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L’educazione nell’ombra – Ivo Lizzola

Cap 1 - Una cura educativa senza dimora


Simone Weil: “Non possiamo trasformare noi stessi, possiamo solo essere trasformati, ma lo possiamo
soltanto quando lo vogliamo con tutte le nostre forze”.

Emmanuel Levinas: là dove le esperienze umane devono affrontare il male “la realtà fa a pezzi le parole e le
immagini che la nascondono, e finisce con l’imporsi nella sua nudità e nella sua durezza”.

1.1 Quando il tempo non prende forma nelle città

La “città dei giusti” fatica a riconoscere la “sofferenza urbana”. Nelle città si concentrano sviluppo e povertà.
Quest’ultimo è uno dei principali fattori di rischio per la salute delle persone, determinando una sofferenza
segnata da stigma, discriminazione, abbandono, colpevolizzazione e violazione dei diritti. Evidenza quanto
mai diffusa nella cultura del merito e della colpa, la quale produce una sofferenza urbana “istituzionalizzata”,
in istituzioni definite e visibili (carceri, campi, strutture per la salute mentale) o indefinite (strade, stazioni,
periferie). Queste ultime sono i luoghi dove principalmente vivono i senza dimora. La città nega la soggettività
degli individui negando loro le dinamiche collettive di sofferenza. Nella città globalizzata l’infelice o è
incapace (è colpa sua) o è sfortunato (va assistito).

Le storie dell’abbandono vanno pazientemente e faticosamente ritessute per coglierne questioni di senso,
uscendo dalle identità-prigione che producono cronicità. In queste storie si è perduta la fiducia di base
necessaria per essere autonomi e capaci di esistere relazionandosi agli altri.

Chi vive la depressione, ad esempio, vive il tempo dell’arresto del desiderio. Chi vive l’angoscia sente la morte,
il nulla, ma ha allo stesso tempo la possibilità di far nascere il nuovo.

Tra i beni primari dovrebbero esservi anche quelli relazionali di cura e educazione, il cui possesso rende capaci
di assumere la dipendenza, la fragilità, la vulnerabilità come riferimenti indispensabili per valorizzare le
persone e per un’equità sociale effettiva.

1.2 Non possiamo trasformare noi stessi

La categoria “difficoltà esistenziale” si pone come categoria euristica volta a indirizzare la ricerca del
significato racchiuso nelle azioni e stili di vita con cui ogni singola persona traduce quella difficoltà.

La vulnerabilità ci fa paura, vorremmo liberarcene. Siamo vulnerabili perché siamo fragili, abbiamo bisogno
di altri, di relazioni di cura reciproca che permettano riserbo e rispetto.

Le persone che vivono la strada non vivono la possibilità di dare senso e significato alle cose. Ci si trova davanti
a una rinuncia alla soggettività, a dare forma al tempo, al racconto biografico. Ci sono altri casi in cui si parla
invece d’intenzionalità distorta, di “eccesso dell’io”, in cui la realtà diventa una sorta di preda, negata nella
sua complessità poiché rimane solo un sé onnipotente, nel rifiuto di ogni comunicazione con l’altro. Lo scarto
tra sé ideale e sé reale può produrre una specie di paralisi nel rapporto alla realtà. In questi casi non si pone
la questione ella riabilitazione e della rieducazione, occorre invece provare l’incontro, la possibilità di
evoluzione della coscienza che pare cristallizzata.

Ecco la sfida educativa che donne e uomini senza dimora rivolgono alla pedagogia: la relazione educativa
deve assumere le forme di un’alleanza nella quale prenda forma un tempo nuovo. La relazione con l’altro è
espressione continuamente originaria del pensare sé, del mettere a fuoco l’orientamento di vita, del
disegnare il rapporto con il tempo e la realtà.
Le logiche del lasciare tempo e dare tempo sono coltivabili solo con l’esercizio di sensibilità, pensiero
complesso e attento. Dare tempo perché l’incapacità e il timore di distendere la propria vita nel tempo è
proprio la sofferta questione in gioco quando la relazione educativa è quasi impossibile. Lasciare tempo
perché l’abitabilità dei giorni mostri qualche fessura di ripresa dopo il disastro che ha colpito i luoghi abitati
da promesse, memorie, progetti. La prima sfida educativa è quella di lavorare sull’esperienza del tempo. La
seconda sfida riguarda la fatica di costruire conoscenza tra i senza dimora e chi li incontra. Del resto,
l’educazione è sempre coeducazione. Bisogna accompagnare l’altro nella sua crescita e nel suo divenire,
perché lui dica chi è: ciò chiede un grande esercizio di veglia e di sorveglianza sui propri atteggiamenti.
L’ascolto viene dopo. La singolarità dell’altro, di ognuno, è ineffabile e oi non possiamo che lasciar essere,
lasciar andare. Solo così possiamo liberare, ossia riconoscere libero l’altro.

1.3 L’abbandono e la promessa di una vita buona

Marco Ingrosso distingue vari tipi di benessere, inteso come vita buona o essere bene. Questi sono: il b.
corporeo (fisico e fisiologici), b. securitario (sicurezza e custodia), b. psicologico o emozionale (capacità di
auto generazione del soggetto), b sociale (dato da relazioni di appartenenza, inclusione e reciprocità), b
comunicativo (ascolto, consenso informato e partecipato), b. organizzativo (delle buone pratiche). Se tutte
le dimensioni del benessere avranno mosso relazioni e scambi, allora per ognuna delle persone coinvolte ci
sarà lo sviluppo del benessere etico-spirituale (riconoscimento della coerenza di scopi, valori, principi).

Le relazioni di cui si parla si inscrivono in un’etica degli affetti e del fare insieme, che si esprime nella cura e
nell’azione educativa, efficace non nel “salvare” l’altro, bensì nel rigenerarlo accompagnandolo, trovandosi
nel percorso rigenerati. La cura è un gesto mimetico e scambievole che genera benessere in chi la riceve, in
quanto rianima chi la agisce. Il percorso che può portare oltre il disagio profondo, oltre la sofferenza elaborata
in fissazioni e dipendenze, chiede di avviare una capacità di narrare la propria storia, di riaprire il tempo
personale come storia.

Sulla strada il tempo ristagna come deserto e il vivere si rende irraggiungibile quanto il morire; il tempo è
labirintico perché le sue dimensioni (passato, presente e futuro) sono aggrovigliate, vanno e tornano e si
ingarbugliano. La possibilità di aprire nuove strade passa solo attraverso un periodo di morte individuale,
accompagnata da senso di vuoto, smarrimento e timore. Questo passaggio è molto forte ed emerge con una
forte resistenza e oppositività. Il tempo delle persone senza dimora è bloccato sulla giornata, sulla
reiterazione di gesti e atteggiamenti, spinti da bisogni urgenti da soddisfare. Questa cronicità va contrastata
aprendola, rompendo la quotidianità, e facendolo più volte, perché una sola non basta. È necessario inserire
progressivamente dubbio, evoluzione e novità in un sistema cristallizzato per poter riavviare una
rinegoziazione tra passato e futuro. Occorre lasciarsi trasformare e volerlo con tutte le proprie forze.

1.4 L’estraneità e il dramma: lasciare il tempo

L’esperienza della strada non si relaziona e non permette alle persone che la vivono di relazionarsi ad altre
esperienze. Segnata da un’estraneità, un’impossibile interazione. L’esperienza di abbandono è così dura da
segnare una profonda solitudine in cui tutto si risolve nella sensazione di appartenere al nulla.

La riapertura del campo di esperienze si presenterà inevitabilmente al soggetto come un dramma, che va
reso sostenibile. L’instaurarsi di una relazione educativa incontra subito il senso di colpa, dilagante, non
elaborato, che blocca qualsiasi progettualità e distacco emotivo. Il salto verso un nuovo profilo identitario è
complesso e non programmabile e deve passare attraverso una nuova percezione di sé nel rapporto con gli
altri, con l’esperienza e il tempo. Il riconoscimento e la ricostruzione critica delle strutture cristallizzate del
rapporto con la realtà è solo il passaggio finale di un lento percorso: ripensarsi nel presente è un lavoro
complesso. Nella danza delle relazioni interpersonali si dà l’apertura al possibile.
1.5 Incontrare l’altro nel suo momento

Chi offre aiuto non porge semplicemente la mano, bensì è colui che propone all’altro bisognoso un contesto
di auto riconoscimento, perché non si tratta di corregger e una deformazione della lettura del mondo,
cristallizzata da esperienze desolanti, ma di sperimentare le riformulazioni possibili del mondo e di sé. La
decisione di raccontarsi origina dal fidarsi, cioè dall’affidarsi, abbandonarsi e un poco mettersi nelle mani
dell’altro, e lasciarsi cogliere, conoscere. Fidarsi è sempre esporsi.

Perché io possa vedere/conoscere, cogliere/creare, non devo chiedere all’altro di parlare più forte, devo
aumentare il mio silenzio. Pensare di riscoprire i luoghi della relazione come luoghi sorgivi dove nasce la
trama della coscienza personale e si ridice il mondo, il senso delle cose e delle parole, è un po’ cercare dove
il seme si divincola dalla terra in germoglio, attratto dalla luce e dal calore. “In realtà l’albero è radicato nel
cielo” annota Simone Weil.

Cap 2 - Le virtù della colpa


Nel carcere si vive un attraversamento importante dell’avventura umana segnato da fragilità e colpa. Viene
sottolineata la drammatica tensione della relazione educativa: l’incontro con l’altro è sempre una ferita.

2.1 Educazione come pena e riscatto

Nelle relazioni di uomini e donne all’interno delle carceri, da dentro il loro fallimento e il loro riscatto, può
nascere una nuova piega del tempo, un nuovo inizio.

La prima resistenza che si incontra è quella dell’istituzione; Claudia Mazzuccato scrive che in essa l’astrazione
giuridica prende il posto del reato, la pena sostituisce la colpa. La forma dell’espiazione (lo scontare la pena)
sostituisce spesso anche il ripensamento personale, e la ricerca di un riscatto. Questa è la prima resistenza
che una buona azione educativa deve rompere.

Maria Zambrano usa il termine rescatar per indicare il movimento interiore, il tornare a prendere parti di sé
nel proprio passato per farle maturare.

La società dei giusti con la sua retorica del merito e della colpa, costituisce un universo chiuso, co pesanti
esclusioni. Essa, dopo il giudizio, non sa volgersi al volto del condannato, né al volto della vittima. La società
del merito e della colpa lascia pochissime possibilità al legame e alla responsabilità, all’assunzione personale
ella colpa e all’attivazione del riscatto, della riconciliazione.

Claudia Mazzuccato propone una filosofia politico-criminale del fare piuttosto che del subire, che dischiuda
nuove possibilità riparative. Un richiamo ad attivarsi volontariamente in una riparazione del danno, nel
riconoscimento dell’errore, nella disponibilità a rispettare il bene leso.

Un’altra forte resistenza si incontra sulla soglia del pentimento, al confine di una trasformazione personale,
perché non è facile trasformare il “così è stato” in “così ho voluto”. I costi identitari e morali sono alti. Occorre
maturare che è ingiusto violare, recidere legami, ingannare, fare male. È faticoso fidarsi del pentimento,
anche quando lo si prova, perché ci si trova stranieri, ambivalenti, svelati nella luce e nell’ombra. Perciò c’è
bisogno di relazione, che qualcuno ci creda insieme, per fidarsi di questo nuovo sentire attorno a sé.

Tuttavia, lo spazio pedagogico in un penitenziario è assai ridotto e piegato ad altri paradigmi della sicurezza,
del trattamento biomedico e psichiatrico, delle procedure giuridiche. Ciò rende la valorizzazione della
persona, come soggetto attivo nella costruzione di un nuovo modello di interpretazione della realtà, molto
difficile. Occorre anzitutto contrastare la rassegnata abulia, l’atrofia del sentire, che porta a eludere il
confronto con la colpa, i rapporti tra sé e il reato. Occorre pensare a occasioni precise di progettazione
riabilitativa del tenuto insieme a lui, con un patto che coinvolga le diverse sfere educativa, medica e della
sicurezza.
Rescatar vuol dire tirare allo scoperto ciò che era imprigionato, guardare nuovamente attraverso quella
perdita e quella frattura che la vulnerabilità mostra insuperabile. Rescatar è ripensare la propria storia, sé
stessi, l a propria immagine le proprie risorse e la loro possibile destinazione. Per altri. Ma occorre che da una
condizione segregativa maturarne una di avvicinamento.

Educare è rompere una resistenza nel mondo dell’altro. In questo esercizio di forza è importante sentire le
dimensioni della colpa, della responsabilità e del debito. È importante sorvegliare il proprio modo di porsi
nella relazione. Responsabilità è quella sentita da chi educa e cura, chiamando alla relazione e chiedendo
all’altro di esporsi, di affidarsi. Il debito viene avvertito verso chi dà fiducie e si offre. Educare si svela sempre
in un ritrovarsi in narrazioni che ci precedono. Nelle narrazioni di sofferenza e fragilità si sente la colpa: il
riflesso della fatica, dell’incapacità, della disperazione di chi ti è accanto. Si sente la colpa anche per
un’inevitabile presa sull’altro, per la richiesta di fiducia, di esposizione, di aperura al nuovo, e per non poter
assicurare che la fiducia non verrà di nuovo tradita.

La cura è dare tempo nella formazione dell’uomo, sostenendo che nell’avventura umana il male non è
originario, non è atto primo. Le ferite possono divenire esperienze conoscitive e di approfondimento a patto
che non venga rubato il tempo, come spesso avviene per il profugo, l’incarcerato, la vittima di guerra. Il
tempo nasce dalla cura, dalla cura nascono e tornano a nascere donne e uomini.

2.2 Passare nell’ombra: l’altro, la colpa il debito

Quando ci troviamo nella colpa “non possiamo trasformare noi stessi, possiamo solo essere trasformati, ma
lo possiamo soltanto quando lo vogliamo con tutte le nostre forza” (Weil). La condizione della vittima e del
colpevole sono accomunate da questa impossibilità di iniziativa tesa alla trasformazione i sé. Il tempo preme
imponendo una forma alla storia personale, sociale e storica, in cui vittima e colpevole sono trascinati via. Il
tempo sociale pare inaridirsi attorno a colpevole e vittima: li riduce ai margini, fuori dai luoghi della nascita,
dell’inizio, dell’azione, cioè e i luoghi dell’incontro con possibilità, fedeltà, legame, cura. Dove ci si può
riscoprire in nuove abilità e in nuove relazioni, pur senza meriti, pur nella colpa.

Per cogliere che si è, si può essere, altro dal sé finora manifestato occorrono due condizioni: che si guardi in
faccia ciò che si è già espresso e che si colga un’attesa di novità su di sé. Questo esige percorsi nel tempo e
ascolto. Voler trasformare sé stessi ricorrendo alla negazione di parti di sé può portare a due strade: la prima
è quella della giustificazione di sé, presentandosi come vittima, la seconda è quella della riduzione di sé alla
maschera assunta nell’atto criminale, continuamente ribadita dalla società. Procedere in queste due direzioni
significa stare continuamente attenti a non sentire l’altro, per non sentire la colpa.

Grazie ad altri siamo nati, grazie ad altri possiamo tornare a uscire da noi stessi, fuori dall’universo chiuso
della colpevolizzazione e della perfezione, del merito e della colpa. Il senso di colpa produce nuovo tempo
perché conduce fuori da ciò che si è già dato, a trovare nuovo senso e nuovo inizio. Può sia distruggere, sia
diventare fonte di rinnovamento.

2.3 Colpa senza imputabilità e obbligazione

Le donne e gli uomini molte volte sentono in sé la colpa per qualcosa che non è loro imputabile. Tanti
sopravvissuti non reggono la memoria di coloro che sono rimaste vittime e provano un profondo senso di
colpa e indegnità nei loro confronti. Queste sono dinamiche del senso di colpa da capire, fronteggiare e
indebolire. Altri provano un senso di colpa “orientativo” per quanto vivono o hanno vissuto donne e uomini
lontani nello spazio e nel tempo. Dostoevskij così lo esprime nei Fratelli Karamazov: “ciascuno di noi è
colpevole davanti a tutti, per tutti e per tutto, e io più degli altri”. Tutto mi riguarda, mi abbraccia come dono
donato e mi richiama alla responsabilità: sono disposto a rispondere.
Il senso di colpa stabilisce un’asimmetria. Prima i miei doveri, l’obbligazione weiliana, poi i miei diritti: come
nel gesto di cura e nella relazione educativa. Nell’asimmetria stabilita dalla colpa e dal debito non c’è
reciprocità.

2.4 La colpevolizzazione e il peccato del giusto

La propensione a prendere su di sé la colpa dell’altro può avere la funzione di proteggere la convivenza, di


preservare le relazioni, di non farsi trascinare dalla spirale dell’odio che il male avvia. Ma il costo è troppo
alto, molte volte! Scrive così Alice Miller: “La violenza subita può essere sentita perfettamente legittima. Il
bambino crede di aver meritato le botte, idealizza il suo carnefice e in seguito cerca oggetti che possano fare
da supporto alle sue proiezioni, per scaricarsi su altri esseri [..]. è così che diviene a sua volta colpevole.”
Allora il senso di colpa diviene un “verme roditore” come scrive Francois Dolto.

Serve presidiare una barriera di salvaguardia, rompere il meccanismo di colpevolizzazione, ritrovare la


fecondità di un senso di colpa che apra alla relazione con l’altro.

Un senso di colpa di carattere individualistico è figlio del delirio della perfezione e del merito.

Il senso di colpa è per lo più tormentoso e oscuro, spesso non permette neppure di mettere a fuoco se vi sia
qualcosa di cui si è realmente colpevoli. È molto facile sentirsi in colpa, è molto difficile sentirsi in colpa in
modo sano, dice Jervis.

Alla colpa-sentimento deve sostituirsi la maturazione di responsabilità, deve diventare operativo. Il senso di
responsabilità è costruttivo: “non è basato sulla paura, è basato sulla soddisfazione”. Sul piano educativo
occorre condurre a fare cosa, facendo maturare cura e soddisfazione per ciò che si fa. È proprio la catena che
porta all’umiliazione e ai comportamenti espiativi che va interrotta, perché si possa tornare ad agire sulla
realtà in maniera attiva, riparando il comportamento inadeguato.

2.5 Padri e figli: dignità e innocenza perduta

La dignità umana è da vedere e sostenere, in e tra, uomini e donne non perfetti, non puri nei gesti, non del
tutto limpidi, vulnerabili e colpevoli.

Un padre cresce il proprio figlio avvertendo presto che non è suo, non lo controlla, resta impossibile da
proteggere pienamente: è esposto. Il padre sente, insieme, colpa e debito, timore e speranza, e apprende
rispetto a cura del figlio: apprende ad accompagnare e a lasciare.

Il legame tra colpa e perdono non è di successione temporale o di istituzione. Essi sono compresenti,
maturano l’uno grazie all’altro. La colpa non avvelena proprio grazie al perdono: si attenua, si svolge nel
sentire responsabilità e debito, diviene fonte di libertà e di un nuovo inizio. Il perdono è trovato e provato
grazie al senso di colpa che impedisce il giudizio sommario e traccia qualche linea di riconoscimento. Nessuno
si libera da solo dalla colpa.

2.6 Poter essere altro da sé

L’atrofia del sentire permette di violare il corpo dell’altro. Simone Weil chiamava questa facoltà
“sperimentazione dell’estraneo”. Nell’estraneità c’è un punto cieco nel quale si nasconde la germinazione
della violenza.

Seguendo la lezione di Edith Stein si può parlare oggi di un modo di vedere la realtà senza accoglierla. Non
arrivare al fondo delle cose è non conoscere il fondo di sé stessi. Non osare guardare a fondo sé stessi è
lasciar morire la propria anima. Si può far deriva in “quell’assenza di pensiero libero e responsabile” che,
spiega Hannah Arendt, conduce al “funzionariato della perversione”.
La pena retributiva soddisfa il bisogno di punizione nei confronti di chi ha commesso il reato, ma produce
insoddisfazione nelle vittime, vittimizzazione negli attori di reato.

non costruiamo fraternità da giusti e giustificati, ma da donne e uomini con il senso di colpa, nella comune
fragilità che, amata, può portare alla consegna reciproca, all’affidamento e alla cura. Nella fraternità abita
anche l’inimicizia e si dà il conflitto, ma resta pur sempre origine e attesa di fraternità, in cui si apre il tempo
dell’attenzione, quale “miniatura d’eternità”, “punto d’eternità”, come diceva Simone Weil.

Cap 3 - Nello sguardo delle vittime


3.1 dare tempo nel soffrire

Nel tempo dato, può, piano, svolgersi l’esperienza della ricapitolazione, del riprendere i tempi e passaggi
della vita, prendere un po' le istanze e ritesserne i fili. La ricapitolazione rende capaci di futuro, e può avvenire
grazie ad atti di fiducia e cura. Entrare nel presente dell’altro nella dimensione del donare è dare tempo e
guardare a lui come essere per il futuro. Movimento di approssimazione he cerca di richiamare al movimento
dare-ricevere.

Cercare la posizione buona nelle relazioni educative è sapersi presentare come altro, prossimo e straniero.
Accettando che l’altro non sia me, mio, come me. E anche accettando che, a volte, “l’altro non sia pronto a
riconoscere qualcuno nell’alterità”.

3.2 Scendere nelle viscere

Come abitare l’evidenza della nostra radicale differenza e distanza dalla condizione della vittima?

Il male lo si può patire senza lasciargli l’ultima parola, e al bene si può cercare di fargli spazio, non opponendo
resistenza. Curare è sempre fare un po' male, essere curati è mettersi nelle mani di altri, prossimi ma distanti
dalla nostra fragilità, dal nostro aiuto, dal nostro soffrire. Lo sguardo della vittima svela l’impossibile
assunzione del male, in quanto enigma, di cui non va cercata spiegazione.

Occorre coltivar un sentire attento, ritrarsi, fare spazio e porsi in rispetto alla realtà, agli altri. Esperienza di
conoscenza è riconoscere il valore di qualcosa, ma anche contemplare, indignarsi, amare facendo spazio,
ospitando e tenendo rispetto: sentire l’altro.

3.3 Uno sguardo che chiede tutto

Lo sguardo della vittima chiede tutto. Ciò che le è stato tolto è tutto. Nell’esposizione totale alla violenza, ha
colto e svelato il lato oscuro della vulnerabilità: quello di essere in balìa della forza e del disprezzo, violato
ogni pudore. Davanti alle vittime si resta nudi. La vittima è inerme, senza armi, non può rispondere, non può
ferire: è in balìa.

Oggi la grande sfida sociale pare essere quella di costruire una convivenza a partire dalla condizione di
vulnerabilità, in un gioco di riconoscimento, legame e dipendenza, cui ognuno partecipi.

Lo sguardo della vittima disfa il nostro, incapace di costituire la realtà, la condizione della vittima. Ci si sente
inadeguati di fronte all’incommensurabilità di quello sguardo, di fronte a cui i nostri raffinati sapere non
possono nulla. Attenzione alla presunzione di presentarsi come inizio di una nuova narrazione per altri!
Bisogna piuttosto essere presenti, lasciando essere. Lo sguardo della vittima disfa la nostra intenzionalità,
che progetta e ripara, denuncia e giudica, per indirizzarlo verso un agire in ascolto.

3.4 Fraternità come possibilità

L’ingiusto si è fatto possibile. Non è stata evitata la violenza: risponderne è assumere una colpa e ristabilire
una promessa, per conto dell’umanità.
Weil: “Se io mi ritengo l’artefice della libertà dell’altro, la sua libertà dipende da me e per ciò stesso cessa di
essere tale. [..] Dare la libertà poiché la si possiede presuppone l’idea di essere onnipotenti!”. L’altro deve
restare di fronte a me nel suo valore proprio e nella sua differenza. La relazione è un’avvicinanza.

Rivivere e ritrovare l’offesa è un passaggio importante per vivere dentro di sé la rimessa del proprio debito,
come per rimettere il debito al debitore. Altrimenti può finire tuto, coscienza e fiducia, “nella zona di colpa”:
portare l’offesa subita, taciuta e poi subita come colpa impedisce di amare l’altro e sé stessi.

3.5 L’intelligenza della pietà

Maria Zambrano scrive che “la prima cosa dell’essere umano non è guardare ma essere guardato”,
evidenziando l’inseparabilità tra il vedere e l’esser viti, tra il sentire e il sentirsi. Le vittime non di rado si
ritraggono da un sentir sé ormai devastato, e si ritraggono così anche dal sentire. Gli occhi delle vittime sono
svuotati, non riescono a vedere. Se lo sguardo è su di me e io vengo piegato sotto lo sguardo non posso avere
visione.

3.6 Tornino i volti: l’esilio e l’infanzia

L’incontro con l’altro può ridisegnare il rapporto con il tempo. L’altro vulnerabile richiama in me capacità e
responsabilità. “L’avvenire è l’altro” (Levinas). Generando, curando, ascoltando, educando si dà tempo. Come
partecipando e pensando, confrontandoci e perdonando: diamo tempo, attendiamo (a) nuova nascita. L’altro
sia per la vittima la soglia di un tempo abitabile, in cui di nuovo collocare qualche desiderio, qualche
aspettativa.

Secondo Maria Zambrano, solo con l’intelligenza della pietà si può approssimare gli abbandonati. La pietà
non è solo quel sentimento di dolore causato dalla vista di qualche male. Riprendere il senso di pietà
permette il riscatto, ossia il tornare a riprendere qualcosa che necessita di essere nuovamente guardato. La
pietà serve per non lasciare le vittime sole, nella loro incapacità, e mantenendo a distanza rispettosa ciò con
cui non si sa trattare. Un sapere che non perda l’intelligenza della pietà sa operare vicino alla vittima, e al
colpevole, come davanti a uno straniero che sopraggiunga, ospite che bisogna saper accogliere e trattenere
perché non sparisca lasciando qualcosa di peggiore del suo vuoto.

Conclusioni: una fraternità tra sconosciuti


I luoghi della marginalità e della cura possono divenire luoghi significativi nell’elaborazione di un’ermeneutica
esistenziale, oltre che per lo studio della genesi dei legami sociali.

Le nostre convivenze di cittadini resi uguali dal diritto, tutelati nella libertà individuale, faticano sempre di
più a condividere impegni e responsabilità di futuro, mal sopportano le differenze, e si vedono sorgere nuove
barriere tra le culture e le identità, tra le generazioni e i generi. Ma è il vincolo del nessuno escluso a porsi
come confine insuperabile e al tempo stesso fonte di opportunità.

Ecco quindi possibile una fraternità comune, fraternità in assenza (cioè tra persone che non vivono in
contiguità e che non si conoscono). Una fraternità in assenza, tra sconosciuti, che dà vita a uno spazio comune
di convivenza, in quanto donatori che ignorano i beneficiari. Fraternità a monte dello scambio (es. affido
familiare, dopo di noi).

Diverse competenze e saperi sono chiamati a collaborare, aprendo spazi di esperienza e di progetto in cui
venga curata una dimensione di riflessività sociale, educativa e politica. La democrazia è una viva interazione
di presenze reciproche libere, responsabili e partecipative.

Il prossimo non è il bisognoso, è il nessuno escluso: sono tutti gli esseri umani, tutti vulnerabili (e potenziali
vittime). Il nessuno escluso porta al riconoscimento, attraverso la relazione con gli altri, di sé stessi. La danza
tra forza e fragilità si gioca nell’incontro, nell’accoglienza.
Saper stare nella propria vulnerabilità permette all’altro di esporsi, di entrare in dialogo, di sentire fiducia.
Quel che è difficile è arrendersi al compito di apprendere attraverso l’altro: reciprocamente”.

La fraternità deve assumere la fatica e l’ambivalenza della diversità, del gioco tra autonomie e dipendenze.
La possibilità di superare l’attuale crisi dipende da una transizione verso la speranza, che chiede di essere
capaci di affrontare i nostri sentimenti, di fidarci di noi e degli altri, di assumere il senso di impotenza per
superarlo e trasformarlo in energia dinamica. Uomini e donne fraterni si riscoprono tesi verso libertà creative
e, insieme, consegnati gli uni agli altri: nella possibilità di scoprire in questa prossimità senso e direzioni
desiderabili per la libertà. La fraternità tra sconosciuti è qualcosa che crea, irrompe, apre nuova vita e società.
Insieme, è qualcosa che va vegliato, sorvegliato, atteso, alimentato. Perché fragile.

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