell’associazione Glocal di Trento. Quando ha modo di
tornare in India, non la riesce più a vedere come prima. Karen Staropoli: peruviana. Fu lasciata in un
orfanotrofio e adottata da una coppia italiana. Prima rifiuta il Perù, dopo riesce a ritrovarvi le sue origini.
Diventa fotografa. Acai Lombardo Arop: danzatrice e cantautrice italo-sudanese (padre sudanese e madre
italiana), ha fondato l’Associazione Culturale Danzemeticce, allo scopo di diffondere la danza e le arti
performative come veicoli transculturali. Insegna danza a Bologna e tiene seminari in tutta Italia. Danza come
veicolo interculturale. Multiculturalità= convivenza di più culture, ove queste mantengano le loro
caratteristiche originarie e specifiche, perseguite in un contesto di separazione e a volta addirittura di
ghettizzazione. Meticcio= migrante perpetuo che ha insita la condizione del viaggio, dello spostamento, sia
attraverso i mondi che attraverso i tempi. Gabriele Kuruvilla: padre indiano e madre italiana. Passioni:
scrittura e pittura. Scrive della condizione dei ragazzi immigrati (esempio Nero a Metà: padri che nascondono
le proprie origini che sono poi riscoperte dai figli). Zanko: nasce a Milano da genitori siriani. Si inizia a far
conoscere sulla scena milanese come beat-boxer. Diventa un importante rapper. Borana Osmani: nasce a
Durazzo e vive a Ferrara. Lavora come coordinatrice del Centro Interculturale di Ferrare, presso l’associazione
multiculturale Cittadini del Mondo, nella quale da anni è coinvolta, partecipando attivamente a
manifestazioni, iniziative, e progetti di accoglienza e di inserimento per cittadini immigrati. Una grande rete:
Rete G2 – seconde generazioni: organizzazione nazionale apartitica fondata da figli di immigrati e rifugiati
nati e/o cresciuti in Italia. Uno degli obiettivi: riforma della legge di cittadinanza. Sun Wen- Long: Ingegneria
Informatica a Bologna. È impegnata in ruoli di responsabilità in Associna e nella Rete ToghetER. Aziz Sadid:
figlio di genitori immigrati dal Marocco. Scienze della cultura a Modena. Ha fondato l’associazione giovanile
Generazione Articolo 3 (facendo riferimento all’articolo 3 delle Costituzione, si vuole partire da ciò che si ha
in comune, non da ciò che differenzia). Svolge attività di educatore interculturale nelle scuole. Marco Wong:
ingegneria al Politecnico di Milano. In Italia si rende conto che le giovani seconde generazioni possano
apprendere molto dalla sua esperienza di vita, e si impegna in Associna, associazione no profit attiva
all’integrazione e nei temi dell’identità delle seconde generazioni cinesi. Cristina Bobutac: moldava, si
trasferisce a Ferrara dove si diploma in Ragioneria. Lavora come impiegata in un’azienda.
Minori stranieri, identità e riconoscimento sociale: seconde generazioni che per definire loro stessi usano
una metafora molto significativa: madre (che rappresenta la terra e la società), che li ha accolti. Di contro c’è
un padre (lo stato italiano) che non li riconosce e li abbandona al loro destino. Sono ragazzi cresciuti in tutto
e per tutto in Italia, ma non sono italiani.
Minori stranieri e riconoscimento sociale: la cittadinanza è la condizione giuridica attraverso la quale uno
stato riconosce alla persona fisica la sua pienezza di diritti sia civili che politici; è una condizione fondamentale
dell’identità personale; è ciò che ci permette di vivere all’interno di un quadro di diritti e doveri nel nostro
paese, ma è allo stesso tempo anche la condizione giuridica che io soggetto porto con me ovunque vada.
Avere cittadinanza significa avere identità, possibilità e limiti, opportunità e capacità di scelta: non averla
significa essere stranieri, non appartenere a quella terra, né a quella cultura, né a quell’insieme di diritti,
specialmente politici.
Per inquadrare meglio il problema: il contesto migratorio: spesso si ha l’idea che insieme alla crescita
demografica, aumenterà la fame nel mondo. Gli esperti dicono però che ci sarebbe la possibilità di nutrire
tutti: la difficoltà nasce dal fatto che il 20% della popolazione continua a consumare l’80% delle risorse e il
restante 80% vive con solo il 20%. In alcuni paesi a forte densità di popolazione (Cina, India, Brasile), il tenore
di vita sta crescendo e si sviluppano i consumi; tendenzialmente aumenteranno le richieste di un maggior
consumo di risorse anche da parte dei paesi poveri, e insieme ad esse aumenteranno i flussi migratori per la
ricerca di una vita più decorosa.
L’espressione seconde generazioni si è ampliata. Essa indicava i giovani nati nelle nuove terre. Oggi indica
anche: i minori nati nel paese di origine della famiglia che si sono trasferiti in Italia ad una certa età; i minori
nati da un matrimonio misto; i minori non accompagnati. Alcuni studiosi considerano anche i ragazzi che
vengono mandati dalla famiglia per periodi più o meno lunghi nel paese d’origine per mantenere i legami con
la propria cultura e parentela. In ogni caso, l’esistenza di un numero di soggetti che vivono la loro crescita nel
nostro paese cambia radicalmente il quadro dell’immigrazione. Dalle richieste derivanti dai bisogni primari,
che caratterizzano le immigrazioni di lavoro o di lavoratori, ci si sposta verso l’espressione dei bisogni sociali,
come le domande di una buona scolarizzazione, di un’adeguata socializzazione, di mobilità sociale e di
partecipazione civile e culturale, cioè verso richieste di uguaglianza nelle opportunità e negli accessi. Nel 2009
i minori di seconda generazione sono quasi 753000. Questi dati rivelano che i progetti migratori presenti nel
nostro territorio si sono stabilizzati e trasformati: chi costruisce la propria famiglia in Italia tende a costruire
anche il progetto di vita in questo paese e il rapporto con la realtà autoctona diventa più impegnativo e più
interconnesso: i figli hanno possibilità di avere un percorso più omogeneo dentro la realtà italiana. Dal 2007
la presenza femminile ha superato quella maschile (51,3%). Gli immigrati provengono spesso dall’Europa
(53,6%) e fra le prime dieci nazionalità (Romania, Albania, Ucraina, Polonia, Moldova). I dati rivelano che la
multiculturalità tende a stabilizzarsi e a trasformarsi in fenomeno strutturale e irreversibile. Le rilevanti
trasformazioni sociali in atto non possono essere affrontate guardando solo alle problematiche della
migrazione. L’immigrazione deve essere analizzata e affrontata prendendo in considerazione anche i fattori
che sviluppano i processi multiculturali indipendentemente dalla presenza di immigrati stranieri.
Conseguenze della globalizzazione dei mercati: internazionalizzazione dei rapporti economici, grossi legami
di interdipendenza fra economie e condizioni sociali molto diverse tra loro, divaricazione tra ricchi e poveri,
riduzione delle distanze geografiche e temporali, e la forte spinta all’omologazione degli stili di vita,
improntati sempre più al consumismo, aumento dei conflitti interpersonali, fra gruppi e gli stati, i popoli e le
religioni che arrivano perfino a mettere in discussione in molti casi, le forme contemporanee della
democrazia politica. Economia globale che ha creato nuovi scenari: mercato mondiale estesissimo, emergere
di nuovi stati sulla scena economica mondiale con grandissime capacità produttive a costi più bassi e con
conquistata capacità di utilizzo di tecnologie innovative. Redistribuzione della ricchezza: paesi ricchi che
perdono possibilità di benessere e di consumi; al loro interno perdono capacità di presenza sociale i giovani,
i lavoratori precari, mentre alcuni gruppi accumulano molta più ricchezza rispetto al passato, allargando in
questo modo, il divario tra ricchi e poveri. Anche nei paesi emergenti, accanto a forme di estrema ricchezza,
ci sono zone caratterizzate da estrema povertà (esempio bidonville e slum). Bauman parla dei cambiamenti
prodotti dal processo della globalizzazione in modo molto preoccupante, dando il senso di come questi
processi possano incidere molto più profondamente e più rapidamente di quanto si creda nella vita
quotidiana di tutti i soggetti, indipendentemente dalla loro collocazione geografica.
Chi sono i minori stranieri: il numero di minori stranieri è cresciuto negli ultimi anni; ciò soprattutto in
relazione alla possibilità di far entrare in Italia, con relativo permesso di soggiorno, i propri famigliari.
Attraverso la scuola e i processi di formazione, si possono aprire prospettive di mobilità sociale che, in genere,
agli immigrati di prima generazione sono stati negati. In questi casi la presenza migratoria si è trasformata da
immigrazione da popolazione a immigrazione da lavoro. Seconde generazioni, figli della migrazione, figli di
immigrati, minori immigrati, sono solo categorie ambigue e troppo indifferenziate. Non si riesce a mostrare
la complessità della situazione dei minori migranti, faticano a dar conto delle mutevoli differenze che in esse
vengono racchiuse e spesso uniformate. I figli della migrazione hanno avuto percorsi non omogenei fra loro,
sia per la notevole varietà di nazionalità presenti nel nostro territorio, sia per differenti storie familiari. Una
distinzione che incide notevolmente sui percorsi di inserimento e integrazione nella scuola italiana e nella
società riguarda il luogo di nascita. Chi è nato in Italia, ha avuto il vantaggio di aver potuto usufruire delle
opportunità formative a disposizione anche del minore italiano; ha usufruito di una precoce socializzazione
linguistica e culturale, anche se questo vantaggio non esclude e non attenua i possibili conflitti culturali con
la propria famiglia o con i coetanei autoctoni. Il nascere in Italia aumenta la possibilità di accedere alle
opportunità educative e socializzanti. Crescendo in gruppo con gli autoctoni, aumentano le probabilità di
apprendere quelle regole e quei linguaggi informali che aiutano e facilitano la comunicazione e la relazione
tra pari. Invece, i minori stranieri nati altrove e arrivati in Italia, devono affrontare notevoli difficoltà relative
all’inserimento scolastico: la scarsa o nulla conoscenza della nuova lingua; la solitudine nell’affrontare il
nuovo contesto di vita, senza amici; gli scarsi riferimenti sociali e culturali necessari nel trasloco culturale e
geografico che li ha portati in Italia. Essi hanno poi subito un processo di discesa sociale che spesso non viene
rilevato e a cui si attribuisce poco peso: da figli di emigranti, condizione di privilegio nel paese di origine, si
sono trasformati in giovani emigranti, senza patria, senza amici, e ruolo sociale. Per i giovani, la partenza dal
paese di origine, costituisce un salto, traumatico e penoso. Si lasciano gli affetti e si perde soprattutto una
rappresentazione del mondo che permetteva di sentirsi parte di un’identità comune. Con il trasloco si ha uno
spaesamento cognitivo, poiché si è gettati in un luogo completamente nuovo. La famiglia è ristretta, spesso
poco conosciuta a causa dei periodi di lontananza e rimpicciolito nei confini della realtà straniera: si è costretti
a vivere in un luogo controllato dai genitori, privo di nascondigli e momenti di socialità extrafamiliare. La
famiglia è anche ciò che rappresenta il legame con il proprio paese d’origine. Spesso si hanno dei confini
interni alle famiglie: il vivere le due culture può infatti diventare un elemento di rottura delle relazioni
affettive. Da questi conflitti si può arrivare anche a conseguenze estreme come dimostrano i gravi fatti di
cronaca.
La cultura di origine può essere rimossa e poi riemergere nell’evolversi della vita, nella costruzione della
propria identità. Il vivere tra due culture può quindi diventare una risorsa: può produrre la spinta per nuove
indagini di cultura, per fondare i primi elementi di una piattaforma culturale che punta a valorizzare le
differenze facendole incontrare per allargare i significati e le differenze. Da un lato la ricerca può portare a
scoprire una cultura che viene considerata arretrata e che deve quindi essere rimossa. In questa
polarizzazione, la cancellazione delle proprie origini può portare a una vera e propria assimilazione al nuovo
paese e a identificarsi rapidamente nei nuovi valori e comportamenti. Dall’altro la scoperta delle proprie
origini può avere un effetto valorizzante, le cui reazioni possono essere differenti: rifiuto della scelta
migratoria, paura delle contaminazioni culturali, modello di società basato su quello dello stato di origine. In
molti casi, la reazione si sviluppa in maniera positiva e ciò avviene in particolare quando si incontrano, nel
proprio cammino formativo, opportunità che permettono al minore di sentirsi sostenuto e incoraggiato nello
sforzo di crescita. La partecipazione collettiva e la ricerca culturale possono aiutare a far coincidere i diversi
pezzi della storia e dell’identità.
Essere minore straniero vuol dire anche essere senza identità? Che cosa si intende per identità, concetto che
oggi è spesso messo in discussione? In genere, con identità si intende il momento in cui il soggetto elabora
la propria percezione del sé e ne prende consapevolezza, ma occorre non dimenticare e sottolineare che
questo processo avviene in una condizione di interazione/reciprocità con gli altri esseri umani. Noi siamo i
costruttori della nostra identità e ciò avviene quando siamo in continua interazione con il mondo. L’identità
si sviluppa in una relazione io-mondo, e cioè in un percorso che va dall’interno dell’io all’esterno, nel mondo,
per poi tornare all’interno dell’io che rielabora, in maniera più o meno consapevole, le esperienze vissute. In
un mondo globalizzato e in società che si trasformano in direzione multiculturale, diventa centrale per gli
esseri umani il tema dell’identità soggettiva e collettiva. Nella società tradizionale, l’identità della persona
era in larga misura definita dalla nascita in rapporto ad alcune categorie sociali (es. ceto), e difficilmente
poteva mutare (di ciò parla Bauman, nell’Intervista sull’Identità). La modernità e la globalizzazione hanno
trasformato il senso dell’identità e della ricerca dei suoi contenuti significativi. La costruzione dell’identità
rinvia oggi necessariamente al cambiamento continuo e alla ricerca di soluzioni che si possono dare solo nel
rapporto con gli altri, nella rete di relazioni che il soggetto costruisce e che oggi si è notevolmente ampliata.
Autori come Maalouf segnalano che l’identità della persona è formata da una pluralità di elementi che
determinano varie appartenenze. Oggi danno un contributo all’identità anche elementi che nel passato
avevano meno rilevanza (es. gruppo sportivo). L’identità è formata quindi da un insieme di pezzi da
combinare tra loro. Oggi, quindi, nell’era della globalizzazione, l’identità non può essere fissa come in
passato: ogni individuo può costruire una pluralità di appartenenze che derivano dalla vastità di confini che
si presentano al nostro orizzonte e dalla varietà delle relazioni che si intrecciano. L’identità ha significato se
in collegamento con la pluralità e la solidarietà. In questo modo, si può volgere lo sguardo all’altro e avere
una prospettiva di inclusione da cui deriverà un orizzonte interculturale.
Essere riconosciuti come soggetti e come cittadini: ai giovani figli dell’immigrazione, è necessario che avvenga
un riconoscimento sociale su due livelli. In primo luogo, il minore straniero deve essere riconosciuto come
persona, come soggetto che ha diritto ad una propria storia, che comprende le relazioni sociali e affettive di
cui è portatore. Occorre accettare la sua identità e la sua cultura (ciò stabilito anche dalla Convenzione sui
Diritti dell’Infanzia, provata all’Assemblea nazionale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989). Su ciò hanno
un ruolo fondamentale le istituzioni educative, con la loro capacità/possibilità di dare reali opportunità di
sviluppo ai diversi soggetti. È anche altrettanto fondamentale la famiglia d’origine, che deve comprendere la
nuova realtà di vita dei figli. In questi terreni educativi, deve valere e prevalere il principio pedagogico della
differenza nel senso che occorre dare valore alla pluralità e al confronto per orientare il processo educativo
verso il riconoscimento dell’identità propria del minore. In secondo luogo, si tratta di riconoscere il cittadino,
che è cresciuto e si è formato nel nostro paese, di riconoscergli il suo diritto all’uguaglianza di trattamento e
di accesso alla cultura. Primo livello: fondamentali: scuola, cultura e i mezzi di informazione, per la loro
capacità di creare legami fra le culture. Secondo: fondamentale: diritto di cittadinanza, che dipende dalla
realizzazione di politiche positive di inclusione da parte dei governi. In molti paesi, il diritto di cittadinanza si
basa: ius sanguinis (io sono cittadino ita perché i miei genitori sono ita); ius soli o ius loci (diritto del territorio:
sono ita perché sono nato in Italia); sul contratto matrimoniale con un cittadino o una cittadina (anche se ciò
non vale in tutti gli stati. Spesso la donna non può trasmettere la cittadinanza); naturalizzazione:
provvedimento legislativo dello stato che riconosce particolari meriti acquisiti da un soggetto o l’esistenza di
certe condizioni (risiedere da un certo tempo in un paese). Attualmente, con la sola eccezione della Francia,
nella maggior parte dei paesi europei, l’accesso al diritto di cittadinanza avviene per ius sanguinis che sembra
garantire un maggior attaccamento al paese dei genitori. In Italia, in molti giovani si ha il desiderio di una
collocazione sociale. Esistono per esempio, associazioni come Giovan in cerca di cittadinanza. Come si può
rivendicare la pluralità delle culture, e allo stesso tempo identificarsi in una particolare identità sociale e
culturale? Yenoshua, in riferimento all’identità ebraica (in crisi sia nei rapporti interni (fra gli stessi ebrei) sia
nei rapporti esterni (israeliani e palestinesi, israeliani e arabi)), afferma che l’appartenenza a questa comunità
è basata solo sulla buona volontà soggettiva, orientata a costruire ponti e contatti fra le culture e i gruppi
sociali, al fine di riconoscere dialogo e confronto fra soggetti individuali e collettivi, che oggi vivono la
separazione, l’isolamento culturale e perfino lo scontro.
Andare incontro all’altro: accogliere, condividere e integrare: I saperi per il lavoro di cura: bisogna
recuperare il senso di comunità. Per prima cosa occorre educare, andare incontro all’altro. Il ruolo degli
educatori è accompagnare, farci vicini, sostenere e promuovere benessere, valorizzando la persona, la
relazione, i contesti primari di riferimento, le risorse del territorio. Per intervenire sul disagio bisogna
riconoscere la natura di non-agio, di mancanza di bene, e di conseguenza, per prevenire il disagio, bisogna
intervenire sull’agio, sulla normalità. Gli educatori si prendono cura dell’altro anche quando il loro agire è
vanificato. Marinella Scalvi illustra 7 regole dell’ascolto: 1) non avere fretta di arrivare a conclusioni. Le
conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2) quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire
a vedere il tuo punto di vista devi cambiarlo. 3) se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi
assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva (Bateson
chiama questo processo deuteroapprendimento, un apprendimento dell’apprendimento: uscire dai giudizi
per comprendere). 4) le emozioni aiutano a comprendere non cosa, ma come osserviamo, ci indicano le
categorie socioculturali che usiamo per giudicare e leggere la realtà. 5) in buon ascoltatore è un esploratore
di mondi possibili. 6) un buon ascoltatore accoglie i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i
dissensi per scoprire qualcosa di nuovo. 7) per divenire esperto dell’arte bisogna adottare una metodologia
umorista, ridendo delle proprie rigidità.
L’ascolto attivo ricerca quindi la pluralità dei punti di vista. Per fare l’educatore è necessario adattarsi al
contesto, per incontrare i ragazzi è necessario ridurre la distanza, creare legami. Non si sa di preciso dove
porteranno l’incontro e la relazione. C’è sempre uno spazio per l’incerto. L’aiuto è lo strumento relazione e
professionale per l’attuazione della relazione stessa. Il su obiettivo è la crescita della persona/soggetto in
modo da svilupparne le capacità di autonomia, di risposta agli stimoli del contesto e della persona stessa.
L’educatore deve cogliere le risorse e i bisogni del soggetto. Diventa un catalizzatore di risorse evitando però
sia i fenomeni di cronicizzazione sia di dipendenza. È quindi un compito complesso, basato su un equilibro,
che non deve essere precario. L’educatore deve rimuovere gli ostacoli ma non diventare invadente.
Comunicazione= strumento fondamentale della relazione, alla cui base c’è la capacità di saper ascoltare se
stessi. Comprensione= data da un ascolto empatico ed attivo, riconoscendo al soggetto in relazione una pari
dignità e quindi anche la capacità di apportare cambiamenti significativi all’azione stessa. Infatti, a ogni
messaggio, la comunicazione si evolve e si sviluppa connotandosi di nuovi significati. Altro aspetto
fondamentale è il conoscere il passato dell’altro. Ciò non deve essere a senso unico: anche la storia
dell’interlocutore sarà importante. Incontro con l’altro significa imparare a rapportarsi con il diverso da noi,
con chi è in grado di far emergere il nostro inconscio, la nostra problematicità che si manifesta soprattutto
nella difficoltà ad aprirsi, a mettersi in discussione e in ascolto. È in questa diversità che va ricercata
un’uguaglianza, per aprire un dialogo in cui ogni partecipante possa essere se stesso. Presupposto di questo
incontro fertile è la possibilità di darsi un tempo comune. Esistono vari tipi di tempo: dedicati alla cura,
incentrati sul presente, tempi di passaggio, tempi del congedo. La relazione si fonda sulla tensione: l’altro è
necessario per diminuire la mia ignoranza, è parte attiva del processo di conoscenza. L’insegnante deve
essere in grado di prendere decisioni, capire ciò che è necessario. L’educatore si trova in constante equilibrio
fra intervenire o no, fra essere d’aiuto o compiere ingerenze intrusive che rischiano di innescare meccanismi
di dipendenza. L’orizzonte pedagogico, per arricchire lo sguardo: essere educatori= consapevolezza del
nostro agire e delle sue conseguenze. Primo passo= incontro con l’altro. La logica dell’incontro implica due
aspetti complementari: imprevisto: nell’incontro c’è sempre qualcosa di non calcolato; qualcosa di reale, che
tocca anche la nostra vita. Dagli incontri si trae sapere e possibilità di crescita. Provocare, trasformare,
crescita, cambiamento: è questo il compito pedagogico che giustifica la presenza dell’educatore insieme ai
ragazzi. Spesso si incontrano ragazzi che non hanno più sogni, desideri: per questo bisogna educare ai legami
per ricostituire il tessuto sociale e comunitario: legami come necessità di prendersi cura dell’altro, come
possibilità di condivisone e interdipendenza. Il soggetto è inserito in un flusso complesso di relazioni. Per
comprendere i comportamenti delle persone, non ci si deve fermare ad analizzare l’atto in sé, ma cogliere la
visione del mondo che sta dietro all’atto stesso e per farlo bisogna partire dalle storie di vita, dalle biografie
di ognuno per progettare un evento educativo. L’educazione si inserisce in questo quadro come la possibilità
di dare delle alternative possibili, e la rieducazione come la stimolazione di esperienze nuove, attraverso le
quali la persona possa sperimentare modi diversi di stare al mondo ed avere una visione diversa del mondo.
Per arricchire lo sguardo del giovane, bisogna fornirli tutti gli strumenti di cui ha bisogno per pensare al suo
futuro e ripensare al suo passato. L’educatore professionale deve: considerare il ragazzo della sua globalità;
essere operativo; investire nella relazione reciproca; vivere nella dimensione della quotidianità; tenere
insieme la dialettica individuo-società; conoscere delle tecniche comunicative e di animazione che sappiano
tradurre in pratica quanto appreso. La capacità di decentramento è necessaria all’educatore: gli permette di
andare incontro all’altro. In questo modo, una persona può realizzare anche se stesso. Come afferma
Giovanni Maria Bertin: realizzare se stesso realizzando gli altri. Heidegger: noi nasciamo dotati di un certo
fisico, in un tempo, una storia, una cultura, un contesto familiare e sociale che non scegliamo. Tuttavia, il
futuro raccoglie in sé la possibilità della scelta dell’agire soggettivo e collettivo che permettono il
cambiamento: progettare la nostra esistenza significa uscire dall’individualismo e progettarla in relazione agli
altri e alla globalità. Interculturalità: Allport: pregiudizio: “forma di pensiero, presenti in tutti, che non si fonda
su dati obiettivi, né sull’esperienza diretta, che comunque arriva alla generalizzazione di contenuti, sulla base
di valutazioni che sono però di natura emotiva”. I pregiudizi possono essere rinforzati dal contesto, dalla
partecipazione dell’individuo a una realtà sociale formata dalla famiglia, dagli amici, dalle istituzioni ecc. Nel
mondo globalizzato si sta costruendo una logica di pensiero in cui l’altro è diverso. C’è però chi non è
d’accordo con questa visione. La pedagogia interculturale ci aiuta in questa lotta, per riscoprire l’umanità che
ci accomuna, che fa emergere i legami, più che le differenze. Significa produrre una cultura del dialogo e
dell’interdipendenza (nonostante sia spesso relegata alla funzione riduttiva di accoglienza e di
accompagnamento nell’inserimento del bambino nella scuola italiana). La pedagogia interculturale abbraccia
un fare educativo che esce dal confine dell’aula, per abitare gli spazi in cui si promuove incontro,
valorizzazione della diversità come ricchiezza. Antonio Genovese individua 4 principi che dovrebbero essere
alla base della pedagogia interculturale: 1) principi delle differenze e del pluralismo, che favoriscono le
differenze, il confronto; 2) il principio del dialogo (capacità di ascoltare e interagire con l’altro); 3) principio
dell’ascolto, del decentramento e dell’empatia; 4) principio della tolleranza, non come sopportazione. Non
bisogna fermarsi alla tolleranza ma accompagnarla con il riconoscimento dell’altro nei suoi diritti, nella sua
identità, nei chiaroscuri di una relazione reciproca.
Albe e crepuscoli per l’indomani: quella dell’insegnante è comunque una professione molto difficile, spesso
accompagnata da stress. Christina Maslach riconosce 3 elementi principali nelle manifestazioni di burnout
(stress intenso) da parte degli insegnanti: affaticamento fisico ed emotivo, atteggiamento apatico e
distaccato nei confronti dei colleghi, frustrazione. Alcune cause: genitori, inserimento di alunni con deficit
nelle classi, strumenti informatici a cui è attribuita molto importanza ma che non riescono ad essere
padroneggiati a dovere, svalutazione della professione docente. Il rischio di smarrirsi tra disorientanti
presenze/ il desiderio di essere felici: Kristeva afferma che noi vediamo lo straniero come qualcosa di diverso
e che sfugge alla nostra comprensione. Schmidt e Benasayag ripropongono una definizione di Spinoza per
affermare che si vive nell’epoca delle passioni tristi, costretti a vedere il mondo come una minaccia.
L’utilitarismo plasma le giovani relazioni rendendole schiave di comportamenti imposti e visioni della vita che
non sono sentite più come “umane”, ma sono viste solo in termini di simmetricità ed utilità: genitori ed
insegnanti si sentono in obbligo di giustificare le loro scelte nei confronti del giovane, che accetta o meno ciò
che gli viene imposto in un rapporto paritario. Disorientamento e conflitto sono dimensioni che ogni giorno
subentrano nella pratica educativa con gli adolescenti (anche se spesso ciò viene negato). Quando l’individuo
accetta la molteplicità di tutto ciò con cui viene a contatto, l’esperienza conflittuale può farsi costruttiva e
diventare un’occasione. L’esperienza con l’altro diviene il momento privilegiato in cui ciascun individuo è
invitato a sospendere gli abituali schemi interpretativi per ampliare il proprio modo di pensare, di sentire ed
agire. La differenza diventa il luogo in cui collocare l’incontro, proponendo nuovi codici alla condivisione.
L’incontro con i figli della migrazione può costituire una presa di contatto con la nuova condizione socio-
esistenziale che ci troviamo a vivere, condizione che ci vede tutti migranti nel momento in cui lasciamo la
vecchi schemi ed abitudini per avvicinarci a nuove circostanze di vita. Attraverso l’incontro con il prossimo,
si mettono in discussione le categorie dell’appartenenza territoriale. Gli educatori e gli insegnati
accompagnano i ragazzi attraverso ogni momento, che sia felice e triste, affinché si riesca a costruire un
futuro carico di passioni felici.