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Matteo Cortinovis Matr.

n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

LINGUA E LETTERATURE ISPANO-AMERICANE II

MODULO A

16/02/22

L’America latina nasce il 12 ottobre 1492, quando Cristoforo Colombo approda a San Salvador.
Precedentemente, l’America latina era stata colonizzata dai primi esseri umani a partire da circa 25-30 mila
anni fa. Gli esseri umani entrano con delle migrazioni dal ponte che si era formato tra Siberia e Alaska. Poco
per volta, ma abbastanza rapidamente, arrivano fino all’estremità meridionale dell’America latina. Già 12
mila anni fa sono attestate le prime popolazioni umane nell’odierna Terra del fuoco. Nelle regioni
settentrionali, queste culture iniziano a stabilirsi ed evolvere molto prima. L’America, quando arriva
Colombo, era già popolata da moltissime etnie che avevano costruito moltissime culture, alcune
estremamente arcaiche. Si svilupparono anche, col passare del tempo, culture molto più raffinate, con cui
si imbatteranno gli europei. Queste culture erano insediate nella regione mesoamericana (Messico e
dintorni). L’ultimo popolo che ha un controllo imperiale sulla regione mesoamericana sono gli aztechi.
Dall’altro lato, abbiamo gli inca, che derivano da precedenti popolazioni e che si evolvono assimilando
queste popolazioni. Quando Colombo arriva nella regione caraibica si imbatte negli indios.
Successivamente, Colombo e altri navigatori iniziano a esplorare i territori dell’America, ma alcuni di questi
verranno esplorati molto dopo per ragioni anche climatiche (Capo Horn). Tra questi navigatori che, poco
per volta, definiscono la mappa dell’America latina, c’è anche Amerigo Vespucci, da cui il nome del
continente. Questi è il primo a rendersi conto che l’America è un continente. Nel 1494, Spagna e Portogallo,
che al tempo erano due delle grandi potenze europee, stipulano il Trattato di Tordesillas, con cui si fissa un
meridiano, che rappresenta il confine tra l’influenza e la presenza militare tra Spagna e Portogallo: questo
meridiano, che poi viene leggermente ritoccato da Papa Alessandro VI a favore del Portogallo, segna la
divisione tra l’America che parla castigliano e quella che parla portoghese. Colombo arriva nella regione
caraibica e questa è la prima a essere esplorata e occupata dagli spagnoli. A partire da questa regione, gli
spagnoli iniziano a invadere, quindi conquistare, territori che non sono quelli delle isole caraibiche: il primo
è la regione centro-meridionale del Messico. La prima cosa è vincere gli aztechi, quindi, dopo aver
colonizzato la grande isola di Cuba, nel 1519, Hernán Cortés, insieme a un esercito di poche centinaia di
uomini, si dirige verso la costa atlantica del Messico, sbarca e si rende conto che esiste un impero poderoso
e ricco nel centro del Paese e, in pochi mesi, arriva a Tenochtitlán, al tempo capitale dell’impero azteca. Nel
giro di poco tempo, riesce a conquistare questo impero facendo prigioniero il loro Imperatore-divinità
Montezuma, che morirà durante l’occupazione delle truppe di Cortés. Caduta Tenochtitlán, cade l’impero
azteca. Da quel momento inizia la fase di colonizzazione del territorio mesoamericano. Tutti gli storici si
chiedono come sia possibile che pochi uomini siano stati in grado di rovesciare un impero che contava
milioni e milioni di abitanti, ma soprattutto nell’arco di soli due anni. Nel momento migliore della
situazione, Cortés disponeva di un migliaio di uomini grazie a una spedizione da Cuba. Gli storici
considerano diversi elementi determinanti in questa modalità di conquista:

 Il comportamento dell’oligarchia azteca, dei nobili e dello stesso Montezuma, che, di fronte a
Cortés, sembra avere un timore reverenziale. Questo viene spiegato con la leggenda di
Quetzalcoatl, divinità che si era rifugiata verso est e, sempre secondo la leggenda, doveva ritornare.
Montezuma sarebbe stato intimorito da questo Cortés, uomo bianco con la barba (gli aztechi non
avevano la barba), dunque sembrava un emissario o proprio Quetzalcoatl.
 La capacità e l’intelligenza perfida di Cortés di sfruttare da un lato l’impopolarità del dominio azteco
sulle diverse popolazioni mesoamericane, che venivano soggiogate dall’impero azteca e che
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approfittarono dell’arrivo degli europei per contribuire a minare la stabilità del governo azteca,
infatti molte popolazioni si alleeranno con gli europei per rovesciare il potere. Cortés può, dunque,
contare sul malcontento delle popolazioni non azteche, che erano numerose nella regione
mesoamericana e si trovavano sotto il giogo degli aztechi, dovendo pagare contributi in termini di
beni e di vite: questo dominio da parte degli aztechi era mantenuto attraverso il sacrificio umano,
che veniva considerato un dono agli dei e un mezzo attraverso cui alimentare gli dei; i sacrificati
venivano catturati durante delle guerras floridas, ovvero guerre concepite esclusivamente per
catturare le vittime da offrire agli dei. Per questo, alcune popolazioni approfittarono della presenza
degli europei per allearsi con loro. Se è vero che Cortés aveva pochi conquistadores arrivati dalla
Spagna, poté contare su molti uomini autoctoni che combatterono al suo fianco.
 Le armi – da fuoco ma soprattutto da taglio (che erano micidiali). Gli aztechi non conoscevano il
ferro o l’acciaio, tantomeno i cavalli, che si erano estinti in America molto tempo prima. Gli aztechi
avevano delle armi come lance, spade realizzate intagliando il legno e incastrandoci dell’ossidiana,
archi e frecce. Lo spavento, durante gli scontri, era indotto da archibugi e altre armi spagnole.
 La guerra batteriologica, che non fu volontaria. Gli spagnoli importarono malattie che le
popolazioni americane non conoscevano. Questo provoca ecatombi, infatti Tenochtitlán cadrà
proprio a causa di un’epidemia di vaiolo.

La conquista del Messico – a cui seguirà la sua colonizzazione – fu un’autentica rapina di risorse e una
sottomissione totale di uomini, donne e bambini, sfruttati con il pretesto di evangelizzarli: non è un caso
che i due simboli della conquista siano la spada (per sottomettere) e la croce (per convertire). Ci furono
alcuni europei che iniziarono a protestare contro il trattamento che gli spagnoli infliggevano agli aztechi e
alle altre popolazioni americane. Purtroppo, neanche questa sorta di resistenza bastò a fermare detta
ecatombe. La conquista della Mesoamerica determinò forse il più grande genocidio nella storia umana: si
stima che, quando arrivò Hernán Cortés, nella regione mesoamericana vivessero circa 30 milioni di indios;
un secolo più tardi, grazie al comportamento degli spagnoli, allo sfruttamento, alla distruzione delle
strutture sociali e culturali delle popolazioni, grazie alle malattie che si erano diffuse, di questi 30 milioni,
un secolo dopo, vivesse un milione e mezzo di indios.

Questa stessa conquista, dieci anni dopo Cortés, viene realizzata sul lato del Pacifico del territorio e
coincide con la conquista dell’impero incaico. Il fautore fu Francisco Pizarro che, indotto dalla fortuna che
aveva avuta Cortés, riesce a farsi finanziare dalla Corona spagnola una spedizione nella regione andina,
dove si sapeva che vi era un regno ricco d’oro – obiettivo principale di questi rapinatori europei. Nel
novembre del 1532, dopo un lungo percorso per arrivare nei centri di potere inca, Pizarro riuscì ad attirare
in una trappola a Cajamarca l’Imperatore inca Atahualpa, ne sconfisse l’esercito di rappresentanza (di 30
mila uomini) con gli stessi metodi con cui Cortés batté l’esercito di Montezuma. Atahualpa venne
processato per diversi crimini e giustiziato. Quindi, in pochissimo tempo, Pizarro riesce a conquistare
l’enorme territorio controllato dagli inca. Con la conquista, però, iniziano le diatribe tra gli stessi europei
che avevano accompagnato Pizarro, tant’è che lo stesso viene ucciso. Ci sono anche focolai di resistenza
che durano circa fino al 1570, quando viene catturato Túpac Amaru, membro della nobiltà che si era
dichiarato inca. Túpac Amaru rappresenta l’ultima resistenza della popolazione incaica, ma verrà sconfitto,
catturato e ucciso.

Ci sono 300 anni di colonialismo, che seguono la conquista. In alcune regioni, la conquista arriva tardi: per
esempio, in Argentina e, in generale, nel Cono Sud, le popolazioni autoctone resistono ancora oggi, anche
se sono sempre più pressate dalla modernizzazione, quindi perdono le loro terre, però si arriva molto tardi
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in questa area a colonizzare perché ci sono poche risorse, quindi gli spagnoli, per un certo periodo, lasciano
stare gli indios.

La colonia dura fino alla fine del ‘700. Lo sviluppo del Romanticismo in America ispanica coincide con l’inizio
della vita indipendente della maggior parte dei Paesi che si formano con la dissoluzione dell’impero
coloniale spagnolo. In questo senso, il Romanticismo rappresenta il primo movimento letterario, sotto molti
aspetti, autonomo delle nuove nazioni che si sono liberate dal regime coloniale spagnolo nei primi decenni
dell’Ottocento. All’inizio di questo secolo, ci sono i moti d’indipendenza, con cui quasi tutti i Paesi la
ottengono, esclusi Cuba e Porto Rico, che riusciranno a liberarsi dagli ultimi tentacoli dell’Impero spagnolo
solo alla fine del XIX secolo. Romanticismo e inizio della vita indipendente delle nazioni dell’America latina
sono due fenomeni che, dal punto di vista cronologico, in larga misura, si sovrappongono, quindi è del tutto
logico che il clima politico e sociale abbia dei riflessi importanti sulla nascita, sull’evoluzione e sulle
caratteristiche che il Romanticismo americano produrrà. La particolarità dei fenomeni storico-politici che
attraversano la società post-coloniale assume un peso rilevante sullo sviluppo del movimento letterario più
caratteristico dell’Ottocento: il Romanticismo.

17/02/22

Il Romanticismo latinoamericano non è esattamente una copia dei romanticismi nazionali europei. Una
delle prime differenze che si notano rispetto a quello europeo è che uno di questi tratti specifici riguarda gli
attori, ovvero gli scrittori: rispetto all’Europa, molti degli intellettuali, poeti e scrittori più importanti
dell’Ottocento di stampo romantico non sono solo creatori, ma anche attori politici e sociali; la letteratura e
l’azione politica tendono a coincidere, o comunque a risultare molto collegate.

 Estebán Echeverría fu uno degli intellettuali argentini che prese parte attivamente nella lotta alla
dittatura di Manuel de Rosas, e questo suo ruolo si riflette anche nelle sue opere.
 Discorso analogo vale per José Mármol, autore di Amalia, romanzo storico sentimentale che viene
pubblicato negli anni ’30, con cui attacca il regime tirannico di Rosas.
 Altro esempio è quello di Domingo Faustino Sarmiento, che fu un uomo politico, intellettuale e
scrittore oppositore diretto di Rosas, famoso soprattutto per aver scritto un saggio intitolato
Facundo. Civilización y barbarie. Nella seconda metà dell’Ottocento, Sarmiento arriverà alla
presidenza argentina.

Quando gli autori non assumono un ruolo diretto nella vita politica e istituzionale, molto spesso svolgono
comunque la funzione di coscienze civili e questo loro ruolo lo pagano con persecuzioni o esili. Tra questi
autori, un caso è quello del poeta cubano José María Heredia e la generazione degli esiliati: questa
tradizione di un ruolo istituzionale e politico attivo tenderà a conservarsi anche nei periodi successivi,
quindi nel ‘900. Esempi in questo senso sono Pablo Neruda, Octavio Paz e Rubén Darío. Sono tutte figure
che ottengono incarichi diplomatici, diventano parlamentari, diventano direttori di istituti culturali,
biblioteche, ecc., quindi una profonda presenza dei letterati ispanoamericani anche nell’ambito della
società e della politica. Alcuni, come Sarmiento, Gallegos (Doña Bárbara) e Juan Bosch raggiungono
addirittura la presidenza della repubblica. Per tutte queste ragioni, oltre che per motivi più generali,
occorre approcciare il Romanticismo ispanoamericano attraverso il contesto storico del periodo post-
indipendentista. A questo si aggiunge un’altra annotazione, ovvero il fatto che il Romanticismo, in America
latina, è una corrente fin troppo longeva, che dagli anni ’30 dell’Ottocento arriva alla fine del secolo,
coinvolgendo almeno tre generazioni di artisti. Il primo quarto del XIX secolo costituisce l’epoca delle lotte
indipendentiste per la maggior parte delle colonie americane, in particolare nel Cono Sud. L’indipendenza
delle repubbliche ispanoamericane viene ottenuta quasi ovunque nei primi vent’anni dell’Ottocento.
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Questa indipendenza conclude un processo di emancipazione che passa attraverso il conflitto armato, che
inizia in alcune regioni già nella parte finale del ‘700. Questi movimenti di liberazione si sviluppano sugli
esempi della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese. Bisogna osservare che, quando il regime
colonialista spagnolo viene sconfitto sul piano militare, dal punto di vista istituzionale e organizzativo, la
struttura dell’Impero coloniale spagnolo era già in grandissime difficoltà. Prima ancora che a livello
geopolitico, la sconfitta dell’Impero spagnolo avviene per ragioni economiche e sociali: l’istituzione
coloniale, in America latina, era sempre stata essenzialmente feudale. Alla fine del ‘700 non poteva più
reggere di fronte all’avanzare della modernità e della classe sociale che questa stessa modernità iniziava a
rappresentare – la borghesia, che iniziava a formarsi anche in alcune regioni dell’America latina.
L’arretratezza economica, sociale e culturale delle colonie finisce per rafforzare i sentimenti patriottici degli
abitanti dell’America latina, dei cosiddetti criollos, termine che indica le popolazioni che erano radicate da
generazioni in America latina e che non si identificavano più con Madrid e con la Spagna, bensì con il
territorio che da secoli abitavano. Poco per volta, i criollos maturano questa coscienza indipendentista.
Questi ritardi sul piano dell’introduzione di istituzioni moderne, di modernizzazione in generale della
società e dei mezzi dii produzione portano progressivamente al crollo del sistema di dominio spagnolo. Si
potrebbe affermare che, per quanto riguarda un quadro generale della storia dell’America latina relativo
all’indipendenza, si potrebbe fare a meno di studiare tutte le battaglie e i movimenti che si generarono per
arrivare all’indipendenza; basterebbe sapere che l’Impero spagnolo era destinato, per ragioni intrinseche, a
cadere in America latina. Quando i Paesi latinoamericani arrivano a sconfiggere la struttura colonialista
spagnola, questa situazione disastrosa non può essere semplicemente sanata con l’istituzione di nuove
repubbliche e la stesura di nuove carte costituzionali. Infatti, ciò che caratterizza buona parte
dell’Ottocento ispanoamericano è proprio questa eredità che lascia il sistema coloniale spagnolo, cioè
un’eredità pesante che coincide con una società allo sfascio.

Quando viene raggiunta l’indipendenza, quindi le condizioni per la nascita di nuovi Stati, la situazione
risultava gravata da anni di lotte militari e di conflitti civili. Sul piano politico, l’elemento che caratterizza
quasi tutte le giovani repubbliche latinoamericane è il caos istituzionale e il vuoto di potere dato dalla fine
del sistema coloniale. Questa situazione rimarrà per molti decenni, alternandosi con fasi di tirannia e regimi
dispotici, i quali finiranno per imporre l’ordine attraverso la violenza a vantaggio di pochi gruppi oligarchici.
Nella prima fase delle nuove repubbliche, la società si presenta ancora nettamente piramidale. In questa
condizione, gli artisti che, in quanto intellettuali, facevano parte della ristretta classe dirigente, svolgono un
ruolo attivo che si esprime attraverso le opere letterarie, ma anche con l’azione politica. Dal punto di vista
della costruzione di un’organizzazione politica sudamericana successivamente alla sconfitta dell’esercito
spagnolo, prevalse il sistema repubblicano. Tra l’altro, nella storia moderna dell’America latina, vi sono solo
due eccezioni rispetto a questa assenza di monarchie: due brevi periodi nella storia messicana, durante i
quali il Paese si costituì come impero – il primo è legato alla figura di Agustín de Itúrbide, che, poco dopo
l’indipendenza, si era proclamato imperatore del Messico, mentre il secondo è Massimiliano d’Austria,
chiamato dalle potenze europee a porsi a capo dell’Impero messicano, che, dopo un regno di 3 anni, viene
catturato dai rivoluzionari e fucilato. Comunque, in un primo tempo, molti dei politici e dei militari e
avevano contribuito a portare a termine la lotta di emancipazione dalla Spagna pensarono a un’unica realtà
geopolitica. Per sancire simbolicamente l’indipendenza politica e culturale dall’Europa, alcuni di questi
padri della patria immaginarono di mettere alla testa di quest’unione latinoamericana un monarca che
fosse discendente di una delle antiche civiltà autoctone. L’unica civiltà indigena che aveva conservato una
certa autonomia e alcuni elementi dell’antica organizzazione politica – compresa la sua oligarchia – era
quella incaica, dunque a un inca come imperatore pensarono uomini politici di primo piano. Questa
soluzione non trova un consenso sufficientemente ampio, soprattutto perché gli esempi di riferimento
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sono i repubblicani Stati Uniti e la Francia, quindi l’idea di un monarca nativo americano viene a cadere,
così come cade l’idea di costituire un’unica federazione. Rapidamente, quello che era stato l’Impero
spagnolo finisce per frazionarsi in tanti piccoli Stati indipendenti. Tutti questi Stati si danno una
Costituzione rigorosamente repubblicana, quindi la prima cosa che fanno è promulgare delle costituzioni.
Queste sono tanto idealistiche quanto effimere, perché tendevano a imitare troppo fedelmente i modelli
costituzionali di altri Paesi: Stati Uniti e Francia, che però avevano condizioni storiche, sociali, economiche e
politiche molto diverse dal mondo latinoamericano. Il risultato fu l’adozione di carte costituzionali che non
permisero ai modelli democratici di affrontare e cambiare efficacemente la realtà e finirono per lasciare, al
tempo stesso, ampio spazio alle manovre antidemocratiche di tiranni e dittatori che riuscirono a prendere il
potere.

Un altro aspetto molto importante riguarda la situazione demografica e sociale: l’America latina presenta
una realtà molto complessa. La problematicità riguardava la composizione etnica estremamente
eterogenea della popolazione. Altro tema considerevole era la quantità di abitanti. Intorno al 1830, si stima
che la popolazione complessiva sudamericana fosse di circa 35 milioni di individui, una popolazione molto
ridotta rispetto al vastissimo territorio. Questa popolazione così ridotta era uno dei principali problemi
rispetto all’evoluzione economica dell’America latina. Naturalmente, questo con tutte le conseguenze
sociali e culturali che ciò comportava.

Altro aspetto ancora è quello dell’eterogeneità etnica: era costituita da indios e meticci, che in quel periodo
costituivano la stragrande maggioranza. Significativa era la presenza di etnie nere, deportate dall’Africa
come schiavi dove c’era bisogno di manodopera per la produzione agricola in tempo coloniale.

Terza componente è quella bianca, di origine europea, che comprendeva anche coloro che componevano la
classe dirigente. Erano una minoranza, stimata intorno ai 5 milioni di persone. L’oligarchia era costituita
solo da bianchi. Il primo meticcio che arriva alla presidenza è a metà Ottocento. Il problema,
essenzialmente, era una popolazione ridotta ed etnicamente frammentata. Per quanto riguarda l’aspetto
numerico, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, inizia una progressiva crescita dell’etnia bianca,
grazie al grande apporto di immigrati europei che giungono in America latina. Per esempio, la popolazione
attuale argentina è, per la stragrande maggioranza, di origine europea. Nella componente etnica bianca,
che diventa il settore dominante della società, inizia a svilupparsi il ceto borghese, la cui espansione è
inizialmente ostacolata dalle condizioni economiche e politiche nei decenni successivi all’indipendenza. Se
la borghesia bianca ha difficoltà a emergere dal dominio di una ristrettissima oligarchia che ancora presenta
aspetti di stampo feudale, la situazione per la maggioranza della popolazione che subisce la discriminazione
etnica, ancora nei primi decenni del XIX secolo e fino alla metà del ‘900, era catastrofica. Le popolazioni
indigene che erano sfuggite all’oppressione del regime coloniale, anche dopo la sua caduta, non
migliorarono quasi per nulla le proprie condizioni. Le istituzioni spagnole vennero sostituite da nuove forme
di subordinazione e, in molti casi, queste forme di subordinazione furono ancora più rigide e spietate
rispetto al periodo coloniale; erano forme che si protrassero fino alla metà del XX secolo e costituirono
forme di schiavitù non riconosciuta e non riconoscevano nessuna tutela giuridica alle comunità. Quindi,
queste popolazioni indigene vivevano in una permanente condizione di analfabetismo, povertà estrema,
malnutrizione e condizioni igienico-sanitarie inimmaginabili. Per quanto riguarda i mulatti, possiamo dire
che questa etnia vide un miglioramento rispetto all’epoca coloniale, ma questo solo perché la loro
condizione coloniale era di marca schiavista, quindi certamente non poteva essere peggiore, perché i
principi umanitari dell’Illuminismo francese che avevano animato la cultura rivoluzionaria prevedevano
l’uguaglianza di tutti gli individui, di conseguenza l’abolizione della schiavitù, che venne formalmente
sancita in tutte le nuove Costituzioni degli Stati indipendenti. Dopo il 1820, la schiavitù scomparve e i regimi
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schiavisti si conservarono solo nelle regioni che non ottennero l’indipendenza (Porto Rico e Cuba). Questa
grade varietà etnica della popolazione, per i settori più reazionari dell’élite bianca, rappresentava uno
stigma, era vista dagli intellettuali come una potenziale ricchezza umana e culturale che, nella loro visione,
poteva portare vantaggi politici e sociali: tanto più una società è eterogenea, tanto più è dinamica. Questa
presenza di eterogeneità etnica e culturale viene vista da questi illuminati come un fattore che caratterizza
il nuovo continente e lo arricchisce umanamente rispetto all’Europa. Per questa ragione la presenza di
molte componenti etniche e la loro mescolanza diventa un fattore identitario, caratterizzante l’America
latina. La celebrazione dell’eterogeneità etnica va di pari passo, in alcuni scrittori, con la glorificazione della
ricca varietà di fauna, di flora, di climi e di geografie dell’America latina, che raffigurano un futuro florido. In
questa prima fase della rifondazione delle ex colonie, ciò che dal punto di vista culturale e politico si tende
a mettere in rilievo sono l’autonomia e le differenze rispetto al mondo europeo, quindi anche per questa
ragione, oltre che per motivi umanitari e di giustizia sociale, nelle opere degli autori romantici è frequente
la presenza, spesso idealizzata ed esaltata, di temi legati al mondo degli indios, dei meticci e dei neri.

Un altro aspetto istituzionale è il rapporto tra l’istituzione religiosa e lo Stato. Il progresso democratico e
liberale, che è implicito nei principi illuministi a cui si rivolgono come modello le repubbliche
latinoamericane e i rivoluzionari, imponeva una subordinazione del potere religioso al potere civile. Questo
principio passa anche nelle costituzioni e nella visione politica delle repubbliche, di conseguenza l’obiettivo
anche di queste costituzioni è sancire una drastica riduzione del potere della Chiesa cattolica sullo Stato e
sulla vita dei privati cittadini. In parte, questa separazione tra Stato e Chiesa avviene grazie alle carte
costituzionali. D’altro canto, il tradizionale radicamento delle strutture ecclesiastiche nella struttura
ispanoamericana non fu affatto facile da vincere e, sebbene fosse stata proclamata ovunque la libertà di
culto, nella realtà l’influsso del potere religioso anche nelle vicende private dei cittadini e nella vita
istituzionale continuò a esercitarsi a lungo. Durante tutto l’Ottocento, si assiste a una lotta aperta fra
tendenze laiciste e resistenze confessionaliste, perché la Chiesa non si rassegna a perdere le sue antiche
prerogative; possiamo comunque dire che le principali conquiste dalle istituzioni civili hanno a che fare con
la riduzione delle ingerenze della religione negli affari dello Stato, l’introduzione di freni all’espansione del
grande potere economico della Chiesa. Tutt’oggi, la Chiesa è quella che continua a mantenere la maggior
ricchezza complessiva. Per ridurre le ingerenze ecclesiastiche anche dal punto di vista economico, si
tagliano persino le decime, a cui la Chiesa aveva sempre avuto diritto.

Altro elemento introdotto è l’istituzione del Registro civile delle nascite e dei matrimoni: sembra una cosa
da poco, ma bisogna considerare che, fino a quel momento, i matrimoni erano validi solo se celebrati
dall’autorità ecclesiastica; con questo Registro, a prescindere dall’orientamento religioso dei due individui,
il matrimonio è valido. Anche il Registro delle nascite rappresenta l’assunzione di responsabilità da parte
dello Stato dei suoi cittadini, fin dalla nascita. Prima, tutto era gestito dalla Chiesa.

Altro aspetto importante introdotto con la fase indipendentista è la secolarizzazione dell’insegnamento. Un


esempio dei principi che politici e intellettuali progressisti americani cercarono di introdurre nelle
costituzioni e nella vita dei Paesi si trova nelle parole di uno dei primi presidenti ecuadoregni (Vicente
Rocafuerte): «La libertad política, la libertad religiosa y la libertad mercantil son los tres elementos de la
moderna civilización y forman la base de la columna que sostiene el genio de la gloria nacional, bajo cuyo
auspicio gozan los pueblos de paz, virtud, industria, comercio y prosperidad». Questa nuova concezione del
rapporto Stato-Chiesa spinge anche a un rinnovamento nella Chiesa stessa, cioè allo sviluppo di un
cattolicesimo liberale oltreché conservatore e, in alcuni casi, reazionario. A questo cattolicesimo liberale
aderiscono molti degli artisti legati all’estetica romantica. Questo perché il sentimento religioso, il fascino
per il soprannaturale e un’inclinazione mistica sono degli elementi che già tendono a caratterizzare i
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movimenti romantici europei e questa affinità è stata interpretata come una forma di reazione al pensiero
razionalista neoclassico. In America latina, dove il Romanticismo giunge con un certo ritardo e in forma
decisamente mediata, questo sentimento religioso in senso ampio tende a esprimersi nella tradizione
cattolica. Bisogna considerare che questa tradizione cattolica, anche se la Chiesa aveva perso parte del suo
potere temporale, continua a esercitare una forte influenza sulla società e sulla politica. Il cattolicesimo, in
tutta l’America latina, rimane la confessione predominante ed è un fattore identitario importante. Una
delle conseguenze più significative di questa laicizzazione incipiente dello Stato fu la riforma
dell’educazione: in epoca coloniale, tutto il settore dell’insegnamento era nelle mani della Chiesa, che
aveva il controllo sulla formazione dei cittadini durante tutto il percorso di studi; dopo la rivoluzione
indipendentista, con la promulgazione delle costituzioni indipendentiste, vengono introdotte importanti
riforme che attribuiscono in primo luogo allo Stato il compito di occuparsi dell’educazione dei cittadini.
Innanzitutto, in quasi tutti gli Stati diventa obbligatoria e gratuita, non è più un’opera di carità, ma uno dei
principali doveri dello Stato; la struttura stessa dell’istruzione viene completamente riformata in chiave
moderna e razionalista. Questo seguendo i modelli di nazioni come la Francia, in un primo momento, e la
Germania. Già nell’Ottocento, vengono istituiti i tre diversi gradi di insegnamento: scuola elementare,
secondaria e università. Si introducono nuovi metodi didattici e pedagogici, mentre nuove materie
scientifiche, la lingua nazionale e le lingue straniere moderne sostituiscono vecchi insegnamenti di
carattere teologico. Anche il latino perde il suo status di lingua colta, quindi nelle università si inizia a
insegnare in castigliano. Nonostante le difficoltà economiche in cui versavano praticamente tutte le giovani
repubbliche, questa trasformazione ebbe successo soprattutto grazie all’opera riformatrice portata avanti
da intellettuali e artisti che riuscirono a ricoprire ruoli politici più o meno importanti nelle strutture
pubbliche dei rispettivi Paesi. Due esempi in questo senso sono: Andrés Bello, uno tra gli intellettuali che
più contribuiscono a questo rinnovamento delle forme dell’istruzione, così come contribuisce la
generazione dei proscritti argentini, tra cui spicca la figura di Sarmiento, che, dopo la sconfitta di Rosas,
ebbe la possibilità come uomo politico di applicare idee e principi riformatori dell’educazione. Per il bisogno
di creare ex novo un gran numero di maestri elementari che, con il loro lavoro, potessero abbattere la
percentuale di analfabeti, si diede un impulso particolare al secondo grado dell’istruzione, quindi alle scuole
superiori: questa diffusione dell’istruzione, com’è facile immaginare, permise a molte persone, un tempo
escluse per la loro condizione sociale, di occuparsi di arte e di letteratura sia come fruitori sia in veste di
autori. Si allarga in senso democratico l’accesso all’arte, alla scrittura e alla letteratura. Principalmente, i
maestri sono uomini bianchi della piccola borghesia. Tuttavia, le donne, forse per la prima volta, arrivano
ad avere un ruolo istituzionale nella società: ci sono tante maestre. Nella seconda metà dell’Ottocento,
quando le condizioni economiche in alcune regioni, soprattutto nel Cono Sud, iniziano a migliorare e la
situazione politica si stabilizza, i progressi nel campo dell’istruzione sono sempre più evidenti, anche se in
alcuni casi i tassi di analfabetismo rimangono alti almeno fino alla metà del secolo successivo. Mentre i
maggiori sforzi vengono fatti per costruire le basi per la diffusione dell’educazione popolare attraverso la
fondazione di istituti atti a formare la classe docente, l’università, in questa prima parte dell’Ottocento,
riceve in proporzione un’attenzione minore: se è vero che si modernizza, ne vengono fondate poche, anche
perché, durante l’epoca coloniale, di università ce n’erano a sufficienza, quindi, in questa prima fase della
vita repubblicana dei nuovi Stati, si trattava di trasformare quelle che già c’erano, rinnovando il corpo
docente e i programmi di studio, permettendo l’ingresso a chi economicamente non poteva permetterselo.
Si trattava di misure che non ebbero una grande estensione, perché l’università, almeno fino agli anni ’30
del ‘900, rimane un ambito per privilegiati, per le classi alte, che possono permettersi di pagare gli studi e di
mantenersi.

18/02/22
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La ristrutturazione del sistema educativo non aveva soltanto finalità idealistiche – incrementare il livello
culturale della popolazione –, anzi, negli intenti dei politici e degli intellettuali riformatori, l’istruzione
rappresentava uno strumento fondamentale per dare impulso a un’economia decisamente arretrata,
lasciata in eredità dal regime coloniale. Anche le lunghe lotte per l’indipendenza, la forte instabilità politica
e sociale che per alcuni decenni ostacolarono la vita democratica delle nuove nazioni aggravarono questa
crisi economica. A grandi linee, si possono individuare alcuni di questi problemi più gravi, che vengono, di
tanto in tanto, messi in luce anche dagli autori romantici nelle loro opere e, più tardi, verranno affrontati
soprattutto per quanto riguarda le loro conseguenze sociali da alcuni scrittori realisti e naturalisti che
operano tra fine ‘800 e inizio ‘900. Tra i fattori più importanti che concorrono a determinare l’arretratezza
economica dell’America latina nel corso dell’Ottocento troviamo: instabilità politica; guerre
d’indipendenza, che frenarono il commercio con l’Europa e le varie attività produttive; demografia, quindi
una popolazione ridotta rispetto alle potenzialità del territorio; scarsità delle infrastrutture, aggravata
dall’uso di tecniche e strumenti inadeguati rispetto alle aspettative, soprattutto erano arcaici
nell’agricoltura e nella nascente industria. Di fronte a questo quadro, la soluzione a questo stato di cose fu
ricercata dai politici più progressisti nell’adozione dei principi dell’economia liberale, ovvero incentivazione
della libera impresa e tutti i provvedimenti destinati a promuovere l’iniziativa privata sostenuta dallo Stato,
secondo quella che, nella seconda metà dell’Ottocento, sarà l’ideologia positivista. Positivismo, qui, non
riguarda solo la sfera filosofica, ma anche quella economica. Il liberismo è uno degli esiti del positivismo.
Questo programma si realizzò, laddove possibile, dando impulso alle attività produttive fondamentali
(agricoltura e allevamento soprattutto, a seguire quella mineraria): questo veniva implementato favorendo
anche l’apertura ai capitali e agli interventi stranieri, sotto forma di prestiti, partecipazione diretta
attraverso la costruzione di infrastrutture, porti, linee ferroviarie.

Altro elemento fu l’incentivazione dell’immigrazione europea. Questi fenomeni diedero i loro frutti
soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo e, in particolare, furono rilevati nel Cono Sud. Fu
soprattutto Sarmiento a teorizzare prima e mettere in pratica poi questi provvedimenti. Il suo
orientamento liberale cambiò in poco tempo la realtà argentina, in particolar modo attraverso
l’incentivazione dell’immigrazione europea, che avrebbe fornito quella manodopera che, insieme agli
investimenti inglesi, poteva dare vita a una moderna forma di industrializzazione. Bisogna riconoscere che
questa trasformazione non ebbe soltanto conseguenze positive, al contrario determinò una serie di effetti
traumatici e innescò delle tensioni sociali sia nella popolazione originaria sia tra i nuovi arrivati.
Testimonianze di questi conflitti che investono in particolare gli abitanti della costa atlantica, che ha uno
sviluppo un po’ più accelerato, si trovano in alcuni dei più importanti scrittori di ascendenza romantica nella
seconda metà dell’Ottocento. Lo scrittore più significativo in questo senso è José Hernández, che
rappresenta in modo esemplare le conseguenze spesso drammatiche di queste trasformazioni radicali che
sovvertono modi di vita e tradizioni delle popolazioni rurali. Verso la fine del secolo, la trasformazione
dell’economia e della società investirà soprattutto il mondo urbano in quelle che saranno le prime
metropoli: le testimonianze letterarie si troveranno soprattutto nei successori degli scrittori romantici,
ovvero i realisti prima e i naturalisti dopo. Un altro problema legato alle modalità liberiste e positiviste
adottate per cercare di dare un impulso all’economia dei Paesi latinoamericani ebbe origine dal rapporto di
dipendenza finanziaria che si venne a instaurare con i Paesi europei in un primo momento (soprattutto
l’Inghilterra): in seguito, questa dipendenza avverrà con gli Stati Uniti – e continua ancora oggi. Le
conseguenze di queste scelte influenzeranno profondamente lo sviluppo e la storia di tutte le nazioni
ispanoamericane, innescando delle forme di neocolonialismo, uno degli elementi che determinano la
complessa situazione geopolitica dell’America latina. Si può dire che il lungo periodo entro cui nasce, si
sviluppa e si esaurisce il periodo romantico in America latina si può suddividere in due tappe: la prima che
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

va dall’indipendenza alla metà dell’Ottocento; una seconda fase che va dalla metà del secolo almeno fino al
1880. A questo proposito, un famoso studioso di storia della letteratura come Pedro Henríquez Ureña
indica come spartiacque tra queste due tappe il 1860, prima del quale le nuove repubbliche attraversano
un periodo di caos politico e istituzionale che comporta anche feroci lotte civili e dopo il quale inizia una
fase di maggiore stabilità e di progressiva organizzazione di stampo moderno delle strutture statali,
dell’economia e della cultura. Questa suddivisione schematica è di carattere generale, non vale per tutti i
Paesi, il cui sviluppo è stato determinato anche da caratteri locali: lo sviluppo di autentiche democrazie è
stato un processo molto travagliato; per tutto l’Ottocento, i governi degli Stati tendono ad avere un
carattere marcatamente autoritario, anche in assenza di regimi dittatoriali. Altro aspetto generale che si
evidenzia nello sviluppo delle varie nazioni è che i Paesi della costa atlantica tendono ad avere delle
economie più dinamiche e società relativamente più avanzate rispetto ai Paesi che si affacciano sul Pacifico.
Ciò non toglie che sia in Europa sia negli USA sia in America latina, alcuni intellettuali dell’Ottocento
considerassero gli Stati sorti dalla dissoluzione dell’impero coloniale spagnolo delle società ancora barbare,
antidemocratiche e arretrate sia dal punto di vista economico che sociale. Ci si rende conto anche in Sud
America che si è ancora lontani da un’effettiva modernizzazione in tutti i campi. A questa visione critica si
opponeva lo sguardo ottimista di altri intellettuali, che alla fine del secolo vedevano il percorso storico
seguito dall’America latina come un cammino verso la democrazia. In questo senso, José Martí, intellettuale
che, nonostante una vita molto travagliata non solo come scrittore, ma soprattutto come uomo politico, è
uno dei rappresentanti di una visione ottimistica dell’America latina, che conosceva molto bene in quanto
intellettuale che si occupava anche di storia. Fu esiliato da Cuba, dove era stato messo in carcere per la sua
attività di rivoluzionario che spingeva per l’indipendenza di Cuba, che arriverà solo nel 1898 e José Martí,
nel tentativo di liberare l’isola, muore in combattimento pochi anni prima, nel 1895.

Il Romanticismo

A partire dai primi anni ’20 dell’Ottocento, le idee e i principi estetici del Romanticismo iniziano a giungere
in America latina, propagandosi abbastanza rapidamente in tutta la regione meridionale del continente
americano, trasformandosi nel fenomeno letterario più importante del secolo, sia per la quantità delle
opere prodotte sia per la lunga durata della diffusione e del radicamento dell’estetica romantica. Abbiamo
circa mezzo secolo di storia tra il diffondersi del Romanticismo e dei suoi principi come novità e il suo
esaurirsi nelle forme ormai fossilizzate e accademiche del cosiddetto tardo Romanticismo o post-
Romanticismo. Il Romanticismo, in America latina soprattutto, deve essere considerato una successione di
tappe letterarie, non un movimento monolitico: in America, questo carattere è ancora più evidente perché
nella traiettoria temporale che va dal suo inizio alla sua fine, si succedono almeno tre generazioni di
scrittori e ciò accentua una certa discontinuità, alla quale contribuisce anche l’eterogeneità culturale dei
vari Stati.

Il Romanticismo non è soltanto un fenomeno letterario, ma, più in generale, costituisce un rinnovamento di
tutte le arti e anche della sensibilità estetica, un principio che in Europa viene adattato alle circostanze
storiche e culturali che erano diverse rispetto a quelle europee in cui il movimento romantico era sorto.
Vale, quindi, la pena ricordare i caratteri generali che contraddistinguono il Romanticismo europeo e gli
scrittori che influenzano maggiormente quelli ispanoamericani, tenendo conto che, dal punto di vista delle
influenze, la discronia – l’inizio ritardato – e il lungo periodo di vita del Romanticismo in America
favoriscono l’assimilazione non soltanto dei precursori del Romanticismo europeo, ma anche di quelli che
furono i continuatori: nel periodo che precede la nascita del Romanticismo, il razionalismo del pensiero
illuminista e gli ideali estetici del Neoclassicismo che accompagnavano il pensiero illuminista – un’estetica
dominata dal rigore ormale, dall’oggettività e da un ideale di bellezza associata all’armonia espressiva – si
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fondavano su un principio di autorità che risiedeva nella tradizione dell’antichità classica, i cui modelli
avevano, agli occhi dei neoclassici, uno statuto di immutabilità a cui i neoclassici si dovevano assoggettare.
La crisi politica, sociale e culturale che negli ultimi decenni del ‘700 dà origine al Romanticismo europeo
riflette l’insufficienza di questo ordine estetico e ideologico del Neoclassicismo e, negli ultimi decenni del
‘700, dà inizio a una vera e propria rivolta degli intellettuali, che viene lanciata nel nome della soggettività,
dell’intimismo, dell’irrazionale, dell’eccentricità e della libertà immaginativa – principi radicalmente
contrapposti alla razionalità neoclassicista. La nascita del Romanticismo può essere rappresentata come
una reazione contro una concezione normativa e immutabile dell’arte a cui viene contrapposta
un’esaltazione del potere della fantasia individuale e delle forme attraverso cui ciascun popolo si esprime
artisticamente. Se per gli artisti neoclassici, i modelli di riferimento erano i latini e i greci, per i romantici le
fonti d’ispirazione saranno le tradizioni popolari nazionali (Medioevo e culture esotiche). Quest’opposizione
tra Neoclassicismo e Romanticismo la si può descrivere anche introducendo la dicotomia tra l’apollineo e il
dionisiaco: Nietzsche mette in evidenza che questa era una polarità sempre presente nella produzione
artistica europea. Il principio essenziale che caratterizza qualsiasi forma di Romanticismo è il bisogno di
esprimere la massima capacità creativa dell’artista. Questo principio della creatività che si pone al centro
dell’attività dell’artista sopravvive ancora oggi nella nostra concezione di arte.

Il Romanticismo inizia in Germania tra il 1770 e il 1785 con il movimento dello Sturm und drang, che si
ribellava al razionalismo filosofico e alle istituzioni e alla cultura dell’epoca, viste come forme di costrizione
a cui il genio individuale doveva sottostare. La figura più importante e conosciuta in questo periodo
protoromantico tedesco è Goethe, insieme a Herder: nella contrapposizione tra classico e romantico,
Goethe postula alcune idee e definisce classico quell’artista che aveva la sensazione di vivere sotto lo stesso
sole che riscaldò Omero e i suoi eroi, quindi l’artista neoclassico era colui che concepiva la vita presente
come la continuità di un passato; al contrario, Herder definiva romantico colui che avvertiva il passato
come qualcosa di profondamente diverso dal presente e che immaginava il futuro come un mistero
assoluto, cioè che concepiva la vita come un divenire. All’inizio dell’Ottocento, il Romanticismo tedesco è
già pienamente sviluppato e, attraverso l’opera dei fratelli Schlegel e la rivista Ateneum, inizia a diffondersi
anche in Inghilterra, dove troverà un terreno culturale molto fertile. La nuova estetica si manifesta come
una fascinazione per tutto ciò che è misterioso, pittoresco e leggendario e si esprime attraverso una visione
sublime nella posizione dell’uomo nel cosmo e si associa con il misticismo e il soprannaturale. La maestosità
della natura selvaggia, gli enigmi della vita, della morte, dell’amore e le contraddizioni che agitano lo spirito
umano sono per i romantici l’indizio che il nostro destino di esseri umani si gioca in una sfera superiore a
quella delle nostre forze. Tendenzialmente, il Neoclassicismo non aveva una particolare affinità con la
dimensione religiosa – intesa come confessionale – mentre il Romanticismo guarda là dove i neoclassicisti
non guardavano, cioè oltre la cultura istituzionalizzata.

Sia gli autori tedeschi che quelli inglesi eserciteranno un’influenza piuttosto limitata sugli intellettuali
ispanoamericani. Questo essenzialmente per due ragioni: la difficoltà posta dalle lingue, visto che non
erano molte le opere tradotte in spagnolo; quando il Romanticismo inizia a diffondersi in America, gli autori
tedeschi e inglesi, per ragioni cronologiche, non potevano più essere considerati una novità, quindi si
rivolsero a nuovi modelli, con cui c’era una maggiore affinità sul piano culturale. Gli autori di lingue
germaniche ebbero un certo influsso sugli autori ispanoamericani, anche se spesso questo non era un
influsso diretto, bensì di seconda mano. Tra gli scrittori tedeschi in qualche misura assimilati si trova
soprattutto Schiller, più grazie alle sue opere teatrali che alla sua poesia; altro autore che lasciò
un’impronta rilevante fu Goethe (Faust e Wilhelm Meister). Un’importanza decisamente minore ebbero le
opere di Hoffman, scrittore in prosa e autore di una narrativa fantastica, oltre che Hein. Per altro, la
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conoscenza delle loro opere si diffuse solo nella seconda metà dell’Ottocento, quindi c’è un periodo breve
per assimilare questi autori.

Per quanto riguarda l’ambito letterario inglese, la figura che venne considerata più prestigiosa e imitata fu
Lord Byron non soltanto per ragioni estetiche, ma anche per le sue idee politiche e la sua vita tragica.
Furono molti gli autori attratti dall’idealizzazione della libertà che proponeva Byron, così come furono
attratti dal suo panteismo e dalla sua esaltazione del sentimento amoroso. Basta ricordare che il suo poema
Child Harold’s Pilgrimage ispirò sia i Cantos del pelegrino (José Mármol); anche alcune opere di Echeverría
furono influenzate da quest’opera di Byron. Bisogna anche ricordare che quasi tutte le opere di Byron
furono tradotte in America latina. Altro autore inglese che esercitò una notevole influenza sulla prosa fu
Walter Scott, il cui romanzo storico Ivanhoe fu tradotto molto presto in spagnolo e il suo modello fu a lungo
imitato: Guatimozin di Gertrudis de Avellaneda è molto vicino, nella sua costruzione, a Ivanhoe; altro
autore che subisce l’influenza di Scott è Cirilo Villaverde, con il romanzo Cecilia Valdéz; altra opera che si
può citare è Enriquillo (Manuel de Jesus Galván). Una certa diffusione la ebbero anche The poems of Ossian
(James Macpherson) grazie al loro gusto popolare ed esotico. Tra i primi traduttori di Ossian c’è il cubano
José María Heredia. Qualche risonanza fra gli autori di lingua inglese la ebbero autori del calibro di James F.
Cooper e Edgar Allan Poe per quanto riguarda la prosa; per quanto concerne la poesia, ebbe una certa
influenza Henry Longfellow, in particolare su Rafael Pombo. Dalla Germania e dall’Inghilterra, il
Romanticismo si diffuse piuttosto rapidamente anche in altri Paesi europei: in Francia, dove si svilupperà in
modo straordinario, ma anche in Spagna e Italia, dove comunque tarda a imporsi.

Per quanto riguarda le origini del movimento romantico in America latina, un ruolo fondamentale lo svolge
la cultura francese, con alcuni autori che esercitano, nel corso del tempo, una marcata influenza. Questo
fenomeno è particolarmente significativo perché indica una cambio di rotta tra gli intellettuali e gli artisti
ispanoamericani a proposito dei loro modelli culturali di riferimento: se prima della dissoluzione
dell’impero coloniale spagnolo era la madrepatria a svolgere la funzione di motore delle innovazioni
estetiche, a partire dall’indipendenza delle colonie questo ruolo egemone passa alle nazioni europee, e in
primo luogo alla Francia. Bisogna, comunque, ricordare che, già nell’epoca che precedette le lotte
indipendentiste, il prestigio della cultura francese aveva già iniziato a insidiare – per poi soppiantare –
quello della cultura iberica. Questo soprattutto grazie alla diffusione del pensiero illuminista con le sue
istanze politiche, ideologiche, artistiche, ecc. Gli autori romantici francesi che, grazie alle loro opere,
contribuiscono alla nascita del Romanticismo latinoamericano sono numerosi – questo sia perché la lingua
non rappresentava un ostacolo così grande, quindi è più facile la penetrazione, ma anche perché i libri degli
autori francesi avevano una notevole diffusione, tanto che tra alcuni intellettuali ispanoamericani era luogo
comune denunciare e criticare questo fenomeno di afrancesamiento dei costumi –, ma se ne possono
individuare alcuni che hanno esercitato un maggiore influsso su scala continentale e per un periodo
abbastanza lungo: il più importante fra i romantici francesi è Victor Hugo, figura quasi mitizzata e che ebbe
uno stuolo di imitatori e di apprezzatori, la sua opera era talmente varia da offrire quasi a tutti gli scrittori
un modello interessante, così vi fu chi assimilò l’esotismo di Les Orientels, chi il lirismo sentimentale e
familiare delle odi e delle ballate, chi lo spirito umanitario, chi la poesia progressista e chi l’epopea umana
dei drammi e dei suoi romanzi. Hugo esercitò un certo influsso anche attraverso il suo manifesto letterario
di stampo romantico costituito dalla prefazione al dramma in versi intitolato Cromwell (1827), che si può
considerare una sorta di manifesto dell’estetica romantica. Il grande prestigio che ebbe Hugo fra gli scrittori
ispanoamericani si manifestò durante tutto il secolo, anche perché visse a lungo, e questo prestigio è
testimoniato anche dal fatto che in America la sua figura era diventata un’icona molto popolare. Un altro
tra i maggiori esponenti del Romanticismo francese che, come Hugo, incarna l’ispirazione liberale è
Alphonse Lamartine: anche lui esercita un’influenza piuttosto diffusa che si nota soprattutto nella poesia
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sentimentale e nell’idealizzazione del sentimento amoroso. Meno popolare di questi due, ma sempre
influente, fu François-René de Chateaubriand, la cui diffusione in America latina fu importante sia per la
rivalutazione ideologica ed estetica del cristianesimo, attraverso Le génie du christianisme. Gli scrittori
romantici erano attratti dal sublime, dal meraviglioso e da tutte le forme di speculazione sull’essenza del
mondo e dell’uomo, che inevitabilmente prendevano in causa il soprannaturale. Questo, da parte di alcuni
autori, sfociò in un’esaltazione della sacralità della natura e dell’uomo, che non necessariamente comporta
un’adesione alle religioni istituzionalizzate. Alcuni autori si proclamavano atei (Shelley), ma, al tempo
stesso, vivevano la dimensione naturale in termini mistici; altri avevano sviluppato una concezione titanica
dell’esistenza (Byron); più in generale, i romantici europei tendono a rivalutare la dimensione spirituale
attraverso un recupero della tradizione cristiana, che forniva un apparato trascendentale già ben costruito.
Chateaubriand, nel suo voluminoso trattato sul cristianesimo, offre una celebrazione e rielaborazione in
chiave estetica del cattolicesimo che in America latina trova un terreno dove può facilmente attecchire,
come dimostrano le testimonianze di alcuni scrittori, i quali affermavano che Le génie du christianisme
fosse la lettura prediletta dei giovani che si dedicavano alla poesia e alla letteratura. Un altro aspetto che
riguarda il rapporto tra Chateaubriand e il nuovo continente è che alcuni dei temi e delle ambientazioni
presenti in alcune opere narrative non potevano non trovare una risonanza tra gli scrittori ispanoamericani,
perché essi erano legati proprio all’ambiente latinoamericano e avevano come personaggi degli indigeni.
L’influenza più importante viene esercitata dal romanzo breve Atala, che è una vicenda sentimentale che si
svolge tra gli indiani del nord-America. Atala diventerà il modello di numerose opere narrative più o meno
importanti della letteratura ispanoamericana. Heredia scrive un poema intitolato Atala; Placido scrive una
canzone intitolata Atala; il romanzo di Chateaubriand ispirerà anche altri autori, come Juan León Mera
(Cumandá), Juan Zorrilla de San Martín (Tabaré); in María (Jorge Isaacs), Atala viene citato come una delle
letture fondamentali dell’educazione sentimentale dei due protagonisti del romanzo. Tra gli altri autori
francesi che hanno un certo prestigio in America latina, ci sono Jean Jacques Rousseau (Le contrat social,
Émile ou De l’éducation, La nuovelle Heloise) – questo soprattutto per le idee liberali che si manifestano – e
lo storico Alexis de Tocqueville con il suo trattato De la démocratie en Amérique che ispirerà alcuni
intellettuali ispanoamericani.

Per quanto riguarda l’influenza esercitata da scrittori italiani, si può dire che la lingua non rappresentava un
grande ostacolo, tuttavia la letteratura italiana non godeva di grande prestigio in quella fase, per questo i
modelli assimilati furono relativamente pochi. A parte il caso di Alfieri, che ispira alcuni intellettuali di
stampo neoclassico, i nomi più importanti sono essenzialmente quattro: Foscolo, Silvio Pellico, Manzoni e
Leopardi. Di Foscolo furono letti o imitati Le ultime lettere di Jacopo Ortis e Dei sepolcri. Di queste due
opere, Heredia presenta una traduzione pubblicata nell’edizione messicana del 1832 delle sue stesse
poesie. Di Pellico, fu molto importante in America Le mie prigioni, soprattutto perché nella prima metà
dell’Ottocento il tema della repressione e del conflitto politico permetteva a molti lettori e scrittori
ispanoamericani di indentificarsi con le vicende narrate. Lo scrittore romantico italiano più letto e imitato fu
senza dubbio Manzoni, sia con I promessi sposi sia con Il 5 maggio, che fu una composizione
particolarmente popolare in America latina. La sua metrica molto ripetitiva ma musicale rappresentò un
modello per molti poeti. Per quanto riguarda Leopardi, la sua opera fu poco conosciuta ed ebbe
un’influenza relativa, solo su alcuni scrittori tardoromantici e poco significativi. Questa influenza si
manifesterà più tardi su alcuni autori che possiamo definire modernisti (Julián del Casal e José Asunción
Silva).

Un discorso a parte lo merita il rapporto tra la letteratura romantica spagnola e quella ispanoamericana,
che sono sostanzialmente coeve. Nell’Ottocento, la cultura e la letteratura di quella che un tempo era stata
la madrepatria ebbero in America funzione di modelli di riferimento. Questo per due ragioni: la repressione
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attuata dal Governo spagnolo; le sanguinose guerre di liberazione che per molti anni impegnarono gli
eserciti dei futuri Stati indipendenti latinoamericani. Questo conflitto generò un sentimento di risentimento
nei confronti di tutto ciò che poteva essere identificato come il retaggio del dominio colonialista e della sua
cultura. Altro aspetto che va considerato è che i valori di indipendenza e progresso di cui i latinoamericani
avevano fatto la loro bandiera erano ben poco rappresentati nella cultura ispanica dell’epoca; in quel
periodo, la cultura e la letteratura spagnole erano tendenzialmente molto conservatrici. La letteratura
spagnola, tra la fine del ‘700 e l’inizio del XIX secolo, attraversa una fase di declino rispetto al passato,
identificato nel siglo de oro, nel Barocco, nella grande poesia e letteratura spagnole, che non ha riscontri
dal punto di vista qualitativo con la letteratura prodotta tra fine ‘700 e inizio ‘800, quindi c’era ben poco da
imitare. Le affinità e i legami culturali che per secoli si erano intessuti tra la Spagna e le colonie non
cessarono improvvisamente e anche il Romanticismo spagnolo ebbe un certo influsso sullo sviluppo
romantico ispanoamericano. A proposito delle prime manifestazioni della letteratura romantica, è curioso
notare come i critici latinoamericani si siano affannati a cercare di dimostrare che gli autori americani
avevano anticipato le prime manifestazioni del Romanticismo spagnolo. È significativo perché manifesta
una sorta di anelito identitario. A prescindere da certe preclusioni, vi sono alcuni autori spagnoli che
esercitano una certa influenza su quelli ispanoamericani; il contrario non si verificherà e il rovesciamento
dell’influenza avverrà soltanto con il Modernismo, quindi nel ‘900. Fra gli autori spagnoli che suscitarono un
certo interesse in America tra le generazioni di scrittori romantici, ci sono tre figure che spiccano: Mariano
de Larra, autore che si contraddistingue per la sua vena ironica e per la personalità complessa e singolare,
fu lo scrittore con la maggiore influenza tra i romantici ispanoamericani. Questo soprattutto grazie alle idee
riformiste e alla prosa innovatrice, accolte in America con interesse, tale che le sue opere ebbero anche
delle edizioni in America latina tra il 1835 e il 1845. Anche alcuni dei suoi testi teatrali furono rappresentati.
A decretare il suo successo contribuirono diversi fattori: lo stile diretto della sua prosa, con cui descriveva in
modo sintetico ma efficace la vita nella Spagna del primo ‘800. Ci furono elementi legati alla sua figura che
conversero nella diffusione della sua opera: uno su tutti le circostanze tragiche della sua morte prematura,
che avviene in pieno stile romantico (suicidio per amore), il che lo trasforma in una figura leggendaria. Larra
esercitò sugli autori ispanoamericani che si sentivano più orientati verso una funzione civile e politica della
loro letteratura; influenzò anche quegli scrittori che privilegiavano il costumbrismo, cioè la descrizione – a
volte umoristica o satirica – di personaggi popolari, di situazioni o di ambienti tipici delle città o delle
province. In America latina, il più importante degli autori influenzati dal costumbrismo molto vivace di Larra
fu Ricardo Palma, la cui fama è legata essenzialmente ai numerosi volumi delle sue Tradiciones peruanas,
opera iniziata nel 1852, anche se viene pubblicata solo nel 1872. Queste Tradiciones peruanas sono
racconti, a tratti molto arguti, in cui si alternano episodi storici e leggende, verità e invenzione dove viene
rappresentata la società peruviana con personaggi di ogni genere: in alcuni casi, la scrittura è sentimentale,
altre volte troviamo tratti umoristici. Ricardo Palma è famoso anche per aver scritto le Tradiciones verdes,
dove sono presenti racconti a sfondo boccaccesco.

23/02/22

Una certa popolarità la ebbero anche José de Espronceda e José Zorrilla. Il prestigio di Espronceda è
dovuto, in parte, alle vicende biografiche che circondano la sua figura di giovane rivoluzionario, difensore
degli ideali democratici, oltre che alla qualità della sua poesia, che risulta pervasa da una forte tensione
sentimentale. Le immagini della poesia di Zorrilla sono quelle abituali del repertorio romantico, per cui
potrebbero risultare anche un po’ banali; quello che caratterizza la scrittura di Espronceda è una particolare
ricchezza dal punto di vista della melodia dei versi. La poesia romantica tende molto all’elemento musicale.
Complessivamente, per come fu accolta la sua opera in America latina, Espronceda potrebbe essere messo
accanto alla figura di Lord Byron. Le sue composizioni più lette e imitate in America latina furono le sue due
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

opere più famose: Canción del pirata e El estudiante de Salamanca. Queste opere circolarono
spontaneamente in America latina, mentre altri lavori furono pubblicati in Cile e Argentina. Tra gli scrittori
argentini che ammirarono pubblicamente la sua personalità, ci furono figure come Echeverría, Sarmiento
Palma e Isaacs. Zorrilla ebbe una certa fama fra gli autori romantici americani: questo soprattutto perché fu
l’unico tra gli spagnoli di questo periodo a risiedere per una decina d’anni nel nuovo continente – prima a
Cuba, poi in Messico. Proprio in Messico viene riconosciuta la sua autorevolezza di scrittore, perché viene
nominato direttore del Teatro nacional, maggiore istituzione teatrale. Bisogna riconoscere che una certa
diffusione delle sue opere fu precedente al suo viaggio americano, che sostanzialmente servì ad ampliare il
suo prestigio, che si fece sentire nella seconda metà dell’Ottocento. Della sua opera poetica, furono
apprezzate la musicalità dei versi, l’uso di certe combinazioni metriche inedite e la presenza di temi
tipicamente romantici (esotismo orientale, recupero di leggende popolari). Anche la sua produzione
drammaturgica ebbe un certo successo, soprattutto con Don Juan Tenorio e Traidor, inconfeso y martir, con
tematiche che rimandano all’elemento storico-leggendario, caratterizzate da un’abile costruzione scenica.
L’autore Gustave Bécquer ebbe una scarsa diffusione tra i romantici e influenzò più che altro alcuni tra i più
importanti autori modernisti. Quasi tutti i versi di Bécquer nascono da un motivo amoroso ed esprimono in
versi molto eterogenei il mondo dei suoi sentimenti – è l’io lirico al centro della sua poesia. Nelle sue
leyendas, narrazioni di tono lirico vicine ad alcune composizioni della prima letteratura di Rubén Darío,
prevale l’interesse per la tradizione sia iberica che delle regioni nordiche dell’Europa, nonché per l’Oriente.
La poesia di Bécquer tende a rappresentare un mondo fantastico e incantato: per questo troviamo la sua
influenza nelle prime opere di Rubén Darío.

Altro aspetto riguarda l’inizio del Romanticismo, il suo manifestarsi, in America latina. Questo tema chiama
in causa anche le peculiarità che il movimento assume radicandosi nel nuovo continente. A questo
proposito, molti studiosi hanno espresso opinioni piuttosto discordanti. Ciò che vale la pena sottolineare,
per quanto riguarda l’inizio del Romanticismo ispanoamericano, è che tra i diversi autori e opere che gli
studiosi attribuiscono il ruolo di predecessore, spiccano il romanzo storico Jicotencal, pubblicato anonimo
nel 1826, e gli autori Echeverría ed Heredia: i due operano negli stessi anni (fine anni ’20 e inizio anni ’30).
L’attività di diffusore dell’estetica romantica di Heredia è legata alla sua attività di giornalista e critico
letterario; com’è facile immaginare, ebbe una formazione di carattere neoclassico, ma la lettura precoce di
autori come Byron, Lamartine, Chateaubriand e Foscolo, che esaltavano il mondo dei sentimenti, lo
avvicinò molto all’estetica romantica. A prescindere dalla sua opera di poeta, l’attività di diffusore del
Romanticismo in America latina è legata soprattutto a una rivista dal titolo Miscelanea, che fondò in
Messico e pubblicò a partire dal 1829 fino al 1832. In questa rivista, comparivano soprattutto traduzioni di
autori europei (Goethe, poeti francesi, Scott) oltre a una serie di racconti fantastici ed esotici che risultano
anonimi, ma che, secondo i critici, sono opere dello stesso Heredia, scritte rielaborando liberamente scritti
di autori contemporanei europei. È comunque piuttosto difficile capire quanto abbia potuto incidere questa
attività da parte di Heredia. Forse non ebbe una grande incidenza, perché in Messico, dove visse dopo il suo
esilio a Cuba, il Romanticismo si sviluppò abbastanza tardi. All’estremo opposto, opera l’argentino Esteban
Echeverría, la cui attività di diffusore dell’estetica romantica fu più incisiva rispetto a quella del suo
contemporaneo. Bisogna chiarire che l’incontro di Echeverría con il Romanticismo europeo fu diretto e non
si produsse solo con la lettura di opere giunte oltreoceano. Echeverría nasce nel 1805; a vent’anni, si
trasferisce a Parigi, dove rimane fino al 1830. Non soltanto legge in lingua originale gli autori più importanti,
ama soprattutto vive l’ambiente culturale della Parigi romantica, conosce personalmente alcuni scrittori e
intellettuali. Dunque, sviluppa una visione chiara del Romanticismo, che lui assimila con entusiasmo. Non
sorprende che, quando torna in patria, diventi il caposcuola della sua generazione nel Cono Sud. Una
generazione che doveva affrontare il compito di costruire le basi di una nazione che aveva appena
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conquistato l’indipendenza. Il suo progetto di rinnovamento all’insegna delle idee romantiche era molto
complesso e non passava solo attraverso la letteratura, ma anche attraverso l’ideologia e l’attività politica. I
suoi riferimenti erano il liberalismo, una forma di socialismo utopico e, naturalmente, l’estetica romantica.
Siccome questo progetto di ampia portata non poteva essere un’impresa individuale, Echeverría raccoglie
attorno a sé un gruppo di giovani scrittori, creando dei circoli di intellettuali e organizzazione teorico-
intellettuali (Salón literario, inaugurato nel 1837 con la lettura de La Cautiva, considerato uno dei testi che
inaugurano il Romanticismo latinoamericano; nel 1838, Echeverría presiede la Asociación de Mayo, in cui
viene letto un documento programmatico, il cosiddetto Dogma socialista, con cui Echeverría e altri
firmatari si prefiggono di mantenere vivo lo spirito libertario che aveva ispirato le lotte per l’indipendenza,
che, in quegli anni, la dittatura di Rosas aveva tradito). L’opera di animatore politico ha sicuramente inciso
sulla diffusione di questo movimento in America latina e ha inciso ben più di quanto abbia fatto Heredia. Si
può dire che l’intera generazione di quelli che si definirono i proscritos, che condivisero le persecuzioni
della polizia politica del dittatore Rosas, si formò alla luce delle concezioni estetiche e degli ideali civili che
lo scrittore aveva importato dall’Europa. Non è un caso che il Romanticismo argentino sia quello che
manifesta una particolare originalità e che ha prodotto alcune delle opere migliori in tutto il panorama
americano. Jicotencal viene indicato in quasi tutte le storie della letteratura ispanoamericana come la
prima opera romantica nel continente; è considerato il primo romanzo storico che presenta una tematica
indianista ed è basato su un’idealizzazione delle civiltà autoctone americane che si ispira al sentimentalismo
del romanzo francese e alle teorie del buon selvaggio di Rousseau. La narrazione è ambientata nel 1519,
quindi l’inizio della conquista del Messico da parte di Cortés; intreccia una vicenda prettamente
sentimentale con una realtà storica tratta dalle cronache della conquista e da alcune opere di Bartolomé
de Las Casas. Il protagonista è il giovane eroe azteco Jicotencal, che affronta Hernan Cortés, il quale cerca di
insidiare la promessa sposa del giovane. Si chiude in modo tragico, perché Jicotencal viene fatto impiccare
da Cortés, mentre la giovane amante si suicida. Questa è un’opera che presenta alcuni degli elementi tipici
della sensibilità romantica ispanoamericana: l’esaltazione elle culture autoctone, degli indios; una visione
marcatamente negativa della conquista; è ambientata in uno scenario esotico, un panorama grandioso in
cui si svolge questo dramma sentimentale. Fu pubblicato a Filadelfia perché gli Stati Uniti, in questo
periodo, erano un luogo dove trovavano rifugio patrioti e cospiratori spagnoli e latinoamericani che
avevano dovuto scegliere l’esilio. Un aspetto interessante è che, pochi anni fa, uno studio è riuscito a
dimostrare che l’autore di Jicotencal, sulla cui identità si erano interrogato in molti, è il poeta cubano
Heredia.

Un discorso a parte lo merita la figura di Andrés Bello: tutti i critici tendono a considerarlo uno scrittore
neoclassico, tuttalpiù con qualche tratto romantico. Questo grande erudito di formazione rigorosamente
classica, tra il 1810 e il 1830, risiede come esiliato a Londra, dove, in un certo modo, assimila lo spirito
romantico del tempo. Se è vero che, nella sua attività di critico, condanna quelle che lui definisce libertà
espressive e alcuni temi tipici del Romanticismo, è anche vero che apprezza poeti come Byron e
Chateaubriand; scrive numerose opere che lui propone come imitazioni di Hugo. Sono poesie che, a partire
dagli anni ’40, hanno una larga diffusione in America e contribuiscono a consolidare l’affermazione
dell’estetica romantica in America latina. Il fenomeno della migrazione della cultura romantica all’Europa
all’America, da un certo punto di vista, può essere considerato un processo inevitabile, che appartiene allo
spirito stesso del Romanticismo, se consideriamo che uno dei suoi principi fondamentali era la stretta
relazione che si riteneva esistere tra l’espressione artistica e le varianti specifiche dello spirito del tempo e
dello spirito di ciascuna nazione. In altre parole, quando entra in crisi il principio neoclassico dell’autorità
immutabile nel tempo dei greci e dei latini, il Romanticismo si sente libero di seguire il suo corso naturale,
di frammentarsi e diffondersi, sempre però adattandosi alle culture che lo assimilavano. È quindi logico
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

aspettarsi che, passando da una realtà nazionale ad altre, e ancora di più da un continente all’altro, i
caratteri essenziali dell’estetica romantica e della sua ideologia rimanessero intatti, mentre altri aspetti, che
riguardavano tematiche specifiche o peculiarità espressive o finalità particolari, il Romanticismo
ispanoamericano si adatta al intesto in cui si inserisce e assume una pluralità di forme che tendevano a
discostarsi dal modello originale. Passano dall’Europa all’America, lo spirito romantico mantiene alcuni
caratteri e al contempo ne assume o accentua altri che lo rendono caratteristico e specifico. Non si tratta,
quindi, di una semplice operazione di importazione, piuttosto di un fenomeno di rielaborazione. Per le
ragioni storiche a cui si è fatto riferimento, nei primi decenni dell’Ottocento, la classe intellettuale e politica
ispanoamericana avvertiva il bisogno di affermare l’identità e la cultura di queste giovani nazioni: in altri
termini, trovare uno spirito autentico e autonomo anche nell’arte. Dopo secoli di sottomissione al regime
coloniale spagnolo, nelle comunità americane, il bisogno di libertà politica, nello sviluppo economico e
culturale era incompatibile con il rigido modello neoclassico, che tendeva a essere assimilato
all’assolutismo monarchico spagnolo. Così, per molti di questi intellettuali, il Romanticismo, che venne
omologato all’ideologia liberale, rappresentò un nuovo stile e una situazione storica, sociale, culturale,
economica nuova. In effetti, questa realtà era, sotto molti aspetti, lontana da quella europea. Per queste
ragioni, il Romanticismo si dovette adeguare a una serie di aspettative e finalità estetiche di segno diverso
rispetto all’Europa. Questo è ciò che caratterizza i suoi contributi più originali e interessanti dal punto di
vista estetico. Le giovani generazioni ispanoamericani si trovarono, subito dopo l’indipendenza, a vivere in
nazioni che avevano bisogno di essere costruite ex novo; questo compito di costruzione da zero richiedeva
ai giovani intellettuali latinoamericani di intervenire per modellare i nuovi Stati secondo i propri sogni e
aspirazioni. Le prime manifestazioni del nazionalismo letterario coincidono con il Romanticismo. È a partire
da questo momento che si può parlare di letteratura messicana, argentina, ecuadoregna, ecc. e a parlarne
come entità distinte e differenziate tra loro.

La necessità di cogliere ed esprimere i caratteri essenziali dell’identità continentale, così come delle singole
identità nazionali, spinse artisti e intellettuali a mettere in luce, con le loro opere, quelli che apparivano
come tratti specifici del mondo sudamericano, a cominciare da quelli che, più di altri, erano materialmente
evidenti. Quest’orientamento ebbe come conseguenza, da un lato, il risveglio dell’interesse per la storia
delle grandi civiltà precolombiane e il manifestarsi di un orgoglio nei confronti della dimensione naturale e
geografica americana dall’altro. Per quanto concerne la storia, gli autori romantici europei avevano attinto
al passato dei popoli precristiani come fonte di motivi tradizionali; gli autori ispanoamericani si rivolsero al
mondo precolombiano, che ebbe la funzione di dare ai nuovi Stati quel senso di continuità e di
appartenenza a un passato comune. L’obiettivo era recuperare una tradizione autoctona che il regime
coloniale aveva soffocato e cancellato. L’intenzione era dimostrare che le giovani repubbliche erano
costituite da individui con caratteristiche proprie, radicate in un passato affascinante ma poco conosciuto.
Inoltre, le rappresentazioni della vita dei gauchos, degli indios o dei neri, così come le forme di espressione
popolare e la vita nei centri urbani erano indizi di una fervente società criolla che era il destinatario ma
anche il soggetto della letteratura romantica. A questo recupero del passato si affiancava la celebrazione
ella natura e del paesaggio. Furono i romantici ad avvertire la bellezza selvaggia della natura, con le
immagini che soddisfacevano un’immaginazione affamata di paesaggi esotici e maestosi, che potevano
reggere il confronto con le grandezze europee e, anzi, superarle, dimostrando con orgoglio che l’America
non aveva nulla da invidiare al vecchio continente. La storia e la natura americane furono i primi elementi a
cui si rivolsero gli autori nel processo di costruzione dell’identità nazionale.

Questo specifico bisogno di trovare un’espressione autoctona chiamò in causa anche un altro aspetto: la
questione della lingua. Durante i secoli della conquista e della colonia, uno dei principali strumenti di
acculturazione fu l’imposizione del castigliano. La struttura sintattica e grammaticale dello spagnolo
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

americano rimase, durante il periodo coloniale, quasi inalterata, anche se bisogna notare che, col passare
del tempo, iniziano a diffondersi delle varianti significative rispetto allo standard iberico; ciò che iniziò a
cambiare consistentemente fu il lessico, che finì per incorporare moltissimi termini nuovi che venivano
assimilati dalle lingue indigene e che servivano per indicare oggetti, animali e vegetali che non esistevano in
Europa. Il vocabolario è un aspetto della lingua che differenzia lo spagnolo insulare dallo spagnolo
ispanoamericano. A questo proposito, quando con l’indipendenza i politici e gli intellettuali si propongono
di affermare un’identità di continente autonoma rispetto all’Europa, sorge il problema della lingua, lo
strumento attraverso cui si costruivano le letterature nazionali. Grossomodo possiamo dire che le posizioni
degli scrittori romantici sono differenti riguardo il grado di differenziazione linguistica che doveva avere lo
spagnolo americano rispetto al castigliano puro. Le loro posizioni sono piuttosto varie, però possiamo dire
che, in questo ambito, vi furono due partiti: i romantici dichiarati (Sarmiento), che avevano un
atteggiamento rivoluzionario e auspicavano il massimo grado possibile di differenziazione rispetto allo
spagnolo iberico – anche sul piano sintattico e grammaticale; l’altro partito era quello di autori più
conservatori, legato alla cultura classica (Bello), che chiedeva di rinnovare la lingua letteraria accogliendo le
specificità lessicali della lingua orale ispanoamericana, ma mantenendo l’impianto sintattico e
grammaticale del castigliano classico. Il timore, da parte di questi ultimi, era che l’unità linguistica
dell’America latina, seguendo la prima strada, finisse per frammentarsi in un’eterogeneità di idiomi e
dialetti che, col tempo, sarebbero diventati incomprensibili l’un l’altro, con gravi ripercussioni sia sul piano
della cultura sia della vita quotidiana. I fenomeni linguistici sono difficilmente manipolabili. In ultima
istanza, è la realtà a determinare l’evoluzione delle lingue. La concezione linguistica espressa da Andrés
Bello si è rivelata quella corretta. Anche se si svilupparono alcune particolari forme espressiva, a livello di
lingua letteraria non vi furono rotture nette con il castigliano tradizionale. Non si ripeté, in America latina,
quel fenomeno che alcuni intellettuali auspicavano e altri temevano alludendo a un parallelo con la caduta
dell’Impero romano e la conseguente nascita delle lingue romanze: non accadde quello che accadde in
Europa, cioè la dissoluzione di un idioma dominante in una serie di lingue simili ma diverse. Questo
parallelo tra la fine del latino e una possibile fine dello spagnolo era proprio il riferimento che avevano in
mente Bello e i suoi avversari.

La presenza di molte opere con una finalità politica esplicita, che l’autore esprime con personaggi fittizi o in
prima persona: si tratta di appelli ai valori civili o di denunce di derive autoritarie e di tradimenti di quelli
che erano stati i principi riformatori su cui erano state fondate le repubbliche indipendenti. Questo non è
un carattere esclusivo dell’America latina: i principi estetici del Romanticismo furono sempre lo strumento
privilegiato attraverso cui venivano espresse le idee democratiche e liberali. Se vogliamo trovare una
differenza tra America ed Europa, sotto questo aspetto, si tratta di una differenza di grado, non di qualità:
mentre il concetto europeo di libertà romantica nasceva da una motivazione prettamente estetica, nel
nuovo continente, questa motivazione estetica si affianca alla necessità di intervenire intellettualmente
anche sul piano politico. In America latina, questo piano fu particolarmente forte, tanto che portò a una
sorta di coincidenza tra Romanticismo e ideologia liberale, considerati principi inseparabili per molto
tempo.

La produzione artistica romantica, in America, viene giudicata ricca o ipertrofica dal punto di vista
quantitativo, ma, rispetto all’Europa, relativamente povera sul piano qualitativo. Le opere di valore di
natura romantica non mancano in America latina, ma sono sepolte sotto una valanga di letteratura
mediocre e dozzinale, perché dominata, soprattutto negli ultimi periodi, da un sentimentalismo fine a sé
stesso, da un’esaltazione quasi paranoica dell’io lirico e, spesso, sono opere viziate da un certo patetismo;
usano una retorica enfatica e finiscono per riprodurre o imitare temi che il Romanticismo europeo aveva
già trattato ed esaurito. Riconoscere questi limiti, dal punto di vista dei risultati artistici, non autorizza a
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

negare l’importanza della corrente romantica dal punto di vista dello sviluppo della letteratura nel corso
dell’Otto-Novecento americano. L’estetica romantica, nel continente, ha avuto il merito di rinnovare il
linguaggio poetico, aprendo alla polimetria e alla libertà, da parte dell’autore, di mescolare temi e motivi di
qualsiasi tipo; ha avuto anche il merito di rendere popolare il genere del romanzo. Queste opere si
diffusero e prepararono il terreno al romanzo di taglio naturalista e realista. Tra gli altri meriti di questa
diffusione dei romanzi e della poesia ci fu quello di incrementare notevolmente il numero dei lettori, di
avviare una tradizione di lettura in America latina, praticamente destinata alle classi elevate in epoca
colonialista. Ebbe anche il merito di rinnovare la produzione drammaturgica, che, nell’Ottocento, ha uno
sviluppo straordinario. Questo fervore romantico ebbe anche come conseguenza l’espansione di alcuni
fenomeni culturali legati alla vita intellettuale: l’esempio più significativo è la nascita di molte riviste
attraverso cui si diffondevano anche tra i meno colti idee e opere letterarie.

24/02/22

Andrés Bello

Rappresenta, nella prima metà dell’Ottocento, la figura più importante tra gli intellettuali ispanoamericani:
ha la visione più progressista e complessiva dell’America latina, grazie all’eterogeneità della sua cultura.
Nasce a Caracas nel 1781, ma lo si può considerare uno scrittore americano in senso ampio. La sua opera e
la sua attività vanno oltre i confini del singolo Stato, mostrano una portata continentale. È un autore che si
forma secondo i principi estetici e ideologici dell’Umanismo classico, che congiunge l’Illuminismo francese
con l’eredità classica nella cultura europea. Questa sua impostazione si scova nella varietà della sua
erudizione. Nel corso della sua vita, svolge una serie impressionante di attività, sempre ad altissimo livello,
mostrando rigore ed equilibrio. Bello, in questa sua attività poliedrica, fu poeta, critico letterario. Studioso
della letteratura, giornalista, filologo, legislatore, politico, filosofo e riformatore del sistema educativo.
Tutte queste furono attività pubbliche che, in un primo momento, svolse in patria, poi in Inghilterra, dove
rimase in esilio tra il 1810 e il 1830, quindi continuò la sua attività in Cile, dove morirà nel 1865.

Una questione piuttosto dibattuta ha a che vedere con una sua collocazione tra gli autori neoclassici o
romantici. Proprio per la sua erudizione, la sua formazione da umanista rigoroso e la sua posizione
equilibrata e moderata, molti studiosi lo considerano uno scrittore neoclassico. Questa visione è un po’
troppo rigida per la figura di Bello, nonché piuttosto limitante; andrebbe considerato uno scrittore che si
apre al Romanticismo, di cui, anche nella veste di critico, tende a stemperare gli eccessi e le eccentricità con
la moderazione e con un ordine armonico razionale che sono propri della cultura classica, o almeno della
cultura che i neoclassici prendono della latinità e della grecità. Un esempio molto efficace di questa
posizione estetica complessa e articolata è dato proprio dalla sua produzione poetica, la cui fama è legata
alle due cosiddette silvas americanas: Alocución a la poesia e Silva a la agricoltura de la zona torrida. Le
due date di pubblicazione stanno proprio all’inizio del Romanticismo in America latina, alla sua fase
embrionale. Bello si trova ancora a Londra quando queste due composizione vengono scritte e pubblicate.
Bello aveva lasciato il Venezuela, dove aveva studiato e iniziato l’attività di giornalista, nonché aveva
partecipato a una spedizione del naturalista von Humboldt nelle zone inesplorate del suo Paese; si reca in
Inghilterra per accompagnare il Generale Bolívar in missione diplomatica. Bolívar lo porta perché sa di
avere una persona valida con sé. Questa missione che cercava di ottenere l’aiuto del Regno Unito a favore
dei patrioti ispanoamericani, nel pieno delle lotte militari per ‘indipendenza, fallisce. Quando fallisce, il
giovane Bello si trova costretto a rimanere in Inghilterra in esilio; qui svolge un’intensa attività letteraria e
giornalistica che gli permette di entrare in contatto con il Romanticismo inglese, di cui inizia ad assorbire lo
spirito. Durante questo soggiorno forzato, continua a sostenere con grande fervore la causa
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

dell’indipendenza e a diffondere il pensiero americanista indipendentista e lo fa attraverso la sua


letteratura: fonda due importanti riviste che, non a caso, si chiamano Biblioteca americana e Repertorio
americano. Sono due riviste che tendono a diffondere la storia e la cultura contemporanee dell’America
latina in questo frangente piuttosto turbolento e drammatico. A Londra, scrive queste due silvas:
testimoniano, da un lato, il sentimento di nostalgia; dall’altro, sono esortazioni al popolo latinoamericano a
prendere le redini del proprio desino e a realizzare gli ideali di progresso che l’indipendenza sembrava
promettere, ma che i dissidi politici interni stavano mettendo a rischio in molte regioni del Sud America.
Queste due poesia avrebbero dovuto far parte di un grande poema chiamato América, che non fu mai
portato a termine.

Alocución a la poesía. Fragmentos de un poema titulado «América» (1823)

È evidente lo spirito marcatamente americanista, che propone un programma letterario parallelo a quello
politico, ambedue all’insegna dell’indipendenza dell’America latina. Poiché il nuovo continente è destinato,
secondo Bello, a realizzare gli ideali libertari dell’umanità, a differenza dell’Europa che stava vivendo una
fase reazionaria di ritorno all’assolutismo monarchico, lo scrittore esorta la musa della divina poesia ad
abbandonare la colta ma estenuata Europa per trovare asilo e prosperare nel Nuovo mondo e cantarne la
meraviglia della natura e le virtù civili dei suoi popoli. Vengono sintetizzate le due tendenze estetiche e
ideologiche che convivono nell’autore: una visione neoclassica della natura, costruita sull’esempio della
poesia bucolica della classicità greco-latina; affermazioni romantiche della libertà dell’uomo. Libertà che,
secondo Bello, vede esprimersi in un’emancipazione culturale dell’America rispetto all’Europa, per questo
rivolge questa esortazione alla poesia. Questo programma viene espresso in modo chiaro, netto e
inequivocabile nella prima parte della poesia. Questa silva ha un carattere frammentario; questa
frammentarietà che in parte si trova anche in Silva a la agricoltura de la zona torrida non è in sintonia con il
senso di unità che tendeva a caratterizzare le composizioni neoclassiche. Questo aspetta rivela sottilmente
una certa indole romantica dell’autore.

La silva è una forma strofica propria della letteratura spagnola composta da una combinazione libera di
versi endecasillabi ed eptasillabi che lascia al poeta la massima libertà espositiva in termini sia di lunghezza
che di ordine dei versi. Anche l’uso della rima – in alcuni casi assonante, in altri consonante – è irregolare;
non c’è uno schema; il suo uso è lasciato all’estro dell’autore. Neppure l’accentuazione segue uno schema
preciso, proprio per lasciare libertà all’autore di modulare musicalmente la sua composizione. La silva è una
delle modalità espressive popolari nella poesia spagnola del siglo de oro. Questo tipo di poesia ha avuto
anche degli imitatori; è stata ripresa, per esempio, da un poeta colombiano – Gutiérrez González – in una
lirica del 1866: Memoria sobre el cultivo del maíz en Antioquia. Ci sono molte affinità per quanto riguarda la
tematica; l’elaborazione di González è già più riconoscibile come testo romantico.

Si rivolge alla musa per eccellenza: la poesia. Viene assimilata a un uccello solitario, capace di elevarsi
spiritualmente sulla materialità umana: si tratta di una concezione ascetica della poesia. La struttura, fin dai
primi sei versi, è molto elaborata; i successivi cinque connotano il carattere di questa poesia, intesa come
arte colta che richiede la solitudine, che ama la schiettezza e la semplicità e si alimenta dell’ispirazione che
offre il mondo naturale. I versi 9-10 sono una grande perifrasi per dire che tu vada in America. Si nota la
complessità, perché nel primo verso viene evocato il soggetto, ma verbo complemento si trovano nel
sintagma che costituisce il settimo verso: è la struttura dell’iperbato e dell’anacoluto, ovvero una
complicazione del discorso per esprimere al meglio la musicalità. «También propicio allí respeta el cielo la
siempre verde rama con que al valor coronas»: allí indica l’America, che viene nominata attraverso una
perifrasi; il ramo verde trasfigura l’alloro, pianta sacra ad Apollo – lui e la sua lira rappresentano la poesia
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

più aulica. «También allí la florecida vega, el bosque anmarañado, el sesgo río, colores mil a tus pinceles
brindan»: inizia l’esaltazione del panorama americano. Il lessico è molto aulico, non popolare. Zefiro è
rappresentato come un colibrì o una farfalla. Anche altre immagini, come la carrozza della notte, sono
molto elaborate. Il soggetto è sempre l’America latina. «Y el rey del cielo entre cortinas bellas de nacaradas
nubes se levanta»: non viene data l’immagine di un tramonto, bensì di un’alba dalla quale, come una
divinità marina, il sole sorge. L’immagine finale della prima strofa è in linea con la poesia bucolica, che viene
trasferita alla natura americana. È un’immagine po’ edulcorata della natura latinoamericana: sembra un
giardino dell’Eden, ma c’è anche una natura dura, difficile, che è implacabile per certi versi, ostile. Bello ne
vede il lato più lirico, bucolico, quello della ricchezza, della fertilità, della vita.

Continua con questo suo rivolgersi alla poesia attraverso una visione negativa dell’Europa. Il termine
alcázares denota la tradizione araba. È molto frequente l’uso della domanda retorica: è una forma che
attira l’attenzione del lettore e lo stimola a trovare delle risposte. La turba cortesana indica un ambiente
desacralizzato; la poesia, invece, è concepita come qualcosa di vicino al sacro. Dunque, la poesia si sta
svilendo in Europa. Con «Infancia de la gente humana» si riferisce alla grecità e alla latinità, quindi la nascita
della cultura occidentale. Bello vede in questa poesia spontanea una maestra di vita e il mezzo attraverso
cui si impone la cultura, quindi le leggi che regolano l’esistenza umana. Tra i versi 33 e 37, troviamo un
iperbato. C’è una visione ambivalente dell’Europa – «Región de luz y de miseria» –, dalla quale era nato
l’Illuminismo (la luce), ma l’oscurità di una realtà che neanche la Rivoluzione francese era riuscita a
sradicare. In Europa, la filosofia non è spontanea, la virtù è subalterna al calcolo; la filosofia non è legata a
un’idea di libertà, bensì orientata al pragmatismo; ha spodestato la poesia. Spesso, anche nella storia
occidentale, la poesia è stata lo strumento attraverso cui filosofeggiare. Il razionalismo filosofico nega
questa funzione alla poesia. Riferendosi all’Europa, l’immagine è quella classica dell’Idra, che costituisce
l’emblema dell’assolutismo politico. Questo assolutismo sembra in procinto di far precipitare la colta
Europa in un nuovo Medioevo, in una nuova barbarie, per questo la poesia prospetta nell’America un luogo
– molto idealizzato – di libertà. Tra i versi 42 e 44, si trova una feroce critica alla Rivoluzione francese e alla
storia europea in generale. «A los hombres cantaste embelesados»: fa riferimento alla belladonna, la pianta
con proprietà narcotiche; la poesia è una sorta di paradiso artificiale che riesce a incantare l’animo umano.
L’albero corroso (verso 45) rispecchia l’Europa, da cui la poesia deve scappare, perché non ha più senso
stare lì. L’America è come se fosse l’ultima figlia i quel passato dell’umanità che, in Europa, Bello non vede
più.

L’impianto e il motivo dominante – l’invocazione della musa della poesia – è tipico della lirica classica, così
come l’uso di una struttura sintattica ricca di iperbati, arcaismi lessicali e figure retoriche che rendono
piuttosto difficile la lettura. Questo, comunque, è l’intento di Bello: dare al suo discorso un tono aulico oltre
che solenne. Da questo punto di vista, è una poesia neoclassica. Invece, sono affini alla sensibilità
romantica il tono appassionato che assume la voce del poeta, anche se non compare l’io lirico: compare la
voce del poeta, ma non l’io lirico, che caratterizzerà la poesia romantica, in cui il poeta diventa parte della
composizione, entra in contatto con la dimensione naturale e si crea questa dicotomia tra l’umano e la
natura. Il tratto romantico per eccellenza è dato proprio dalla presenza della natura e dal paesaggio
americano. Gli elementi naturali non servono solo a rappresentare lo sfondo di vicende; è una poesia che
vuole esaltarla, renderla protagonista.

Silva a la agricoltura de la zona torrida (1826)

L’immagine della natura americana, della sua geografia, delle sue ricchezze e delle sue varietà è uno dei
motivi dominanti anche di questa silva. Questa composizione rappresenta un’esaltazione appassionata del
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Nuovo mondo, ma anche un’esortazione ai suoi abitanti affinché abbandonino i costumi poco virtuosi – che
Bello associa al mondo urbano –, che in Europa hanno condotto le nazioni a guerre fratricide. Tutte queste
sono causa d’infelicità tra gli uomini e alimentano, agli occhi di Bello, una cultura sfarzosa, ma, in definitiva,
sterile.

La prima parte è dedicata alla celebrazione delle ricchezze naturali che caratterizzano dell’agricoltura dei
tropici, che permette di ottenere, con poco sforzo, i beni necessari per una vita fatta di prosperità
economica e di felicità. Non c’è motivo perché Bello non cerchi di trasmettere questa versione idealizzata
del Nuovo mondo, anche se la storia e la realtà non sono tanto d’accordo con lui. In sequenza, si trovano
elencate liricamente le caratteristiche morfologiche, le peculiarità e potenzialità produttive di tutta una
serie di piante, di elementi vegetali come la canna da zucchero, l’agave, il mais, ecc., così come altri
prodotti vegetali esotici, non necessariamente di origine americana – vite, caffè, ulivo, ecc. Questo catalogo
di vegetazione viene evocato ricorrendo a un lessico e una scrittura poetica aulici, come nella poesia
precedente. Si ha una visione quasi magica di piante come il mais; Bello presenta questa fantastica fertilità
americana attraverso prodotti che noi consideriamo semplici, ma che, al tempo, avevano cambiato le
abitudini anche in Europa. Quella che viene fatta è una rassegna delle ricchezze dell’agricoltura della
regione tropicale. È una rassegna piuttosto curiosa, perché spesso non nomina direttamente i soggetti, ma
li descrive o vi fa riferimento attraverso perifrasi, talvolta non facili da decodificare.

La zona torrida è la fascia equatoriale. I primi versi sono un altro esempio della dizione molto complessa di
stampo classico. I versi 2-3 sono una perifrasi che vuol dire semplicemente equatore. È quasi una
rappresentazione astronomica quella che sta facendo, perché la fascia dello zodiaco corrisponde,
idealmente, all’equatore. Tutti gli esseri viventi si trovano ad avere la possibilità di crescere in questa
regione. Agli occhi di Bello, anche la vite prospera: in America latina, non tutte le regioni sono vocate alla
produzione vitivinicola. Gualda è un termine aulico. Tra i versi 9-11, troviamo una costruzione sintattica
particolare basata sulla negazione: è un artificio retorico che serve a intensificare l’immagine. L’estate
sembra che venga personificata nell’immagine di una donna che si presenta con una ghirlanda di spighe –
immagine di abbondanza e ricchezza. «De inaccesible nieve siempre cano» è una personificazione – cano
indica i capelli bianchi. Questa varietà dell’ambiente geografico si accompagna alla varietà del clima.
Nell’insieme, quest’immagine ha una marca bucolica.

25/02/22

La canna da zucchero ha sostituito il miele, dolcificante usato prima della scoperta dell’America. Le
descrizioni naturaliste sono molto sintetiche ma efficaci, perché colgono alcuni degli elementi di questi
prodotti. La almendra è sineddoche del cacao, prodotto dal suo seme, dalla sua mandorla. «Bulle carmín
viviente en tus nopales, que afrenta fuera al múrice de Tiro»: il termine che dà la chiave di lettura è nopales
(=fichi d’India). Il riferimento è al carminio, colorante che si ricava dagli insetti molto piccoli, che oggi si
allevano sui fichi d’India, al tempo venivano raccolti, essiccati, schiacciati e si ricavava la cochinilla – uno dei
primi coloranti – che si usava, in parte, per tingere i tessuti, ma soprattutto come colorante alimentare.
Anche l’alchermes viene colorato con la cochinilla. Quindi, comincia a elencare questi prodotti che
l’America ha donato al mondo e ricevuto da altre parti del mondo e crescono nella zona torrida. La
comparazione della colorazione della cochinilla americana è con il murice di Tiro (la porpora), che si
ricavava dal murice, un mollusco; sin dai tempi di Tiro, durante l’auge del Regno fenicio, era una sorta di
monopolio. La porpora era talmente preziosa da essere considerata utilizzabile solo dalla nobiltà latina.
Successivamente, si riferisce a un altro colorante: l’anile, dal colore violaceo, che si usa ancora oggi nella
tintura dei tessuti. «Y de tu añil la tinta generosa émula es de la lumbre del zafiro»: anche qui, la
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

comparazione con qualcosa di prezioso. Dopodiché, fa riferimento al pulque – liquore che si ottiene dalla
fermentazione del succo di agave. L’agave non viene usata solo per estrarre il pulque, ma anche come fibra
tessile. Il termine Anahuac fa riferimento al Messico – è la regione centrale del Messico – e il nome è legato
alla popolazione precolombiana degli inca. Poi si riferisce al tabacco: il fumare come passatempo o come
abitudine sociale. «Tú vistes de jazmines»: riprende il colore e il profumo dei fiori del caffè; i gelsomini sono
un’analogia. Saba è una regione dell’Arabia e il caffè non era un prodotto tipicamente americano. I festini di
Lico si riferiscono all’ebrezza alcolica. Il caffè veniva usato per stemperare gli effetti delle abbondanti
libagioni. «Para tus hijos la procera palma su vario feudo cría y el ananás sazona su ambrosía»: i figli sono i
popoli americani; il vario feudo si riferisce alla varietà delle specie; l’ananas viene descritto in termini
gustativi. La manioca è un prodotto usato per accompagnare la carne, ma viene usata anche una farina
molto usata tra gli indios. Usando questa farina, si produce una sorta di pane. Definisce bionde le mele
anche se, in realtà, la patata presenta una serie molto varia di tipi (viola, rosse, gialle, ecc.). «Educa» indica
che è come se la terra stesse insegnando qualcosa anche agli esseri umani. Anche il cotone è un prodotto
importato dal Medio Oriente; viene rappresentato in termini suggestivi, anche se con un’immagine molto
sintetica – i fiori e la fibra del cotone. Prosegue descrivendo la passiflora, che produce il frutto della
passione. Ripete il procedimento per l’allusione al cotone. In realtà, la passiflora si conosceva già da un
secolo, ma non veniva coltivata per i frutti, bensì come pianta ornamentale. Si chiama frutto della passione
perché la cultura popolare aveva identificato nella forma di quel fiore gli elementi della passione di Cristo –
la corona di spine, i chiodi, la croce. Definisce il mais «jefe altanero» sia per il fatto che è tra i cereali quello
che cresce di più sia perché c’è un riferimento alla mitologia precolombiana: il mais era considerato un
dono degli dei agli esseri umani per consentirne la sopravvivenza. Termina questa rassegna riferendosi
all’ultimo frutto preso in considerazione: la banana. Anche qui, il banano non è una specie originaria
dell’America latina (viene dall’Asia), ma fu importato già agli inizi del ‘500 dagli europei proprio per le sue
caratteristiche: si riproduce molto velocemente; i suoi frutti sono molto energetici, quindi contribuiscono
all’alimentazione degli essere umani. «Y para ti el banano desmaya al peso de su dulce carga»: c’è una
personificazione del banano. Il banano diventa emblema della fertilità e della ricchezza del tropico: non
richiede all’uomo un grande lavoro per produrre in abbondanza i suoi frutti; si trova una rappresentazione
naturalistica; se le altre erano delle icone, delle immagini, qui sta proprio a spiegare perché il banano è una
delle ricchezze dell’America latina. «No es a la podadera, no al aradro deudor de su racimo»: non è
all’azione umana che il banano deve la sua produzione di frutta. Termina dicendo che il banano «crece
veloz, y cuando exhausto acaba, adulta prole en torno le sucede»: non c’è nemmeno bisogno di piantarlo.
Questa è la prima parte di questo poema. A questa prima introduttiva parte che descrive la natura
americana e il suo potere taumaturgico sull’uomo – riproposizione della vecchia immagine che presenta il
mondo naturale come una versione tropicale del paradiso, Nuovo mondo come dimensione utopica –
segue la rappresentazione della dimensione umana, che soffoca tutte le promesse morali e materiali
implicite in questo utopico sogno americano. Per Bello, la città rappresenta il centro di tutti i mali e di tutte
le debolezze umane, compresi quelli che hanno portato l’America a subire il giogo del colonialismo e che
rischiano di trascinare le nuove nazioni in una spirale di lotte fratricide, che vengono accese dalla cupidigia
per i beni materiali, dall’egoismo e dalla sete di potere. Qui comparirà un esempio tratto dalla classicità e
rimanda alla nascita di Roma: nata nell’austerità e nel duro lavoro delle campagne, è crollata, esausta, dopo
secoli di dominio, quando queste virtù erano state perdute e la degenerazione morale della città imperiale
aveva trionfato.

La seconda parte si apre proprio con un «Mas», quindi con un avversativo. Anche in un mondo edenico, c’è
un ma: questo ma è rappresentato dall’uomo. Bello non si limita semplicemente a venerare la natura, ma
vuole che il pubblico prenda coscienza dei mali incombenti delle nuove nazioni dell’America latina. La
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

natura del tropico è generosa e ricca, ma non altrettanto, agli occhi di Bello, lo sono stati i suoi abitanti a
partire dalla conquista. La soluzione ai mali del mondo è il ritorno alla natura e alle attività della natura,
legate all’agricoltura – ecco perché l’agricoltura diventerà motivo etico. La città viene rappresentata come
luogo infernale. Bisogna osservare che il punto di vista di Bello sull’intrinseca decadenza morale e culturale
della città verrà successivamente rovesciato da Sarmiento: Bello assimila il lavoro nei campi, la vita
semplice al bene, a una forma di civiltà umanizzata; Sarmiento proclamerà, con Facundo, che il mondo è
proprio il contrario, il mondo urbano rappresenta il baluardo della civiltà, l’affermazione dei valori del
progresso, mentre i luoghi desolati sono il regno della barbarie, dell’arbitrio che calpesta la legge e di una
sorta di Medioevo che si oppone al progresso. Il lavoro nei campi sviluppa le virtù degli esseri umani. «Falaz
rüido» è la cacofonia della vita urbana e della sua cultura. La città viene rappresentata come luogo
infernale. La successiva parte della poesia è costruita con una serie di domande retoriche che hanno la
risposta nella poesia stessa. I soggetti sono gli americani di discendenza europea. Ci sono anche illusioni al
fatto che, in alcuni Stati, si sono formate, già nei primi anni di indipendenza, fazioni che fanno capo a
uomini ambiziosi e spinti dall’avidità e dalla ricerca di una ricchezza facile. La traduzione di «Y en el ciego
tumulto se aprisionan» risulta complicata, perché se aprisionan può avere una duplice valenza: si chiudono,
come se fossero in prigioni, quindi è una riflessione sul fatto che sia una autopunizione di autopunizione; un
senso di possesso, perché si impossessano di miserabili città. In quasi tutta l’America latina, le prime fazioni
che si creano sono conservatori e liberali, che, in molti Paesi, prendono la connotazione di nazionalisti e
federalisti. Generalmente, i federalisti erano i conservatori, mentre i centralisti/nazionalisti erano i liberali.
L’«incauta edad» si riferisce senz’altro, in termini metaforici, alle nuove nazioni latinoamericane, ma anche
alla gioventù, che prende cattivo esempio proprio dagli adulti che si danno ai vizi, ai complotti, agli intrighi,
che cercano il potere, seguono le mode, i costumi decadenti che Bello associa alla vita urbana. Bello vede la
società urbana come una società, in larga misura, parassitaria e negativa dal punto di vista produttivo –
produce vizi, dissidi, lotte di potere. C’è sempre un’esaltazione del maschio; c’è una certa misoginia,
soprattutto quando bisogna descrivere la decadenza, per cui anche Bello ricorre ad alcune immagini della
donna. «Mas la salud estraga en el abrazo de pérfida hermosura, que pone en almoneda los favores»: c’è
un’allusione al vizio della prostituzione, che assume un senso metaforico, ovvero tutto è subordinato al
denaro, che falsifica i valori autentici. «Mas pasatiempo estima prender aleve en casto seno el fuego de
ilícitos amores»: qui è decisamente un moralista; usa i vizi dell’umanità per fare un discorso moraleggiante.
Si aggiunge anche il vizio del gioco, che non era sicuramente un vizio esclusivo delle città. C’è la prima
descrizione degli effetti perniciosi che la città e i suoi vizi esercitano sui giovani e sugli uomini. A questo
esempio negativo, ne segue un altro proiettato sulle mogli e sulle figlie: mentre l’uomo è impegnato nel
gioco e nel bere, la donna cede alle lusinghe degli amanti e le giovani figlie, su questo esempio, prendono la
cattiva strada. La corruzione si estende anche alla donna e contagia per genealogia. Successivamente, Bello
fa l’esempio delle origini della Roma repubblicana: «No así trató la triunfadora Roma las artes de la paz y de
la guerra; antes fió las riendas del estado a la mano robusta que tostó el sol y encalleció el arado». In
questo senso, troviamo uno dei tanti riferimenti alla classicità. Roma si impose nella cultura e nella politica
perché i suoi uomini erano temprati nel lavoro, nella sobrietà, senza lo sfarzo della Roma imperiale. Queste
furono le virtù che permisero a Roma di dominare gran parte del mondo conosciuto al tempo. Ritorna a
una sorta di omelia ai propri concittadini. Bello, rivolgendosi ai propri concittadini, a maggior ragione, vista
la ricchezza che la natura americana offre, i discendenti dei colonizzatori europei, con l’indipendenza dalla
Spagna, avrebbero a loro disposizione tutto ciò che serve per prosperare; Bello li esorta ad abbandonare il
vizio della città che li tiene prigionieri. La città è assimilata a una dimensione infernale e carceraria. La moda
è una rappresentazione della vacuità, di valori non radicati, bensì banderuole che attirano gli esseri umani.
«El campo habita, o allá donde el magnate entre armados satélites se mueve, y de la moda, universal
señora, va la razón al triunfal la insensata plebe, y el noble al aura popular adora»: questo scambio
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

determina la decadenza – il nobile getta le briciole alla plebe e questa si aggrega al carro dei vincitori. Bello
mette di nuovo in contrapposizione la città e le virtù della campagna. L’umanità nata nel Nuovo mondo non
deve assoggettarsi alla vita urbana e ai suoi costumi. La visione di Bello rivela una certa contraddittorietà
sul piano storico: l’indipendenza americana è la conseguenza di quella rivoluzione economica dell’incipiente
borghesia che nasceva nelle città; le guerre d’indipendenza furono combattute da un’élite militare, di
politici, e le popolazioni contadine combatterono e furono coloro che pagarono con la vita queste lotte.
D’altro canto, qui abbiamo un Andrés Bello moralista, quindi funziona anche questa contrapposizione tra
città e campagna.

02/03/22

«Id a gozar la suerte campesina»: inizia una visione edenica e idealizzata del mondo naturale e della vita
contadina; la realtà, rispetto a questa descrizione idilliaca, era naturalmente diversa, anche se bisogna
riconoscere che le condizioni dure dei servi della gleba, senza diritti e beni di sussistenza, erano dovuti ai
mali che lo stesso Bello denunciava. Acibar deriva dall’aloe, pianta medicinale amara. «La cama que mullida
le preparan el contento, el trabajo, el aire puro»: tutti elementi della vita semplice del lavoratore, una vita
che viene presentata come salutare per il fisico e per lo spirito. I cibi genuini sono in contrasto con quelli
sofisticati. Recocijo indica il piacere come diletto dello spirito, non come piacere fisico, carnale.

Passa poi a descrivere la dimensione sentimentale, degli affetti, che, nella semplicità della vita rurale, si
alimentano. Lo fa con una serie di domande retoriche. I passi, gli atteggiamenti e il riso non nascono da una
volontà di mostrarsi all’altro secondo le convenzioni e i comportamenti volti a nascondere la vera realtà
degli esseri umani. «Ni la mirada que lanzó al soslayo tímido amor, la senda al alma ignora»: la
corresponsione dei sentimenti nella vita semplice dei contadini è altrettanto – o ancor più – incline a
entrare nell’anima. Chiude questa parte riprendendo il confronto con la vita artificiosa della città. La
conclusione è che Bello identifica nel mondo rurale la dimensione naturale dello sviluppo di questi
sentimenti, non falsi, che non corrispondono all’avidità di ci cerca il nome, il casato, il potere, il denaro;
piuttosto, sono la libera scelta e la reciproca passione a trionfare nel mondo agreste.

A questo punto, la poesia sposta il fuoco sulla situazione contemporanea e, soprattutto, su una visione che
il poeta ha dello sviluppo dell’America latina grazie alla laboriosità del lavoratore. Bello immagina il ritorno
a una sorta di nuova età dell’oro, di pace, di armonia, di serenità e prosperità; la storia ci dice che non fu
esattamente così. Con allí si riferisce all’equatore. Anche in questa natura che appare potenzialmente ricca
e generosa vi sono doveri cui ottemperare: recuperare ciò che si è perso durante le guerre d’indipendenza
– il lavoro. Nonostante le immagini siano di distruzione, questa stessa distruzione della natura Bello la vede
come necessaria per la ripresa delle attività. «La sedienta caña» è una perifrasi per indicare la canna da
zucchero, che richiede una notevole quantità di acqua per essere coltivata. Il bucare è un albero che, in
Paesi come Venezuela e Colombia – coltivatori di caffè –, viene piantato accanto agli alberi di cacao per
proteggerli con l’ombra e dagli eventi atmosferici. Gli elementi naturali vengono, in un certo senso,
antropomorfizzati, c’è un’allusione alla dimensione protettrice della natura. La natura è essa stessa un
esempio per l’ideale bucolico e di progresso di Bello.

Mirola è il primo accenno alla presenza di un io lirico, che però rimane sempre dietro le quinte. «Mirola ya
que invade la espesura de la floresta opaca»: l’unica guerra degna di essere combattuta è quella dell’uomo
che, col suo lavoro, sottomette la natura e la rende produttiva. L’immagine presentata è proprio quella di
una battaglia, ci sono riferimenti a una sorta di lotta con/contro la natura per soggiogarla e farla produrre.
La ceiba è uno degli alberi più caratteristici del tropico americano; è un albero di grandi dimensioni che, in
alcune culture precolombiane, era considerato sacro. L’immagine seguente può sembrare di distruzione
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

gratuita, ma, in realtà, è il lavoro che Bello considera necessario per sviluppare l’agricoltura. Questa sorta di
lotta tra uomo e natura si conclude con un incendio, pratica comunemente usata per disboscare e rendere i
terreni agibili per l’agricoltura. «En muestra ufana de ordenadas haces»: viene già immaginato il raccolto in
questa accelerata visione di come dovrebbe essere il futuro americano. «Ya ramo a ramo alcanza, y a los
rollizos tallos hurta el día»: si riferisce agli alberi da frutto; sono già cresciuti questi frutteti, con la chioma
degli alberi che si sono sviluppati a tal punto da ombreggiare il tronco. I fiori sono l’incarnazione dei frutti
che verranno, di conseguenza della speranza nel futuro, immaginata come allegra perché porta felicità agli
esseri umani. La speranza è sempre il soggetto negli ultimi versi che chiudono questa parte. L’immagine del
raccolto è di abbondanza. Quello che era, nelle prime immagini, un disboscamento trasforma questa
foresta impenetrabile in campagna fertile; grazie all’opera del contadino, la natura, in queste immagini
presentate da Bello, produce con abbondanza i suoi frutti, garantendo prosperità e un futuro senza la
minaccia della carestia.

La parte conclusiva del poema è un’invocazione alla Provvidenza affinché protegga e ispiri le nuove nazioni,
indirizzandole verso la pace, la moderazione politica, l’operosità, così che il sangue versato nel passato non
debba più tornare, non ci debbano più essere sacrifici dovuti ai conflitti. Gli ultimi versi rappresentano una
sintesi del pensiero dell’autore, ma, al tempo stesso, costituiscono una celebrazione dell’eroismo
patriottico, che, negli anni recenti, ha dato una libertà alle giovani nazioni che prefigura un futuro
altrettanto nobile ed eroico, dove, però, alle armi si sostituisce l’aratro. «Y pues al fin te plugo»: il poeta
passa all’aspetto umano di quello che potrebbe essere un futuro negativo. «Bendecida de ti se arraigue y
medre su libertad»: una libertà non effimera – si cadrebbe ancora sotto il dominio straniero o delle
oligarchie. «Asaz de nuestro padres malhadados expiamos la bárbara conquista»: Bello riconduce, in parte,
la situazione di rovina dell’America latina non soltanto al periodo coloniale, ma a quello della conquista,
cioè quando il sud America diventa America latina; è una visione che si contrappone a quella che si aveva
della stessa conquista in epoca coloniale. C’è una rievocazione delle distruzioni compiute nel passato dai
conquistadores spagnoli ai danni delle civiltà autoctone, al punto tale che le guerre d’indipendenza
vengono assimilate a un giusto castigo divino che ha fatto espiare i mali della conquista. «Saciadas duermen
ya de sangre ibera las sombras de Atahualpa y Moctezuma»: il riferimento è chiaramente agli imperi inca e
azteca, distrutti dalla conquista spagnola; Atahualpa e Moctezuma rappresentano tutte le vittime. Dopo
aver invocato la provvidenza, Bello esorta affinché coloro che per indole hanno grandi aspirazioni non
sacrifichino il loro orgoglio e il benessere comune, ma assumano un atteggiamento disinteressato nei
confronti del potere, quindi nella gestione delle nuove società indipendenti. «Baldón estime y vituperio el
prez que de la patria no reciba»: si riferisce agli onori che si ottengono per il nome, il denaro, il potere
politico, ecc.; che anche questi spiriti bellicosi lavorino per la patria, non per l’interesse personale. L’olivo è
sia simbolo di pace che un albero che produce frutti (l’olio); l’alloro è legato solo all’immagine della fama,
dell’onore, delle cariche politiche. «Y sola adorne al mérito la gloria»: la gloria deve corrispondere solo al
merito, non ad altri valori.

Nella conclusione, Bello riprende il tono esortativo e invita le giovani nazioni americane a guadagnarsi il
progresso e la gloria sull’Europa sfruttando le ricchezze che la natura del nuovo continente offre. Viene
messo in evidenza l’esempio dei patrioti, che, nella visione di Bello, sarà la guida delle generazioni future,
che celebreranno a loro volta la figura dei padri della patria. Gli ultimi versi sono una celebrazione
marcatamente retorica e solenne degli eserciti patrioti che, nelle campagne belliche più feroci e
sanguinose, hanno saputo sconfiggere gli eserciti dell’impero spagnolo. È come se si rivolgesse alla
coscienza dell’America stessa. Essere andati oltre la cima delle Ande significava superare l’ostacolo che si
presentava rispetto alla conquista dell’indipendenza. Bello chiosa ricordando esemplarmente alcune delle
battaglie decisive per sconfiggere l’esercito spagnolo. Boyacá fu una battaglia condotta dal Generale Simón
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Bolívar nel 1819 in Colombia; Maipo è una regione del Cile dove si combatté nel 1818 – una delle figure più
importanti tra i patrioti americani fu il Generale José de San Martín, considerato uno dei padri della nuova
America latina; Junin fu l’ultima battaglia dell’esercito realista – che ancora resisteva – nel 1824, così come
Apurima – sempre in Perù.

José María Heredia

Era cubano e quello, tra i poeti americani attivi nella prima dell’Ottocento, che presenta la maggiore affinità
con la letteratura romantica, che si svilupperà nei decenni successivi. Questa sua affinità si riscontra nel
fatto che, nelle storie della letteratura ispanoamericana, viene considerato, insieme a Echeverría,
l’iniziatore di questa nuova corrente estetica nell’America ispanica; si avverte non soltanto nella sua opera,
ma anche in alcuni aspetti biografici: ha una vita piuttosto breve (1803-1839); in patria, si dedica con
passione, dal punto di vista politico, alla libertà di Cuba e, per questa ragione, è costretto all’esilio. Questo
esilio lo porterà prima in Messico e in Venezuela, poi negli Stati Uniti. Durante questo esilio, condurrà
un’esistenza inquieta dovuta alla nostalgia per la sua terra. La usa formazione intellettuale fu di stampo
neoclassico e illuminista; tuttavia, la sua formazione come artista fu molto influenzata dalla lettura di alcuni
poeti romantici europei (Byron, Lamartin, Chateaubriand e Foscolo, di cui traduce I Sepolcri). Di questi
autori romantici europei, Heredia assimila, in particolare, il gusto per il mondo dell’immaginazione e dei
sentimenti; un lirismo che si esprime attraverso un’empatia con al dimensione naturale e con il passaggio;
un senso drammatico dell’esistenza umana, che si avvicina in alcuni momenti a una sorta di titanismo e
manifesta un amore per la libertà che si lega anche alle sue vicende personali di perseguitato politico.
Heredia, nonostante la usa esistenza breve, fu un poeta piuttosto prolifico, anche se in vita riuscì a
pubblicare solo una raccolta – parziale – delle sue opere, intitolata Poesías, stampata a New York nel 1825 e
ristampata nel 1832 in un’edizione che raccoglie anche latri testi lasciati da Heredia.

Heredia scrisse composizioni di carattere civile e storico, di circostanza legate a feste nazionali oppure a
determinati personaggi storici; le liriche più riuscite e cui si lega ancora oggi la sua fama di autore sono le
due composizione di carattere descrittivo-narrativo: En el teocalli de Cholula e Oda al Niagara. In queste
due composizioni, si nota una certa affinità con la poesia di Bello, ma manifesta anche una certa
conoscenza e affinità con altre opere del barocco ispanoamericano, come un poema del 1603 (Grandeza
Mexicana di Bernardo de Balbuena). Va detto che anche Bello subì una certa influenza da parte di questo
scrittore, che esalta la ricchezza dal punto di vista sociale, umano, culturale del Virreinado de Nueva
España. Si possono trovare tracce anche di un altro testo poetico del periodo coloniale: Primero Sueño,
poesia molto complessa pubblicata nel 1692 e scritta da Sor Juana Inés de la Cruz, poetessa più importante
della letteratura ispanoamericana della colonia; fu una religiosa costretta a prendere il velo per non doversi
sposare e per continuare a seguire i suoi studi; era estremamente brillante e colta, in brado di tenere testa
anche alla repressione che subiva da parte delle autorità religiose, tant’è che tra le sue opere significative ci
sono alcune lettere nelle quali lei controbatte all’arcivescovo di Città del Messico, che cercava di farla stare
al suo posto; si occupava anche di teologia.

03/03/22

Nella sua poesia si manifesta la presenza evidente di un io lirico, che tende a introiettare e soggettivizzare il
paesaggio; si autorappresenta mentre descrive uno scenario maestoso della Valle dell’Anáhuac e delle
cascate del Niagara. Questa natura è una natura la cui bellezza sfida le capacità espressive del poeta,
sollecitandolo a meditare sui misteri della storia, sullo spirito umano e sul cosmo. Inoltre, En el teocalli de
Cholula compaiono motivi legati all’estetica romantica: la fascinazione per la notte; il senso del sublime
davanti alla natura grandiosa; il gusto morboso per i paesaggi solitari, in cui la presenza delle rovine di
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

civiltà ormai estinte chiamano in causa il destino di precarietà dell’esistenza umana. Si nota la capacità, da
parte dell’io lirico, attraverso l’uso di un linguaggio intimo, di stabilire un rapporto di complicità con il
lettore, trasmettendogli quei sentimenti di improvvisa esaltazione, di armonia, ma anche di angoscia, che la
presenza di un’atmosfera di mistero evoca; di fronte al calare della notte, che avvolge le rovine della
piramide di Cholula, il poeta proietta la sua inquietudine esistenziale e un senso di perdita e smarrimento,
tipico della sensibilità romantica. En el teocalli de Cholula è una poesia che ha avuto un processo di
gestazione piuttosto lungo: la prima redazione risale al 1820 e, nella sua forma definitiva, apparirà
pubblicata nel 1832. In quest’ultima versione, Heredia aggiunge una sezione finale di una cinquantina di
versi in cui esprime una condanna morale e filosofica della barbarie dei sacrifici aztechi, giustificata dalla
sua fede cristiana. Questa parte conclusiva è quella meno convincente del poema e tende ad apparire, a
una lettura molto attenta, come un corpo estraneo. Oda al Niágara fu scritta nel 1824 – uno dei testi
aurorali del Romanticismo ispanoamericano – e l’occasione per scriverla è la visita del poeta alle cascate. In
questa composizione, dominano il senso del sublime di fronte alla possanza della natura e, per contrasto,
sono presenti anche accenni a una profonda nostalgia per il paesaggio tropicale id Cuba, da cui l’esilio
aveva per sempre allontanato l’autore.

En el tecoalli de Cholula (1832)

Usa in prevalenza l’endecasillabo, quasi costante nella prima parte ella composizione. Non ha uno schema
strofico definito – possiamo considerarlo abbastanza vicino a una composizione discorsiva rispetto alla lirica
classica. È una poesia dove le rime non sono frequenti e manca uno schema. Cholula è il luogo dove si trova
questo teocalli (teo= divinità, calli= casa; lingua azteca). Questa piramide è un luogo di culto la cui
costruzione era iniziata prima di Cristo e, poco per volta, aveva visto il succedersi di diverse civiltà. Gli
aztechi non furono neppure gli ultimi che usarono questo edificio di culto. Era, tra l’altro, un tempio
consacrato a Quetzalcoatl, divinità tolteca ripresa dal pantheon azteca e non vincolata al sacrificio umano,
cui farà riferimento Heredia. La conoscenza archeologica delle antiche civiltà precolombiane era ancora in
fase embrionale, quindi non si può attribuire una grande colpa a Heredia per non conoscere la storia del
luogo.

Il Messico, nei primi versi, viene identificato con la terra dei suoi antichi abitanti, gli aztechi, definiti valenti;
nella seconda parte, passerà una visione negativa. Si nota una certa somiglianza con l’inizio di Silva a la
agricoltura de la zona torrida. C’è una descrizione molto sintetica della bellezza del territorio, della sua
fertilità. Le poesie di Bello ed Heredia si influenzano? La poesia di Heredia è antecedente a quella di Bello.
Se si esclude un’influenza diretta di Heredia verso Bello, si rafforza l’idea della condivisione di un modello:
Grandeza Mexicana. La modalità espressiva è meno complessa rispetto a quella di Bello, più diretta. Si
ripetono gli stessi elementi già trovati in forma più dilatata ed esuberante nella poesia di Bello. In queste
pianure, si coltivano anche l’ananas, la banana sonante. Banana sonante è una sinestesia assimila il verde
squillante delle foglie del banano; sonante perché le foglie del banano sono piuttosto ampie e, quando c’è
un po’ di vento, urtando tra loro, producono un suono. L’albero sacro a Minerva è l’olivo, importato dagli
europei.

Sono molto frequenti gli enjambement, elemento caratteristico della poesia romantica. Inizia a descrivere
la geografia di questo luogo. Compaiono due elementi del paesaggio che sono anche elementi della cultura
e della mitologia azteche: Iztaccihual e Popocatepetl. Nelle leggende azteche, Iztaccíhuatl (=donna bianca)
fu una principessa che si innamorò del guerriero Popocatepetl (=montagna fumante); il padre della
principessa era contrario alla loro unione e invierà Popocatepetl a combattere una battaglia ce lui riteneva
impossibile da vincere, promettendogli che se avesse vinto avrebbe potuto sposare la figlia; il guerriero
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

torna vincitore, ma il padre si rifiuta di mantenere la sua promessa; la principessa si lascia, dunque, morire
e, sconvolto dalla morte, il guerriero si toglie la vita; come accade spesso nella mitologia, gli dei, commossi
per la loro sventura e per il loro amore, trasformano i due amanti in due vulcani, così che Popocatepetl
possa sempre vegliare su Iztaccíhuatl. La chiamata in causa di questa leggenda si vede in alcuni termini: «De
Iztaccihual purísimo»: fa riferimento alla verginità di questa principessa. Riguardo alle immagini molto
pittoresche che Heredia riporta, bisogna considerare il momento in cui idealmente Heredia inizia a scrivere
questa composizione: il tardo pomeriggio; poi, passerà al crepuscolo; la notte innescherà una meditazione
al poeta sulla precarietà dell’esistenza, sull’inafferrabilità del tempo.

Nella prima parte, ritorna l’immagine della fertilità della terra. L’Anahuac è descritto come un luogo dove
non c’è inverno, quindi questo non può mai toccare con la sua mano distruttrice questi campi fertilissimi.
Oltre al paesaggio, viene inserito nella descrizione l’unica figura umana che compare viva in questa poesia:
il contadino che, al tramonto, osserva il paesaggio coltivato dell’Anahuac. In questa prima parte della
poesia, c’è un fortissimo senso del cromatismo: la poesia gioca molto sugli effetti cromatici. «Y vio a
Naturaleza conmovida»: c’è una personificazione dell’elemento della natura, vista come divinità. Il sole del
tropico è assimilato a un’entità viva, che genera e sostenta la natura, quindi la vita stessa.

A questo punto, lo sguardo del poeta, che segue l’evolversi e le fasi della giornata, inizia a descrivere prima
il tramonto, poi il crepuscolo e infine la notte. Contestualizza, cronologicamente, questa composizione e
questa descrizione. Il soggetto è il vento. L’immagine è quella di una natura viva; il vento viene assimilato a
un essere vivente – un uccello che ripiega le sue ali e si addormenta; la rappresentazione del sole è
pittorica, perché, quando cala, nell’immaginario del tempo, si avvicina alla Terra e l’occhio umano
percepisce il sole come più grande di quanto sia in realtà; l’elemento cromatico è ancora molto presente,
continua a usare immagini che rimandano alla tavolozza di un pittore; il mare d’oro è la raffigurazione dei
riflessi che battono sulla superficie innevata, dando un forte contrasto cromatico; c’è un notevole
dinamismo, tutto cambia nell’arco di pochi minuti; questa luce dorata sembra tremare. Tutto questo
paesaggio è inondato dal cromatismo di questo tramonto molto scenografico. Implicitamente, in questa
terza strofa compare l’io lirico, che si colloca nello spazio e nel tempo dell’osservazione e rievoca
direttamente la sua esperienza, le emozioni e i sentimenti che questo paesaggio suscita in lui insieme alla
presenza delle rovine, finora non menzionate se non obliquamente, non in modo esplicito. Su questa sorta
di descrizione filmica, il crepuscolo cala sempre di più. Usa il verbo desfallecer, che solitamente si riferisce a
qualcosa di vivo, di umano. Il crepuscolo diventa il momento più suggestivo, è il passaggio tra il giorno e la
notte ed è elemento tipico della sensibilità romantica. «Que la alma noche o el brillante día ¡Cuánto es
dulce tu paz al alma mía!»: quando vuole sottolineare alcuni aspetti, Heredia ricorre alla rima, che serve a
richiamare l’attenzione del lettore su alcuni aspetti della poesia. Il crepuscolo è simbolo della morte e
dell’agonia del giorno ed è emblema del fuggire della vita; si associa al senso della malinconia, sentimento
marcatamente romantico. Il crepuscolo appare al poeta più bello della notte feconda o del giorno brillante.

Compare esplicitamente l’io lirico. Nella strofa precedente si avvertiva indirettamente la sua presenza; qui,
il poeta compare nei pressi della piramide da dove, metaforicamente, contempla il mondo, non soltanto la
Valle dell’Anahuac. Si nota come il silenzio e l’apparente infinito di questo paesaggio siano elementi tipici
dell’immaginario romantico. Inizia una riflessione dell’io lirico sul passato e sul presente, che il monumento
evoca. Siamo nell’ultimo periodo delle lotte per l’indipendenza, infatti il poeta ricorda questa barbare
oppressione – l’occupazione spagnola. Alla barbarie della guerra si affianca l’immagine della superstizione,
riferita al dominio azteco sulle altre popolazioni della Mesoamerica – anche il termine guerra può esservi
riferito. La presenza della guerra può essere interpretata sia come guerra d’indipendenza che essere
ricondotta al concetto delle guerras floridas – queste guerre rituali che avevano la funzione di procurare
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vittime sacrificali per i rituali con cui gli aztechi immaginavano di mantenere l’ordine del mondo, offrendo il
sangue e i corpi dei sacrificati per nutrire gli dei.

Si riprende la descrizione del paesaggio, che, seguendo lo scorrere dei minuti, si trasforma col calare della
notte. All’immobilità della pianura si contrappone, nei versi successivi, il movimento delle ombre che
gettano le nubi. Descrive dinamicamente la scomparsa dei colori sgargianti del tramonto, che lasciano il
posto a una fantasmagoria dai toni scuri.

Ritorna l’aggettivo purísimo. Tutto è ancora immerso nel silenzio. I riferimenti che fa sono molto descrittivi
e puntuali. Per esempio, sottolinea che è verso oriente che le stelle appaiono per prime. Il poeta, di fronte
all’infinito del cosmo, prova meraviglia e sgomento allo stesso tempo: si passa dalla visione della terra a
quella della volta celeste e questa è una tipica descrizione di un autunno romantico, in cui le stelle rivelano
l’interiorizzazione messa in atto dal poeta, che sembra dialogare con la natura e con sé stesso, riflettendo
sul destino dell’uomo e delle civiltà.

L’immagine del tramonto e della luna accresce ancor di più l’oscurità; questo genera una profonda
emozione nell’io lirico. È la dimensione sublime della notte, quindi l’aura di mistero e del senso di
piccolezza, di fragilità dell’uomo di fronte alla natura. Si delinea un senso di timore, di sgomento del poeta
che, in questo luogo solitario, avverte, tant’è che quest’ombra del vulcano sembra e gli appare come un
fantasma. Gli ultimi versi di questa strofa ricordano da vicino un passo di Primero Sueño, che si apre con
l’ombra di una piramide che cala sulla terra.

Il poeta è spinto a meditare esplicitamente sul senso di finitezza dell’essere umano, di conseguenza sul
mistero dell’universo, del trascorrere delle ere e de tempo. Il poeta, dalla Il poeta, dalla piramide, non
contempla solo il paesaggio, ma il mondo, l’umanità e la sua storia. A questo punto, il poeta si rivolge al
vulcano, che gli appare come immagine, in un primo momento, dell’eternità, quindi possiamo considerare
che quest’eternità sia soltanto apparente; gli si rivolge chiamandolo «¡Gigante del Anáhuac!». Questo uso
del termine gigante rimanda ancora alla leggenda della trasformazione del guerriero azteco in una
montagna. Attraverso il volo rapido delle ere, c’è il concetto dell’inafferrabilità del tempo, quindi della
fragilità umana e della sua transitorietà. Di fronte a queste emozioni che l’io lirico prova, il poeta
contrappone come termine di paragone la montagna, che sembra rimanere intoccata dallo scorrere del
tempo.

Nei versi successivi, le riflessioni di Heredia si approfondiscono e anche la natura, che sembra inviolabile, è
vista come precaria. Si trova lontanissimo dal mare, ma riesce ad animare questa sua descrizione evocando
una realtà non presente nel momento in cui il poeta sta scrivendo idealmente questa poesia. Il fluire
inesorabile del tempo è associato a elementi naturali come il vento e il mare. Il poeta è indotto dalla
presenza delle rovine del passato ad assimilare la gloria, la fragilità, la miseria umana delle antiche civiltà
con la situazione corrente. Per inquadrare questi versi, bisogna considerare le vicende personali dell’autore
e quelle politiche di Cuba.

L’io lirico vede ora, nella fragilità della civiltà umana di fronte al tempo, una sorta di legge universale che
non vale solo per gli esseri umani e per le civiltà, ma una legge che un giorno, travolgerà la potenza
maestosa e apparentemente inviolabile della montagna. Questa è la tragica constatazione della
transitorietà del cosmo, che viene anche sottolineata da un’infrazione metrica: la frattura metrica di Todo
perece richiama l’attenzione del lettore. Questa è una riflessione marcatamente legata alla sensibilità
romantica. Anche i termini e le immagini che usa sono tipiche della poesia di questo periodo, in particolare
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

della poesia cimiteriale inglese, così com’è romantica l’idea di una ciclicità inesorabile che travolge uomini e
cose. La prima versione della poesia terminava qui, con questa riflessione filosofica esistenziale.

Finora il poeta è rimasto sveglio: quello che ha descritto è ciò che i suoi occhi hanno visto; a questo punto,
viene sorpreso dal torpore. Ha una sorta di visione, corrispondente a un lungo sogno di glorie ingolfate. Il
motivo della visione onirica che compare riecheggia ancora una volta Primero Sueño, una poesia che si
sviluppa, in parte, con un’osservazione diretta della notte, in parte con le riflessioni che la notte innesca
nell’autrice. La notte che costituisce lo scenario referenziale della prima parte della poesia, a partire da
questo momento, diventa un termine metaforico che riconduce alla notte della civiltà azteca, al suo
tramonto, ma anche a un tempo immemore. «La agreste pompa»: inizia la visione negativa del passato
azteca, segnato dalla crudeltà delle guerre fiorite, ma anche dalla pratica del sacrificio umano; possiamo
considerare questa interpretazione, anche dal punto di vista antropologico, emotiva e ingenua, ma molto
efficace e suggestiva, corrispondente alla realtà storica, anche se i riti cui allude Heredia corrispondono alla
visione della cultura Anahuac. Appare come una vera e propria processione della storia, che sfila davanti
agli occhi di Heredia nel sogno. El déspota salvaje è il monarca che nelle civiltà mesoamericane, molto
spesso, aveva uno status divino, tant’è che queste monarchie erano fondate sulla sacralità del re –
incarnazione della divinità. I tritoni sono conchiglie molto grosse usate come strumenti musicali e per
accompagnare rituali o azioni di guerra. La visione dei rituali della civiltà azteca è estremamente negativa.

A questa processione, assiste anche il popolo, rappresentato non come elemento sfarzoso della civiltà
azteca, ma come era in realtà. Lo stupore è una meravigliosa terrorizzata, che corrisponde al terrore del
sacro. C’è l’immagine di una civiltà barbara, crudele, nella quale l’individuo è solo uno strumento al servizio
dei potenti – nobiltà, guerrieri, sacerdoti, monarca. La fronte bassa è dovuta al fatto che non si poteva
guardare in faccia il monarca. Il potere di quest’ultimo è rappresentato secondo i cliché del mostro umano.

04/03/22

«Su vil superstición»: parla dei sacrifici umani nella religione azteca. Anche la gloria dei potenti, come ogni
cosa umana, agli occhi di Heredia si dissolve e scompare annichilita nell’inesorabile trascorrere del tempo.
No ser è un’espressione che denota una valenza filosofica in questa meditazione dell’io lirico.

I primi versi della strofa successiva sono una tipica immagine, al tempo stesso, cristiana e romantica Della
morte come grande livellatrice, come colei che rende tutti gli esseri umani uguali nella morte. Ritorna
ancora l’immagine della morte come oblio, cancellazione in tutti i sensi dell’umanità.

Nella strofa successiva, ritorna la presenza delle rovine a ispirare la visione dell’io lirico e a evocare le
ombre di un passato che appare glorioso ma crudele e spietato. C’è una rappresentazione violenta, per
certi versi morbosa, ma molto efficace dal punto di vista della visione che ha Heredia. È un’immaginaria –
seppur abbastanza realistica – rappresentazione del sacrificio umano. Prosegue con questa
rappresentazione drammatica di un rituale inconcepibilmente orribile per tutti, in particolare per la
mentalità europea, che, però, aveva operato una conquista altrettanto violenta nell’area mesoamericana.
«Miró el vapore speso de la sangre»: è come se il sangue non fosse soltanto liquido, ma quasi un olocausto,
quindi bruciato, che sale verso l’alto. «Ofendido cielo» è rappresentazione della divinità cristiana, offesa da
questi sacrifici umani. La descrizione è permeata da verbi e aggettivi forti, che vogliono trasmettere
esattamente la visione che ha avuto il poeta.

Chiude la composizione ritornando a una considerazione filosofica circa la fragilità del destino umano e dei
suoi sogni di gloria collettiva e individuali. C’è il tema della vanita vanitatis: è una concezione biblica
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

dell’ecclesiaste. Nei primi due versi, è come se il poeta uscisse dalla dimensione onirica e tornasse alla
realtà. «Semanas de siglos» significa un tempo immemorabile. In questo momento, la piramide ha funzione
di monito all’umanità. L’uomo è metatesi dell’umanità. Qua, rispetto alla tradizione romantica, che tende a
esaltare le civiltà umane – titanismo – si nota un atteggiamento morale più umanitario che eroico; c’è una
condanna del vacuo titanismo degli esseri umani. C’è anche la dimensione biografica che entra in gioco, nel
senso che Heredia subisce sulla propria pelle l’arbitrio di uomini e istituzioni che subordinano i valori umani
alla sete di potere e alla ragion di stato. È un monito che tiene conto della situazione storica dell’America
latina – la fine delle guerre d’indipendenza.

Oda al Niágara (1824)

Ha una struttura formale analoga a En el teocalli del Cholula: sono versi, per lo più, di undici sillabe e
intercalano, a volte, versi di sette sillabe; c’è un uso evidente di rime consonanti, ma non c’è uno schema; la
mancanza di questo schema corrisponde all’arbitrio/alla libertà che il poeta ha di usare queste rime
consonanti per la musicalità dei versi, per sottolineare i vari passaggi della composizione. Il contesto è nel
titolo stesso. Il poeta, quando concepisce questa poesia, si trova negli Stati Uniti e vede da vicino le cascate
del Niagara, che non erano ancora un luogo particolarmente frequentato, quindi questo luogo appare agli
occhi del poeta ancora più isolato e maestoso nella sua solitudine.

L’esordio della poesia è uno dei pochi elementi riconducibili alla tradizione classica: invoca la musa affinché
la sua ispirazione – che ritiene di aver perduto – trovi il modo migliore di esprimersi attraverso il canto. Il
titanismo è presente, ma è individuale. L’immagine è la lira di Orfeo, la poesia. L’animo fervente e agitato è
in consonanza con l’ambiente – anche questa è una tipica immagine romantica. Il titanismo c’è, ma è il
titanismo dell’individuo, non delle società. La luce di cui parla è l’ispirazione, che dice di aver perso in uno
dei tanti frangenti della sua vita. C’è il riferimento non soltanto all’io lirico, ma alla sua condizione – legata
alla biografia. Il dono divino è la poesia, sacra agli dei, che possiamo considerare equivalente all’ispirazione
e alla speranza di ritrovare questa ispirazione. Comincia, in parte, la descrizione del paesaggio, dall’altra la
rappresentazione delle emozioni che, così come la cascata, tumultuosamente, lo ispirano.

L’elemento sonoro è molto presente e tende a restituire l’aspetto fonico del paesaggio – il precipitare
tumultuoso e questo tuono tremendo. Superata la prima strofa, l’io lirico si rivolge al suo interlocutore: il
Niagara, elemento possente e impetuoso; lo esorta a placare la sua furia e lo chiede per riuscire a
contemplare meglio questo paesaggio. Se prima si rivolgeva alla musa, ora si rivolge direttamente al suo
interlocutore, emblema della natura selvaggia e sublime. La contemplazione avviene anche in termini
metaforici; contemplare ciò che sta dietro, ovvero il fenomeno naturale, il suo significato profondo. «Yo
digno soy de contemplarte»: in un certo senso, qui il poeta chiede di entrare in simbiosi con la natura nel
nome del suo spirito aristocratico di poeta. Il sublime è conturbante: è sia bello sia spaventoso. Si
autorappresenta come un eroe, che è stato in grado di contemplare è non è mai fuggito da eventi
spaventosi. Il verbo despeñarse accentua l’immagine della tempesta. C’è l’immagine del poeta attratto dal
sublime, che la lotta tra elementi rappresenta. Tuttavia, alla fine della strofa, c’è un avversativo: lo
spettacolo delle cascate appare ancora più maestoso. Per una parte della poesia, cerca di descrivere questo
spettacolo della natura che gli si para davanti agli occhi.

Notiamo già come questo spettacolo tremendo assuma una valenza simbolica. Inizialmente si riferisce al
fiume che genera le cascate. La descrizione è realistica. Sembra che ci sia una lotta tra gli elementi della
natura. La successiva similitudine assimila lo scorrere inarrestabile delle acque al destino – il destino è
un’immagine allegorica legata al fluire tempo. Il poeta sembra trovare un limite alla sua capacità di
descrivere il paesaggio, lo spettacolo della natura. Il tono decisamente concitato e drammatico segue il
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

precipitare delle acque. Sirte è un termine arcaico che indica una zona di mare estremamente rischiosa per
i naviganti dell’attuale Libia – passa a essere l’abisso del Niagara. Nel periodo in cui Rafael Pombo scrive
l’altra lirica dedicata al Niagara – trent’anni dopo – il luogo ha già subito delle trasformazioni: è diventato
luogo turistico; era nata la mania da parte degli angloamericani di buttarsi dalle cascate, moto spesso in
botti, pensando di riuscire a scappare al salto. L’immagine di un soggetto cui la vista sembrerebbe non
bastare, quindi si profila l’esperienza di un salto nelle cascate, per capire cosa sia questo fenomeno. La
dinamicità della scrittura cerca di rendere la dinamicità dello spettacolo: non coinvolge solo la natura, ma
anche la percezione che ne ha l’io lirico. L’uso dell’onomatopea «Chocan» è quanto mai opportuno in
questa descrizione: il poeta ammette di far fatica a descrivere in tutti i suoi aspetti. «Y entre espumas y
fragor desaparecen»: è l’immagine delle acque che, a un certo punto, precipitano. Dopo aver descritto il
tumulto delle acque che stanno per precipitare nell’abisso delle cascate, il poeta sembra seguire il flusso
della corrente nel salto delle acque; la rappresentazione che segue nei versi successivi è un’apoteosi del
sublime romantico. Il sublime era un concetto, in realtà, antico, della cultura classica; era stato rielaborato
a metà del ‘700 dall’autore protoromantico inglese Birck; anche Count e Schiller erano ritornati su questo
concetto chiave dell’estetica romantica; si tratta della commistione di terribile e affascinante e bello che
suscita estrema emozione – l’orrendo che affascina.

Da notare gli esclamativi, che raramente compaiono nella poesia neoclassica, mentre in quella romantica
servono a intensificare il tono del dettato poetico. «Crúzanse en él mil iris, y asordados Vuelven los boques
el fragor tremendo»: non è solo la cascata che genera questo frastuono; gli arcobaleni sono generati dalla
polverizzazione delle acque; è un’immagine cromatica quella che abbiamo. Da un’immagine visiva si passa a
un’immagine auditiva – è tutta la natura che sembra coinvolta. Per questo cattura così lo spirito del poeta.
«Elastica fuerza» esprime dinamicità; tra l’altro, elastica è un termine che il poeta osa, non è usuale nella
poesia, ma qui serve a esprimere la dinamicità. C’è sempre una contrapposizione tra l’elemento sonoro e
quello visuale. Paragona la gigantesca nube di vapore a una piramide. Il fragore della cascata, la violenzza
del suo spettacolo e della natura circostante incutono timore al solitario cacciatore – compare l’elemento
umano –, abituato a sopravvivere in un ambiente ostile all’uomo; la presenza isolata di questo cacciatore
restituisce la fragilità dell’essere umano di fronte alla forza della natura.

Il poeta si chiede retoricamente cosa lo attiri al di là dell’immagine superficiale che presentano le cascate
del Niagara. «Inútil afán» perché, oltre un certo limite, neppure il pensiero del poeta riese a giungere e non
trova risposte. «Las palmas deliciosas»: qui c’è uno degli elementi che cerca – la consolazione per la patria
perduta. C’è un contrasto netto tra l’immagine serena del tropico di Cuba e quella del paesaggio
nordamericano. L’immagine assolutamente idilliaca contrasta l’immagine sublime di ciò che sta osservando
con gli occhi della memoria, con cui sta rievocando la sua patria. Per un momento, il poeta, per
contrapposizione, rievoca la placida natura del tropico, ma questo mondo rappresentato in questa breve
strofa, subito dopo, appare come un frivolo giardino agli occhi di Heredia, come un luogo ameno poco
congeniale all’animo impetuoso dell’artista romantico; anche se sente nostalgia per la sua patria, lo
spettacolo cui sta assistendo lo sente comunque più in consonanza col suo spirito agitato. L’animo
impetuoso dell’artista romantico è nella natura austera e potente del nord; l’io lirico trova la sua
consonanza con il cosmo.

Il pensiero quasi opera un’intrusione rispetto a ciò che sta vedendo. «La palma y mirto y delicada rosa»
sono tutti elementi di un luogo umanizzato. L’immagine del frivolo giardino è sovrastata dalla presenza
della natura più selvaggia. L’anima forte e libera è l’immagine che il poeta ha evocato di sé stesso quando si
è trovato ad affrontare l’uragano, la traversata marina sotto una tempesta. «Y aun se siente elevar cuando
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

te nombra»: è la consonanza dell’uomo sensibile che, davanti agli spettacoli della natura, entra in sintonia,
si eleva; il sublime è anche elevarsi verso qualcosa che si considera irraggiungibile.

Questo spettacolo naturale evoca nell’io lirico la presenza della divinità e, di riflesso, viene evocata la
malvagità della stirpe umana, cui il poeta si sente estraneo. In primo luogo, si riferisce ai conflitti a Cuba;
più in generale, il discorso si estende a tutta la storia umana, costellata di guerre, massacri, ecc. «Vilos, y el
pecho se inflamó á su vista En grave indignación»: è la nobiltà dello spirito libertario che l’autore romantico
coltiva sempre nel suo animo. Nella sua solitudine, il poeta cerca conforto nella natura in quanto opera
della divinità, quindi manifestazione fisica della presenza incombente della divinità. L’abisso è inteso come
decadenza morale dell’umanità. Qui troviamo cosa sta cercando Heredia: il senso dell’esistenza
proiettandolo nella divinità. Arriviamo all’identificazione della potenza della natura con la divinità.

Il fenomeno delle cascate assume connotazioni misteriose associate a questa presenza non visibile della
divinità. Continua con la rappresentazione iperbolica: è solo la mano della potenza divina che domina la
natura, quindi impedisce al fiume di riempire i mari, dunque sommergere i continenti.

Poi, prosegue rivolgendosi più esplicitamente alla divinità. «Cubrió tu faz de nubes agitadas»: la
rappresentazione del Niagara sembra sovrapporsi alle rappresentazioni canoniche della divinità – una nube,
qualcosa che non si può conoscere direttamente. L’arcobaleno è immagine dell’aureola divina, quindi è uno
degli elementi in cui il poeta vede la raffigurazione dell’umanità. Arriviamo all’estremo del sublime, agli
elementi che non pertengono l’esperienza umana – l’eternità, l’insondabile. Queste immagini innescano
una riflessione sulla fragilità della condizione umana, sul mistero della vita e sul destino del cosmo. Lo
scorrere delle acque e il loro precipitare nell’abisso diventano un’allegoria della fugacità dell’esistenza, che
qui assume connotazioni biografiche. Comincia un autocompatimento dell’autore, che appare già meno
eroe. «Agostada Yace mi juventud»: è un riferimento biografico, nel senso che l’esilio stroncò la gioventù
del poeta. Disamore nel senso di mancanza di legami affettivi.

Tutta la parte successiva potrebbe essere riassunta come senza patria, senza amore.

Termina salutando il Niagara. Il commiato diventa presagio di una fine dell’esistenza fisica sua prossima. Di
fronte alla morte, l’unica possibile forma di sopravvivenza per il poeta è la fama, la gloria, il ricordo della
sua opera. «Y al abismarse Febo en occidente»: il tramonto è metafora della morte.

09/03/22

Rafael Pombo

È un autore colombiano che possiamo considerare della seconda e terza generazione dei romantici, perché
ha una vita piuttosto lunga – nasce nel 1833 e muore nel 1912. È abbastanza poliedrico – giornalista,
traduttore, poeta, si occupò di letteratura infantile, tradusse racconti, leggende, fiabe di origine
anglosassone negli anni ’60, quando si troverà negli Stati Uniti. Vive fino al 1855 in Colombia e, negli Stati
Uniti, ci va in missione diplomatica e ci rimane fino al 1872. En el Niágara è una delle poesie scritte in
questo periodo. Pombo ha una vita agitata e disordinata dal punto di vista esistenziale e durante il suo
soggiorno negli Stati Uniti cade in una crisi esistenziale. Fonda diverse riviste e lavora come traduttore –
traduce Longfellow. Ritorna in Colombia e continua a lavorare come poeta, scrittore, giornalista. La sua è
un’opera disordinata, perché lui non raccoglierà mai le sue poesie; sarà, invece, spinto a pubblicare piccole
raccolte che distribuiva soltanto agli amici; sarà solo dopo la sua morte che tutta la sua opera poetica sarà
compilata e pubblicata. È un’opera abbondante, ma oggi abbastanza sottovalutata. En el Niágara è una
poesia curiosa perché non riprende solo il soggetto, ma instaura una sorta di dialogo e viene chiamato in
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

causa Heredia come esempio che Pombo non riesce a seguire. C’è un contrasto nella percezione dello
spettacolo delle cascate, che induce riflessioni diverse nei due poeti. Pombo è considerato il maggior poeta
romantico colombiano e, nella fase tarda della sua carriera, questo verrà riconosciuto ufficialmente – sarà
nominato poeta nazionale. All’epoca, era una figura molto importante, che aveva rapporti con altri
intellettuali colombiani (Caro e altri).

En el Niágara (1864)

Viene definita come contemplazione. L’esordio è sorprendentemente prosaico; non inizia invocando le
muse o con un tono solenne. Questa descrizione, alla luce della poesia di Heredia, è scontata e ripetitiva, è
un cliché che risponde all’immaginario romantico. Il Niagara è personificato come entità statica, come se
fosse uno spettacolo sospeso nel tempo. Gli enjambement complicano la lettura, che viene ostacolata da
questi iati che si creno all’interno dei versi. La natura è immaginata come Eden da cui l’uomo è stato
espulso. «Hija perfecta Sin medio humano, del excelso fiat»: si riferisce alla creazione, alla genesi
giudeocristiana. Il Niagara è un’allegoria di tutto il mondo naturale agli occhi di Pombo. Le leggi sono quelle
della natura, quindi improntate dalla mano della divinità. Definisce le cascate e la natura come «Huésped
no expulsado del edén perdido», da cui gli esseri umani sono stati scacciati. Pombo, in questi anni, stava
vivendo anche una crisi religiosa, infatti aveva scritto un’altra poesia che fu letta dalla critica come una
sorta di espressione blasfema nei confronti della divinità, che appariva a Pombo come ritirata, lontana dagli
esseri umani e dalle loro sofferenze. In parte, questa visione emerge anche in questa composizione, però
rimane abbastanza fumosa: qualcosa dice che in questa natura è presente la divinità e, di fronte a questa
espulsione dall’eden, il poeta sente che l’unica possibilità di riscatto è l’unione con la natura – ormai, però,
infranta. A questo punto, la riflessione dell’io lirico rispetto al paesaggio viene interrotta dalla
contemplazione della furia delle cascate, personificazione della forza mistica e sovrannaturale.

L’invito sarebbe trovare tutti i valori umani nella forza delle cascate, ma questo tentativo di unirsi
spiritualmente alla natura non ha esito. «Distráeme, diviérteme, museo De cataratas, fábrica de tus ondas»:
è una richiesta inusuale di fronte a questo spettacolo; è come se il poeta non riuscisse a cogliere
quell’insieme di caratteri che, nella natura delle cascate, sente presente ma non riesce a razionalizzare.

Abbiamo tutta una serie di immagini ed epiteti iperbolici. Intuisce questi elementi forti ed è uno spettacolo
che, tuttavia, preclude una comunicazione con l’essere umano. Il Niagara appare come una divinità
autosufficiente, imperscrutabile. «La hormiga semidiós» rappresenta l’umanità. L’uomo e la civiltà sono
entità minuscole e semidei: è una rappresentazione dell’uomo come essere quasi insignificante, che
l’elemento naturale – personificato in una divinità indifferente e cieca – ignora.

Il tono del poeta inizia ad assumere connotazioni di scetticismo che vanno gradualmente verso un’ironia
amara, sarcastica, venata di pessimismo esistenziale e cosmico – per quanto riguarda la relazione tra
l’uomo e il cosmo. Cita direttamente Heredia per rovesciarne alcune riflessioni: questi si sfoga e nel Niagara
trova una sorta di specchio; questo Niagara dello spirito appare ben più tremendo. Iniziano queste
digressioni che, dall’essere umano in generale, passano, nello specifico, all’io lirico, protagonista di questa
composizione insieme alle cascate. Gli Stati Uniti sono trasfigurati nel ciclope, quindi si può cogliere una
fallacia: il ciclope ha un occhio solo e sarà sconfitto da Odisseo. Il ponte è un’immagine referenziale: proprio
in quel periodo, era stato inaugurato un ponte che permetteva di osservare meglio le cascate del Niagara.

Pombo non rintraccia la presenza consolatorio nell’elemento naturale di un dio premuroso e salvifico,
piuttosto nella bellezza impressionante della cascata trova una bellezza senza profondità, quindi muta e
sterile all’animo e allo spirito dell’io lirico.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

«Estruendo volcánico» è ancora un’immagine ridondante e iperbolica. La natura non riesce a suscitare
nell’io lirico lo spirito della poesia, della creatività; questa sembra ancora fremere per la forza titanica delle
cascate, ma l’io lirico si sente escluso da questa comunione sia come umano sia come poeta. L’immagine è,
infatti, quella dell’isolamento, che preclude al peta anche l’ispirazione artistica ed è ciò che turba e
sorprende lo stesso io lirico.

Arriva a esprimere la sua indifferenza verso ciò che Heredia considerava uno spettacolo naturale tale da
muovere lo spirito del poeta in un’identificazione nella natura stessa.

L’esistenza umana è assimilata a una dimensione sterile – il mar morto. Il paesaggio è rappresentato con il
senso di turbamento che avverte il poeta. Le cascate sono una bellezza sublime solo dal punto di vista
estetico, non suscitano la tumultuosa esperienza di sentimenti contrastanti che testimoniava la poesia di
Heredia.

Al sentimento di esaltazione che dovrebbe corrispondere alla visione del Niagara, si sostituisce la
disperazione. È come se si proiettasse l’immagine della tentazione di un suicidio, unendosi alle cascate nella
morte, non nella vita (come faceva Heredia). Nella biografia di Pombo c’è un riferimento a una visita che
aveva fatto alle cascate di Tequendama (Colombia), che sono uno spettacolo naturale non imponente come
quelle del Niagara, ed era rimasto talmente affascinato e sconvolto da quest’esperienza – aveva diciott’anni
– che aveva provato l’impulso di gettarsi. Qui, sembra che ricordi quest’episodio biografico. La paura è
quantomeno un sentimento che il poeta vorrebbe provare, perché se la provasse troverebbe anche il modo
di entrare in contatto con lo spirito della natura. Segue una concezione assolutamente negativa non
soltanto della vita umana, ma dell’essere umano, dell’umanità, incapace di trovare un’armonica convivenza
tra i propri simili e con la natura. L’umanità è la vipera, il serpente. Viene descritta l’essenza dell’umanità.
Continua calcando sempre più la mano. La scala eterea e tuttò ciò che arriva alla divinità è metafora del
bene.

Arriviamo alla blasfemia: se, nella tradizione giudeocristiana, l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di
Dio, se lo si descrive come un miserabile, è come se la divinità avesse lasciato un’impronta miserabile.

A questo punto, il poeta evoca l’immagine della madre morta e l’io lirico trova la forza di continuare a
vivere nel suo ricordo, ma questo vivere – come allude il poeta- rappresenta una sfida e, al tempo stesso,
una sorta di espiazione, infatti inizia con un «Perdón». Il tono è sempre aulico. Probabilmente si tratta della
ricorrenza dell’onomastico, ma potrebbe anche essere uno dei mezzi retorici attraverso cui la realtà si
sovrappone alla dimensione creativa. La ragione per cui chiede scusa è psicologica: da un pensiero negativo
dell’esistenza, del venire al mondo, lui chiede perdono – proprio per i suoi pensieri. Sembra quasi che stia
creando della suspense. Sembra preludere a togliersi la vita, ma poi ribalta la situazione. La vita è vista
come una sorta di espiazione.

«Hoy el ausente Regresa al fin cerca de ti»: assente è un riferimento al fatto che era lontano dalla
Colombia, quindi dalla tomba della madre; il ritorno avviene col pensiero, non fisicamente. Quando si
sottolinea l’ipertrofia romantica dell’io lirico, ci si riferisce a una visione totalmente autoreferenziale
dell’espressione artistica. Pombo non è un caso patologico sotto questo aspetto; è un cliché che si ritrova
soprattutto nel tardoromanticismo ispanoamericano ed è per questo che la poesia tardoromantica
latinoamericana non viene considerata molto leggibile neppure oggi, pe questo si esaursice anche la spinta
artistica.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Il poeta ritorna a rappresentare il Niagara. C’è una commistione del sublime, che costituisce la morte e la
vita al tempo stesso – forse, questo è proprio l’apice del sublime. «Mas para mi la vida es un sarcasmo»: è
l’abisso dello sconforto.

La conclusione è lapidaria: di fronte a questa nature che si dimostra totalmente indifferente all’essere
umano, l’io lirico ricambia con la stessa moneta.

Gertrudis Gómez de Avellaneda

Poetessa di origine cubana, scrisse poesie, romanzi, opere teatrali, memorie ed epistolari. Nasce nel 1814 e
muore in Spagna nel 1873. È una tra le prime autrici ispanoamericane a imporsi all’attenzione del pubblico
sia in patria sia in Europa: questo in un periodo storico in cui la presenza delle donne in ambito letterario
costituiva ancora un’eccezione. In effetti, al scrittura fu per lei una via di fuga dai limiti che le convenzioni
sociali e familiari imponevano a una donna come lei, ovvero dallo spirito vivace e appassionato. Uno dei
momenti chiave della sua esistenza fu il trasferimento, nel 1836, con la famiglia da Cuba in Francia, quindi
in Spagna, dove scriverà gran parte della sua opera. Anche se qui ebbe una vita brillante, ricca di contatti
con autorità artistiche e intellettuali, il ricordo della sua patria, dei suoi paesaggi e delle sue tradizioni,
rimarrà molto presente nella sua scrittura. Il mondo americano è ricordato con affetto e nostalgia, come
testimoniato dal sonetto Al partir, che rappresenta, con toni carichi di emozioni, il momento in cui l’autrice
abbandona Cuba per recarsi in Europa.

Al partir (1836)

Dal punto di vista metrico, questa poesia non rappresenta una novità rilevante, è un sonetto classico con
uno schema rimico altrettanto classico. Presenta novità romantiche sul piano tematico, grazie alla presenza
dell’io lirico, che esprime i suoi sentimenti di fronte al distacco dal mondo caraibico.

Parte subito esaltando la terra natale, che ha la funzione di marcare questo distacco. Le immagini sono
molto classiche. C’è la similitudine tra la tenebra notturna – comunque descritta in tono elegiaco – e il
dolore per la partenza: il buio rappresenta il salto nel vuoto che costituisce l’abbandono della propria
patria.

Il momento della partenza è vissuto come una lacerazione irrimediabile, uno sradicamento che la poetessa
è costretta a subire passivamente. Il vento è personificato e assume una connotazione parzialmente
negativa data dalla scrittrice, perché è il vento che permette alla nave di salpare, quindi è responsabile di
portarla via da Cuba. C’è un particolare molto realistico: di notte, nelle regioni di mare, il vento arriva da
terra, mentre di giorno arriva dal mare; è un processo meteorologico che la poetessa esplicita.

Anche il destino viene personificato come qualcosa che regge l’umanità in modo incontrollabile; sembra
una forza invincibile. Nell’ultimo verso della prima terzina, è dominante la nostalgia, uno dei temi che
caratterizzano l’estetica romantica.

Dal momento che la vela si è gonfiata, si sentono i rumori delle drizze, delle scorte, si sentono anche i
rumori della vela che prende vento. C’è quasi una serie di tre immagini fotografiche. La nave viene
personificata attraverso l’uso di un verbo come «Estremecido». L’io lirico proietta sulla nave quel
sentimento di trepidazione che prova lasciando l’isola dov’è nata e a cui rimarrà sempre vincolata
sentimentalmente. È una poesia dominata dall’elemento sentimentale.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

In Spagna, Avellaneda si stabilì a Siviglia e, ben presto, la sua casa si trasformò in un salotto letterario molto
frequentato che contribuì a diffondere la sua opera di scrittrice, infatti fu celebrata da grandi autori come
Espronceda e Zorrilla. Fu una donna che, soprattutto, seppe imporsi all’attenzione del pubblico anche per
via del suo temperamento ribelle e del suo spirito passionale, oltre che per il suo stile di vita personale, per
le sue idee sul matrimonio e l’indipendenza cui le donne avevano diritto: la si può definire come un
protofemminista. Le sue idee progressiste, in un Paese fortemente conservatore come la Spagna,
suscitarono non soltanto curiosità e ammirazione in alcuni settori, ma anche polemiche e pettegolezzi
scandalizzati. A questa sua fama di ribelle e anticonvenzionale contribuì anche la sua situazione
sentimentale con un uomo già sposato. Il tema amoroso è uno degli elementi ricorrenti della sua poesia e,
se da un lato questo contribuisce a rendere vivace e sincera la sua scrittura, dall’altro questa continua
esaltazione dell’io e questo continuo riferimento alla vita intima – aspetto chiave della letteratura
romantica – tendono a essere ridondanti al punto da costituire il principale difetto dell’opera lirica di
Avellaneda.

Sul piano estetico, la sua poesia spicca per le sue qualità ritmiche, per la fluidità del verso e per un forte
aspetto di musicalità: questo risultato viene conseguito grazie all’uso frequente della variazione metrica
all’interno di una stessa composizione. L’adozione della polimetria di taglio espressamente romantico – che
riporta in auge forme metriche cadute i disuso e anticipa il verso libero novecentesco – permette di giocare
con la musicalità dei versi e di trasmettere in modo particolarmente efficace le emozioni dell’io lirico. Da
questo punto di vista, sono importanti soprattutto La pesca en el mar – l’alternanza tra versi con più de arte
mayor (più di dieci sillabe) e minor genera un ritmo crescente e decrescente che tende a evocare il
movimento del mare e veicola le impressioni che vive il soggetto lirico – e La noche de insomnio y el alba –
ha una struttura metrica sperimentale, dato che inizia con dei bisillabi e arriva a concludersi in un
crescendo con versi di diciassette sillabe (questo crescendo ha una funzione allegorica).

10/03/22

Oltre a essere poetessa, Avellaneda fu drammaturga; la scrittura di opere teatrali inizia del 1840, con
Leoncia. Prosegue in questa attività e ottiene anche un buon successo. Scrive 18 opere di teatro e queste
mettono in scena tematiche e storie tratte dal repertorio storico e leggendario spagnolo. Vi sono anche
alcune composizioni legate a dei soggetti biblici.

La sua produzione prosaica può essere ritenuta abbondante: 11 romanzi (alcuni pubblicati in Spagna, altri a
Cuba, ma quando già si era trasferita in Spagna). Il sentimento amoroso è sempre uno dei cardini. Quelli più
conosciuti e letti sono Guatimozin – si riferisce all’ultimo monarca della stirpe azteca, definitivamente
sconfitto da Cortés, quindi si focalizza sull’indigenismo – e Sab (1842, Spagna) – presenta una marcata
impronta sociale attraverso una tesi antischiavista e, per questa sua posizione, questo libro fu ritirato dal
commercio a Cuba. Anche se in passato c’erano stati scrittori che avevano affrontato il tema della schiavitù
in America latina, Sab è considerato il primo romanzo romantico apertamente antischiavista dell’America
latina; segue fedelmente i moduli concettuali ed espressivi della narrativa romantica insistendo
sull’elemento sentimentale. Il romanticismo di Sab si manifesta in tutta la struttura del romanzo: nella
costruzione della trama, nel trattamento dei personaggi e nella descrizione del paesaggio urbano (aspetto
più suggestivo della scrittura di Avellaneda). Questi elementi tendono allo stereotipo, soprattutto perché
l’autrice usa come modelli opere famose del Romanticismo francese: Átala di Chateaubriand; Paul et
Virginie di Bernardin de Saint-Pierre. La noche de insomnio y el alba è parecchio influenzata da un’altra
poesia di Hugo intitolata Les Djinns (non c’è isometria e, nella raccolta di Avellaneda, lei fa una
rielaborazione della stessa poesia di Hugo). La vicenda si costruisce attorno alla figura del mulatto Sab,
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

schiavo in un impianto di raffinazione dello zucchero a Puerto Principe e apertamente innamorato di


Carlotta, figlia del suo padrone e già fidanzata con un giovane facoltoso inglese e destinata a sposarlo. Sab
rivela le sue pene d’amore a un’altra donna, Teresa, a sua volta innamorata segretamente di questo
giovane inglese. Si presenta il tipico triangolo sentimentale ricco di elementi drammatici e segreti. Per
amore di Carlotta, Sab, che rappresenta l’archetipo dell’eroe tormentato romantico, rinuncia alla
possibilità di essere liberato dalla sua condizione di schiavo per poter rimanere accanto a Carlotta,
nonostante sappia di non poterla sposare. Il romanzo si chiude in modo melodrammatico, con le nozze di
Carlotta e la morte di Sab. La dimensione antischiavista si esprime quasi esclusivamente attraverso la
rappresentazione di un protagonista nero, che nutre sentimenti delicati, c’è una profonda introspezione
nella personalità di questo personaggio – che mostra di sacrificarsi per un ideale amoroso. In questa
posizione antischiavista, appare una concezione che intendeva rovesciare e contraddire esplicitamente lo
stereotipo secondo cui la sessualità dei neri fosse un istinto primitivo e brutale, che li rendeva incapaci di
qualsiasi elevazione morale.

La noche de insomnio y el alba (1844)

Questa composizione contiene, dal punto di vista tematico, quasi tutti gli elementi tipici del Romanticismo:
la presenza confessionale dell’io lirico; un ambiente notturno; il senso di smarrimento e angoscia che si
alterna all’esaltazione; il tema è quello della visione e del sogno; la nostalgia del tropico. Il tratto più
notevole è legato alla sua struttura: è un testo che introduce una variazione continua nella metrica e questa
continua variazione metrica segue lo sviluppo delle riflessioni notturne e il progressivo avvicinarsi dell’alba
e il sorgere del sole; alla fine, troviamo il trionfo della vita, che scaccia il pensiero lugubre della tomba e
della morte evocato dalla notte. È molto presente un lessico riferito alle passioni umane.

L’ambiente notturno è, inizialmente, descritto in termini positivi: appare come un momento incantato,
ricco di fascino, però è anche il momento della meditazione causata dall’insonnia dell’io lirico ed evoca
pensieri tristi. La notte avrebbe valenza positiva (il ristoro), negata nei versi successivi dall’io lirico, che vive
una veglia colma di inquietudini, di pensieri inquietanti. Il giusquiamo è un’erba narcotica, velenosa. Il
sonno che la notte accompagna viene presentato come una benevola narcosi. Le visioni di piacere sono
proprio i sogni, pe chi, a differenza dell’io lirico, riesce a dormire. I toni e gli elementi lessicali sono un po’
calcati. La notte, fino a questo punto (verso 24), è un momento di conforto, in cui l’essere umano e il
mondo diurno trovano conforto.

Irrompe l’io lirico. Le rime vengono determinate dalla lunghezza dei versi. Man mano che la poesia avanza,
cambia il metro. Nonostante la notte sia il momento del riposo, l’io lirico soffre di insonnia, il che lo
costringe alla veglia e alla riflessione. Questo genera una profonda sofferenza esistenziale, che assume
anche tratti fisici. Il pensiero diventa un tormento che spossa l’io lirico. Ci sono degli elementi che già
connotano negativamente questa veglia. Il pensiero continua a rincorrersi – più che una meditazione è un
tormento – attanagliando l’io lirico. L’ambiente dove si trova la donna assume una connotazione infernale.
È un supplizio che brucia e soffoca la poetessa. Da notare l’omofonia tra abrazar e abrasar nella pronuncia
ispanoamericana. Compare anche un turbine di visioni spettrali e minacciose, che si amplificano col
proseguire dei versi. In questa atmosfera, la claustrofobia si aggiunge al senso di soffocamento. Il silenzio in
cui il mondo notturno avvolge l’individuo isolato nella sua solitudine appare come una sorta di incantesimo
da spezzare. Questa dimensione spaziale va immaginata come domestica – è la camera da letto – e assume
la dimensione di una prigione, da cui la poetessa cerca di fuggire attraverso la visione del mondo esterno.
L’immagine della claustrofobia riflette anche la condizione della donna all’epoca ed è una richiesta di
libertà – in primo luogo da questa visione e da questi pensieri negativi, ma anche dal punto di vista vitale.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

C’è un momento dove sembra che la situazione cambi attraverso il contatto con lo spazio sconfinato e il
senso di libertà che questo mondo esterno (diurno) offre. Sembra che lo spirito riesca a uscire da questo
spazio claustrofobico. «Cual un sarcófago inmenso»: la notte come proiezione della morte. Il denso manto
è quello dell’oscurità. Il mondo esterno è immerso nella notte e appare come lugubre; la notte ha reso il
mondo esterno spettrale, privo di vita, soffocato dall’oscurità che diventa quasi palpabile. Le tenebre sono
assimilate a una bara o a un manto funebre e il riferimento è diretto. Torna il tema della pesantezza; è il
momento dello sgomento di fronte alla notte, percepita come elemento funebre o che innesca pensieri
funebri. Il respiro non è solo fisico, ma anche dell’anima, quindi si assiste a una paralisi totale. La notte
diventa sospensione temporale che evoca l’angoscia del nulla, del non essere. È il momento più
drammatico, in cui il non essere si manifesta in tutto il suo orrore. Compare una personificazione: il tempo
è assimilato a un uccello.

A questo punto, la poesia incontra il suo capovolgimento, perché scatta un meccanismo che rovescia il
quadro negativo comparso finora. Questo coincide con il sorgere del sole. La luce si sostituisce alle tenebre,
ma un ambiente balsamico – che si contrappone a quella bruciante che avvertiva durante la notte – si
propaga. In questa situazione di angoscia spirituale, improvvisamente, in senso metaforico, irrompe il
primo raggio di speranza: questa luce sancisce la rinascita della speranza e delle vita. A partire da questo
momento, c’è un uso molto intenso di elementi cromatici ed eufonici che rendono con particolare efficacia
questo risorgere della natura, che coincide con l’arrivo del giorno. Il sole diventa uno dei protagonisti di
questa sorta di inno alla vita rappresentato dal giorno, dalla luce, essenzialmente dal sole. Leggendo la
poesia tutta d’un fiato, si nota un dinamismo, una corsa. «Ya rompe los vapores matutinos La parda cresta
del vecino monte»: questi due versi sono costruiti sulle immagini. «Ya ensaya el ave sus melifluos trinos»:
all’immagine visuale se ne aggiunge una uditiva. Il mondo esterno appare immenso rispetto alla
claustrofobia del pensiero in cui si era trovato prigioniero l’io lirico.

Da qui in avanti, questa struttura metrica – definibile espansiva – sottolinea l’irrompere della luce, quindi
della vita, e vengono rovesciate/cancellate dal giorno le sensazioni angosciose della veglia notturna. Dopo
aver sofferto dei pensieri tenebrosi, la luce del sole appare più luminosa e l’aria più pura. Una duplice
ambrosia spande la luce, gonfia il petto, quindi permette ancora di respirare rispetto all’atmosfera
soffocante della morte, e ristora il cuore, dunque rianima lo spirito di chi si è trovato in queste meditazioni
angosciose della veglia notturna – qui vengono rovesciate queste sensazioni. C’è una personificazione
dell’aurora – comune sia nella poesia classica che in quella romantica –, assimilata a una vergine; questa
prelude al sorgere del sole, re degli astri, i cui primi raggi ridanno vita, la natura palpita, anche se è ancora
coperta dalla rugiada. Presentato il panorama di quest’alba, compare il signore dell’alba, cioè il sole, che
viene personificato sul modello classico: una divinità che, sul suo carro, attraversa il cielo. Il sole viene
identificato con il carro di Fetonte, eroe mitologico e figlio del sole che aveva il compito di guidare l’astro
attraverso il cielo. Il canto dell’io lirico, che si unisce a quello degli uccelli e ai colori sgargianti del mondo
naturale, celebra la gloria del sole, simbolo della vita che sconfigge la morte, o meglio il pensiero della
morte, del nulla, dell’irrimediabile e imperturbabile destino umano. Riappare l’io lirico. Il cromatismo si
contrappone all’oscurità della prima parte. «Y aún la pena que el alma destroza profunda, Se suspende
mirando tu marcha triunfal»: è il cocchio trionfale del sole, che sorge e inizia a percorrere l’arco della volta
celeste. «De la ardiente zona do tienes almo asiento, Tus rayos a mi cuna lanzaste abrasador»: questa culla
vale anche nel senso di stirpe e di patria. C’è una consonanza totale tra il calore del sole e quello della vita.

C’è un profondo vitalismo, l’io lirico sembra nutrirsi della luminosità del giorno. In questo momento non c’è
il timore della morte, bensì il timore del pensiero della morte, che la notte, il buio e la solitudine evocano.
Questa composizione si chiude riproponendo le immagini luminose del sole e della natura piena di vita e di
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

libertà – non a caso compare ancora il vento, simbolo di libertà. L’io lirico celebra in tutta la sua gloria la
presenza della natura diurna, vivace e viva, riscaldata dalla presenza del sole. Può essere considerata un
vero e proprio inno al sole.

11/03/22

Esteban Echeverría

È tra i primi in America a introdurre l’estetica e la sensibilità romantiche, nonché una tra le figure più
significative. Nasce nel 1805 e muore nel 1851. La sua funzione non è soltanto introdurre l’estetica
romantica in America latina, ma è importante anche il suo ruolo di diffusore. Nel periodo in cui Echeverría si
trova in Argentina, quindi quando rientra dall’Europa (1830) fino al 1839, quando sarà costretto all’esilio,
l’Argenitna viveva una profonda divisione sociale e politica causata dalle guerre civili tra unitaristi e
federalisti, le due fazioni che si erano formate con l’indipendenza: gli unitaristi componevano il settore
liberale e progressista e ne facevano parte il ceto colto e urbano; i federalisti erano costituiti all’oligarchia,
dai caudillos di provincia e dalla massa dei contadini e degli allevatori poveri e analfabeti e avevano
un’impostazione politica conservatrice. Rosas, a capo dei federalisti, ottenne la carica di governatore e
Buenos Aires e da qui instaurò una delle prime dittature dell’America latina. Echeverría e i suoi compagni
fondarono la loro lotta contro il regime di Rosas sui principi che venivano enunciati nel dogma socialista:
rispetto dei diritti democratici individuali; fiducia nel progresso e nella morale cristiana; emancipazione
dello spirito americano, quindi una visione americanista – come l’avevano anche i conservatori. Nel 1839,
dopo che un complotto per rovesciare la dittatura rosista fallisce, Echeverría si esilia a Montevideo, non
farà più ritorno in Argentina e morirà senza vedere la caduta del regime di Rosas (1852).

Dal punto di vista letterario, il primo contributo di Echeverría allo sviluppo dell’estetica romantica in
America latina è il suo poema Elvira o la novia del Plata, pubblicato anonimo nel 1832 e passa abbastanza
inosservato come testo. Ha una notevole importanza storico-letteraria, perché è considerato tra le prime
manifestazioni inequivocabilmente romantiche del subcontinente ispanoamericano. Si tratta, comunque, di
un’opera ingenua e immatura, di qualità artistica non eccelsa. Echeverría elabora goffamente i motivi
macabri e fantastici del Romanticismo europeo, seguendo modelli come Goethe e Hugo; questo per narrare
un’inverosimile storia d’amore ambientata in uno scenario che vorrebbe essere americano, ma che di
americano ha soltanto il nome. Due anni più tardi, ottiene una certa fama pubblicando un altro poema
narrativo: Los consuelos, che presente elementi storici, tratti di costume, paesaggi locali. Nel 1837, pubblica
la raccolta Rimas, che comprende il poema La cautiva, composizione in nove canti (più un epilogo) e si
considera quest’ultima il maggior contributo di Echeverría alla poesia argentina. Durante l’esilio in Uruguay,
Echeverría scrisse altre composizioni liriche: La guitarra, El angel caído, Avellaneda. Soprattutto, pubblica
Pamphlet e saggi di critica letteraria, tuttavia la sua fama nell’ambito poetico è legata sostanzialmente a La
cautiva. Retrospettivamente, oggi, anche se non si può ignorare l’apporto che Echeverría dà allo sviluppo
della letteratura romantica ispanoamericana, bisogna ammettere che questo ruolo strettamente artistico
tende a essere un po’ ridimensionato: lo si considera indispensabile come diffusore, come importatore del
Romanticismo europeo, ma come poeta lo si considera poco ispirato e piuttosto banale. Il suo
Romanticismo tende a esprimersi attraverso formule piuttosto enfatiche e convenzionali rispetto a quello
europeo; anche la sua ispirazione emotiva non riesce quasi mai a stupire il lettore, perché l’uso di artifici
retorici ed espressivi, tendenti alla ripetitività, appesantiscono le sue opere. Echeverría punta a trasmettere
il senso del sublime, ma finisce per ricadere nell’iperbole sentimentale.

Le cose migliori si trovano in alcuni passaggi de La cautiva; questo poema è interessante perché presenta la
prima eroina romantica della letteratura ispanoamericana e narra le vicissitudini di due sposi, María e
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Brian, e la loro lotta eroica contro due elementi tipici del sublime romantico: le forze della natura – tra cui
gli indios – e il destino, che appare segnato dall’inizio di questo poema. I due protagonisti e le situazioni che
vivono rappresentavano una novità nel linguaggio poetico, talmente nuovo che l’autore chiama desierto la
zona arida della pampa. La pampa rappresenta lo spazio selvaggio e grandioso che isola i personaggi e li
costringe ad affrontare situazioni tragiche ed eroiche. L’elemento del male è incarnato dall’indio,
rappresentato in modo stereotipato, crudele e sanguinario. L’amore che unisce i due sposi è l’elemento
positivo, una forza che sfida il fato e l’ambiente inospitale e desolato in cui si trovano ad agire i due
personaggi. Altro elemento che spicca è il tema della prigionia tra gli indiani e questo sarà uno dei temi del
Romanticismo americano. Echeverría acutizza il conflitto tra civiltà e barbarie usando come personaggio
principale una donna che appare vittima degli indiani, perde un figlio, organizza e conduce la fuga
unitamente col marito, che però è ferito e risulta un peso morto per María. Quest’ultima, dopo essere
fuggita dall’accampamento degli indiani, vaga per il desierto e verrà trovata da una pattuglia di soldati. Alla
fine, morirà per le grandi privazioni sofferte e, soprattutto, alla notizia che il figlio – che credeva di poter
ritrovare – è stato ucciso durante un’incursione degli indiani nel borgo in cui lei viveva col marito e da cui
loro erano stati rapiti.

Gli aspetti meno drammatici ricordano quelli di un libretto d’opera, dove l’ipertrofia sottolinea i momenti
più drammatici. Ad appesantire il testo contribuisce la versificazione, che, nonostante sia costituita da una
varietà di metri, tende a essere un po’ monotono. Dal punto di vista dell’organizzazione sul piano narrativo,
è un testo ben riuscito perché ogni canto costituisce un’unità caratterizzata da un particolare sviluppo
tematico dell’azione. Il merito maggiore è di essere stato tra i primi a rappresentare la pampa argentina e di
fare di questo ambiente un simbolo dell’Argentina. Implicitamente, La cautiva mette in scena il dilemma tra
il fascino del primitivo e gli ideali della civiltà di stampo europeo. Pur con tutti questi limiti, con questa
composizione Echeverría incarna l’inizio della poesia nazionale, che si svilupperà nella letteratura
gauchesca, che trova nell’ambiente della pampa l’elemento dello sconfinato e dell’ignoto, caro
all’immaginazione romantica.

Echeverría è famoso come prosista, per aver scritto il racconto El matadero, considerato suo vero
capolavoro; è una tra le prime narrazioni in prosa della letteratura latinoamericana; rappresenta temi,
ambienti e un linguaggio autenticamente americani. È un testo notevole da più punti di vista: per il risultato
artistico; per la proposta estetica innovativa – è un testo che si avvicina molto al Realismo e al Naturalismo;
per la forte denuncia politica che esprime, tanto che lo si può considerare il prototipo del romanzo sulla
dittatura, che si sviluppa soprattutto nella seconda metà del ‘900. Questo racconto fu scritto nel 1839,
quindi poco prima che Echeverría andasse in esilio. Tuttavia, venne pubblicato sulla Rivista del Río de la
Plata solo nel 1871 da un amico dell’autore, quindi questo ritardo impedì una ricezione tempestiva di
questo racconto. Gli elementi cruciali sono tre:

 La descrizione del mattatoio, che rappresenta il dominio del dittatore Rosas. Questa è una
rappresentazione naturalistica, con personaggi che si muovono all’interno del mattatoio e, in un
periodo di carestia, cercano di accaparrarsi quel poco che si trova nel mattatoio.
 L’improvvisa comparsa del protagonista, un giovane unitarista che viene identificato dagli sgherri di
Rosas e sottoposto a un’umiliante tortura che si concluderà con una morte dignitosa. Il mattatoio,
dunque, è un’allegoria del regime rosista. Le immagini sono impressionanti, grottesche e violente
(per esempio, la decapitazione accidentale di un bambino) e mostrano alcune analogie con opere di
pittori come Goya (Los desastres de la guerra). Ciò che vuole comunicare l’autore è che nel
mattatoio non si ammazzano solo animali, ma anche uomini, perché l’esercizio della legge è
metaforicamente affidato a dei macellai. In questo senso, rappresenta un’allegoria efficace
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

dell’Argentina sotto il regime di Rosas. La narrazione funziona bene anche perché il testo è
percorso da una vena ironica, sarcastica e critica che ha come bersaglio la figura di Rosas e il suo
regime. Non si tratta, però, di un’ironia che ha l’obiettivo di divertire il letto; al contrario, il
sarcasmo è la chiave stessa del linguaggio e della struttura, quindi è il veicolo attraverso cui l’autore
esprime una condanna morale di un sistema repressivo, sostenuto anche dall’autorità della Chiesa,
e questo regime aveva prodotto un rovesciamento dei valori sui quali era stata fondata la nuova
nazione argentina: se la dittatura è un mondo alla rovescia dove gli assassini sono i moralisti e i
macellai sono i giudici, allora il vero ordine non può essere altro che quello della ribellione in nome
dei principi dell’umanità.
 Il protagonista viene catturato, portato nel macello e lì inizia una processo-farsa, poi viene
sottoposto a una tortura e, durante questo momento, essendo imprigionato, non riesce a
contenere la sua rabbia, quindi muore d’infarto. C’è l’immagine di un eroe che resiste fino alla fine,
ma che muore perché non riesce più a contenere la rabbia di fronte alle umiliazioni che sta
subendo.

La cautiva (1837)

Fu considerato un testo celebre ai suoi tempi. Gli intellettuali e scrittori argentini dell’epoca lo
apprezzarono soprattutto perché viene rappresentato il paesaggio nazionale, oltre che perché propone
elementi che saranno importanti nella letteratura nazionale argentina, come il legame tra europei e
criollos. Il Romanticismo si oppone alla cultura classica europea e preferisce la cultura popolare e il
nazionalismo. Questi temi, per Echeverría, sono molto importanti e il poema si dedica a creare, nella
letteratura, nuovi ambienti e nuovi temi. Secondo questi principi, Echeverría include nella sua opera i modi
di parlare, i paesaggi e alcuni problemi sociali. Nel prologo al poema, Echeverría afferma che la sua
intenzione è dipingere alcuni tratti della fisionomia fisica del deserto. Questa intenzione influenzò, in
seguito, anche l’emergere della letteratura gauchesca, il cui massimo esponente fu José Hernández con El
gaucho Martín Fierro. La cautiva viene pubblicato due anni dopo l’inizio del secondo mandato di Rosas
come governatore di Buenos Aires. È molto presente la questione dello scontro con gli indios, quindi il tema
del confine, così com’è importante la descrizione del rapporto tra i criollos (discendenti degli spagnoli, i
bianchi) e quelli che vengono definiti come barbari, quindi gli indios. Tale questione è storicamente
importante perché Rosas conduce una missione militare nella pampa e queste campagne erano spedizioni
al fine di sterminare o spingere gli indios più a sud del loro territorio, quindi essere in grado – i criollos – di
sfruttare quelle terre per l’allevamento. Queste incursioni si ripeteranno per tutto il XIX secolo, nel
tentativo di estendere i confini dello Stato argentino sempre più verso sud.

La vicenda è narrata da una voce poetica che si esprime in terza persona, è onnisciente. All’inizio della
narrazione, il punto di vista è più generale, ampio, e man mano che l’azione procede, l’attenzione dell’io
lirico si concentra sui due protagonisti e sulla loro dimensione psicologica. La poesia è organizzata in nove
parti, cui si aggiunge un epilogo.

Questa composizione è preceduta da un prologo. È subito esplicitata l’idealizzazione dei due personaggi
principali. C’è una dimensione nazionalistica di Echeverría: la pampa dovrebbe essere lo specchio
dell’Argentina. Il testo che si propone, già nel prologo, come elemento della cultura nazionale. Echeverría,
per questo poema epico, usa vari metri, in particolare quelli caratteristici della poesia popolare,
organizzandoli secondo varie strofe. Il tono è eroico e solenne, in particolare quando si esaltano le virtù di
María o quando viene descritto il paesaggio. María è una creola che abita al confine con i territori abitati
dagli indiani, viene catturata insieme al marito e ad altri bianchi durante un’incursione e, nonostante ciò,
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

riesce a liberarsi e a fuggire e a liberare il marito – ferito. Dunque, si inoltrano nella pampa, anche se,
nell’ultimo capitolo, Brian muore. Anche lei morirà quando una truppa di soldati le comunicherà che suo
figlio è stato ucciso. Brian è il coprotagonista ed era stato un soldato nella guerra d’indipendenza argentina.
Ha un atteggiamento fatalista e non spera mai di tornare a casa vivo – anche per questo risulta un peso
morto per la moglie. Gli indios sono una comunità che abita la pampa, sono descritti come selvaggi,
animaleschi, sono dei nomadi e attaccano gli insediamenti rurali dei crillos, in cui rubano cavalli e fanno
prigionieri. Se la poesia si concentra sui due sposi, anche dal punto di vista della descrizione psicologica, la
stessa cosa non succede per gli indiani, presentati come entità collettiva e assimilati alla natura in quanto
elemento distruttivo. Fra le tematiche, troviamo:

 La presenza del deserto: La cautiva è la prima opera letteraria argentina in versi a descrivere il
paesaggio locale, come afferma l’autore stesso nel prologo.
 La dicotomia civiltà-barbarie: La cautiva raccoglie e sintetizza temi non ancora affrontate in opere
argentine, ma effettivamente presenti nella società del tempo – quindi l’opposizione è un elemento
comune nella letteratura argentina ottocentesca e sarà ripresa dal Facundo. Civilización y barbarie
di Sarmiento. Questo tema sarà ricorrente nella letteratura gauchesca, come nel Martín Fierro di
Hernández.
 La natura ostile: a differenza dei romantici europei, che vedono nella natura un paesaggio
tendenzialmente idilliaco, di cui apprezzano l’esotismo, Echeverría fa scontrare i suoi personaggi
con una natura selvaggia e ostile. Gli elementi della natura operano contro gli obiettivi dei due
prigionieri in fuga. Gli indiani, gli animali e il fuoco da cui scappano sono tutti elementi della natura
che si oppongono al loro destino.
 Il tema dell’amore romantico e tragico percorre tutta la composizione e spiega molte azioni dei due
sposi. María è una tipica eroina romantica dal carattere appassionato, che agisce spinta dall’amore
per il figlio e per il marito. La storia d’amore tragica è un tema ricorrente nelle opere romantiche.
Ne La cautiva, il dramma dei due protagonisti dà forza ed efficacia al tema del confronto tra cultura
e natura, civiltà e barbarie; questo dramma conferisce al poema una dimensione epica.

Il primo canto presenta l’ambiente, quindi la pianura sconfinata della pampa, rappresentata come uno
spazio affascinante e potenzialmente ricco, ma, al tempo stesso, è ambiente ostile emblematizzato dalla
presenza dell’indio. Le Ande si scorgono in lontananza.

Nella prima strofa, si trova una descrizione prettamente geografica. La pampa è assimilata al mare, cioè il
luogo dove l’uomo si deve misurare con la propria solitudine e la propria fragilità. Lo sguardo non riesce a
trovare un punto di riferimento, appare disorientato da questa vastità apparentemente monotona, che è il
regno di una natura selvaggia che solo l’autore conosce.

È solo dopo aver letto il testo per intero che ci rendiamo conto che tra le bestie feroci si trovano anche
degli umani. Fa la sua comparsa la presenza inquietante degli indios. L’immagine dei cavalli è quella di un
fenomeno ingovernabile, inarrestabile. Le tribù nomadi vivevano cacciando e allevando, oltre che
saccheggiando ai bianchi. Il dominatore di questo deserto è l’indio nomade, fiero, possente, per alcuni
aspetti affascinante, ma sempre rappresentato come entità crudele. Presentato il quadro fugace – con versi
di circostanza che vorrebbero rappresentare questo mondo quasi sconosciuto all’uomo bianco attraverso
una serie di aggettivi e sostantivi che risultano piuttosto generici a un’attenta analisi –, lo sguardo del poeta
torna sulla natura inanimata, sui suoi aspetti affascinanti. L’immagine trasmessa al lettore è, comunque,
quella di un mondo salubre ma severo.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

In questa decima c’è l’immagine del poeta romantico, l’unico che può descrivere questo ambiente col suo
genio. Il genio è inteso come colui che ha una sensibilità tale da poter cogliere gli aspetti del meraviglioso
della pampa. L’arte sembra quasi negare sé stessa, qui di fronte alla natura, tanto che la creatività on
sarebbe in grado di rappresentare la realtà fisica di questo luogo. Allo stesso modo, la razionalità
identificata nella filosofia non saprebbe competere con la capacità della natura immanente di comunicare
la sua essenza attraverso l’empatia. Ecco perché soltanto lo spirito romantico, in virtù della sua sensibilità,
può cogliere questa essenza grandiosa della pampa.

Sta calando la notte e questo prelude a un’altra descrizione del tramonto. La visione è stereotipata
attraverso l’immagine della bionda chioma dell’astro, i prati verdi, il cielo azzurro, ecc. Alla fine, mette
l’accento sulla dimensione misteriosa e arcana di questo ambiente che sta per essere coperto dal
crepuscolo, quindi dalla notte.

Ritornano: l’immagine della brezza, che viene assimilata a un uccello; l’immagine del mare d’erba, che è
delicatamente animato dal vento e che sembra zittire ogni manifestazione di attività animale. In quasi tutti i
verbi utilizzati, si trova una connotazione umana per descrivere gli elementi della natura.

La pampa era popolata da mandrie di cavalli selvatici, introdotti già nel ‘600 dagli europei ma abbandonati
a sé stessi già in epoca coloniale; rappresentavano una delle ricchezze della pampa. Compare un altro degli
animali tipici della pampa: «El yajá» è un uccello emblematico in questo poema, perché assolve una
funzione poetica ed è un uccello che tende ad avvertire i pericoli e, quando lo fa, produce questo verso
onomatopeico che dà il nome all’uccello stesso. Quindi, nell’immaginario popolare, viene associato alla
presenza di qualcosa di ostile e pericoloso. Nel momento del tramonto, è soltanto la dimensione indomita
della pampa che manifesta la sua presenza.

Con la scomparsa della luce, sembra che tutto giaccia nella calma, ma questo calare della notte non è
foriero di un’atmosfera serena, anzi il buio assume caratteri cupi che, da un lato, presagiscono la sorte dei
due protagonisti – non ancora comparsi in scena – dall’altra preannunciano la comparsa del dramma,
ovvero i feroci indios.

16/03/22

Il sudario connota tutta la vicenda e presagisce a fine dei due protagonisti. Anche la calma entra nella
progressiva rappresentazione negativa di ciò che sta per accadere. A questo punto, annunciato da un
frastuono di zoccoli di cavalli, fa la sua comparsa in scena l’elemento selvaggio per antonomasia: l’indio, la
tribù barbara, antagonista della civiltà europea. Di fronte alla sua presenza terrorizzante, dapprima
espressa attraverso la dimensione sonora, persino gli animali fuggono. Le immagini sono soltanto auditive.

Dopo questa evocazione affidata al senso dell’udito, nella strofa successiva, il poeta si affida anche alla
vista, con immagini cariche di un dinamismo animalesco e di una forza primitiva. Nella seconda parte di
questa strofa, compaiono gli indios; è proprio la visione da parte dell’umo bianco.

Il poeta inserisce una serie di domande retoriche che richiamano l’attenzione del lettore e danno una
visione misteriosa di questi personaggi. Queste domande suscitandola trepidazione del lettore. Il selvaggio
appare come un sfida empia alla divinità stessa ed è rappresentata come una forza incontenibile che
domina la natura perché, da un lato, rappresenta l’essenza della natura, ma anche perché l’indio vive e
trova rifugia nella natura selvaggia. Queste e quelle che seguono sono immagini che vengono riproposte
accentuandone i tratti più impressionanti.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Inizia la strofa successiva rivolgendosi al lettore. È come se l’io lirico fosse un’entità invisibile che vede gli
indios dirigersi verso il suo accampamento. Troviamo la rappresentazione più impressionante degli indios.
Le teste, sono le vittime dell’incursione. L’indio viene rappresentato come un essere turpe; questa
turpitudine si manifesta nell’ostentazione macabra della crudeltà, quindi le spoglie dei nemici, che
sembrano ancora vivi – una sorta di iconografia del raccapriccio –, come se in questi occhi ci fosse il ricordo
della lotta persa contro gli indios.

In questa strofa si precisa la natura del nemico dell’indio, ovvero l’uomo civilizzato che sfida la natura
selvaggia e i suoi abitanti. Si riferisce ai bianchi, ai criollos. In questa rappresentazione, a prescindere dalla
retorica patriottica e razzista, emerge lo scontro di civiltà che oppone gli invasori bianchi ai nativi.

Questa strofa, da un lato, prosegue il discorso immaginario carico di minacce dell’io collettivo, dall’altro ha
funzione informativa nell’economia del poema, perché sintetizza l’evento all’origine del dramma dei due
protagonisti: gli indios hanno compiuto l’incursione tra i coloni bianchi, saccheggiando e distruggendo le
loro abitazioni e rapendo donne e bambini. Nella poesia c’è una sorta di connubio tra l’indio e il cavallo. La
notte sembra non voler vedere lo spettacolo di questa massa di guerrieri indios.

Termina il primo canto. All’inizio della seconda parte (El festín), si riprende la stessa situazione: la scena
notturna. Vengono descritti immagini e suoni del paesaggio, compaiono degli spiriti che rimandano a una
leggenda molto diffusa nelle aree rurali e si dice che questi spiritelli siano le anime in pena di coloro che,
dopo la morte, non stati sepolti. Quindi, ricompare il gruppo di indios, tornati dall’incursione e portano con
sé un bottino che hanno strappato ai bianchi (cavalli, puledri e, naturalmente, giovani prigionieri). Gli
indiani riposano e accendono un falò per celebrare la loro impresa. Una volta terminato il pasto, gli indios
iniziano a bere alcolici e a litigare a causa dell’ubriachezza. Compare uno dei due protagonisti, Brian, il
quale è stato catturato e, in un momento concitato, riesce a liberarsi e a uccidere un paio di indios, fino a
quando viene sopraffatto dagli altri e sconfitto. Gli indios si calmano e vanno a riposare. Le grida di dolore
dei moribondi si mescolano al russare degli ubriachi e al rumore degli animali selvatici.

Il terzo canto (El puñal) è uno dei momenti topici di questo poema: dopo la festa, gli indiani dormono
profondamente, sembra quasi che siano morti; i prigionieri sono svegli e attenti, cercando di cogliere la
possibilità di fuggire. In lontananza, si sente un debole suono e si vede un’ombra di forma umana che lotta
contro un indio, lo prende sotto il suo piede, poi si sente un ululato. Si vede una donna che camminna
cautamente nell’erba, assicurandosi che gli indiani non la vedano. Ha in mano un pugnale insanguinato e
appare stravolta: si tratta di María, che sta cercando il marito. La donna inciampa in uno degli indiani
addormentati e questi cerca di muoversi. Prima che si svegli, la donna lo sgozza pugnalandolo: abbiamo già
un’immagine di María che non è una donna angelo del focolare, anzi abbiamo un’inversione del paradigma.
La donna trova Brian legato mani e piedi e ferito. Appena lo vede, lo bacia e lo tocca per vedere se fosse
ancora vivo o meno. Poi, col pugnale, taglia i lacci di Brian e lo libera. Brian riprende conoscenza e, quando
riconosce sua moglie e ricorda l’accaduto, le dice che se gli indiani hanno abusato di lei durante l’incursione
o durante la prigionia, lei non è più degna di lui. È una breve scena che mette in luce il maschilismo, ma
anche il totale obnubilamento di Brian. María fa finta di non sentire e gli chiede di alzarsi, incoraggiandolo a
fuggire con lei nella pampa. Il marito, che si rende conto della sua condizione, la prega di lasciarlo morire e
la sprona a partire da sola. Entrambi iniziano ad allontanarsi dall’accampamento, ancora immerso
nell’oscurità. In questa sezione, il paesaggio viene riconfigurato: se nel primo canto la pampa può avere una
connotazione positiva – spazio sublime di cui si esaltava la grandezza –, qui il mondo naturale è un ampio
spazio in cui non hanno cibo né acqua. Visto che gli indios si risveglieranno, sanno anche di dover cercare
quanto prima un rifugio.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

La quarta parte (La alborada) si apre con il mattino dopo la fuga di María e Brian: gli indiani stanno ancora
dormendo e il foco delle narrazione si posta su una truppa di soldati argentini. Prima appaiono due soldati
in avanscoperta su una collina che scorgono l’accampamento degli indios. Questi due esploratori tornano
sui loro passi e avvertono il resto dei loro compagni. Quindi, uno squadrone di criollos appare armato di
lance e fucili e si getta sull’accampamento; gli indiani si svegliano e notano la trappola. I guerrieri più
coraggiosi resistono e combattono come meglio possono, ma i criollos uccidono tutti, compresi donne e
bambini – è la vendetta per l’incursione subita.

Nel quinto canto (El pajonal), María e Brian sono in fuga. L’esergo del canto è un estratto di Dante, così
come nel secondo canto.

Fuggiti dall’accampamento degli indios, María e Brian hanno errato nella notte fio a quando, all’alba, si
ritrovano in una vasta zona della pampa coperta di fitta vegetazione nella quale possono nascondersi,
perché credono ancora che gli indios li possano inseguire.

Inizia la descrizione del calvario di Brian, che non è quasi più in grado di camminare. La moglie viene
rappresentata come un angelo, nel senso di una creatura quasi divina. Anche il nome non è casuale. L’unico
soccorso che ha Brian è quello della moglie, la quale lo conforta come può. María è emissaria di una divinità
che, in tutta la vicenda, appare lontana, se non assente. Il poeta definisce l’atteggiamento di María come
«aquellas palabras tiernas, o armonías misteriosas, que sólo manan fecundas del labio de la mujer».

Riposano al riparo di questo canneto che li nasconde. In questo momento, la salvezza è temporaneamente
rappresentata dalla natura selvaggia nella quale cercano nascondiglio. Non sapendo che gli indios sono stati
sterminati, non sanno neppure che la loro salvezza, in realtà, non consiste nell’addentrarsi nella pampa,
bensì nel ritorno all’accampamento, dove avrebbero trovato i soldati a salvarli. Il destino non vuole così,
infatti è contro María e Brian, i quali si troveranno proprio a scontrarsi con il destino. Qui c’è una
rappresentazione che ha connotazioni quasi infernali; appare un mondo dominato dalla lotta per la
sopravvivenza, che l’autore rappresenta attraverso immagini di decomposizione e di morte, che anticipano
la presenza di altri elementi gotici che appariranno nei canti successivi, dove si trovano immagini tenebrose
che riguarderanno direttamente i due protagonisti. La lotta per la sopravvivenza caratterizza la natura
selvaggia e la morte degli animali acquatici scatena la voracità degli animali predatori, che si cibano di
questi cadaveri e l’ambiente di questa palude prende le connotazioni di uno Stige. Del resto, Echeverría usa
ben due esergo (nel secondo e nel quinto canto) tratti dalla prima cantica de La Divina Commedia. Gli
animali morenti di possono assimilare alle anime dei dannati e gli uccelli predatori ai demoni aguzzini.
Il páramo è quella regione dove non cresce altro che erbe selvatiche e che ha una connotazione di
desolazione. Già questi due eroi si trovano in condizioni estremamente precarie. A ciò, si aggiunge la vista
di un paesaggio desolante e sinistro, perché anche questa rappresentazione della morte e della lotta per la
sopravvivenza non può risollevare l’animo dei due. L’unico elemento positivo che il poeta può evocare per i
due protagonisti è l’oblio del passato, di felicità domestica, che, se tornasse alla memoria dei due sposi,
renderebbe ancora più atroce la loro sorte.

María, però, non si perde d’animo e, con caparbietà, guida il marito in questa fangaia alla ricerca di un
luogo sicuro in cui riposare e cercare di riprendere le forze per tornare ala civiltà. Riescono a trovare un
temporaneo rifugio in cui stare. Nella tradizione guaraní e di altri popoli della pampa, il trampoliere è un
uccello che viene concepito come profetico – il suo canto viene lanciato quando scorge qualcosa di
minaccioso –, ma è anche, nella tradizione e nelle leggende popolari dei guaraní, emblema della fedeltà
coniugale. Naturalmente, qui c’è un legame simbolico con il rapporto che María ha con Brian. Ancora una
volta, María appare come una figura materna e provvidenziale. Da notare l’inciso, posto tra parentesi, in cui
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

si trova una descrizione che denota una conoscenza diretta sul piano naturalistico. Messo al sicuro, Brian
cade in uno stato di totale prostrazione. Questa scena di María con, frale braccia, il marito evoca l’icona
della deposizione di Cristo dalla croce (La Pietà i Michelangelo). Anche per questo il nome della
protagonista è marcatamente simbolico ed evocativo. Il dolore di María è rappresentato come
incomunicabile attraverso la parola. Questa valenza cristologica della donna di intensifica nei versi
successivi, dove viene raffigurata in un fiore puro ma fecondo, calpestato dal destino e dagli esseri umani. Il
marito è sul nido del trampoliere e lei va alla ricerca di acqua – quello che più le serve in quel momento. Per
un momento, questa natura infernale rivela quello che è una sorta di angolo di paradiso – un ruscello di
acqua pura – salutato da María come un dono divino perché potrà confortare i due fuggiaschi.

María, svelta, torna al luogo dove giace il suo amato, che non è in grado di camminare. Se lo carica in spalla
e lo trasporta con passo lento, espresso anche e soprattutto con l’allitterazione del verso «lleva, lleva, a
paso lento». In questa proiezione che maría fa della sua stessa salvezza in quella del marito, c’è un
elemento che entra in contrasto con questa figura che si presenta come eroica: è come se Maria avesse
necessariamente bisogno di un uomo al suo fianco, per quanto questi sia nella condizione di essere soltanto
un peso e di non poterla aiutare. Riemerge, dunque, la misoginia.

Anche se lei bagna il viso di Brian, lui non reagisce, allora lei controlla se fosse ancora vivo, bagnandogli
nuovamente le tempie e la bocca. Il conforto dell’acqua fresca, a questo punto, rianima Brian, così, per il
momento, la lotta tra la morte e a vita si risolve a favore di quest’ultima. Appaiono i segni della lotta per la
sopravvivenza che il povero Brian sta sostenendo. Come sospeso tra sogno e realtà, prende coscienza della
situazione tragica in cui si trovano, della totale impotenza cui è stato ridotto; anche María inizia a esserne
consapevole. Nei versi successivi, c’è la totale dipendenza della donna dall’uomo. María si rende conto
delle condizioni del marito, ma continua a confortarlo con le sue parole, illudendolo di una salvezza; l’unico
sollievo tangibile che può fornirgli è l’acqua fresca e la speranza di un intervento divino che li salvi.

Per la prima volta nel poema appaiono le condizioni di Brian descritte in modo dettagliato. Questa donna
che sta lavando le ferite di Brian rafforza ancora l’immagine di una María premurosa e pietosa – di nuovo,
l’iconografia evangelica delle tre Marie che assistono alla passione di Cristo e ne lavano il corpo – anche qui
si prefigura la morte. Brian sopporta in silenzio il dolore, ma avverte lo sfinimento e sviene. A questo punto,
María, vedendo svenire il marito, immagina che ciò che gli manca non sia solo l’acqua, ma anche il cibo, per
cui si allontana alla ricerca di cibo. Si chiude così il quinto canto, con María che va alla ricerca di qualcosa
con cui nutrire Brian. Per un momento fugace, sembra che il destino si mostri benevolo con i due eroi in
fuga, concedendo loro una tregua.

Nel canto successivo (La espera), cala la notte e i due protagonisti sono ancora nascosti nel canneto. María
aveva pianificato di ripararsi dalla calura e di riposarsi durante il giorno, per continuare la fuga durante la
notte. Tuttavia, la salute di Brian peggiora sempre più. Tentano di andare avanti, ma le condizioni del
marito non consentono di incamminarsi immediatamente: le ferite di Brian si riaprono, per cui María
decide di aspettare il giorno dopo, confidando che l’indomani potranno ricominciare a dirigersi verso la
civiltà. María, però, non si rende del tutto conto – o non vuole rendersi conto – che il marito è prossimo alla
morte. Non si dispera perché pensa che la sua estrema volontà di ritornare sana e salva dal figlio – di cui
non sa più nulla – le consentirà di superare gli ostacoli che incontrerà durante la fuga. La notte si avvicina e,
nella pampa, in lontananza, si scorge una striscia di luce in movimento: la pianura è in fiamme e il fuoco
cresce sempre più, alimentato dal vento. María non sembra accorgersi immediatamente del fuoco che si
avvicina e, contemporaneamente, sente un ruggito che la fa tremare: si tratta di un puma che sta cercando
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

cibo tra i cespugli. Silenziosamente, Maria prende il pugnale, pronta a respingere l’assalto della bestia, ma
l’animale non li attacca e se ne va. Termina così il sesto canto.

17/03/22

Il settimo canto (La quemación) si apre con l’ambientazione diurna, però la pianura inizia a bruciare e il
vento alimenta le fiamme e le spinge verso Brian e María. il fuoco è simbolo del potere della natura, ostile
ai due protagonisti, e María, di fronte a questo ennesimo pericolo che si prospetta, chiede all’io lirico di
aver pietà di loro e di salvarli. María si accorge che, dietro di loro, scorre un ruscello profondo e, davanti a
loro, il fuoco avanza. Il ruscello rappresenta la salvezza. Brian, però, non è in grado di camminare per
varcare il ruscello e trovare rifugio. Con la forza della disperazione, María si carica in spalle il corpo morente
di Brian e si getta in questo corso d’acqua: con un braccio nuota, con l’altro tiene a galla il marito. Quando i
due protagonisti giungono sull’altra sponda del ruscello, il fuoco sembra interrompere la sua rapida
avanzata e si spegne, lasciando dietro di sé una scia nera di distruzione.

L’ottavo canto (Brian) è uno dei due canti che condensa il dramma di questi due fuggiaschi e inizia a
concretizzarlo nei termini della morte: il nome del protagonista è una sorta di epitaffio, perché in questo
capitolo si verifica la sua morte. È giorno e i protagonisti sono ancora nella pampa. Brian non si muove, è
febbricitante e ormai anche María si accorge che è agonizzante. Quest’ultima, come sempre, sta al suo
fianco, ma è molto scoraggiata e triste, inizia a presagire la morte del marito. Questo è il primo momento in
cui María appare perdere la speranza, pensa di poterlo salvare e che la possibilità di tornare alla civiltà sia
quasi irrealistica. All’improvviso, María sente un fruscio tra i cespugli e riappare il puma, quindi la donna
afferra nuovamente il pugnale. Il puma, invece di attaccarli, continua per la sua strada e si allontana.
Passato questo momento, Brian si risveglia per l’ultima volta e inizia a delirare, raccontando cose senza
senso. A sua volta, María, sentendo la voce di Brian, si sveglia e c’è la scena dell’addio fra i due: Brian
guarda verso il cielo, prende le mani di María, le mette sul suo petto e inizia un breve discorso, che è un
breve momento di lucidità che lui ha: dice che la morte, per un soldato, significa l’offerta della propria vita
alla patria e, attraverso una morte da soldato, si ottiene la gloria e la libertà della nazione. L’unica cosa di
cui si rammarica Brian è di dover lasciare la moglie sola e indifesa e di averla coinvolta in questo dramma.
Brian saluta María, le chiede di provare a continuare la fuga e le promette, secondo la retorica del morente,
che un giorno si rivedranno. Alla fine del canto, Brian guarda per l’ultima volta María e muore.

L’ultimo canto è intitolato María. Si apre con la moglie che seppellisce il marito, rivolge una preghiera a Dio
di accogliere la sua anima affinché possa riposare in pace. Sempre più angosciata e sconvolta, María inizia a
camminare senza un obiettivo preciso lungo la sponda del ruscello. Le piante dei suoi pedi sanguinano, ma
prosegue con le ultime forze per due giorni, finché non trova un gruppo di uomini armati. All’inizio pensa
che siano dei nemici, ma, quando questi si avvicinano, scopre che sono un compagnia di soldati della stessa
compagnia nella quale militava Brian. Questi militari sono stupiti nel vederla ridotta a una sorta di
fantasma. La credevano ancora prigioniera degli indios o, addirittura, morta. A questo punto, lei chiede
informazioni sul figlio e i soldati rimangono in silenzio per qualche istante. Il silenzio fa da preambolo al
dramma finale, per poi comunicarle che era stato ucciso dagli indios. María cade a terra e muore di
crepacuore. Il canto si chiude con i soldati che la piangono, celebrano il suo funerale e la seppelliscono. A
questo nono canto, segue un breve epilogo, nel quale l’io lirico esalta i valori e le qualità di María
affermando che l’amore era la sua ragione di vita e ciò che ha causato la sua morte. Il narratore dice che
María ora è sepolta nella pampa e che c’è una croce sulla sua tomba. Questa croce si trova all’ombra di un
albero tipico della pampa e, ogni volta che i viandanti passano vicino a questo albero, dedicano una
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

preghiera a María, la cui storia è divenuta celebre. La gente del posto dice che, nelle notti buie, si possono
vedere due luci che si muovono attraverso la pampa e scompaiono con la luce del sole.

Questo poema è una prima introduzione alla letteratura gauchesca: non compaiono i gauchos, però
compare senz’altro l’ambiente della pampa.

Il gauchesco

La più antica descrizione letteraria dei gauchos e dei loro modi di vita risale alla fine del ‘700 e la si trova in
una sorta di protoromanzo (El lazarillo de ciegos caminantes, 1773), una sorta di cronaca dell’itinerario che
dal Cile, attraversando le Ande, arriva a Buenos Aires; voleva fungere da guida per chi intraprendeva questo
percorso; nei capitoli iniziali, troviamo osservazioni interessanti sulle città di Montevideo e Buenos Aires,
nonché una descrizione degli usi e costumi di coloro che chiama gauderios – un calco di gauchos. Questi
gauchos rappresentano un gruppo sociale che colpì molto l’immaginazione dello scrittore. Nella
rappresentazione che l’autore ci dà di loro, si percepisce nettamente un giudizio esplicitamente negativo,
infatti questi gauchos vengono descritti come poco inclini al lavoro, vagabondi senza cultura che vivono in
uno stato di semi-barbarie, che vivono lontano dai centri abitati, formando una comunità chiusa che non
riconosce autorità o leggi al di fuori dei propri codici d’onore e di comportamento. In questa prima
descrizione dei gauchos compare una riferimento alla loro cultura orale, che appare talmente rozza e
povera di valore artistico da apparire grottesca. Questa connotazione negativa si trova anche quasi un
secolo dopo, con la pubblicazione di Facundo. Civilización y barbarie di Sarmiento, in cui c’è una
rappresentazione estremamente negativa, anche se Sarmiento descrive molto bene le caratteristiche della
professione del gaucho, non ne dà una rappresentazione totalmente negativa, però, nei discorsi di
Sarmiento, il gaucho è associato al mondo selvaggio della pampa, quindi un ostacolo al progresso. Il
Facundo viene pubblicato nel 1845 ed è un testo molto importante per comprendere non solo il pensiero
politico di Sarmiento, ma anche per avere un quadro della realtà storico-sociale argentina nel momento in
cui questa nazione avvia un profondo processo di modernizzazione, che la porterà a fine ‘800 a essere una
delle repubbliche più modernizzate dell’America latina. Nei primi due capitoli, Sarmiento presenta una
panoramica della società, della cultura e della realtà geografica argentine, nonché un’analisi dei gauchos.
Per l’appunto, questi vengono rappresentati come il residuo di una cultura arcaica che dev’essere sradicata,
trasformando questo mandriano nobile e individualista in un allevatore integrato in una società rurale
moderna, ben organizzata ed economicamente efficiente. La letteratura gauchesca colta nasce nei primi
anni dell’Ottocento, con l’opera di un poeta, giornalista e politico di nome Bartolomé Hidalgo, riconosciuto
come l’iniziatore della letteratura gauchesca. Egli si forma sui classici, quindi come poeta neoclassico. La sua
opera si lega al periodo storico delle lotte per l’indipendenza e ne riflette gli eventi politici e bellici. La sua è
un’opera piuttosto ridotta, perché l’autore morì giovane – aveva poco più di trent’anni –, è costituita
prevalentemente da composizioni in versi e la si può dividere in due fasi:

1. La prima (1810-1815) è costituita essenzialmente da composizioni brevi, definita come cielitos,


perché compariva la parola cielito, che fungeva da riempitivo. Questi cielitos sono una poesia
caratterizzata da una profonda passione civile e patriottica, che prende spunto dai moti per
l’indipendenza.
2. La seconda fase coincide con la permanenza dell’autore a Buenos Aires (1815-1822). Questa
seconda parte è quasi interamente composta dai dialoghi patriottici, composizioni poetiche
costruite secondo la forma d dialogo immaginario tra due gauchos, due palladores (gaucho capace
di comporre versi e di immaginare composizione accompagnandosi con la chitarra). Queste due
voci narranti, nel loro linguaggio arguto e ironico, che rappresenta mimeticamente la parlata
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

quotidiana, esprimono il proprio punto di vista e le proprie considerazioni su particolari eventi di


rilevanza pubblica, ma soprattutto sulla situazione argentina, nella quale si trovano coinvolti e di cui
sono costretti a subire le conseguenze. Il tono di questi dialoghi è disincantato e intriso di un senso
di fatalismo e di rammarico. Uno di questi dialoghi (Diálogo patriótico interesante) è una
composizione di carattere marcatamente politico e civile, dove uno dei due protagonisti rievoca
con amarezza il periodo delle guerre d’indipendenza ed esprime tutta la sua indignazione nei
confronti della classe dirigente argentina, colpevole di aver tradito gli ideali per i quali i patrioti
avevano combattuto. Questo aveva portato a generare un clima di ingiustizia sociale.

Verso la fine degli anni ’30, il genere gauchesco subisce un notevole rinnovamento dal punto di vista
creativo, perché comincia a introdursi l’estetica romantica. Nei decenni seguenti, il gauchesco si affermerà
come la corrente letteraria più originale prodotta dalla cultura argentina nell’Ottocento. Questa seconda
fase dello sviluppo di questa letteratura si volge all’insegna del Romanticismo, corrisponde alla piena
maturità artistica del genere ed è rappresentata da tre autori, considerati oggi canonici: Estanislao del
Campo, José Hernandez e Hilario Ascásubi. Il primo autore che apre il periodo aureo della poesia gauchesca
è proprio quest’ultimo, che si considerava erede diretto di Hidalgo ed è autore di un’opera molto vasta che
ebbe anche una grande diffusione. Fu un grande oppositore di Rosas; assimilò la figura del gaucho a un
personaggio eroico che rappresentava la libertà e che incarnava la cultura autentica del popolo argentino.
La sua opera più riuscita è un lungo poema narrativo intitolato Santos Vega: nei 65 canti (15.000 versi),
presenta un mosaico della vita rurale argentina, esaltando nostalgicamente le virtù morali e il modo di
vivere dei gauchos. Questa lunga narrazione lirica è finzionalmente affidata alla voce di un personaggio
leggendario, che è Santos Vega. La scrittura di Santos Vega iniziò intorno al 1850 e continuò per molti anni.
Alcuni frammenti furono precocemente pubblicati nel 1851-52, però quest’opera venne completata da
Ascásubi quando si trasferì in Francia e stampata per la prima volta nel 1872, lo stesso anno in cui verrà
pubblicata la prima parte del Martín Fierro. Proprio la compresenza sul mercato del Martín Fierro ha messo
in ombra la ricezione di Santos Vega.

Estanislao del Campo

È uno scrittore che comincia la sua attività a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento e che contribuisce a
rendere popolare la letteratura gauchesca. Nasce a Buenos Aires nel 1834 da una famiglia liberale della
media borghesia, seguace degli unitaristi. Del Campo riceve un’educazione regolare e, dal punto di vista
artistico, pratica la letteratura colta di ascendenza europea che, in quegli anni, si affermava
prepotentemente in tutta l’America latina. Durante gli anni turbolenti che si avvicinao alla fine della
dittatura di Rosas, del Campo entra prima nell’esercito, quindi nell’amministrazione dello Stato, infine nella
politica, venendo eletto deputato. Le sue grandi passioni furono il giornalismo e la letteratura. La sua
produzione artistica non fu molto abbondante – anche perché morì relativamente giovane (1880) –, ma si
può suddividere in due parti:

1. La prima, dal punto di vista cronologico, coincide con la poesia romantica colta e, pur essendo una
poesia di buona fattura, oggi è praticamente ignorata.
2. La seconda parte è rappresentata dal genere gauchesco, a cui del Campo si avvicina quasi
casualmente, perché bisogna considerare che era un uomo di città e non aveva la conoscenza
diretta del mondo rurale, che avevano tutti gli altri autori della letteratura gauchesca. Il suo
modello fu Ascásubi (che aveva adottato lo pseudonimo di Anastasio el Gallo), di cui si considerava
un discepolo, tanto che, in omaggio del suo maestro, del Campo adottò lo pseudonimo di Anastasio
el Pollo. Tra questi due autori, c’era una forte affinità politica – militarono sempre nel partito
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

unitarista. Rispetto alla scrittura di Ascásubi, quella di del Campo risulta essere di qualità artistica
superiore, soprattutto grazie a una satira più ingegnosa e migliore per l’adozione di uno stile più
rigoroso e raffinato.

Fausto (1866)

Il suo capolavoro è costituito dal poema comico Fausto, pubblicato nel 1866; ottenne subito una grande
popolarità (alla fine dell’Ottocento, questa operetta aveva raggiunto circa 130 edizioni). Il Fausto è il
racconto che il gaucho don Pollo fa all’amico don Laguna delle impressioni che ha suscitato in lui la
rappresentazione dell’opera lirica Faust, messa in scena a Buenos Aires nel 1866. Attraverso il punto di vista
di uno spettatore falsamente ingenuo, del Campo si proponeva di mettere in discussione i pregiudizi che
l’uomo colto di città nutriva nei confronti di coloro che provenivano dalla zona rurale, reputati ignoranti. Il
tema del Fausto alludeva, in tono sarcastico, anche alla dicotomia tra cultura alta (di matrice europea) e
cultura bassa (autoctona). Inoltre, il Fausto costituisce uno dei primi tentativi riusciti, da parte del genere
gauchesco, di appropriarsi di un’opera prestigiosa della letteratura colta – di cui vuole dare una versione
criolla dominata dal gusto per il burlesco e per l’ironia.

Questo poemetto si contraddistingue per la notevole caratterizzazione psicologica dei due protagonisti, due
gauchos, ma tutt’alto che stupidi. Si caratterizza anche per l’uso di un linguaggio molto vivace, ricco di
metafore argute e di espressività che riesce a restituire efficacemente la sensibilità della cultura popolare.
Questa arguzia si riscontra anche in altre composizioni più brevi che del Campo scrisse alla fine degli anni
’60 dell’Ottocento. Un esempio è Gobierno gaucho (1870), in cui il protagonista racconta a un amico che,
durante una sbornia a base di acquavite, ha immaginato di essere un leader politico e di legiferare con la
saggezza e il buon senso che rileva manchino nei leader dell’epoca.

L’idea di scrivere il Fausto venne dopo che, nel 1866, del Campo aveva assistito alla rappresentazione
dell’opera musicata da Guno al teatro Colón di Buenos Aires. Alcuni giorni dopo lo spettacolo, l’autore
decide di rielaborare la leggenda di Faust in chiave comica, trasformandola in un testo che oscilla tra il
poema narrativo e il dialogo. Del Campo era un intellettuale e aveva una certa familiarità con il mondo
dell’opera lirica, tant’è che, poco più che ventenne, scrisse un’opera ispirata a La Traviata di Verdi e, alcuni
anni dopo, aveva lavorato alla traduzione spagnola del Faust, quindi era un testo che lui conosceva
benissimo nella sua versione originale, tant’è che il suo poemetto segue molto fedelmente la struttura del
libretto del dramma musicale. Il Fausto è diviso in sei parti che, tolta l’introduzione, corrispondo ai cinque
atti della rappresentazione lirica. Anche nella trama, il Fausto di del Campo segue rigorosamente gli eventi
della messinscena operistica, che, però, rispetto al Faust di Goethe, è molto semplificata: tutto s’incentra
sulla vicenda amorosa tra il protagonista e Margherita; altro elemento è che molte delle presenze
soprannaturali che si trovano nel Faust di Goethe sono eliminate, con l’eccezione di Mefistofele; dal Fausto
di del Campo è eliminata la dimensione metafisica che caratterizza il Faust di Goethe. Paradossalmente,
questa fedeltà del racconto che don Pollo fa all’amico don Laguna accentua il tono comico della narrazione
e mette bene in evidenza gli elementi di originalità di del Campo, che possiamo considerare consistere nella
dimensione linguistica formale, che riproduce l’immaginario gauchesco; altro aspetto interessante sono le
digressioni dei due gauchos, che costituiscono la parte più interessante e riguardano le descrizioni del
mondo naturale e le descrizioni della sfera femminile e dei sentimenti.

Per quanto riguarda la metrica, si tratta di ottosillabi regolari. Nelle prime parti, del Campo usa varie strofe;
a partire dal secondo canto, cambia lo schema strofico e del Campo, per adeguarsi alla dimensione
popolare del linguaggio, ricorre a quartine, che, essendo più brevi, danno l’idea di un eloquio sciolto, di un
parlare non irrigidito dalla buona dizione; in queste quartine, usa uno schema rimico molto semplice
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

(ABBA); la composizione lirico-narrativa si apre con l’apparizione di uno dei due gauchos, don Laguna, che
giunge sulla riva del fiume nei pressi di Buenos Aires, viene descritto secondo il canone, con iperboli
efficaci, come un abile cavaliere. Come nei canoni di Hidalgo, l’introduzione presenta i personaggi e i loro
cavalli, perché il gaucho deve per forza avere un destriero.

Si definisce come rosao un cavallo che ha un pelame bianco, con riflessi verso il rossastro. Nell’ultimo verso
della prima strofa, sono possibili due traduzioni: una letterale; è possibile che ci sia un’allusione a un gioco
che facevano i gauchos e che consisteva nel lanciare al galoppo l’animale, per poi frenarlo bruscamente in
corrispondenza di un segnale di cuoio messo per terra, chiamato luna.

Cominciano a manifestarsi gli elementi lessicali che riconducono alla parlata orale, con la caduta della d
intervocalica. Nei versi successivi, del Campo descrive l’eleganza e la ricchezza dei finimenti in argento del
cavallo di don Laguna – uno dei pochi lussi che il gaucho si concede per ostentare, in occasioni di giochi o di
feste –, che rappresentano l’orgoglio del gaucho.

Dopo esser giunto sulla riva del fiume, don Laguna smonta da cavallo e toglie la sella al suo destriero;
mentre lo sistema, prima l’animale e poi il padrone si accorgono che nelle vicinanze c’è un altro uomo che
esce dall’acqua col suo cavallo. I due gauchos sono vecchi amici e si rincontrano con grande piacere dopo
lungo tempo.

C’è un’iperbole dell’incontro, che sembra commuovere i due. «El overito rosao una oreja se rascaba, visto
que le refregaba en la clin del colorao»: così come si abbracciano i due gauchos, in un certo senso anche i
due cavalli si mostrano affetto. Dopodiché, c’è un’altra parte del rituale dell’incontro tra gauchos: don Pollo
offre del tabacco e don Laguna, con lo spirito un po’ guascone e ironico, accenna a un episodio che
vorrebbe dimostrare come il so cavallo sia così intelligente e ben addestrato da riuscire a badare a sé
stesso. A questo punto, fumata una sigaretta, don Pollo chiede al suo amico perché si trovi nei pressi di
Buenos Aires, luogo insolito per un gaucho. Questa domanda diventa il pretesto, da parte di del Campo, per
alludere alla situazione sempre più difficile dei gauchos in Argentina. Laguna risponde di aver bisogno di
guadagnare qualcosa. Gringo è probabilmente un’allusione a italiani/spagnoli che cominciavano a
immigrare a Buenos Aires. Guerra si riferisce a degli scontri che l’Argentina aveva con l’Uruguay in quel
periodo e a scontri tra fazioni politiche. Matrero è un sostantivo che significa
perseguitato/fuggitivo/ricercato; il gaucho matrero è quello che ha preso la strada dell’illegalità. Mentre
don Laguna si sta lamentando della sua condizione misera, don Pollo lo stuzzica un po’ alludendo alla
ricchezza dei suoi vistosi finimenti d’argento, al che don Laguna si giustifica dicendo che li ha vinti al gioco –
espediente che del campo usa per dare modo a don Pollo di iniziare il racconto dello spettacolo d’opera. Da
notare gli intercalari tipici dell’oralità e della parlata popolare. A questo punto, Pollo inizia il suo racconto.
Prima, però, va a prendere la sua fiaschetta d’acquavite e invita don Laguna a bere con lui.

18/03/22

Successivamente, don Pollo inizia a narrare dello spettacolo cui ha assistito qualche giorno prima. Era
arrivato lì per caso, attirato dalla folla accalcata fuori e dentro l’edificio. Del Campo usa delle quartine per
rendere più vivace il discorso, quindi il poema. L’immagine del mare in tempesta risulta strana per un
gaucho, abituato al mondo deserto e disabitato della pampa. Dopo che don Pollo ha faticosamente
raggiunto il palco, lo spettacolo ha inizio. Nella calca, don Pollo è stato derubato del suo coltello. A questo
punto, quando lo spettacolo ha inizio, il dialogo assume una connotazione comica che si gioca sulle
ambiguità ironiche e sui malintesi, anche da parte di don Laguna, che molto spesso non riesce a capire,
anche aiutato dal racconto di don Pollo, cosa stia succedendo. Queste sono ambiguità ironiche perché don
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Pollo dà l’impressione di credere che ciò che accade sul palcoscenico sia verosimile, per esempio
l’apparizione di Mefistofele e dei suoi prodigi; questi malintesi sono riconducibili alle interpretazioni
apparentemente ingenue di entrambi i gauchos, ad esempio quando Pollo nomina il protagonista del
dramma e don Laguna crede che si riferisca a un militare uruguaiano di nome Fausto Aguilar, che lui aveva
conosciuto. L’orchestra viene chiamata banda perché le poche volte che aveva assistito a uno spettacolo
musicale era la banda che aveva visto – in un teatro in cui si sta rappresentando un’opera lirica c’è
un’orchestra, ma anche questo connota il linguaggio. Compare, esattamente come nel libretto d’opera, il
primo personaggio: Fausto. Laguna, allora, arriva con il primo fraintendimento. Pollo capisce il malinteso.
«Dos burros del mesmo pelo» è un riferimento popolare.

In una quartina – «Dijo que nada podia con la cencia que estudió que él a una rubia quería, pero que a él la
rubia no.» – riesce a condensare il motivo che regge tutta la rappresentazione, cioè Faust è innamorato di
Margherita, ma è vecchio e da questo nodo amoroso nasce tutta la tragedia. La rappresentazione è quella
di una Margherita che non coincide con quella del Faust: qui è una contadina che va a mungere le mucche.
Appare improvvisamente il diavolo, che, improvvidamente, Faust ha invocato. Laguna si fa il segno della
croce sentendo nominare il demonio. La sortija era un gioco d’intrattenimento popolare ed era un gioco di
destrezza che si faceva a cavallo cercando di infilare un bastone in un cerchio che veniva appeso a un filo,
andando a formare un arco. Il riferimento, dunque, è ancora popolare. A questo punto, don Pollo riporta le
parole di Mefistofele, con quest’ultimo che propone a Faust il famoso patto, offrendogli la giovinezza e
l’amore di Margherita in cambio della sua anima. Alla descrizione del demonio, che rivela lo sgomento di
don pollo di fronte all’apparizione di un essere ripugnante, fa da contraltare la successiva descrizione di
Margherita, rappresentata ricorrendo agli stereotipi della bellezza femminile classico-romantica, filtrata
però attraverso il gusto popolare. Nella replica di Faust, c’è una riduzione di quella che in realtà è la figura
più complessa del Faust di Goethe. Allora, avviene un colpo di scena anche dal punto di vista scenografico:
«Dio en el suelo una patada, una paré se partió, y el Dotor, fulo, miró a su prenda idolotrada.». Nel
racconto di don Pollo ci sono sempre dei riferimenti all’opera, compresi alcuni effetti speciali dell’epoca che
affascinavano gli spettatori e che del Campo, attraverso questi commenti, demistifica.

Compare anche Margherita, che viene descritta con un’allusione alle statue di cera che si trovavano nelle
chiese e la rappresentazione della Vergine era quella di una donna dall’aspetto angelico, quindi questa
bionda angelica appare a Faust. A questo punto, Faust accetta il patto e, in cambio dell’anima, chiede di
tornare giovane. Il diavolo compie il prodigio, che, nella sua spettacolarità scenografica, impressiona don
Pollo, il quale continua a far credere al lettore e al suo interlocutore di non saper distinguere tra finzione e
realtà. Tuttavia, che i due gauchos siano tutt’altro che scemi si capisce facilmente dal tono di alcune loro
considerazioni improntate al buon senso-ironia, manifestato soprattutto nel giudicare il comportamento di
Faust, che si comporta in modo folle.

Il Diavolo comanda a Margherita di scomparire – è una visione quella che appare a Faust. Inizia una delle
prime digressioni liriche di don Pollo, che interrompe il racconto per descrivere l’impressione che l’aurora e
il mare gli hanno suscitato. Questa digressione susciterà le proteste di don Laguna, che sta aspettando di
sapere cosa sia successo allo spettacolo. Allora, don Pollo riprende a narrare con il secondo atto dell’opera,
che si svolge in una taverna, dov’è presente il fratello di Margherita, Valentino, in procinto di partire per la
guerra e affida alle cure dell’amico Silverio la propria sorella. Il riferimento che ha don Pollo non può che
essere quello del mondo vissuto, si tratta di un’interpretazione un po’ ingenua – così tanto da sembrare
inverosimile. A un certo punto, fa il suo ingresso Mefistofele, che, prima, si esibisce in un prodigio, con
tanto di esplosioni e acqua che si trasforma in sangue; dopodiché, predice a Valentino che presto morirà. Il
giovane capitano rimane turbato e offeso dall’atteggiamento dell’uomo, tanto che estrae la sua spada e
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

sfida a duello il demonio; questi, con un altro sortilegio, non appena incrocia la spada di Valentino, che
comprende di avere a che fare con un essere satanico, questa si spezza, quindi Valentino, che rimane con
l’elsa in mano, forma una croce e mette il demonio in fuga. Mefistofele, dopo il putiferio scatenato nella
taverna, si allontana, imbattendosi in Faust, il quale gli chiede di incontrare Margherita; il Diavolo lo
accontenta subito e fa apparire la donna a un ballo. Faust la avvicina, tuttavia Margherita respinge le sue
offerte, quindi lo spasimante chiede ancora una volt aiuto al demonio. Si chiude così anche questo atto.

I due gauchos fumano una sigaretta e bevono un sorso di acquavite, quindi don Pollo riprende la
narrazione, con Faust che cerca di incontrare e sedurre Margherita. Il canto termina con don Laguna che
invita l’amico a fumare un’altra sigaretta.

Don Pollo, che dovrebbe riprendere la narrazione del terzo atto (quarto canto dell’originale), dice all’amico
di avere un po’ fame, ma don Laguna, preso dalla vicenda di Faust, chiede che prosegua con il racconto.
Questo atto è ambientato nella casa in cui vive Margherita e qui don Pollo si dilunga a descrivere il giardino,
paragonandolo con falsa ingenuità alla dimora di una delle famiglie più altolocate di Buenos Aires. Dunque,
il gaucho inizia una delle sue solite digressione, questa volta incentrata sul tema sentimentale e sulle
sofferenze d’amore. Anche qui don Laguna cerca di tagliare corto dicendo che lui, nelle vicende amorose,
bada al sodo e non si lascia irretire dal sentimentalismo romantico. La villa di don Lezama era stata
costruita all’inizio dell’Ottocento a Buenos Aires ed era, allora, una delle dimore più sontuose della capitale.
Oggi, è diventata un parco pubblico. Don Laguna interviene quasi subito per cercare di fermare la
digressione che sta avviando don Pollo. Quest’ultimo, nonostante l’atteggiamento disincantato di don
Laguna, insiste sul tema amoroso suggerito dalla vicenda di Faust e Margherita. Ciò permette a del Campo
di ironizzare su un tema che, nella letteratura romantica allora dominante, era quasi diventato il luogo
comune per eccellenza. Dopo aver fatto questa lunga digressione sugli effetti che un amore non corrisposto
scatena nell’animo umano, il racconto della vicenda di Faust prosegue. Silverio è entrato nel giardino della
casa di Margherita per raccogliere alcuni fiori che lascerà in dono sulla porta di casa a Margherita. Lo
seguono, in segreto, Faust e Mefistofele, i quali lasciano, in parte ai fiori di Silverio, un cofanetto pieno di
gioielli; si nascondono per osservare l’effetto che questo dono improvviso farà su Margherita. Lei inizia a
indossare questi gioielli e, in quel momento, entra in scena la governante, Marta, che rimane impressionata
dai gioielli, tanto che immagina che siano il dono di un ricco spasimante e, cogliendo l’attimo propizio,
Mefistofele si presenta alle due donne. Il demonio seduce la vecchia, la porta via, in modo da lasciare da
solo Faust con Margherita.

28/03/22

Faust, a differenza di quanto successo durante il ballo, riesce a suscitare l’interesse di Margherita, la quale,
in un primo momento, entra in camera lasciando fuori lo spasimante, che col suo corteggiamento si è fatto
troppo pressante. Cala la notte e, dalla finestra della sua camera, Margherita, che si crede sola, dichiara il
suo amore per Faust. Don Pollo inizia un’altra delle sue digressioni, descrivendo il sorgere dell’alba e
ricorrendo al suo stile lirico di taglio popolare. Questo è uno dei brani più riusciti dell’intera opera. È una
sorta di mescolanza tra una poesia bucolica classica ed elementi classici – tutto in chiave gauchesca. Sorge
l’alba e ricompare Mefistofele in parte a Faust, rimasto tutta la notte ad ascoltare Margherita dalla finestra.
A questo punto, il Diavolo esorta Faust a entrare dalla finestra nella camera di Margherita, che viene
sedotta e si abbandona tra le braccia del suo spasimante. Si chiude così il terzo atto.

All’inizio dell’atto successivo, parte del dramma si è consumata: Margherita è disperata per il rimorso, per
aver ceduto al corteggiamento di Faust. Qui inizia una nuova digressione di Don Pollo, stavolta dedicata alla
descrizione dramma della giovane Margherita. Don Pollo confessa a Don Laguna che, vedendo questa scena
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di pentimento, si è commosso; Don Laguna, di fronte al sentimentalismo dell’amico, lo prende in giro. Don
Pollo fa una sorta di critica al machismo e la fa insistendo sulla condizione di Margherita. Questo discorso è
molto convincente e ricco di pathos, tanto che Don Laguna si dichiara convinto e commosso dalle parole
dell’amico. Tagliare la treccia significa denunciare che la donna è stata sedotta. Distrutta dal dolore,
Margherita cerca il conforto della fede e si reca in chiesa. Sulla soglia, la donna incontra Mefistofele, il
quale le ricorda la sua colpa e le predice la dannazione: Margherita è ancora più sconvolta e fugge
rifugiandosi in casa sua. A questo punto, il Diavolo e Faust si recano sotto la finestra di Margherita e
iniziano a fare una serenata, in modo da far affacciare la donna. La parte in cui Don Pollo dice che
Mefistofele è un grande chitarrista fa riferimento a una leggenda molto popolare fra i gauchos: un payador,
un cantore gaucho che aveva sfidato il Diavolo e, in una versione, riesce a vincerlo. Mefistofele canta la sua
serenata, ma sulla scena giunge Valentino, ritornato dalla guerra e furibondo per ciò che è accaduto alla
sorella. Per vendicarsi dell’offesa subita, sfida a duello Faust, che però, grazie agli incantesimi di
Mefistofele, riesce a sconfiggerlo facilmente. Margherita vede il fratello morire, così è ancor più lacerata dal
dolore.

Impazzisce e l’ultimo atto si apre nuovamente con una digressione di Don Pollo, che descrive la fragilità
della donna e la caducità della bellezza e della giovinezza – corpo estraneo alla poesia gauchesca. Questo
discorso di don pollo lascia presagire che il dramma di Margherita si concluderà tragicamente. L’ultimo atto
è ambientato nella prigione della città, dove la donna è stata rinchiusa in attesa di essere giustiziata perché,
in preda al dolore, ha ucciso il figlio avuto dalla relazione con Faust. Poco prima dell’esecuzione, Faust
chiede a Mefistofele di poter vedere per l’ultima volta la donna. Grazie alle arti magiche del Diavolo, Faust
e Margherita si ritrovano nella cella di quest’ultima. La donna, dopo aver vaneggiato senza essere riuscita
neppure a riconoscere il proprio seduttore, in un momento di lucidità, fissa negli occhi Mefistofele e,
riconoscendo il male assoluto, invoca Dio e, improvvisamente, muore. Sembra che Mefistofele abbia
trionfato, ma, nella scena finale, si vede Faust disperato per il male commesso e l’anima di Margherita che,
perdonata dalla bontà divina, ascende al cielo. Compare l’arcangelo Michele, che sguaina la spada e mette
in fuga Mefistofele, che scompare sottoterra.

Così com’era iniziato, i due gauchos vanno a celebrare il racconto in versi che ha fatto don Pollo, quindi
vanno insieme a mangiare in una taverna dove Don Laguna, a titolo di ringraziamento, offre la cena
all’amico.

Quest’opera ebbe un grande successo di pubblico, ma la sua fama fu presto superata dall’opera più
rappresentativa del filone gauchesco, ovvero il Martín Fierro.

El gaucho Martín Fierro

È un poema narrativo costituito da due parti nettamente distinte: la prima è conosciuta come La ida. Fu
pubblicata nel 1872 ed ebbe un grande successo sia tra il pubblico colto sia tra i semiletterati sia tra gli
illetterati. A questa prima parte, che si conclude con un finale aperto, seguì, nel 1879, la seconda parte: La
vuelta. È una parte molto più prolissa (33 canti) e mette in scena il ritorno del protagonista alla civiltà e il
suo incontro con i due figli, di cui aveva perso le tracce. Essi narreranno le vicende in cui sono incappati
dopo che il padre era stato arruolato forzosamente nell’esercito e mandato alla frontiera a combattere gli
indios. La vuelta, che mantiene lo stile e il tono della prima parte, è senz’altro meno popolare rispetto alla
prima parte; La ida, infatti, si presenta più densa ed efficace, formata da 13 canti per un totale di circa
2.500 versi (contro i 5.000 della seconda).

José Hernández
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

A differenza di tutti gli altri autori gaucheschi, José Hernández, nato nel 1834 e morto nel 1886, durante
l’infanzia e la giovinezza visse a diretto contatto col mondo gaucho. La sua vita pubblica inizia nel 1853 ed è
il momento in cui è caduto Rosas. Con la sua caduta, Hernández comincia a praticare giornalismo e politica,
militando tra i federalisti per difendere i diritti di contadini e allevatori delle zone rurali contro gli interessi
economici e finanziari degli affaristi delle città, che avevano iniziato una fase di crescente espansione. In
questo suo schierarsi con il partito federale, Hernández rappresenta un’anomalia tra gli scrittori e gli
intellettuali dell’epoca, perché erano quasi tutti di fede unitarista; negli articoli riformisti che pubblica sul
Río de la Plata, da lui fondato e diretto, compaiono alcune delle idee di fondo che si manifesteranno in
forma creativa nell’opera. Il Martín Fierro esplicita una protesta contro la visione politica, economica e
sociale di uomini di Stato come Sarmiento, che, per forzare la modernizzazione del Pese, avevano avviato
una serie di riforme che seguivano i modelli del liberismo economico di Paesi europei come Inghilterra e
Francia e degli stessi Stati Uniti; erano riforme attraverso le quali i politici argentini si proponevano di
sradicare la barbarie – a loro avviso, incarnata dai gauchos e dal loro mondo – e diffondere la civiltà,
identificata con la cultura urbana e l’inizio dell’economia industriale. Questa concezione di modernizzazione
forzata trova la sua espressione esemplare nel Facundo di Sarmiento. Hernández, con il Martín Fierro,
intendeva rovesciare l’immagina negativa del gaucho e di denunciare, attraverso l’eroe, le ingiustizie a cui il
tipo sociale costituito dal gaucho era stato sottoposto negli ultimi decenni e mostrare come il gaucho
incarnasse lo spirito più autentico della nazione argentina. Hernández era al corrente della tradizione
letteraria gauchesca, quindi era consapevole che le opere di Ascásubi e del Campo avevano avuto il merito
di mettere in primo piano il gaucho, ma ne avevano fatto un ritratto più pittoresco che autentico. Per
comprendere la portata artistica e sociale del Martín Fierro, bisogna correggere il ritratto un po’
superficiale del gaucho e, per l’altro verso, intende contraddire la visione rurale del gaucho sostenuta dai
politici positivisti filoeuropei. A prescindere dall’intrinseco di opera letteraria, il Martín Fierro fu concepito
da Hernández come testo che intendeva diffondere un messaggio politico e sociale; per accentuare questo
aspetto, egli ricorre all’artificio retorico di far parlare direttamente il protagonista, permettendogli di
manifestare il suo punto di vista e la sua protesta attraverso il linguaggio gergale e ricco di metafore tipico
della cultura orale dei gauchos. Il Martín Fierro può essere considerato una sorta di autobiografia etica in
cui l’eroe racconta le sue avventure attraverso il canto; 11 canti sono affidati alla voce dell’eroe, mentre gli
altri due sono affidati a Cruz, una sorta di alter ego di Martín Fierro. La vicenda che questo racconto in versi
racconta è la storia di un uomo onesto che, perseguitato dall’arbitrio delle istituzioni, si trasforma in un
delinquente ed emarginato; Hernández evita però di ridurlo ad uno stereotipo e ne dà un ritratto molto
realistico e verosimile, tanto che si può parlare di un’opera in cui l’estetica romantica si fonde con i principi
compositivi e ideologici del Realismo letterario. Martín Fierro tende ad apparire come un personaggio a
tutto tondo, un individuo con i suoi pregi e con i suoi difetti che contribuiscono a precipitarlo nella sua
condizione di reietto e di emarginato (es. manifesta un’indole razzista). Martín Fierro considera la donna un
oggetto più che un soggetto e non si fa scrupolo di ricorrere alla violenza. Del resto, fierro allude al coltello,
che si trasforma in arma mortale. Cruz, che appare come personaggio positivo, è tutt’altro che privo di
ambiguità morali e agisce spesso in preda all’ira e con cinismo.

Il poema inizia con la presentazione del racconto in versi che Martín Fierro farà delle sue vicissitudini
accompagnandosi con la sua chitarra e rielaborando, in senso popolare, quello che è il topos classico del
poeta che all’inizio del suo canto invoca la musa; Martín Fierro, allo stesso modo, invoca i santi affinché il
suo canto possa sgorgare in modo fluido così da dare piena espressone ai suoi sentimenti.

Hernández usa una struttura semplice: i versi sono tutti ottosillabici e organizzati in sestine; usano un
linguaggio di basso registro apparentemente spontaneo, ma in realtà più complesso di quanto sembri. È
originale ed efficace dal punto di vista comunicativo – questo spiega il successo. Usa uno schema rimico
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originale (ABBCCB), il che gli serve a restituire il dinamismo di certe situazioni narrative. Ogni strofa tende a
costituire un’unità compiuta che possiamo assimilare a una sorta di quadro o fotogramma, anche questo
molto efficace dal punto di vista comunicativo. La sestina di Hernández è quasi sempre strutturata come
segue: i primi due versi enunciano il tema; i secondi due lo sviluppano, approfondiscono e precisano quello
che enunciano i primi due; i terzi due concludono la riflessione o la descrizione con una frase/immagine
icastica, incisiva, che rimanda alla gnomica, al proverbiale e alla sentenziosità. Queste conclusioni hanno un
potere memorabile, sono argute o perentorie.

Nella prima strofa si trova subito la particolarità della strutturazione della strofa: prima enuncia il tema; poi
spiega perché; chiude con un’affermazione proverbiale. Nella sestina successiva c’è un rivolgersi ai santi. I
verbi richiamano l’acqua, la poesia è immaginata come fonte che sgorga dall’animo del protagonista.
L’esordio serve a dare un pathos drammatico alla narrazione lirica che Martín Fierro farà della sua vita:
dopo aver chiesto aiuto ai santi, Fierro proclama la sua abilità di cantore, capace di sfidare i più abili
payadores. Afferma il proprio orgoglio di gaucho, riconoscendosi nei valori di coraggio, tenacia, amore per
la libertà e senso dell’onore. La descrizione del modo di cantare e suonare dei payadores è molto tecnica. Il
loro successo dipendeva dalla capacità di emozionare e coinvolgere l’auditorio. C’è da tenere conto che i
payadores non avevano testi scritti, improvvisavano. Continua descrivendo sé stesso. Gli ultimi versi di
questo primo canto esprimono un’appassionata giustificazione morale di tutte le vicende negative a cui il
protagonista è andato incontro nella sua tribolata esistenza e che costituiranno il materiale narrativo dei
canti successivi. L’ultima strofa del primo canto è proprio la rappresentazione della sua condizione di
reietto in cui un uomo mite e onesto è caduto a causa delle circostanze e delle ingiustizie subite.

Il secondo canto costituisce una rievocazione del passato felice dell’eroe, ovvero quando aveva moglie, figli,
una casa, un lavoro che amava e che gli dava da vivere e si poteva accontentare, finché accade che il
giudice – all’epoca, data la difficoltà del territorio, venivano nominati giudici con una funzione politica e
uno di questi si era reso conto che Fierro non lo aveva votato alle elezioni – lo mette fra coloro che
dovranno partire per il fronte.

31/03/22

L’opera segue una sequenza cronologica, dunque la struttura è abbastanza semplice. Con la visione
nostalgica di un’esistenza semplice e spensierata si apre il terzo canto, che subito porta il lettore a
conoscere uno degli infortuni di Martín Fierro, che lo costringerà a servire sotto l’esercito. Da questa, le
altre sciagure.

Nei primi sei versi, Fierro enuncia proprio la prima disgrazia. Al quinto verso della prima strofa, c’è una
prolessi, che ritroviamo in un canto successivo, dove Fierro ritornerà alla sua casa, ma non ci sarà più nulla.
L’immagine idilliaca, già sfocata i queste due strofe, viene cancellata improvvisamente dall’irrompere del
dramma causato dal suo reclutamento forzato nell’esercito, che lo sradica dalla famiglia e lo allontana,
confinandolo alla frontiera – un mondo che, di civiltà, non conosce nulla. Fierro, raccontando l’episodio
della sua coscrizione forzata, ricorda che avrebbe potuto fuggire, ma eticamente il gaucho è incapace di
scegliere la strada della diserzione; di fronte a una sciagura, accetta fatalisticamente il destino. Fierro, con
questo, si vede privato della felicità e di ogni bene che aveva, come il cavallo – il più affidabile compagno di
avventura. Descrive sinteticamente come parte. L’immagine dell’escarciar rappresenta la relazione stretta
che c’è tra il cavallo e il gaucho; il cavallo sembra percepire i sentimenti del cavaliere. Inizia la descrizione
della vita miserabile che i soldati conducono in questo avamposto militare: non vengono dotati di armi e
vengono sfruttati come manodopera gratuita dal comandante della guarnigione nei suoi campi. I gauchos
erano stati arruolati come militari per difendere la frontiera dalle incursioni degli indios, ma se avessero
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svolto le normali attività militari non avrebbero potuto essere usati come braccianti nella tenuta del
comandante. Denuncia i duri lavori agricoli che i soldati svolgono alla frontiera. Senza armi e costretti a
vivere in condizioni misere, i gauchos mandati alla frontiera sono alla mercé degli indios, che possono fare
le loro scorribande indisturbati. Bisogna ricordare che gli anni ’70 e ’80 non furono caratterizzate dalle lotte
per il potere, ma anche dalle rivolte degli indios, che reagivano alla progressiva colonizzazione dei loro
territori e facevano questi saccheggi e ritorsioni nei confronti dei bianchi. In questi casi, tentano di
contrastare gli indios. L’indio è descritto negativamente; è un selvaggio pericoloso, spietato, abile nel
combattimento e senza paura della morte. Questo comportamento da parte degli indios era incentivato
anche dal trattamento che i bianchi riserbavano per gli indios. Anche il gaucho – coraggioso e forte per
antonomasia –, di fronte alla furia dell’indio, prova sgomento. La bola era un’arma escogitata da alcune
popolazioni autoctone, usata sia nel combattimento che per catturare i cavalli, che cadeva perché si
impigliavano nelle sue zampe. Durante una delle scorribande degli indios, Fierro è costretto ad affrontare in
un corpo a corpo uno di loro, rischiando di essere ucciso: questo è un episodio drammatico che costringe il
protagonista a ricorrere a tutta la sua abilità e a tutto il suo coraggio per sfuggire alla morte, ma soprattutto
questo episodio coincide con il primo omicidio di Fierro ed è il primo anello di questa catena di delitti che lo
trasformerà in un perseguitato. «Metau el lanza hasta el pluma»: le lance erano decorate dove terminava la
lama con delle piume. Anche i gauchos avevano acquisito le bolas dagli indios, in quanto utile per catturare
gli animali selvatici. La jeta indica il volto di un animale, quindi si ha ancora la dimensione dispregiativa
dell’indio. «Y al fin me les escapé, con el hilo de una pata» si riferisce a un gioco che facevano i bambini:
consisteva nel legare un filo alla zampa di un insetto e poi farli volare – immagine bucolica e popolare.

Nel quinto canto, Fierro, che ormai si trova da alcuni anni alla frontiera e non ha mai ricevuto la paga, dopo
aver sopportato l’ennesimo sopruso – subisce una punizione per aver commesso un errore (viene preso,
legati mani e piedi a terra e così deve rimanere per una giornata sotto il sole cocente senza poter bere). A
questo punto, decide di disertare.

Il sesto canto si apre con la fuga del protagonista dal fortino, che si dirige verso la casa e la famiglia che
aveva dovuto abbandonare tre anni prima. Quando vi giunge, si imbatte nella più totale desolazione: la
casa è in rovina; le proprietà sono in rovine; la famiglia è dispera. L’assimilazione di un elemento della
natura della pampa con cui si identifica Martín Fierro, ovvero l’armadillo, la cui prima difesa è scappare e
cercare la sua casa. Questo è il momento chiave della vita di Fierro, che, privato degli affetti familiari,
comincia la sua guerra contro il mondo. Non si farà più scrupoli per difendersi e sopravvivere. Emerge un
Fierro amareggiato anche da un senso di colpa e di disonore perché non ha potuto provvedere alla sua
famiglia e a proteggerla. Questo trauma doloroso produce una trasformazione significativa nell’animo e
nell’atteggiamento di Fierro. Se in precedenza aveva fatto della sopportazione e di una certa remissività la
sua filosofia di vita, ora abbandona questo atteggiamento docile e rassegnato deciso a diventare un gaucho
matrero, senza dimora, senza famiglia e senza scrupoli di fronte alla necessità di sopravvivere.

Il settimo canto, sul piano della metrica, presenta una piccola variazione: alle sestine si sostituiscono strofe
più brevi, di quattro versi. Questa soluzione, dal punto di vista ritmico, tende a sottolineare la concitazione
dell’episodio narrato. A questo punto, infatti, iniziano le disavventure più gravi di Fierro. Una sera si
presenta a una festa campestre, dove, ubriaco, offende con un’allusione oscena una donna nera, quindi
insulta con una battuta razzista il compagno della donna, il quale risponde sfidandolo a duello. Fierro,
benché ubriaco, affronta il nero e commette il suo secondo omicidio, per poi pentirsi ed esprimere pietà nei
confronti della sua vittima, che verrà sepolta come un cane in terra sconsacrata.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Nell’ottavo canto (El ser gaucho es un delito), si assiste a un nuovo delitto, che stavolta si trova costretto
anche dal codice d’onore gaucho a rispondere alla provocazione di un personaggio arrogante che, in una
taverna, lo insulta apertamente e senza nessun motivo. Ne scaturisce un duello e, con la destrezza che ne è
propria, Fierro uccide l’avversario. L’eroe è costretto a far perdere le sue tracce perché la vittima non è un
nero, bensì un uomo conosciuto e influente, quindi Fierro sa che la polizia farà di tutto per catturarlo. Del
resto, ormai Fierro ha dichiarato guerra aperta alla società e alle istituzioni corrotte che la rappresentano. È
deciso ad affermare il suo diritto a vivere anche facendo ricorso alla violenza. Nella visione del gaucho, il
mondo è dominato dalla fatalità, dal destino, che diventa il principale avversario o compagno dell’uomo.
Inizia la descrizione del contrasto con quest’uomo, poi della sua morte. Il termine cuñao permette
all’arrogante gaucho di fare un’allusione alla sorella di Fierro, che coglie il doppio senso. Fierro, dunque,
raccoglie il guanto di sfida e rilancia, rispondendo per le rime. Poi, entrambi mettono mano al coltello.
Questo duello che si svolge in pochi istanti lascia l’avversario di Fierro morto a terra. Quest’ultimo si rende
conto di essere seriamente nei guai.

01/04/22

Il nono canto (Matreriando. La lucha con la partida) mette in scena uno degli episodi fondamentali della
vita di Fierro. Per sfuggire dalla legge, è costretto a rifugiarsi nei luoghi più desolati della pampa e a evitare
in ogni modo qualsiasi contatto umano, per evitare di essere denunciato. Il canto si apre con alcune brevi
descrizioni di carattere lirico del mondo naturale e stranamente non compaiono quasi mai altrove nel
poema. Nelle prime due sestine c’è questa visione bucolica. Hernández cambia registro e passa al tono
epico della lunga lotta di Fierro, costretto a ingaggiare un sfida con la polizia. Ci troviamo in piena pampa
nel cuore della notte e Fierro si accorge che un gruppo di cavalieri si sta avvicinando al suo rifugio. Intuisce
di essere in pericolo e si prepara a lottare con i suoi inseguitori. Quando i persecutori sono ormai vicini,
Fierro decide di sfidarli apertamente, contando sulla forza della disperazione, sulla sua abilità col coltello e
sul favore delle tenebre. Uno a uno, Fierro ferisce tutti gli agenti. Accade un colpo di scena che introduce un
nuovo personaggio, Cruz: uno degli uomini che lo stavano braccando, impressionato dal coraggio e dal
valore con cui Fierro si difende, passa dalla sua parte e, insieme, sbaragliano la pattuglia della polizia. Il
nuovo alleato di Fierro è addirittura il capo di quella pattuglia. Cruz è un gaucho come Fierro, che prima di
essere arruolato ha attraverso peripezie simili a quelle protagonista. Il successo nel combattimento viene
celebrato, come spesso accade nell’immaginario gauchesco, con una bevuta rituale e i due proseguono il
cammino insieme, aiutandosi a vicenda.

Nel decimo canto Cruz rievoca le proprie tribolazioni: il suo racconto inizia descrivendo un tempo in cui era
felice e si guadagnava da vivere onestamente. Come Fierro, anche Cruz ha subito la malvagità dei potenti; il
comandante militare del distretto dove Cruz viveva si era invaghito della moglie di Cruz, e fingendo di
provare amicizia per Cruz trovava ogni pretesto per affidargli degli incarichi che avevano lo scopo di tenere
Cruz lontano e da casa e poter insidiare la donna. Cruz, che aveva già qualche sospetto, un giorno,
rientrando alla fattoria, Cruz coglie i due amanti in flagrante e si infuria, però, una volta placato il furore del
primo momento, decide di risparmiare la vita al vecchio comandante e di limitarsi a umiliarlo e spaventarlo.
Questi inizia a gridare e accorre un suo attendente, che estrae la pistola e tenta di uccidere Cruz; a sua volta
questi, per difendersi, è costretto a reagire e a uccidere questo attendente. Diventato così un fuorilegge e
amareggiato dal tradimento subito, abbandona la sua fattoria per diventare un gaucho vagabondo, vivendo
alla giornata.

L’undicesimo canto descrive proprio la vita vagabonda di Cruz come gaucho matrero. Un giorno, in
un’osteria, viene provocato dalle battute di un payador, evidentemente al corrente del tradimento
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coniugale di cui era stato vittima Cruz. Sentendosi offeso, quest’ultimo viene trascinato dalla collera e
uccide anche il musicista.

Il racconto continua anche nel dodicesimo canto. Dopo tante peripezie trascorse come ricercato, un giorno
un vecchio amico offre a Cruz l’opportunità di abbandonare quella vita clandestina: lo presenta al giudice
della provincia e fa in modo che venga arruolato nella polizia. È così che Cruz si imbatte in Fierro. A quel
punto, i due si riconoscono come propri alter ego, come fratelli. Finito il racconto, Cruz e Fierro iniziano una
serie di riflessioni amare sull’ipocrisia degli uomini, sui mali che il potere e l’arroganza seminano e
sull’impotenza del gaucho verso un sistema sociale che sta travolgendo il suo mondo, relegandolo ai
margini e limitandone la libertà.

Nel tredicesimo e ultimo canto Fierro riprende la parola per comunicare a Cruz la sua decisione di
abbandonare la civiltà e di cercare di fuggire tra gli indiani, dove cercherà di rifarsi una vita, seguendo le
leggi della natura al posto delle leggi arbitrarie della civiltà bianca. Cruz decide di accompagnarlo e i due si
dirigono verso la frontiera. Questa prima parte si conclude con l’immagine di Fierro che rompe la sua
chitarra e, a questa scena, seguono sestine in cui prende la parola direttamente José Hernández, che
descrive i due uomini che, dopo aver rubato una mandria, superano il confine e si dirigono verso l’ignoto.
Neanche tra gli indios si trovano bene. Cruz morirà a causa di una malattia e Fierro tornerà alla civiltà. Quasi
tutta la vicenda è incentrata sul racconto che fanno i due figli di Fierro, che si riuniranno con il padre,
chiudendo il cerchio.

La visione fatalista è una concezione legata al tipo di lavoro del gaucho: spesso era solo, in luoghi disabitati,
quindi doveva cavarsela nei confronti della natura oltre che rispetto al lavoro, quindi aveva questa visione
fatalista tipica delle popolazioni rurali. In questo senso, sia Cruz che Fierro sono figure emblematiche.

MODULO B

Il Modernismo

Con questo termine si definisce il movimento artistico e ideologico che coinvolge buona parte delle
manifestazioni letterarie del mondo ispanoamericano alla fine del XIX secolo. Il Modernismo va,
approssimativamente, dal 1880 al 1915. Benché questo termine, nella storia della letteratura
ispanoamericana, possieda una denotazione sufficientemente radicata e priva di ambiguità, anche se
identifica un fenomeno culturale articolato e complesso, al di fuori di questo ambito può prestarsi a
confusioni ed equivoci. All’interno dello stesso sistema letterario latinoamericano il termine Modernismo
viene usato per indicare una corrente artistica che, al di là dell’omonimia, presenta caratteristiche diverse
rispetto al Modernismo classico. Questa seconda accezione di Modernismo, nell’arte, non ha nulla a che
vedere con quello che vedremo noi. È una denominazione che, soprattutto a partire dal 1922 – settimana
dell’arte moderna –, in Brasile designa il movimento di rinnovamento avanguardista della letteratura
nazionale. Comunque, l’avanguardismo non ha nulla a che vedere con il Modernismo. Anzi, possiamo dire
che saranno le avanguardie a scalzare il Modernismo, rifiutandone l’estetica, quindi infrangendo il canone.

Bisogna anche considerare che Modernism, in inglese, indica l’avanguardismo. Quando si parla di
postmodernism si intende il superamento dell’avanguardismo, quindi la letteratura contemporanea.
Modernismo e modernista sono parole derivate dal termine moderno, vocabolo che, etimologicamente,
proviene da modus e odiernus. Nella lingua spagnola, questo termine viene impiegato fin dal XV secolo,
ovviamente con altre accezioni. In uno dei primi dizionari della lingua castigliana (El tesoro de la lengua
castellana, Sebastián de Covarrubias, inizio del XVII secolo), il termine moderno viene registrato con li
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significato di «Lo que nuevamente, esto es por primera vez, es hecho en respeto de lo antiguo». È
interessante notare che nel dizionario questo termine viene ulteriormente spiegato riferendolo alla
dimensione letteraria: «Autor moderno= el que a pocos años que escribió y por eso no tiene tanta
autoridad como los antiguos». Il nucleo semantico della parola moderno, secondo gli intellettuali del ‘600,
coincideva con l’attualità, ma in questa seconda definizione è implicita una connotazione negativa.

In letteratura, acquista popolarità in Europa nella disputa tra antichi e moderni che si sviluppa tra il XVII e il
XVIII secolo. L’interesse principale di questa diatriba è connesso al progressivo affermarsi, nella coscienza
di intellettuali e artisti, dal valore della modernità e dell’idea di progresso, concetti che alla fine del ‘700
saranno fatti propri dall’Illuminismo e dalla classe borghese, quella che si identificherà con la modernità –
non solo l’arte, ma anche la produzione, l’economia e la struttura sociale. Per quanto riguarda la
letteratura, la posizione dei moderni coincide anche con l’affermazione della dignità delle lingue moderne
rispetto a quelle classiche e con il rifiuto del dogma dell’imitazione, che aveva caratterizzato la produzione
artistica europea almeno dal Rinascimento. Successivamente, alla fine dell’Ottocento, questi termini
riappaiono in Europa e vengono usati, in ambito culturale, per riferirsi, anche in termini polemici, alle
proposte di rinnovamento dell’arte e della letteratura.

Nell’ambito ispanoamericano, alla fine del XIX secolo, a rivendicare l’uso del termine Modernismo per
identificare la proposta di un’arte che risponda alle domande e alle condizioni dei tempi moderni vi sono i
sostenitori di un rinnovamento estetico che trova la sua figura emblematica in Rubén Darío. Dal punto di
vista di questi scrittorie intellettuali che rappresenteranno il Modernismo, il termine acquista una
connotazione marcatamente polemica, ma di segno positivo. Polemica perché introduce una rottura con il
passato della letteratura e verso la retorica, l’accademismo; è una forma di liberazione dell’arte e questa
connotazione positiva e polemica finisce per imporsi di pari passo con il diffondersi delle posizioni
ideologiche ed estetiche dei suoi sostenitori. Essenzialmente, il pensiero modernista si proponeva di
affermare una dimensione universale e cosmopolita dell’arte, in particolare di quella ispanoamericana, che
doveva riflettere le condizioni del mondo moderno ed entrare in dialogo con tutte le espressioni dell’arte
europea che si consideravano più innovative.

Il Modernismo è la prima corrente letteraria originale dell’America latina. A differenza di quanto accaduto
dalla Conquista in poi, sarà la Spagna ad assimilare alcuni dei principi del Modernismo latinoamericano. Il
Modernismo è un momento piuttosto complesso, che in passato la critica ha ridotto ad alcuni suoi aspetti
dimenticandone altri. Anche se i suoi inizi sono legati ad alcune forme estetiche e ideologiche del
Romanticismo, è sulla base di esaltazione della contemporaneità, della modernità, dell’attualità e del
rinnovamento che si forano le manifestazioni più significative di una nuova fase della letteratura
ispanoamericana che si propone di coinvolgere non solo l’arte, ma anche gli aspetti della vita culturale. È
quindi un rinnovamento di natura complessiva che deve portare a inquadrare il Modernismo come un
fenomeno che trascende i limiti di una tendenza o di una scuola letteraria e che si rivela un ampio
movimento culturale che progressivamente contagia e influenza le varie manifestazioni della vita sociale.

Il Modernismo è un corrente caratterizzata da alcuni elementi inconfondibili: una figura di poeta che tende
alla stravaganza, all’eccesso, che si può rappresentare come una commistione tra il bohémien scapigliato e
il dandy esteta frivolo; ci sono comunque delle eccezioni, come José Martí, antitesi dell’esteta frivolo, o
González Prada – in particolare questi due, vista il loro interventismo politico. Altro elemento che
caratterizza tutti i poeti modernisti è l’uso di una retorica marcatamente estetizzante, non solo nella
poesia, ma anche nella prosa giornalistica, come nel caso di Nuestra América (José Martí), un manifesto
sull’autonomia che dovrebbe avere l’America latina e sull’unione cui dovrebbe tendere il continente,
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ovvero un’unica entità geopolitica e non una frammentazione di Stati. Al tempo stesso, il Modernismo,
soprattutto nella fase culminante, diventa un fenomeno di moda che, fuori dall’ambiente artistico,
condiziona alcuni comportamenti sociali della borghesia urbana latinoamericana, classe sociale che stava
consolidando il proprio ruolo egemone e che, dall’arte raffinata praticata dai letterati, tenta di assimilare il
gusto per il lusso, per l’oggetto bizzarro, l’esotico, per gli interni domestici elaborati e raffinati, in un certo
senso sontuosi, e per l’architettura eccentrica che recupera e fonde stili antichi tra i più diversi – fenomeno
che si riscontra anche in Europa.

Negli anni che precedono la nascita di questa corrente in America latina, in alcune metropoli europee
(Parigi e Londra su tutte), si era sviluppato un movimento estetico eterogeneo legato principalmente alle
arti grafiche e decorative, che reagiva all’arte imitativa e al mito della riproduzione meccanica industriale,
cercando di tornare alle forme naturali, fluide, sensuali ed estremamente raffinate. Questo movimento
inizia con la scuola inglese dei pittori preraffaeliti (es.: Everett Millais). Altro movimento importante è
quello dell’Arts and Crafts, concepito da William Morris. Questo movimento si diffonde in Francia con la
pittura decadentista e l’Art Nouveau, che predilige le linee morbide, sinuose e armoniose che vengono
imitate dal mondo naturale e applicate alla rappresentazione della figura umana.

04/04/22

Alcuni sono riferimenti che si ritrovano nell’immaginario letterario ispanoamericano del Modernismo.

Questo è un dipinto di Gabriel Rossetti (Venus


Verticordia). L’immagine della donna appare
santificata e circondata dall’elemento floreale. La
figura è piuttosto piatta.

Altro esempio di quest’arte molto raffinata che usa


forme che suggeriscono il movimento. Il tema non è
classico, l’immaginario è quello mediavale mitizzante
inglese. Si chiama L’inganno di Merlino (Edward
Burne-Jones), quindi si rifà al ciclo arturiano.

Il soggetto è shakespeariano (La morte di Ofelia). L’immagine


stessa dell’acqua crea una bidimensionalità, mentre la
tridimensionalità viene data dallo sfondo. Questi sono dipinti
in senso proprio.

L’Art Nouveau si piega anche al consumo, non si limita al


dipinto, entra nei saloti borghesi e diffonde quest’estetica.
William Morris non è tanto un pittore quanto una sorta di
artigiano molto sofisticato, che fonda il movimento Arts and
Crafts, cercando di diffondere a livello popolare il gusto per
questi oggetti.
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Questo, ad esempio, è un pezzo di carta da parati. L’elemento


floerale e sinuoso delle linee, di colori pastello in linea col
Modernismo letterario.

Morris era un socialista, così come tutto il movimento, infatti cercava


di rendere disponibile anche alla piccola borghesia queste
raffinatezze dell’arte coeva.

Questo è Aubrey Beardsley, un importante illustratore di fine ‘800 e


questa è un’illustrazione alla Salomé di Oscar Wilde, quindi c’è un
elemento di affinità con la letteratura. Il soggetto è Salomé. Si intitola
La coda di pavone: gli elementi del pavone si ritrovano e nel vestito di
Salomé e nella sua corona.

Anche in questa rappresentazione


(Venus) si notano degli elementi
sinuosi. L’incisione di Beardsley è
legata a un immaginario decadentista
che vive anche sul semipornografico.
Sono tutti elementi decorativi che si
notano anche in alcuni illustrazioni che
accompagnano le opere dei modernisti ispanoamericani.

C’è anche l’aspetto più commerciale che investe l’Art


Nouveau. Questa è l’illustrazione della pubblicità di un
sapone e l’artista è Alphonse Mucha. L’immagine, anceh
in questo caso, è bidimensionale. La pubblicità usava
questi stilemi.

Questa è la
vetrata di una
casa borghese
e l’autore è
Tiffany, famoso
gioielliere
legato all’Art
Nouveau. La
natura sembra entrare nella finestra, quindi è come portare
all’interno del salotto borghese la natura che sta fuori.
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Altra opera di Tiffany, è una lampada a forma di glicine, quindi torna


l’elemento naturale. È arte di consumo.

Questa spilla è opera di Lalic, famoso


soprattutto per i suoi vasi in cristallo.
Riproduce la libellula, con una forma
quasi antropomorfa, con una testa di
dragone che divora la parte terminale
della libellula. Gli abiti sembrano fiori, i
boccioli seni, i capelli e i vestiti
riproducono i motivi curvilinei degli
elementi vegetali e tutto viene reso
con colori delicati o usando il bianco e
il nero.

Questa nuova tendenza estetica che si diffonde molto rapidamente è fortemente stilizzata e ornamentale e
tende a sottolineare il carattere artificioso dell’arte. A questo effetto contribuisocno le figure, che tendono
a essere bidimensionali (piatte o frontali). Altri elementi che caratterizzano questo gusto estetico sono
l’uso, nelle arti applicate, della smaltatura, degli arabeschi (Gaudí).

Nella sua fase più matura, questo insieme di movimenti artistici delle arti figurative prende il nome di Art
Nouveau proprio per sottolineare la novità. Nacque simultaneamente in Francia e Gran Bretagna. Può
essere considerata l’analogia figurativa che meglio può rappresentare sul piano iconografico il Modernismo
ispanoamericano.

Questa nuova sensibilità estetica si manifestò non soltano nelle arti figurative, ma presto venne assimilata
dalla letteratura europea, in particolare dai parnassiani (Théophile Gautier e Leconte de Lisle) e,
successivamente, gli autori ispanoamericani si ispirarono al Simbolismo di Verlaine e Mallarmé. Si intreccia
anche con il Decadentismo. Queste correnti che cercavano la perfezione formale, il culto della bellezza e
l’erudizione introdussero in Europa una poesia che privilegiava immagini evanescenti, atmosfere morbose e
malinconiche, rifiutando gli aspetti più materiali della quotidianità. Il Modernismo ispanoamericano è una
fusione e una rielaborazione dei movimenti estetici europei, ma si rivelerà originale e molto dinamica. I
caratteri che associano le arti figurative e il Modernimso letterario sono i toni languidi, un certo narcisismo,
l’erotismo, l’esotismo, la fuga dalla realtà attraverso il sogno a occhi aperti e un certo interesse per il
soprannaturale. Possiamo dire anche che c’è l’idea che non siano gli oggetti rappresentati/descritti
attraverso la lettura a essere importanti in sé: è importante l’effetto che questi oggetti e immagini
producono in chi li percepisce, nei fruitori.

Dal punto di vista ideologico, il Modernismo ispanoamericano fu influenzato simltaneamente da diverse


correnti di pensiero molto eterogenee: la filosofia di Nietzsche; lo gnosticismo (concezione pessimistica
della realtà materiale del mondo che proietta l’esistenza autentica dell’esere umano nella dimensione
spirituale); interesse per l’orfismo (corrente filosofica antica che vede l’essere umano come pervaso dal
divino); filosofia; spiritismo; sul piano politico, interessi per l’anarchismo e, in qualche misura, per il
socialismo utopico. Nella ricerca di una nuova estetica e di nuove espressioni artistiche, i modernisti
latinoamericani ebbero diversi modelli cui si ispirarono esplicitamente e facilmente riconoscibili, anche se il
Modernismo diventa una sorta di fusione e rielaborazione di queste esperienze già maturate in Europa e
assumono originalità una volta rielaborati. Questi influssi eterogenei mettono in evidenza questa natura
sincretica dell’estetica modernista e la capacità di assimilare e rielaborare originalmente diverse esperienze
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eruopee. I due modelli più importanti sono di matrice francese: la scuola parnassiana e il Simbolismo.
L’estetica parnassiana si fondava su uno spiccato senso della forma in termini concreti e poeti come
Gautier, Mendès e Leconte de Lisle sembravano più scultori che poeti – levigavano e raffinavano i loro versi
cercando di tradurre in termini verbali i profili nitidi e i volumi della sucltura, rendendoli quasi tangibili,
producendo un effetto di poesia scolpita. L’impressione che producono i versi di questi poeti è quella di
sculture fatte di parole; questa suggestione è anche rafforzata nelle loro opere dai frequenti richiami
all’Antica Grecia e al Rinascimento. I parnassiani furono i primi a formulare l’idea che l’arte decadentista
fosse lo stile moderno per antomasia. D’altro canto, la poesia simbolista era rarefatta, eterea e piena di
suggestioni e corrispondenze misteriose. Se l’arte parnassiana si riferiva alla scultura e aspirava a un verso
scultoreo, l’affinità maggiore che aveva la poesia simbolista era con la musica, arte immateriale per
eccellenza. Il profondo rinnovamento della metrica e dell’espressione introdotto e in poesia e in prosa da
Rubén Darío riprende soprattutto i principi estetici del Simbolismo. L’obiettivo era, attraverso l’ispirazione
al Simbolismo, di addolcire il verso per evocare le atmosfere rarefatte e lle sensazioni di una realtà quasi
immaginaria. Il Modernismo rese più ricca e flessibile la poesia in lingua spagnola, anche assimilando nuove
storfe e nuovi schemi di rime e riprendendo forme strofiche ormai cadute in disuso.

I modernisti iniziarono a sperimentare il verso libero, che qualche decennio più tardi le avanguardie
avrebbero usato come principale modo espressivo per segnare la rottura con il classicismo. Altro tratto di
origine simbolista è l’uso molto intenso della sinestesia (fusione di percezioni sensoriali diverse). Darío
descrive la sinestesia come «il dipingere il colore di un suono, oppure il sentire il profumo di una stella» e la
concepisce come uno strumento che lo scrittore ha a disposizione «per cogliere l’anima delle cose», in un
certo senso catturarne l’anima profonda. Altra caratteristica, stavolta ideologica, è il cosmopolitismo, il
culto per gli elementi raffinati e prestigiosi della cultura universale. Anche qui, i riferimenti sono al mondo
greco-latino, a una certa visione del Medioevo, all’Oriente, alla Francia del Rococò e alla Parigi
decadentista.

Il quadro storico dell’epoca è caratterizzato da grandi cambiamenti che, durante gli anni di fine secolo,
stavano avendo luogo in vari Paesi latinoamericani – l’arte e il pensiero modernista rappresentano un
fenomeno culturale profondamente legato a queste trasformazioni materiali. È legato sia quando esalta
questa modernità sia quando stigmatizza la diffusione della modernità, vedendoci una nuova forma di
barbarie – la barbarie della tecnocrazia, del materialismo. La massificazione è rifiutata, così come
l’utilitarismo, una certa incultura che si va diffondendo, una forma di disumanizazione e di meccanizzazione
della vita quotidiana.

Lo spazio sociale in cui si sviluppa questa letteratura è caratterizzato da una rapida trasformazione interna
della società. Questo processo (modernizzazione) si colloca negli ultimi tre decenni dell’Ottocento e nei
primi due del secolo successivo: si assiste a una rapidissima crescita demografica e territoriale delle grandi
capitali a scapito della province, che tendono a perdere abitanti e risorse economiche, dunque si produce
una dicotomia tra città povere e città esuberanti, ricche; si produce il declino del settore più tradizionale e
conservatore dell’oligarchia e della classe dirigente, in parte legate al retaggio coloniale; si assiste al
rafforzamento di una borghesia mercantile e industriale che cerca di prendere il controllo della sfera delle
attività produttive, degli scambi commerciali e della finanza, ma prende importanza anche nella sfera
politica, altrettanto strategica per la sua affermazione. Questo processo comporterà un cambiamento dei
rapporti tra l’America latina e i Paesi industrializzati.

La modernizzazione, che sancisce l’ingresso dell’America latina nei grandi mercati della civiltà industriale, è
la conrince entro la quale sorge e si sviluppa il Modernismo letterario ispanoamericano. Gli storici della
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letteratura sono concordi nello stabilire che la parabola del Modernismo va dal 1880 al secondo decennio
del XX secolo. Fissare un inizio preciso è un’impresa piuttosto complicata, visto che non nasce da un atto
formale come la pubblicazione di un manifesto o la fondazione di una sucola artistica; per comodità, molti
studiosi fanno coincidere il suo inizio con la pubblicazione della raccolta Azul (1888) di Darío. Sarebbe più
corretto indicare il 1881, con José Martí che publica la sua raccolta Ismaelillo, già una pratica ante litteram
del Modernismo, ma soprattutto l’anno in cui lo stesso Martí scrive il prologo al poema Al Niágara di Juan
Pérez Bonalde.

Per quanto riguarda la sua fine, la stagione modernista può essere collocata negli anni della Prima guerra
mondiale: dal punto di vista letterario, la fine del Modernismo coincide con la morte del suo esponente per
antonomasia (Rubén Darío, 1916). Il Modernismo si può considerare un movimento estetico e ideologico
che coincide con l’ingresso dell’America latina nell’orbita della civiltà industriale ed economica occidentale,
dominata dal sistema di produzione capitalistico – orbita alla quale il subcontinente rimarrà subordinata. La
crisi economica e sociale che vive l’America latina negli anni ’10 è anche la cornice storica in cui si manifesta
il declino dell’estetica modernista e della sua produzione letteraria, e la tappa finale di questa corrente
sancisce l’entrata in scena delle proposte polemiche e sperimentali dell’avanguardismo.

Il Modernismo letterario si annuncia in modo poco eclatante nel contesto di pochi precursori: Martí viene
considerato da alcuni un modernista dall’inizio alla fine, secondo altri è un precursore più che un pieno
modernista; Gutiérrez Nájera, per cui elementi del Modernismo si ritrovano già nei suoi Cuentos frágiles
(1883). Dunque, il Modernismo inizia in modo un po’ sotterraneo, ma bisogna dire che questa nuova
sensibilità estetica si diffonde e si consolida molto rapidamente subito dopo la pubblicazione di Azul e
riesce a raggiungere una dimensione continentale, originando una corrente rubendariana nella letteratura
dell’epoca. Dal punto di vista geografico, i primi annunci del Modernismo letterario si manifestano nella
regione caraibica, considerata ancora piuttosto arretrata: José Martí e Julián del Casal sono cubani;
Gutiérrez Nájera è messicano – nonostante Città del Messico non sia propriamente caraibica, il Messico si
affaccia sul Mar dei Caraibi; Rubén Darío è nicaraguense. Nasce in un luogo periferico e in artisti molto
sensibili, che erano abbastanza isolati dalla società contemporanea. Comunque, sarà nel sud dell’America
latina che la corrente modernista troverà il suo pieno sviluppo (prima in Cile e un po’ più tardi in
Argentina): questo attraverso un processo di diffusione che va di pari passo con la pubblicazione delle
cronache giornalistiche di Martí e con gli spostamenti di Darío, che prima si trasferisce a Valparaíso, dove
pubblicherà Azul, poi in Argentina. L’America latina, in questo periodo storico, è accomunata da una
sensiilità nei confronti di un discorso cuturale che, sotto molti aspetti, riflette il processo di
modernizzazione sociale ed economica che si stava sviluppando. La diffusione del Modernismo è, inoltre,
simultanea al consolidamento nel continente americano del ruolo culturale esercitato dagli organi di
stampa e dal progressivo aumento degli indici di alfabetizzazione, soprattutto per quanto riguarda le grandi
città. Attraverso giornali e riviste di grande diffusione, come La Nación di Buenos Aires, la nuova letteratura
si diffonde nei principali centri urbani. Gli organi di stampa vedono anche un ritorno economico e
d’immagine attraverso questa pubblicità della nuova cultura.

Questo fa sì che, inizialmente, tutti gli intellettuali stiano contemporaneamente leggendo le stesse cose. In
altre parole, grazie all’aumento dell’alfabetizzazione e alla diffusione dei mezzi di comunicazione, si genera
un ambiente culturale comune e condiviso. In quetso modo, al Modernismo spetta anche la funzione di
mettere in relazione la cultura dell’America latina con i centri culturali più attivi del mondo europeo. La
sensibilità romantica per l’esotismo non scompare del tutto con il Modernismo, anzi, con la fine del secolo,
quello che era l’esotismo orientalista dei romantici si trasforma in gusto per le novità e per tutto ciò che
appare eccentrico. Questo farà sì che gran parte dell’estetica modernista ispanoamericana assimili e
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rielabori l’iconografia, le narrazioni leggendarie e, dal punto di vista tecnico, le modalità espressive delle
culture più diverse – dalla tradizione greco-romana alla contemporaneità europea, che passa anche
attraverso l’esotismo orientalista (calligrammi di Apollinaire). A proposito della vocazione cosmopolita
bisogna specificare che il Modernismo si caratterizza rispetto alle esperienze artistiche precedenti perché
instaura una relazione nuova con le culture straniere, non di pura imitazione ma che diventa una forma di
appropriazione, rielaborazione origiale di testi, stilemi e tradizioni non ispanoamericane. Alcuni studiosi
hanno criticato questo atteggiamento e hanno parlato di una poetica del bazar che caratterizzerebbe i testi
modernisti, nei quali si può cogliere una pluralità di riferimenti culturali. Dunque, uno dei cardini è
l’ostentazione dell’essenza del bello nella storia dell’arte, mettere insieme cose che non hanno attinenza
tra di loro, creando una sorta di percorso museale che è tutto meno che buon gusto. Se è vero che entra
questa ostentazione del multiculturalismo nella poesia, bisogna dire che questo è presente anche in quei
testi che sono apparentemente meno legati a una funzione propriamente estetica, ad esempio la
raffinateza nella scrittura con riferimenti esotici si trovano negli scritti politici di José Martí o nella
produzione in prosa di González Prada o nell’Ariel di Rodó. La grande innovazione introdotta dai modernisti
è la capacità di generare nuove mitologie culturali che amalgamano in maniera articolata da un lato la
tradizione, dall’altro la novità.

Negli ultimi anni del Modernismo, c’è anche un tentativo di recuperare l’estetica delle antiche civiltà
cercando di piegarla alle esigenze moderniste; sarà un orientamento americanista sul piano culturale in
senso ampio (es.: Ariel di Rodó).

Un altro fenomeno importante legato alla diffusione del Modernismo e che cambia per sempre lo statuto
sociale dello scrittore latinoamericano è la progressiva professionalizzazione del lavoro dello scrittore e del
poeta – almeno fino alla metà del ‘900, in America latina, la prosa è considerata molto meno prestigiosa
della poesia. A questo proposito bisogna osservare che, a parte qualche eccezione, l’artista non riusciva a
vivere del suo lavoro di scrittore, al quale si dedicava per diletto piuttosto che per professione. La tematica
della mercificazione della scrittura è abbastanza ricorrente nelle opere degli scrittori modernisti. In El rey
burgués (in Azul), compaiono due tematiche: il cattivo gusto di questo re borghese, che costruisce una sorta
di casa-museo nella quale inserisce anche un poeta che viene a postulare dal re una forma di sussistenza. Il
re borghese non trova niente di meglio da fare che metterlo a suonare un organetto in giardino; c’è tutta
ua descrizione della casa con un bric-à-brac di arte varia che arriva da tutte le epoche e latitudini del globo,
nonché una rappresnetazione della mercificazione dell’arte, cioè il poeta, a cui viene tolta la parola e la
scrittura e che viene messo a girare la manovella di un organetto. In alcuni casi, la figura dello scrittore in
quanto nuovo soggetto sociale compare anche come protagonista di opere in prosa e in poesia.

La modernizzazione di alcuni Paesi latinoamericani trasforma in buona misura il ruolo pubblico dello
scrittore e, se da un lato gli offre maggiore spazio, visibilità e possibilità di guadagnare fama e denaro,
dall’altro lo costringe a trovare uno sbocco commerciale per le proprie opere; dover fare i conti con le leggi
del mercato significa anche dover tenere in considerazione i gusti e le aspettative del pubblico, spesso in
confliltto con le esigenze della libertà creativa dello scrittore. Naturalmente, sono molti gli scrittori e gli
intellettuali che vedono in questa necessità di accontentare il loro pubblico una forma di svilimento, di
prostituzione dell’arte; alcuni di questi autori reagiscono assumendo un atteggiamento elitario – è
l’immagine del poeta-vate, in comunicazione con una realtà che gli altri esseri umani non riescono a
percepire. Questo spinge i poeti e i narratori a considerarsi degli eletti, gli unici in grado di comprendere
davvero l’essenza dell’arte e della bellezza. Questa situazione mette in evidenza due cose:
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

 Lo scrittore modernista vive, nei confronti della stessa modernità tecnologica, produttiva e sociale,
un atteggiamento contradditorio e ambiguo. Infatti, ne esalta gli ideali e i principi di rinnovamento
e di trasformazione, ma poi, di fronte alle conseguenze materiali e sociali di dette trasformazioni,
tende a manifestare un disprezzo snobistico.
 Gli intellettuali e scrittori di fine ‘800 si rendono conto che quell’aura di rispetto e di quasi sacralità
di cui godevano gli artisti del passato finisce per venir minata nel momento in cui il valore della loro
opera dipende dal giudizio del mercato. Da qui deriva la sensazione – che molti autori avvertono –
di svuotamento della loro funzione e della difficoltà di trovare il loro posto in una società
improntata all’utilitarismo e al materialismo. Infatti, uno dei problemi centrali per gli scrittori
modernisti è proprio quello di affermarsi senza dover tradire o svilire la proria indipendenza aristica
in un mondo che ha assunto come parametri di riferimento il denaro e il successo. Molto spesso, il
poeta e il narratore reagiranno prendendo le distanze dal mondo prosaico della quotidianità,
assimilando l’arte a una sorta di religione – l’arte per l’arte – di cui i poeti si proclamano sacerdoti.
Al tempo stesso, bisogna constatare che questa società che ha cambiato i suoi valori culturali
permette l’ingresso nell’ambiente intellettuale di nuovi soggetti che non provengono dalle élite
colte tradizionali, ma anche da ceti inferiori con un’educazione da autodidatti (Julián del Casal,
Rubén Darío).

Già col Romanticismo, ma soprattutto col Modernismo ci sono autori che entrano dalla porta di servizio
nell’ambito della letteratura. Anche per questa ragione, introducono nuove esperienze culturali. Anche
grazie al giornalismo, con il ruolo svolto dalle riviste letterarie e attraverso le nuove politiche di
alfabetizzazione che vengono introdotte in molti Paesi, si creano nuovi lettori di estrazione medio-borghese
che, quanto più si istruivano e raffinavano i loro gusti, tanto più sentivano la necessità di assimilare cultura
e di migliorare il loro status sociale. In questo modo nasce un nuovo pubblico, che al tempo stesso
rappresenta un nuovo nemico per la letteratura modernista: la prosa e la poesia cominciano a essere viste
come prodotti culturali di consumo. Effettivamente, in quel periodo queste opere proliferano sulle riviste e
in altre forme di diffusione. In sostanza, in questo momento inizia – o vi sono le premesse per – la
massificazione della cultura. Di fronte a questa prospettiva che minaccia di volgarizzare l’arte e renderla
una merce standardizzata, il Modernismo letterario risponde istituendo il culto del valore estetico fine a sé
stesso, facendo della Bellezza la finalità suprema o l’unica finalità che l’Arte si deve porre. Quest’ultima, con
il Modernismo tenta di superare l’utile e il pragmatico e di diventare una sfera autosufficiente, in cui questo
spirito eletto trova rifugio dalla realtà quotidiana.

Sia nella poesia che nella narrativa modernista abbondano gli esempi di personaggi che incarnano l’ideale
dell’esteta totalmente oncsacrato ai valori incorruttibili ed eterni della bellezza artistica e lontano dalla
realtà storica e sociale circostante, che tende a essere percepita come degradata e degradante. Questo
atteggiamento, che da alcuni scrittori come Asunción Silva viene vissuto in modo drammaticamente
autentico anche a causa delle circostanze biografiche sfortunate, si trasforma non soltanto in un’abitudine
o in una proiezione che l’artista ha di sé stesso, ma anche in una sorta di artificio retorico e in una forma
escapista e nell’istituzione di un concetto di Arte totalmente autoreferenziale. In altre parole, se non si può
trovare il bello nella realtà – che per definizione comprende il brutto, il volgare, il ripugnante –, allora la
Bellezza va ricercata soltanto nell’Arte. Il concetto di arte per l’arte, dell’arte come valore assoluto e
oggetto di culto, nasce proprio da questa concezione. «Más he aquí que veréis en mis versos princesas,
reyes, cosas imperiales, visiones de países lejanos e imposibles» (Rosas profanas, Rubén Darío, 1896), però
subito dopo spiega questa scelta di riferirsi a un mondo totalmente immaginario alludendo al suo personale
atteggiamento di fronte alla realtà dei suoi tempi: «qué queréis! Yo detesto la vida y el tiempo en que me
tocó nacer». È chiaro che Darío non sta semplicemente prendendo le distanze dalla realtà; la sta criticando
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

in modo esplicito, rappresentandola come la negazione stessa dell’ideale umano che l’arte pretende di
incarnare.

07/04/22

A prescindere da questa affermazione enfatica di Darío, che caratterizza l’apogeo modernista, si trova
questo postulato che sancisce una dissociazione tra la sfera dell’arte, della creazione e dell’estetica e la
sfera dell’esistenza quotidiana. Questa dicotomia, per gli artisti modernisti, tende a essere vissuta quasi
come un scisisione tra l’uomo in quanto cittadino e l’uomo come artista. Darío è pienamente consapevole
di queusta schizofrenia e dichiara «Como hombre he vivido en lo cotidiano; como poeta no he claudicado
nunca, siempre he tendido a la eternidad»: l’arte è una proiezione verso l’eternità. La dicotomia arte-vita,
sfera ideale-mondo quotidiano, porta gli artisti del Modernismo a un rifiuto di accostarsi alla realtà sociale
e questo rappresenta un atteggiamento tipico del Modernismo classico, più estetizzante. Assumendo
consciamente questo atteggiamento, lo scrittore si propone di dare una rappresentazione del mondo reale
soltanto attraverso il filtro di un codice poetico che si vuole esprimere mediante gli archetipi più universali
dell’arte. Tendenzialmente, per gli autori modernisti, la realtà doveva essere rappresentata nella scrittura
soltanto nella misura in cui poteva essere addomesticata e universalizzata attraverso un codice che la
nobilitasse e che le conferisse uno statuto artistico. Di un presidente come Roosevelt, a cui Darío dedica
un’ode, l’autore dice che una grande figura può essere celebrata soltanto con la Bibbia o col verso di
Whitman, quindi con qualcosa di memorabile. Allo stesso modo, diceva che la città di provincia in cui era
cresciuto più essere ricordata solo in termini celebrativi che hanno come modelli di riferimento metropoli
prestigiose: «León es hoy a mí como Roma o París».

Si può dire che da questo atteggiamento ambiguo o schizofrenico derivano la novità e i pregi del
Modernismo, ma a lungo andare anche le ragioni della debolezza dell’estetica modernista, che condurrà
alla sua fine (l’elitarismo dei modernisti; la concezione di arte per l’arte) perché impedicono di affrontare i
problemi della civiltà contemporanea. La concezione di bello dell’arte contribuisce anche a sviluppar enel
pubblico e negli autori l’idea della letteratura come attività autonoma e autoreferenziale. C’è anche, da
parte dei modernisti, il contributo alla crezione dell’idea dello scrittore come professionista che, attraverso
il dominio della tecnica compositiva e creativa, può perfezionare e rinnovare l’arte. Da questi punti di vista,
ci sono aspetti positivi e negativi: questa concezione estetica permette di espandere al massimo le
potenzialità artistiche, suggestive del linguaggio letterario; concentrare l’interesse solo sul codice poetico a
scapito di una visione più ampia della realtà porta gli scrittori meno dotati e gli epigoni del movimento a
ricadere in quella stessa enfasi accademicista e retorica che i primi modernisti avevano condannato. Già nel
1902, uno scrittore spagnolo come Ramón del Valle-Inclán si era reso conto di questa inevitabile
regressione ciclica del Modernismo: «Ocurre casi siempre que, cuando un nuevo torrente de ideas o de
sentimientos transforma las almas, las obras literarias que da origen son barbaras y personales». All’inizio
di qualsiasi movimento, la proposta appare o è barbara e personale. «Serenas y armonicas en el segundo»:
nella piena fioritura di una corrente estetica si ha l’apoteosi. «Retoricas y artificiosas en el tercer período.
Podrá, aislada, la personalidad de un poeta adelantar o retroceder en la evolución, pero la obra literaria en
general sigue su orbita con absoluto fatalismo hasta que germinan nuevas ideas o se forman nuevos
idiomas. Por todo esto, no puede afirmarse sin notoria injusticia que sean las contorsiones gramaticales y
retórica achaque exclusivo de algunos escritores llamados “modernistas”».

Il progetto estetico e idelogico del Modernismo, nel suo progressivo esaurirsi, metterà in evidenza anche
una sorta di contraddizione, ovvero la radice romantica su cui era nato: era di origine romantica la
concezione dell’arte come illusione compensatoria nei conronti della realtà oggettiva e sociale; illusione
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

che, però, è la realtà, la vita stessa a distruggere. «La vita è dura, amara e greve. Oramai non ci sono più
principesse da cantare» (Darío 1905): se fino a pochi anni prima aveva l’ambizione di rappresentare un
mondo irreale, fantasmagorico nel quale trovare rifugio, nel 1905 le cose stanno cambiando, cioè il mondo
della bellezza e dell’arte che i modernisti avevano cercato di costruire rivela sempre più la sua fragilità di
fronte all’avanzare travolgente del Positivismo.

La progressiva integrazione nei processi eocnomici e politici del capitalismo industriale si manifesta come
una nuova fase di dipendenza prima dall’Europa e poi dagli Stati Uniti. Anche la Parigi idealizzata e sognata
si rivela essere soltanto un’immagine illusoria o, nella migliore delle ipotesi, un frammento della Parigi
ideale, coinvolta in questo progresso della modernità, ma era una città dove si manifestavano tutte le
contraddizioni, le ingiustizie e i problemi generati dalla rivoluzione della modernità industriale. Poi sarà il
Naturalismo di Zola e altri autori a denunciare, eliminando quasi completamente la dimensione
estetizzante, il degrado e la miseria del mondo urbano. A un certo punto, appare evidente che l’ideale
cosmopolita non risolve le contraddizioni sociali, non rende uguali le condizioni degli individui che vivono
nella stessa metropoli.

Verso la fine dell’estetica modernista, si assiste a un ritorno dei valori propri del mondo americano: la
parabola si chiude con un’introflessione, uno sguardo sul localismo e sull’americanismo. In Nuestra
América, José Martí, autore abbastanza eccentrico rispetto al canone modernista, propone quest’opera
come ideale dell’America latina unita, confederata, che non si rivoge più all’Europa o agli Stati Uniti per
trovare i propri modelli, che avnno trovati nelle proprie storia, tradizione e cultura. Questo ritorno implica
lo sviluppo e l’elaborazione di qualcosa che era già presente nelle premesse del Modernismo, perché si
tratta di un ritorno alla natura, alla semplicità, alla sincerità espressiva, a ciò che non appariva contaminato
dall’artificialità di un progresso che appariva esclusivamente materiale e tecnologico. Un critico
ispanoamericano, Henrique Sureña, definisce quest’ultima tappa della parabola evolutiva del Modernismo
come il crepuscolo del Modernsimo. Sviluppando questa immagine metaforica, il Modernismo si può
vedere come un processo evolutivo in cui possiamo distinguere tre momenti:

1. Momento aurorale, nel quale possiamo collocare i precursori e gli iniziatori del Modernismo (Martí,
del Casal, Guetiérrez Nájera, Asunción Silva, González Prada). A eccezione di González Prada, tutti
muoiono prima della fine del secolo, quindi sono anche autori che possiamo considerare inziiatori
di questa corrente.
2. Momento zenitale, di pieno splendore, rappresentato da Rubén Darío, che copre tutta la parabola
evolutiva dellla corrente.
3. Momento crepuscolare, a cui appartengono scrittori che oggi sono relativamente poco letti (Amado
Nervo). Ci sono artisti come Leopoldo Lugonez, Julio Herrera y Reissig, che assimilano il tardo
Modernismo ma già cominciano a trasformarlo in una nuova proposta estetica e si avvicinano, per
aspetti formali, alle avanguardie degli anni ’20 e ’30.

Raccogliendo la tradizione della letteratura ispanoamericana e aprendo nuove possibilità, per l’artista, di
esprimersi in una dimensione sempre più universalista o cosmopolita, i modernisti riuscirono a esprimere
una letteratura originale e raffinata che, in alcuni casi, osservava criticamente i cambiamenti che stavano
avvenendo nel Paese. C’è un paio di racconti di Darío dove la dimensione sociale entra. Il Modernismo va
considerata alla base delle innovazioni artistiche ed estetiche che compariranno nella letteratura
ispanoamericana del XX secolo. Il gauchesco è lontanissimo dalla raffinatezza modernista, però Ricarod
Güiraldez, negli anni ’20, scrive Don segundo Sombra, romanzo considerato canto del cigno della
letteratura gauchesca; questo romanzo è molto diverso, dal punto di vista dell’espressività, della scrittura,
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

dalla letteratura gauchesca classica – è una scrittura che si avvicina, per alcuni aspetti descrittivi, l’uso di
allegorie, alla poesia modernista. La scrittura, in America latina, si affina molto grazie al Modernismo, e non
si perderà questa attenzione per la scrittura, tant’è che il boom latinoamericano degli anni ’50 è
impensabile senza le avanguardie e il filtro dell’estetica modernista.

Proprio grazie alla sua eterogeneità, la corrente modernista fu anche molto criticata all’epoca. Spesso, gli
autori che erano parte del Modernismo furono attaccati in quanto ritenuti filoeuropei, esotisti, snob della
cultura e tendenti a isolarsi nella loro torre d’avorio. Non c’è dubbio che, soprattutto nella fase aurea del
movimento, questi autori prestarono un’attenzione minore alle tradizioni culturali del continente, attratti
da tematiche, mitologie e immagini che provenivano dall’arte europea contemporanea. L’importanza del
Modernismo sta nell’uso che viene fatto dei materiali tematici e delle forme attraverso cui si cercò di
andare avanti anche nel processo di costruzione di un’identità culturale latinoamericana che fosse in grado
di fondere la tradizione con le innovazioni proposte dalla letteratura occidentale coeva- La storia dimostra
che questa operazione eera irreversibile. Ángel Rama sosteneva che per gli artisti modernisti «el problema
consistía en su inscripción cultural dentro del vasto texto universal al que habían sido arrojados y que ya no
abandonaría el continente, sabedores de que esa inscripción no transtitaba por el localismo romántico, sino
que debía funcionar en un nivel superior: el de los instrumentos de una poética»: il rinnovamento doveva
funzionare al livello della forma, uno degli elementi fondamentali che caratterizzano il Modernismo.

Da una prospettiva storico-letteraria, il Modernismo rappresenta una corrente culturale attravero cui la
letteratura ispanoamericana si inserisce nel processo globale complessivo di modernizzazione delle
società. Il Modernismo è, quindi, la letteratura dell’età moderna – intesa come apogeo della società
industriale e capitalistica su scala mondiale. Da questo punto di vista, la produzione letteraria di fine ‘800 e
di primo ‘900, per l’America latina, paradossalmente non coincide con l’inizio di una nuova fase storica;
pittosto coincide con la fine di un ciclo che, per l’Occidente, ha un’estensione che è secolare (ciclo
dell’epoca moderna, che viene fatta risalire al Rinascimento). Ángle Rama, a questo proposito, sostiene che
«Aunque fueron ellos quienes introdujeron la literatura latinoamericana latinoamericana y por lo tanto
inauguraron una época nueva nueva de las letras locales, no se encontraban *…+ en el comienzo de un
novedoso período artístico universal sino en su finalización, a la que accedían vertiginosa y tardíamente»: il
senso di queesta fine di un ciclo culturale si percepisce bene se si pensa che la fine dell’esperienza
modernista, in America latina, coincide con la nascita dell’avanguardismo, che farà tabula rasa dei canoni
estetici del passato. Questa condizione quasi paradossale di inaugurare una fase di universalizzazione della
cultura latinoamericana nello stesso momento in cui si chiude un’epoca della cultura occidentale segna il
carattere complessivo del Modernismo.

Manuel González Prada

È una figura piuttosto particolare dal punto di vista anagarafico e biografico: se ragioniamo in termini di
generazioni, precede la prima generazione dei modernisti (nasce nel 1844) e quando il giovane Darío
pubblica Azul (1888), lui è già un uomo maturo e ha già iniziato da tempo un percorso artistico che si
intreccia con quello che diventerà il Modernismo. È particolare anche dal punto di vista ideologico e
filosofico, molto vicino al Positivismo, a differenza di tutti gli intellettuali e artisti modernisti, che
consideravano il Positivismo filosofico come una forma di impoverimento della cultura, una subordinazione
dei valori dell’etica e dell’estetica al materialismo e all’utilitarismo. Anche sul fronte dell’impegno sociale e
politico, González Prada appare come una sorta di corpo estraneo; il suo è un caso che si avvicina a José
Martí, infatti González Prada assume un ruolo politico nella sua città e lo fa in un modo ancora più radicale
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

di Martí. A quel punto, González Prada diventa una figura scomoda e iconoclasta nei confronti delle
istituzioni e del potere e di tutto ciò che ha anche solo una vaga connotazione di conservatorismo.

Condivide con i modernisti l’esigenza di rinnovare nella forma e nella sostanza l’arte e la cultura
latinoamericane: inizia questo compito autonomamente; così come faranno i primi modernisti, cerca forme
di ispirazione nella letteratura francese contemporanea, rifiutando il Romanticismo in tutte le sue forme,
considerato un’estetica ormai superata.

Nasce a Lima da una famiglia aristocratica, tradizionalista, marcatamente cattolica e benestante. Questa
famiglia è talmente conservatrice che, quando alla fine degli anni ’40 in Perù si manifestano alcuni deboli
aperture politiche in senso liberale, suo padre decide di autoesiliarsi in Cile con tutta la famiglia, perché il
Perù sembrava diventato pericoloso per la morale cattolica. Una decina di anni più tardi i González Prada
tornano in Perù e la madre, per cercare di infondere in suo figlio la vocazione per il sacerdozio, lo costringe
a entrare in seminario per continuare gli studi: l’uniza reazione stimolata è una ribellione nei confronti del
potere ecclesiastico. Dopo tre anni di seminario, scappa e inizia a frequentare una scuola superiore laica.
Poi si iscrive all’università alla facoltà di legge, dove rimane a studiare solamente per un anno. Abbandonati
gli studi, inizia a lavorare ocme giornalista e a scrivere poesie, che in questo periodo pubblica sotto
pseudonimo o non pubblica proprio. Siccome vuole conoscere direttamente la realtà dei contadini e degli
indigeni peruviani, comincia a viaggiare nelle realtà interne del Paese, così si rende conto della miseria,
dell’arretratezza, della povertà e dell’ignoranza in cui versavano moltissime persone. Fino al 1879, Prada si
ritira a vivere in una tenuta della famiglia lontano dalla capitale, considerata una città moralmente corrotta
e, dal punto di vista culturale, provinciale e retrograda. Durante il suo soggiorno in campagna, si occupa
della gestione agricola della tenuta e alla lettura di vari autori contemporanei (Goethe, Hugo, Schiller, Hein)
e classici (Quevedo, Ovidio, Khayyam). Durante questo suo esilio volontario nella campagna, scrive una
parte consistente della sua opera, che verrà pubblicata nei primi anni del ‘900.

A questo punto, il Cile inizia un conflitto militare con il Perù (Guerra del Pacífico) che si concluderà nel 1883
con una sconfitta umiliante da parte del Perù. In questa circostanza, González Prada si arruola nell’esercito
peruviano e partecipa alla difesa di Lima. Dopo la sconfitta e durante l’occupazione cilena, Prada si ritirerà
di nuovo a leggere e scrivere. Trascorso questo periodo di riflessione e studio, González Prada si presenta
alla comunità culturale del Perù con un preciso programma di azione politica e culturale che lo trasformerà
nell’intellettuale più corrosivo e scomodo e agitatore sociale del Paese. Inizia fondando, insieme ad alcuni
simpatizzanti, un circolo letterario, associazione culturale che si occupava anche di politica militante. Dopo
aver vissuto fino a quel momento lontano dalla scena pubblica, improvvisamente González Prada si lancia
in un’attività molto intensa di critica della società attraverso il giornalismo e altre azioni che intraprenderà
(scrivendo proclami e tenendo discorsi pubblici incandescenti nei quali esorta la sua generazione a spazzare
via la vecchia classe dirigente, considerata incapace e corrotta). La veemenza con cui esprime le sue idee
rivoluzionarie è rappresentata molto bene in uno scritto famoso intitolato Discurso del Politeama: è
un’arringa pronunciata nel 1888 in cui Prada attacca tutto l’establishment del Paese, ovvero coloro che
avevano portato alla sconfitta contro il Cile.

Discurso del Politeama (1888)

Subito sguaina la spada e si riferisce alla guerra persa contro il Cile. Vede l’epoca dell’indipendenza come un
periodo di disordine più che di ricostruzione di un nuovo ordine sociale, politico ed economico. Fa dei
riferimenti storici al presente e al passato meno recente. Non si capisce cosa intenda quando parla della
guerra civile di metà secolo, mentre risulta nettamente chiaro il riferimento alla perdita di alcuni territori
che il Perù aveva subito nella guerra con il Cile.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Non attacca solo l’epoca contemporanea, ma anche il retaggio storico e culturale spagnolo. Manca un’unità
di popolo, che si costruisce rompendo le barriere sociali

Emerge la dimensione razionalista e positivista di González Prada. La modernità deve tener conto di ciò che
di moderno aveva prodotto la classicità. Teologia e filosofia vengono assimilate a discipline sterili,
improduttive, oscurantiste e reazionarie. Poi si riferisce alla libertà. Assume un carattere nazionalista, che
verrà rinnnegato più avanti. C’è annche un certo revanchismo, che poi scomparirà.

Chiosa da abile oratore. Questo è l’elemento più modernista che si trova in questo discorso. Conclude
lapidario: «¡Los viejos a la tumba, los jóvenes a la obra!». Qui c’è un attacco alla società peruviana,
soprattutto a quella alta. González Prada non ha soltanto questa vocazione politica e, così come attacca
ferocemente la classe dirigente, allo stesso modo critica senza mezzi termini la cultura letteraria del Perù
perché la considera sterile – imita senza risultati artistici gli esempi del Romanticismo europeo – e
antiquata perché riproduce i modelli del Romanticismo ispanico. Di questo atteggiamento passatista, Prada
condanna l’uso di espressioni e di vocaboli ricercati, aulici, che ai suoi occhi costituiscono degli anacronismi
rispetto alle esigenze della modernità. Le tematiche che González Prada affronta in queste sue requisitorie
mettono in evidenza il suo spirito positivista. Questa è un’anomalia rispetto alla gran parte degli scrittori
modernisti, che rifuggivano dall’utilitarismo e da ciò che stava sotto il cappello del Positivismo. Ci sono delle
ragioni per cui González Prada è animato da questo razionalismo e per spiegare questa anomalia bisogna
tenere in considerazione un paio di fatti: il Perù, in questo periodo, era culturalmente e materialmente più
arretrato di altre nazioni latinoamericane, quindi il Positivismo appariva uno strumento utile per
modernizzare la società; González Prada intendeva parlare a nome di una nuova generazione che vedeva
nell’applicazione della scienza e della tecnologia l’unico modo per risollevare le sorti del Paese. Rispetto al
suo Positivismo, bisogna sottolineare che se da un lato lo esalta, dall’altro professa un ideale libertario –
che sfocerà nell’anarchismo – e questo è in netto contrasto con il conservatorismo politico dei pensatori
positivisti, considerati socialmente e politicamente come dei conservatori.

08/04/22

Nel 1891, insieme alla moglie di origine francese, González Prada si trasferisce in Europa, dove rimane per
sette anni rimanendo quasi esclusivamente a Parigi. Qui approfondisce la sua conoscenza della poesia
parnassiana e simbolista, ma soprattutto entra in contatto con il socialismo teorico e con l’anarchismo di
Proudhon e di Bakunin. A Parigi, nel 1894 pubblica Páginas libres, la sua racolta più famosa di saggi e
discorsi, che per i toni ferocemente anticlericali e radicali verrà censurata. Quando lascia l’Europa nel 1898
e torna a Lima riprende il suo impegno politico attivo sostenendo i primi movimenti operai; dalle pagine dei
periodici dell’estrema sinistra lancia attacchi continui contro la Chiesa e i settori conservatori della politica
e l’oligarchia latifondista ancora al potere in Perù. In questo periodo, che coincide con la sua maturità,
diventa anche il più acceso difensore dei diritti delle popolazioni andine e il suo è un indigenismo militante
che si è lasciato alle spalle l’atteggiamento filantropico e sentimentale dell’indianismo umanitario
ottocentesco e che coincideva con il Romanticismo. Nei numerosi saggi che dedica a questo tema sociale
(Nuestro indios, 1904), l’indigeno non viene visto solo come un individuo culturalmente e moralmente
degradato a causa delle condizioni primitive in cui era costretto a vivere; piuttosto, agli occhi di Prada, è un
soggetto politico oprresso dallo sfruttamento economico su cui l’oligarchia latifondista aveva costruito il
proprio benessere. Per Prada, l’indio rappresenta l’incarnazione di quello che riteneva il sottoproletariato
latinoamericano, che in quel momento stava cercando di trovare un proprio ruolo nella storia moderna del
continente. Anche negli ultimi anni di vita Prada è molto combattivo: nei suoi articoli che compaiono su
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periodici di orientamento anarco-sindacalista (Los parias e La lucha) continua a difendere con rigore le
proprie idee e ad attaccare la società borghese latinoamericana.

Lo spirito libertario e riformatore che Prada incarna come politico si manifesta anche in campo artitsico e
letterario. All’attività di intellettuale e coscienza critica Prada affianca sempre quello di poeta; l’attività di
poeta inizia già nel 1876, quando il Modernismo era ben lontano dal manifestarsi. Fin dai suoi esordi in
campo estetico, l’obiettivo che si pone è di rigenerare la poesia peruviana e, più in generale, la scrittura
latinoamericana. Non lo fa introducendo nuove tematiche o nuovi soggetti lirici, ma attraverso il
rinnovamento della forma e del lessico e l’adattamento al castigliano di strofe e schemi ritmici con
provenienza eterogenea (poesia europea rinascimentale e culture classiche) – tra l’altro Prada era
poliglotta, infatti parlava tedesco, inglese, francese e italiano. Il González Prada poeta è un autore piuttosto
prolifico ma, anche se scrive molto, il materiale strettamente lirico-poetico corrisponderebbe a una decina
di raccolte. Pubblica solo tre raccolte e nel primo decennio del ‘900, anche se ci sono poesie scritte decenni
prima.

La prima raccolta è Minúsculas (1901) e comprende composizioni scritte nei trent’anni precedenti. La sua
poesia riprende la tradizione senza grandi cambiamenti, infatti queste composizioni ruotano intorno
all’amore, alla natura, ai sentimenti umani, alla bellezza, alla primavera. Il tono della sua poesia è spesso
incline alla malinconia e alla riflessione, infatti assume anche degli accenti appassionati e dolorosi quando
affronta tematiche esistenziali. A questo proposito, bisogna notare come nel Prada scrittore tenda a
manifestarsi un atteggiamento ambivalente: nella prosa, che è una scrittura sociale, è uno scrittore
veemente, animato da uno spirito iconoclasta; nella poesia si esprime attraverso la meditazione filosofica,
che assume accenti angosciati, dimostrando una grande sensibilità nei confronti della fragilità umana. Dal
punto di vista tecnico, Minúsculas si caratterizza per il tentativo di adattare alla poesia in lingua spagnola
forme strofiche della tradizione franco-italiana (rondò, romance, stornello, ballata), ma anche forme
strofiche dell’antichità classica, cercando di recuperare la metrica accentuativa. Si tratta, quindi, di una
poesia piuttosto sperimentale.

Ritmo soñado

Un esempio di questo esperimento innovatore è la poesia Ritmo soñado, costruita su una metrica basata
sul ritmo e presa in prestito dalla poesia dell’Antica Grecia, tant’è che si presenta come «reproducción
bárbara del metro alkmánico». Bisogna sottolineare che la raccolta Minúsculas è molto legata a un testo in
prosa che Prada scrive proprio in quegli anni (Ortometría), un trattato di metrica che teorizza
rigorosamente ciò che l’autore sperimenta e applica alla sua poesia di quel periodo, che ha anche una sorta
di valenza didattica, infatti riporta lo schema ritmico.

Nel secondo verso viene usata la cacofonia per esprimere una protesta contro la poesia facile, costruita
sulla rima. Le immagini sono riconducibili alla poesia romantica; quello che cambia è la struttura formale. Si
chiude con l’immagine della poesia che diventa laccio d’amore che avvolge la donna. Questa poesia appare
come una sorta di elemento vegetale.

Nel 1909, Prada dà alle stampe la sua seconda raccolta, Presbiterianas, con poesie rabbiosamente
anticlericali che Prada è costretto a pubblicare sotto pseudonimo per evitare guai con la censura. Questa
cinquantina di poesie ha come modello, anche dal punto di vista formale, Quevedo; sono poesie caustiche,
ironiche e sarcastiche che prendono come bersaglio la religione e l’istituzione religiose. Sul piano del
risultato artistico, nonostante formalmente perfette, queste poesie sono di livello inferiore rispetto alla
produzione lirica complessiva dell’autore. Sono poesie di varia natura: alcune sono epigrammi che
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

rimandano alla poesia latina; altre sono poesie di quattro/cinque versi; altre sono più articolate e non
hanno l’immediatezza dell’epigramma, la loro funzione è proprio quella di essere caustiche.

Nel 1911 compare il suo terzo volume di poesie pubblicate in vita, Exóticas. È una raccolta che prosegue
sulla scia di Minúsculas accentuando l’introduzione nella poesia castigliana di innovazioni metriche e
formali. I temi e l’iconografia cui ricorre Prada fanno riferimento al mondo della classicità ellenica e
orientale e, in misura minore, alla tradizione europea nordica: per una ragione puramente estetica che
deriva dalla lettura dei parnassiani; un’altra ragione è di carattere più ideologico, cioè, per Prada, esaltare la
cultura greca, orientale o antico-nordica singificava recuperare una visione pagana del mondo e
dell’esistenza, in opposizione alla tradizione cattolica che Prada. La funzione rinnovatrice che Prada
attribuisce alla sua opera emerge molto bene in Musa Helénica, che può essere assimilata a una sorta di
manfesto dei suoi ideai estetici.

Musa Helénica

Il tono è un po’ burlone, è un’invettiva contro la poesia accademica che da molto tempo soffocava ogni
tentativo di rinnovamento della poesia; al tempo stesso, è un’esortazione a praticare un’estetica della
sobrietà e del bello in senso profondo. Il primo difetto della poesia castigliana è la riproduzione di sonorità
facili; il secondo è l’uso sistematico di un vocabolario aulico e lontano dalla lingua moderna – è la retorica
accademica o sentimentale dietro cui c’è un vuoto di idee. La forma pesante senza contenuto è assimilabile
a un albero pieno di foglie ma senza frutti. Nella terza strofa, il tono diventa apertamente sarcastico. Ci
sono termini lessicali che alludono all’antichità greca (legione, falange): la falange era un reparto della
fanteria costituita da fanti corazzati, possente nell’urto frontale, ma poco manovriero, quindi viene
espressa anche una certa goffaggine che viene restituita anche attraverso la cacofonia. Prada si fa beffe dei
moderni barbari della cultura; questi poeti alla moda vengono assimilati a pappagalli che strepitano
cacofonicamente e volgarmente. Per sottolineare la barbarie in cui è caduta la poesia contemporanea
spagnola, Prada usa due allusioni classiche, però rovesciandole: appare l’mmagine della volgarità, che
assume una mitologizzazione che fa riferimento alla cultura greca – così come i poeti contemporaneità
sono caduti in questa forma volgare, così nella mitologia greca erano ritenuti volgari Marcia (il fauno che
osò sfidare Apollo in un confronto musicale, perdendo) e all’asino di Sileno (divinità agreste che incarna la
selvaticità agreste) mentre aggredisce a morsi Pegaso (cavallo alato, simbolo dell’elevazione spirituale).
Nella quarta strofa, il poeta usa delle immagini forti per auspicare il ritorno all’armonia dei nobili sentimenti
e del bello rappresentati dall’arte apollinea dell’antica Grecia, che esprime lo spirito della cultura pagana,
positiva e aperta alla vitalità agli occhi di Prada, in antitesi a quest’arte malata e sterile prodotta dalla
cultura moderna, che secondo Prada ha radici nell’oscurantismo medievale. Nella quinta strofa, infatti,
compare l’espressione «gotica barbarie», che si riferisce all’epoca medievale o a ciò che ha prodotto il
Cristianesimo. Di fatto, questa decadenza che Prada rappresenta sembra legare la modernità, quindi la
novità e il progresso. Sintetizza il suo pensiero evocando in modo esemplare l’arte di alcuni principali poeti
della tradizione ellenica arcaica, che si affidavano alla semplicità e al rigore della metrica accentuativa per
evocare e trasmettere al lettore il mistero dell’esistenza e la sua celebrazione. I poeti che cita si esprimono
attraverso una notevole spontaneità, evitando il sentimentalismo, troppi artifici retorici: Esiodo pu essere
definito un poeta antieroico e la sua è una scrittura semplice, fatta di poche idee, convinzioni ed
esperienze, ma di elementi della quotidianità e sentimenti comuni; naturalmente, oggi è più difficile trovare
lettori che sappiano subito riconoscere queste caratteristiche in questi autori, ma all’epoca la cultura e la
letteratura greche erano molto studiate.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Accanto alle questioni legate alla tecnica della versificazione, nella raccolta Exóticas si manifesta una vena
profndamente meditativa, verso la quale il poeta esprime le proprie preoccupazioni e angoscie, che
nascono da una visione tragica e materialista della vita. Questa vita assume le connotazioni esistenzialiste
di un pessimismo cosmico affine a quello di tanti altri autori di estrazione anche romantica come Leopardi.
Questo pessimismo di Prada costituisce il tema di fondo di una poesia esemplare come Crepuscular,
dominata da un tono cupo, lugubre che soltanto nell’ultima strofa si apre a una nota di speranza. L’io lirico
confessa la profonda inquietudine e il senso di smarrimento che l’essere umano avverte di fronte al proprio
destino.

Crepuscular

Si può subito notare un ritmo diverso dalle poesie precedenti, che avevano una funzione critica nei
confronti della tradizione culturale della lirica castigliana. Qui il tono si manifesta come riflessivo. Già dai
primi versi si manifesta un certo gusto per il cromatismo. Ci sono molti elementi in comune con La noche de
insomnia y el alba, la notte come momento di riflessione, di dubbio esistenziale. Il poeta si pone le
domande che l’uomo si è sempre posto. La natura appare come entità indifferente di fronte al destino
umano. Il barlume di speranza espresso alla fine è un sogno, il sogno di un sognatore implacabile,
impenitente che, nonstante si interroghi sui grandi misteri dell’esistenza, è soltanto con il sogno che riesce
a superare questa visione negativa. In assenza di un referente soprannaturale a cui ricondurre il senso
dell’universo e dell’esistenza, Prada chiama in causa la natura, intesa come principio impersonale
assimilabile al destino da cui ha origine il cosmo. Quella a cui si riferisce Prada non è la natura come
ambiente naturale, che per il poeta rappresenta una dimensione in cui dominano armonia e bellezza e che
insieme all’amore è l’unico possibile rifugio dalle tristezze e dallebrutture della vita, bensì è quella
esemplificata nella composizione A un orquídea.

A un orquídea

La bellezza dl fiore è rappresentata dal cromatismo e dalle forme sensuali, evocata attraverso una serie di
comparazioni che chiamano in causa anche il regno minerale e animale. Simbolicamente, questo fiore
allude non soltanto alle virtù umane della modestia e del pudore, ma anche al carattere stesso della poesia
così come la concepisce Prada.

L’orchidea viene prima assimilata al quarzo, elemento minerale – il quarzo ha una certa diafanità e un
colore vicino al viola; poi a un colibrì, quindi introduce l’elemento animale – il cromatismo del colibrì è,
ancora una volta, molto sgargiante e, in genere, presenta delle tonalità metalliche; la chimera allude a un
essere fantastico composto da elementi eterogenei. È una dimensione fantastica e, al tempo stesso, arcana
quella rappresentata dall’orchidea. L’antropomorfizzazione del fiore domina tutto il componimento. Infine,
l’orchidea viene assimilata all’ideale di poesia che Prada professa e ha in mente.

In precedenza abbiamo detto che Prada rifugge dall’uso di temi e immagini del Cattolicesimo e del
Cristianesimo; in realtà, Prada non rifugge dall’uso di immagini per quanto riguarda la tradizione lirica
dell’Antico Testamento, cui ricorre spesso nella sua opera lirica. Per esempio, si possono notare degli
accenti legati al Cantico dei cantici in Los pájaros azules, dove si notano alcuni elementi iconografici ed
espressioni liriche vicine alla tradizione lirica o alla poesia sensuale e mistica della tradizione persiana. Los
pájaros azules è una composizione in cui la visione pessimistica dell’esistenza e del destino umani viene
controbilanciata e superata da un sentimento vitalistico nettamente pagano che nasce dalla
contemplazione della natura e dalla presenza dell’amore, che inducono l’io lirico ad ascoltare il consiglio di
questi uccelli azzurri di vivere alla giornata sfruttando ogni occasione per lenire il dolore dell’esistenza. Il
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

poeta afferma nella seconda terzina che la vita è una catena di sogni irrealizzati che passano senza lasciare
tracce come le scie degli uccelli sull’acqua o le ombre dell nubi sulla Terra. Negli ultimi tre versi ci sono
proprio degli elementi che sembrano presi dal Cantico dei cantici e dal suo stile. La vitalità per eccellenza è
rappresentata dalla donna amata che assumen l’aspetto simbolico di un Eden, con la mela che non è più
elemento negativo che rappresenta la caduta dell’uomo, bensì la fertilità, quindi c’è un rovesciamento
rispetto alla tradizione cristiana e biblica.

11/04/22

José Martí

Il Modernismo come corrente letteraria e periodo storico è un fenomeno che, anche se a prima vista può
sembrare definito, più lo si studia approfonditamente più appare come fenomeno complesso e articolato.
In questo senso, per quanto riguarda la sua dimensione letteraria, questa complessità è il riflesso delle
personalità di alcuni dei suoi artisti più rappresentativi, delle loro molteplici attività e della costante ricerca
di nuove modalità espressive che si ispirano a modelli estetici piuttosto eterogenei, per cui le opere
generate sono a loro volta molto diverse.

Questo vale soprattutto nel caso di Martí, che a fronte di un’esistenza breve (muore a 42 anni) è un autore
di un’opera vastissima nella quale si riflettono tutti i suoi interessi. A ciò bisogna aggiungere che non dedicò
tutta la sua vita alla scrittura, anzi il suo principale interesse fu la politica e l’attività di rivoluzionario per la
liberazione di Cuba dal dominio spagnolo. Questo vincolo stretto fra vita e arte si perceisce molto bene
anche nella sua opera, tanto che è impossibile stabilire un confine netto tra il Martí letterato e quello
politico e patriota. Questa relazione si manifesta anche nella sua concezione estetica che Martí va
elaborando: presupponeva per la scrittura una funzione didattica in senso ampio; doveva essere al servizio
dell’umanità e rappresentare uno strumento di crescita per i popoli latinoamericani (catalizzatore sociale).
Questa è una concezione piuttosto lontana dall’estetica dell’arte per l’arte, che finisce per essere un cliché
che caratterizza il Modernismo. L’impegno politico di Martí per la liberazione di Cuba fu totale e lo portò a
sacrificare la sua stessa vita nel tentativo di liberare con le armi l’isola su cui era ato. Per questa ragione, la
sua figura si trasformò, subito dopo la sua morte (1895), con il martire della patria, apostolo della libertà e
nel fondatore della nuova nazione cubana.

La sua produzione è molto eterogenea e frammentaria, proprio per le ragioni che spingono Martí a scrivere
e per i vari interessi. Questa frammentarietà dipende da due fattori: l’ampio spettro di interessi dell’autore,
legato alla sua naturale curiosità intellettuale; dalle condizioni materiali in cui si trovò a scrivere, dato che la
sua principale attività di intellettuale gli richiedeva di dedicarsi alla scrittura quando aveva il tempo e di
affrontare tematiche tra e più disparate, che rispondevano alle esigenze del suo progetto politico. Per farsi
un’idea della statura di intellettuale e artista di Martí, sarebbe sufficiente scorrere l’indice dei 26 volumi in
cui sono raccolte tutte le sue opere. Scorrendo questo indice, risulta che Martí ha composto tre raccolte di
poesie pubblicate in vita, moltissime altre pubblicate su quotidiani e riviste; ha scritto diverse opere teatrali
e un romanzo; naturalmente, ha redatto proclami e manifesti politici. Ha svolto l’attività di giornalista,
quindi ha scritto moltissimi articoli e studi teorici estesi e approfonditi nei quali si occupa di politica,
economia, scienze giuridiche, agricoltura, geografia, agronomia, scienze del’educazione, pittura, musica e
della condizione della donna nella società contemporanea; saggi sullo sviluppo storico sociale, artistico ed
economico dei Paesi latinoamericani e degli Stati Uniti – ben 5 volumi erano dedicati agli scritti sugli Stati
Uniti –, ma anche della cultura e della politica di molti Paesi europei, dimostrando di essere al corrente di
tutti gli aspetti che riguardavano la politica, l’arte, i conflitti sociali e persino alcuni fatti di cronaca da
Germania, Italia e Francia. Era molto informato, leggeva tantissimo. Scrive anche saggi di critica letteraria,
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

cronache e resoconti di viaggi, una serie di diari e un epistolario che racconta dei contatti che Martí aveva
con i principali intellettuali e artisti sia in America latina sia in Europa. Per districarsi in questa produzione e
mettere in luce alcuni aspetti del contributo intellettuale di Martí alla storia ispanoamericana si può usare
come linea guida la sua biografia. La sua vita può essere suddivisa quattro tappe:

 quella cubana , dalla sua nascita (1853) al 1870


 quella della deportazione in Spagna (1871-1874)
 gli anni dell’esilio in Messico e Guatemala (1875-1879)
 il lungo periodo di permanenza negli Stati Uniti (1880-1895)

Nasce a L’Avana da genitori spagnoli, quindi era un criollo, di classe non particolarmente agiata, che erano
emigrati a Cuba. Suo padre era un modesto funzionario dell’amministrazione statale. Tra i suoi primi
maestri di scuola ha la fortuna di incontrare Rafael María de Mendive, poeta piuttosto mediocre, ma di idee
liberali e di buona cultura. De Mendive lo introduce al Romanticismo, ma soprattutto si accorge che il
giovane Martí ha molto talento. La prima adolescenza di Marti avviene in un periodo agitato della storia
cubana.

Il 10 ottobre del 1868, Carlos Manuel de Céspedes lanciò un famoso proclama conosciuto come El grito de
Yara, in cui si annunciava l’indipendenza di Cuba e la liberazione degli schiavi neri. Questo fu l’inizio della
prima guerra d’indipendenza cubana (La guerra grande), che sarebbe durata per dieci anni. Il giovane
Martí, che all’epoca aveva 15 anni, animato dal senso patriottico trasmessogli dal suo maestro, inizia a
scrivere e pubblicare, nel 1869, due opuscoli clandestini: El diablo cojuelo e La patria libre. Su quest’ultimo,
Martí scrive Átala, poema drammatico abbastanza ingenuo di taglio marcatamente romantico in cui il
protagonista sacrifica la sua vita per difendere la sua patria dagli oppressori. Pochi mesi dopo la
pubblicazione di questo opuscolo, viene messo sotto accusa dalla polizia coloniale per cospirazione contro
la Spagna e, portato di fronte al giudice, Martí si dichiara orgogliosamente colpevole; viene processato, in
un primo momento condannato a morte, ma questa condanna viene convertita in sei anni di lavori forzati
in una cava di pietre. Dopo sei mesi di detenzione, su intercessione di suo padre, la pena gli viene
commutata in deportazione in Spagna, quindi inizia nel 1871 il primo esilio forzato di Martí, che finisce nel
1874. Questo periodo coincide con la sua fase di ulteriore formazione intellettuale. Può iscriversi alle
Università di Madrid e Saragozza, dove frequenta corsi di filosofia, letteratura e diritto. Non si limita
soltanto a migliorare la sua educazione, ma nel 1871 pubblica un opuscolo polemico intitolato El presidio
político en Cuba, in cui racconta della sua esperienza di condannato ai lavori forzati. Nel 1873 pubblica un
saggio storico (La República española ante la Revolución cubana) in cui denuncia il regime coloniale
spagnolo.

Nel 1874 lascia la Spagna e si dirige in Francia, per poi andare in Messico facendo scalo a New York. La
permanenza in Messico coincide con un periodo molto intenso e proficuo dal punto di vista intellettuale e
artistico. Nel 1876 pubblica e mette in scena un dramma in versi (Amor con amor se paga) e prepara due
versioni di un altro testo teatrale (Adúltera). In Messico conosce il poeta e scrittore Gutiérrez Nájera, con
cui manterrà sempre un rapporto epistolare e inizia a lavorare con diversi quotidiani e riviste, tra cui una
dal titolo El socialista, pubblicando poesie e articoli su arte, cultura e politica. In questo periodo, si iniziano
a delineare le sue idee panamericaniste. Nel 1876, in Messico si instaura il regime militare di Porfirio Díaz e
di fronte a questo evento Martí si trasferisce in Guatemala, dove si sposa con una donna che aveva
conosciuto in Messico. Vi rimane pochi mesi e ritorna a Cuba, dove la situazione per lui non era rosea.
Siamo nel 1879 e a Cuba riprende la sua attività di cospiratore e rivoluzionario, ma, siccome la polizia lo
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

teneva d’occhio, viene quasi subito catturato e condannato alla deportazione in Spagna. Vi rimane pochi
mesi, perché riesce a eludere la sorveglianza, va in Francia e si imbarca per New York.

Qui inizia la tappa più importante della sua carriera. La sua reidenza principale sarà soprattutto New York,
ma la sua attività di politico e organizzatore di questa rivoluzione indipendentista lo porterà a viaggiare in
tutti gli Stati Uniti e in altre città dell’America latina, nel tentativo di fare propaganda, sensibilizzare
l’opinione pubblica e raccogliere finanziamenti e uomini disposti a seguirlo per rovesciare il regime
coloniale. A New York inizia a organizzare dei gruppi di esiliati cubani, pensando a un’invasione armata.
Contemporaneamente, nel 1882 pubblica Ismaelillo, che aveva già iniziato a scrivere nel 1880. Questi anni
coincidono con un momento drammatico dal punto di vista personale e affettivo: il suo rapporto coniugale
si è deteriorato e la moglie e il figlio, cui era molto affezionato, sono ritornati a Cuba. Nello stesso periodo,
Martí aveva iniziato un’altra relazione sentimentale.

Queste complicate e dolorose faccende private costituiscono il retroscena da cui trae origine la racoclta
Ismaelillo, libro concepito pensando nostalgicamente e affettivamente a un figlio ormai assente e
impossibile a raggiungere – in effetti, lo scrittore lo rivdrà pochissime volte negli anni successivi. Ismaelillo
può essere considerata come la prima opera della letteratura ispanoamericana in cui si manifestano
inequivocabilmente alcuni dei principi formali e alcune delle tematiche che caratterizzeranno tutta la
corrente modernista. Questa raccolta di 15 composizioni, a una prima lettura, risulta semplice, ingenua,
quasi infantile; in realtà, non è una poesia che non possiede uno spessore. Al contrario, per capire la sua
profondità, bisogna prendere in esame il titolo: non si riferisce al vero nome del figlio di Martí – che si
chiamava José –, bensì al nome biblico di Ismael, che assume un valore simbolico e fornisce una chiave
interpretativa di questa prima raccolta, che Martí considerava come l’inizio della sua maturità artistica;
Ismael è il nome del figlio che Abramo ha con la sua schiava di origine egiziana Agar; questo quando la
moglie Sara sembrava sterile; nato Ismael, uomo fiero e guerriero secondo le profezie, Sara concepisce e
partorisce Isacco, che diventerà l’erede di Abramo. Sara, quando nasce il primogenito di Abramo, gli chiede
cacciare Ismael e la madre Agar dalla famiglia; quindi, vengono allontanati nel deserto, dove Ismael cresce,
diventando un abile arciere, tant’è che Dio gli promette di farlo diventare il condottiero di una grande
nazione. Agli occhi di Martí anche il piccolo José è stato allontanato dal nucleo della famiglia e rappresenta
il simbolo del riscatto di una nuova nazione, quindi ha un valore profondamente simbolico. In effetti, in
questa raccolta, il figlio assume un ruolo protettore nei confronti del padre; al contrario, il padre appare
dichiarando esplicitamente il suo smarrimento di fronte alle avversità del mondo e, quindi, l’io lirico si
affida al figlio piccolo per cercare sicurezza e ritrovare il coraggio di continuare/riprendere a lottare. La
composizione che apre la raccolta è rappresentativa del tono e dello stile che caratterizzano le altre 14
poesie. Sono affini a quello che sarà la successiva raccolta di poesie, ovvero Versos sencillos, pubblicata
dieci anni più tardi.

Queste due raccolte sono tradizionalmente considerate le più rappresentative della modalità espressiva
delicata e idilliaca di Martí. Tra l’altro, questa espressività è un’impressione che vale solo per una lettura
superficiale. A un livello più profondo, le liriche di Ismaelillo e di Versos sencillos esprimono una tensione e
un conflitto drammatico, cioè riflettono le angoscie e difficoltà materiali di un uomo che sa di dover
affrontare un mondo crudele e degradato e che, al contrario, cerca nell’affetto del figlio e nella semplicità
della dimensione naturale un momento di ricreazione. Le poesie di queste raccolte sono considerate
semplici e spontanee anche dal punto di vista formale, infatti sono lontane dall’opulenza retoria del
Tardoromanticismo, ma questa semplicità è ottenuta attraverso una modalità di scrittura tutt’altro che
banale e che privilegia la sobrietà espressiva e l’uso di immagini chiare e nitide e una metrica equilibrata –
versi ricchi di eufonia e ritmo, evitando la rima. Non è un caso che molte poesie di Martí siano state messe
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

in musica da cantautori famosi, soprattutto negli anni ’60 e ’70 del ‘900, quindi che abbiano ottenuto una
nuova popolarità. Si tratta di poesie che, per la loro natura, rendono facile trasformarle in canzoni; d’altro
canto, attraverso queste versioni, si riesce ad apprezzare meglio la musicalità della scrittura di Martí. Un
esempio particolarmente efficace è la 39° composizione di Versos sencillos.

XXXIX

Questa composizione è stata musicata anche dal cantautore italiano Sergio Endrigo alla fine degli anni ’60. I
versi sono ottosillabici. Si può considerare una sorta dal messaggio evangelico: porgi l’altra guancia nella
buona e nella cattiva sorte (in estate e in inverno). Questa concetto etico viene espresso ricorrendo a una
metafora appartenente al mondo naturale. L’uomo appare come una sorta di giardiniere dei sentimenti. Il
messaggio di Martí è di pace e armonia tra gli esseri umani.

Anche la poesia che apre Ismaelillo esiste sotto forma di canzone, in questo caso musicata da Pablo
Milanés, uno dei più famosi cantautori latinoamericani e che ha composto un disco intero attraverso la
rielaborazione di alcune poesie di Martí. La figura del figlio rappresenta il personaggio centrale della prima
raccolta di poesie. A questa figura, l’io lirico si riferisce come el principe enano, mi caballero, mi reyecillo,
hijo del alma, mi despencero, mi nucilla traviesa. In tutte le composizioni il padre appare inferiore,
subordinato al figlio, che viene rievocato attraverso sogni e visioni in cui il poeta si immerge per assorbire la
serenità e la forza che simbolicamente il giovane incarna. È una raccolta all’insegna dell’amore paterno e
nasce da un periodo drammatico che Martí stava attraversando. Di fronte a questo periodo buio, il figlio
appare come forza luminosa e vitale a cui il padre chiede protezione e coraggio. Tutte le 15 composizioni si
giocano su questo contrasto fra la realtà, che appare tenebrosa, e la presenza solare del bambino, che
allontana queste tenebre con la sua vivacità, su un’inversione dei ruoli tra padre e figlio; addirittura, in una
poesia, Martí si definisce hijo de mi hijo. Non è il padre ad apparire come protettore, anzi il figlio sembra
riparare quasi come uno scudo il padre dalle sciagure dell’esistenza. Anche quando vengono evocati
momenti di intimità e i giochi tra padre e figlio, è quest’ultimo a dirigere e comandare, mentre il padre, che
si lascia guidare dal figlio, appare soggiogato e inerme, però felice.

Nel prologo di Ismaelillo, il poeta esprime il suo atto d’amore nei confronti del figlio, l’ammissione del senso
di smarrimento verso un mondo che appare minaccioso. Esprime ottimismo nei valori fondamentali
dell’umanità, un progressismo idealista, fiducia nei valori etici che devono essere alla base del patto sociale
e negli affetti della sfera privata. Successivamente, c’è una sorta di dichiarazione programmatica, nonché
una consapevolezza dell’originalità ch Martí ha di sé stesso. C’è un senso di profonda nostalgia che la
poesia, attraverso il ricordo, cerca di compensare rievocando la figura amata del figlio. Il ricordo mantiene il
legame vitale col bambino. I ruscelli sono il flusso dei sentimenti che il poeta prova.

Come detto, il poeta rivede pochissime volte il figlio, che diventerà un militare e un personaggio abbastanza
importante, riconosciuto come figlio del fondatore della patria.

El principe enano

È una poesia che alterna versi di sette e cinque sillabe. Non ha schemi di rime, che non appaiono, ma è
molto ricca di assonanze e di una ritmica piuttosto insistente. Usa nano come se fosse un termine che lui
era abituato a usare nei confronti del figlio come vezzeggiativo. Tutta la composizione è giocata
sull’evocazione di una festa cui il bambino partecipa. Le allitterazioni sono indice di un’accurata
elaborazione formale. Da notare anche il cromatismo, che connota il sentimento e ciò che suscita la figura
del bambino. Passa a descrivere alcune caratteristiche del figlio. Stelle nere è una fortissima
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

contrapposizione: la stella è luminosa per definizione; è un elemento referenziale, questi occhi producono
luminosità nonostante siano neri; il nero è l’assenza di luce, che viene vinta dalla presenza della luce negli
occhi del bambino; altro aspetto introdotto dagli occhi è il movimento, perché palpitano. Man mano che si
prosegue con i versi, la dimensione simbolica aumenta sempre di più. La corona è simbolo della regalità, del
dominio, ma può essere considerata anche come realizzazione di pienezza suprema. Viene introdotta
l’immagine della sottomissione della forza all’amore. Il padre, però, dice che la sua mano è capace di
imbrigliare cavalli e iene: questa immagine si riferisce all’impeto di altri suoi collaboratori, che avrebbero
voluto accelerare nel piano della liberazione di Cuba; le iene sono coloro che vanno contro i desideri e la
volontà del padre e costituiscono il nemico.

Anche dal punto di vista iconografico, questo pallore ne ricorda altri della tradizione letteraria: ad esempio,
il pallore che assale l’innamorato di fronte all’amata e al sacro timore che ha di guardarla; altro riferimento
potrebbe essere al Vangelo (il pallore di Maria di fronte alla croce). Qui, l’adulto si pone in una ocndizione
di subordinazione emotiva nei confronti del figlio. Dipendenza che si fa ancora più evidente e totale nella
strofa seguente. Anche caballero denota un tono affettuoso e familiare. Questa connotazione conferma il
bisogno di protezione che avverte José Martí. Tiranno è un elemento antifrastico usato in senso positivo; è
colui a cui non si riesce/può dir di no. È la rappresentazione in termini materiali di una condizione di
tristezza in cui l’autore è caduto e una sorta di abisso e prigione dello spirito e della vitalità. La caverna è
buia, mentre il figlio è elemento luminoso. Tutte queste suggestioni cromatiche saranno elemento
caratteristico del Modernismo – lo stesso opale, la contrapposizione luce-oscurità. L’ombra acquista
luminosità, così come il sole penetra le nubi nere e fa assumere dei colori sgargianti. Il poeta ha iniziato a
pensare alla lotta per affrontare le difficoltà personali e collettive che la vita gli impone. È come se Martí
avesse bisogno di conferme che la figura del figlio idealmente gli dà. Martí appare quasi consacrato come
guerriero della luce, col suo stendardo rosso e violetto, quindi di colori sgargianti.

Lo spirito del poeta sembra acquistare fiducia in sé stesso attraverso il figlio; abbandona la passività o la
tentazione di essa e ritorna a vivere, ad agire. Segue una sorta di sacrificio supremo che il padre fa per il
bene del figlio e che diventerà i sacrificio che lo stesso Martí farà come militante rivoluzionario per la
liberazione di Cuba.

21/04/22

Negli anni che seguono alla pubblicazione di Ismaelillo, Martí inizia la sua attività di politico e organizzatore
degli esodi cubani in vista della liberazione della sua patria. In particolare, stringe un rapporto di
collaborazione e amicizia con Máximo Gómez, militare originario della Repubblica Dominicana, e con
Antonio Masseo, militare nato da madre cubana e padre venezuelano. Saranno fondamentali per
organizzare la liberazione di Cuba, la guerra contro l’esercito spagnolo, che ancora occupava l’isola. Con
Gómez, Martí ha un rapporto un po’ cauto perché lo considera un militare e militarista e teme che possa,
una volta conquistata la libertà dell’isola, assumere delle pretese di governo. In realtà, si rivelerà fedele alla
causa cubana. Insieme a loro due, Marti inizia a elaborare un piano e a raccogliere fondi per l’invasione
armata di Cuba; di fatto, Gómez diventerà comandante supremo dell’esercito volontaro che invaderà Cuba
nel 1896 e porterà alla sconfitta l’esercito coloniale spagnolo; Masseo sarà vicecomandante, ma cadrà in
combattimento.

Dal 1883, Martí inizia a collaborare stabilmente anche con i principali quotidiani del Messico, dell’Uruguay,
dell’Honduras e dell’Argentina, per i quali scrive articoli e cronache di taglio politico e culturale, ma questo
suo rapporto con la stampa gli permette anche di proporsi come figura di riferimento per la liberazione di
Cuba. In questo periodo, scrive anche molte delle poesie che verranno pubblicate postume nella raccolta
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Versos libres, così come scrive altre composizioni liriche che verranno pubblicate sparse su quotidiani e
riviste.

A New York, Martí lavora come traduttore per una casa editrice dall’inglese allo spagnolo e viceversa; nei
momenti più critici dal punto di vista economico e finanziario, lavora anche come impegato contabile per
una ditta privata. Nel 1885, mentre è impegnato in queste attività, scrive anche il suo unico romanzo
(Amistad funesta), opera non particoalrmente brillante, pubblicato a puntato sulla rivista El
latinoamericano: il fatto che a New York si pbblicasse una rivista in lingua spagnola rende l’idea di quanti
cubani si esiliarono dall’isola e fondarono delle comunità di esiliati latinoamericani. Negli anni successivi,
viene nominato console dell’Uruguay e dell’Argentina. Nel 1889, fonda, dirige e scrive una rivista per
bambini adolescenti, che prende il titolo La edad de oro. Questo progetto, che sembra marginale nella vita
letteraria di Martí, rappresenta molto bene il suo concetto pedagogico di attivismo culturale inteso come
intrattenimento, educazione e coltivazione la sensibilità artistica nei più giovani. Infatti, ogni numero di
questa rivista, che pubblicherà quattro numeri e poi chiuderà per problemi economici, oltre che per altre
attività chhe Martí stava sostenendo, conteneva racconti e poesie per bambini, saggi brevi e semplici che
trattavano varie materie (scienza, arte letteratura, storia, ecc.): lo scopo di questa rivista era fornire alle
giovani generazioni dei Paesi latinoamericani uno strumento culturale in grado di risvegliare il loro interesse
e la loro curiosità nei confronti del mondo con una modalità espositiva chiara e avvincente. Questa è una
delle prime pubblicazioni che compaiono in spagnolo dedicate ai giovani e uno tra i tanti lavori che Martí
intraprende nella sua opera molto ampia e vasta.

Nel 1890, Martí compone e pubblica la sua seconda raccolta di poesie (Versos sencillos), che conferma la
direzione presa dieci anni prima dall’autore con Ismaelillo e, rispetto a quest’ultima, questa presenta delle
analaogie formali e relative alle circostanze biografiche nel momento in cui viene composta. Ismaelillo
nasce dalla profonda nostalgia e mancanza che sente Martí rispetto al giovane figlio; anche in questo caso,
le circostanze sono abbastanza drammatiche. Per Martí, l’inizio degli anni ’90 dell’Ottocento coincide con
un altro periodo critico dal punto di vista familiare e affettivo, ma anche da quello politico e sociale: nel
1891, viene sancito formalmente il divorzio definitivo dalla prima moglie; si verificano alcuni eventi che
impensieriscono Martí, al punto da farlo cadere in una forma di depressione, di prostrazione fisica, che
mette in allarme il suo medico personale. Martí allude esplicitamente a questi eventi di carattere politico
nel suo breve prologo a Versos sencillos, in cui vengono rievocate l’atmosfera e le circostanze in cui
nascono queste poesie.

Se Isamelillo aveva una dimensione prettamente personale, qui la dimensione evocata è collettiva. L’aquila
è il simbolo dell’imperialismo statunitense – che ha conquistato il Messico tra il 1846 e il ’48, quando gli
Stati Uniti invadono l’odierno sud-ovest americano –, quindi fa riferimento alla rapacità degli Stati Uniti
dopo la promulgazione della Dottrina Monroe. La riunione cui fa riferimento Martí è la conferenza
interamericana, di carattere economico-finanziario, cui Martí partecipò direttamente come delegato
dell’Uruguay. López e Walker sono due personaggi storici marginali. Il primo combatté e morì per la
liberazione di Cuba; secondo alcuni, aveva delle mire su Cuba, nel senso che secondo alcuni storici avrebbe
avuto dei contatti con gli Stati Uniti affinché questi ultimi acquistassero l’isola dalla Spagna o la
invadessero, facendola passare sotto il dominio americano; López fu colui che diegnò l’attuale bandiera di
Cuba, costituita da tre bande azzurre intercalate da due bande bianche e la stella bianca – simbolo
massonico di libertà – nel triangolo rosso. Walker è molto più sinistro: era un avventueriero statunitense
che, nel 1853, organizzò un’invasione armata contro lo Stato messicano di Sonora, aiutato dagli schiavisti
del sud degli Stati Uniti. Più tardi, cercherà di invadere il Nicaragua e il Costa Rica: in un primo momenti, in
Nicaragua riuscì, per breve tempo, a prendere il potere, che durò poco; in Costa Rica, il suo tentativo di
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

entrare come dittatore nel governo della repubblica si tradusse in un confronto militare, con Walker che fu
catturato e ucciso. Poi passa sul piano personale. La prosa di Martí è molto elaborata, si fa fatica a seguire il
suo discorso, perché scrive frasi molto articolate. La patria che reclama Cuba sembrerebbe assurdo dal
punto di vista logico: questa patria è l’America latina, il riferimento alla visione panamericana di Martí.
Scrivere versi in montagna è la dichiarazione di serenità che lo aiuta a superare le difficoltà personali e a
riprendere il suo lavoro di politico e di poeta. Le due immagini finali sono due momenti opposti: l’onda che
batte contro le rupi del castello insanguinato è negativa; l’ape che vola tra i fiori è bucolica. Rappresentano
i due momenti esistenziali in cui si vive, nel male e nel bene.

Le preoccupazioni di Martí nascevano dal timore per le manovre imperialiste e dal segretario degli Stati
Uniti, che all’epoca era James Blaine – manovre nei confronti dei Paesi latinoamericani; a questo si niva la
preoccupazione per il destino di Cuba, che gli Stati Uniti avevano intenzione di annettere al loro territorio
insieme a Porto Rico. Quest’ultimo, di fatto, diventerà uno Stato aggiunto agli Stati Uniti, non ha le
prerogative degli Stati dell’unione, ma sostanzialmente è sotto il governo statunitense. Queste ansie e
l’intenso lavoro diplomatico avevano ridotto allo stremo il fisico di Martí, tant’è che il suo medico gli aveva
ordinato un periodo di riposo: Martí lo trascorre in montagna, nell’est degli Stati Uniti, dove inizia a scrivere
poesia che rappresenta una reazione ai suoi momenti difficili.

In Versos sencillos, il tema dominante spetta alla dimensione naturale, che permette al poeta di riconciliarsi
con il mondo e con sé stesso, di ritrovare la serenità. Martí vede nella natura la bellezza, l’armonia e la
semplicità. Questa rappresenta la dimensione autentica, quella della libertà; attraverso il suo contatto,
l’uomo può ritrovare la compartecipazione con il cosmo, che, agli occhi del poeta, rende l’esistenza piena e
felice. In questo senso, la dimensione naturale si contrappone a quella urbana e agli aspetti più negativi
della civiltà industriale, in cui Martí coglie la minaccia della disumanizzazione. La natura rappresenta la
realtà nella sua essenza più autentica, a cui l’individuo deve ritornare e in cui deve imparare a vivere in
armonia con sé stesso, con i suoi simili, in un ideale pacifista che sembra un paradosso, visto il suo essere
rivoluzionario. Versos sencillos è una raccolta di poesie che, dal punto di vista formale, si muove sulla stessa
lunghezza d’onda di Ismaelillo: i versi sono praticamente tutti ottosillabi; si manifesta un rifiuto totale
dell’artificio retorico fine a sé stesso e usato come puro ornamento, perché sono cose che impedirebbero al
poeta di esprimersi appieno e di definire i versi dell’anima. Da questo punto di vista, l’estetica di Martí è
molto chiara e viene espressa anche in numerosi scritti di carattere teorico, che dimostrano la sua piena
consapevolezza del lavoro che stava svolgendo, cioè la ricerca di una nuova forma espressiva, che coincide
con il Modernismo. A questo proposito, scrive: «In America sta già fiorendo la generazione nuova che
chiede peso [=sostanza] alla prosa e carattere [=personalià] al verso, e che esige lavoro e realismo in
politica e in letteratura. Il verso, per questi lavoratori, deve suonare e volare». Sono immagini
perfettamente adatte alla descrizione della poesia modernista. «Il verso, figlio dell’emozione, deve essere
puro e profondo come in una nota d’arpa»: fa riferimento alla semplicità formale, che non va a scapito di
una profondità che lo scrittore deve esprimere. Quasi tutte queste idee compaiono in forma lirica nella
prima delle 46 poesie della raccolta. Questa poesia è diventata famosa perché alcuni suoi versi compaiono
nella popolare canzone Guantanamera. Altra cosa da segnalare è l’uso molto discreto e innovativo delle
rime che ogni tanto il poeta usa, che si alterna a versi che non presentano la rima. Questa è una scelta
stilistica che verrà adottata anche da molti poeti ispanoamericani. La scelta di non usare sistematicamente
la rima indica il desiderio di sperimentare nuove forme liriche, più libere, anche se il tono della raccolta
tende a essere popolare, assimilabile a quello della ballata, di cui riprende i temi classici (amore, amicizia,
immagine della morte, del paesaggio naturale e della patria).

I
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Le poesie di Versos sencillos sono semplicemente indicate da un numero romano, quindi non abbiamo
alcun tipo di piccola introduzione. Questa è una sorta di poesia confessionale, una risposta alla domanda
esistenziale Chi sono io?, infatti risponde immediatamente. Il vocabolo sincero indica una virtù chiave per il
poeta, cioè la dirittura morale. La palma, simbolo di fertilità e di bellezza, è rappresentativa di Cuba.
L’ideale cosmopolita dell’io lirico, che trascende il provincialismo ed esprime il bisogno di una dimensione
universalistica, è delineato nella seconda strofa. Essere arte fra le arti è immagine dell’arte come artificio.
La dimensione naturale irrompe con le montagne/i boschi. Conoscere il nome di una cosa significa
possederne l’essenza. Tutto questo serve a esprimere pensieri e considerazioni che assumono un carattere
filosofico e metafisico. La costruzione ossimorica è evidente: le illusioni possono avere un’accezione
positiva, ma sono associate all’aggettivo mortali, mentre i dolori sono unicamente negativi e sono definiti
come sublimi. L’uso di queste strutture ossimoriche richiama l’attenzione del lettore. La notte oscure
rappresenta la sofferenza; le fa contrasto il manifestarsi della speranza, che assume connotazioni
ultraterrene – è la bellezza del mondo e dela vita che continua; la lotta tenebre-luce è uno dei topoi cui
Martí ricorre molto spesso nella sua poesia. La bellezza e l’armonia sono manifestazione tangibile della
forza e della vitalità, che prevalgono su morte e distruzione. Le farfalle e le donne con le ali, quindi
angelicate, sono simbolo di libertà e speranza. La strofa successiva è un riferimento autobiografico alle
sofferenze che gli causarono grandi sofferenze; l’io lirico manifesta un certo stoicismo. Il pugnale conficcato
nel petto rappresenta le pene d’amore. Riferimenti autobiografici che permeano anche la strofa successiva:
il primo è un riferimento esplicito alla morte del padre, che sembra morire per il dolore che gli aveva
causato l’arresto, la deportazione, le condanne subite dal figlio; il secondo si riferisce al distacco dalla
madre, in occasione della deportazione in Spagna: quando Martí torna a Cuba, Martí ha conservato l’anello
di una catena dei ceppi a cui era legato e lo regala alla madre come simbolo del proprio sacrificio. Anche
nella strofa seguente, troviamo un riferimento a una circostanza della vita privata dell’autore: la paura di
Martí non si manifesta nei confronti della sua stessa vita, bensì verso l’altro. I riferimenti biografici non
terminano qua: la strofa che segue parla di quando il sedicenne Martí fu catturato e processato per
tradimento e, per l’appunto, il sindaco gli dovette leggere il testo della condanna a morte, poi tramutata in
deportazione e lavori forzati. In questi quattro versi, emerge l’atteggiamento stoico di chi accetta il proprio
destino, confortato dal fatto di aver agito secondo coscienza e senso del dovere, infatti gioisce quando si
sente leggere la condanna, conferma del suo impegno in quanto patriota. Poi riemerge l’immagine del figlio
lontano, quindi dell’affetto più profondo che il poeta nutre, che si fonde con quella della patria lontana,
oltre quel mare che spesso, nella poesia di Martí, ha una connotazione negativa, perché personifica tutto
ciò che lo separa dalla sua terra.

C’è il rifiuto dei valori materiali, ma soprattutto un’esaltazione del senso dell’amicizia, che, per Martí, è il
vincolo più sacro, superiore anche al sentimento amoroso tra uomo e donna. L’aquila è immagine di libertà
e, trasposta sul piano simbolico, rappresentazione della nobiltà d’animo, che, anche se ferita, si eleva verso
il cielo; azul sarà uno degli identificativi dell’estetica modernista, così come altri elementi della natura; la
vipera è immagine di impulsi vili e, nell’immaginario collettivo, l’animale che si nasconde, che coincide con
il tradimento, con l’idea del pericolo nascosto. L’immagine della notte e del crepuscolo ha un valore
simbolico: anche nell’ora più buia e triste, quando tutto sembra privo di vita, c’è qualcosa che continua ad
agire; questo elemento positivo viene assimilato al ruscello, quindi all’acqua, elemento vitale, ma acqua che
si muove, quindi il movimento intensifica la concezione di vitalità – il mormorio include anche la sonorità.
La strofa seguente è, probabilmente, più criptiche: orrore e giubilo sono appiati con un senso di paura e di
inspiegabile felicità. Forse, quest’immagine può essere letta come la metafora dela lotta per la libertà di
Cuba. Il dolore privato come essere umano diventa il dolore pubblico in quano cubano e patriota – la pena
di essere esiliato, quindi di non poter essere nella sua patria. Il dolore per la libertà negata al proprio
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

popolo è ciò che spinge a vivere l’autore e a sacrificare la sua vita, vive in virtù della patria. «Pueblo
esclavo» ha un doppio livello: a Cuba c’era ancora lo schiavismo, quindi il popolo è doppiamente schiavo. Si
passa a una visione estremamente ottimistica del mondo, in cui, agli occhi di Martí, sembra regnare
l’armonia; attenzione, perché Martí si sta riferendo alla natura, non alla civiltà in espansione. Nella
dimensione naturale, l’armonia tra arte e razionalità, tra poesia e libertà espressiva, sembra compiersi,
sembrano fondersi le due cose. Nonostante il discorso di Martí chiami spesso in causa gli ideali e i
sentimenti, questi hanno il loro fondamento non in un misticismo religioso, bensì nel mondo fisico, nella
materia; qui indica una materia umile come il carbone, che può diventare diamante. La vita dello sciocco –
probabilmente associato alla figura del ricco – è inutile, ma la sua scomparsa viene celebrata e pianta con
grandi cerimonie, il che è tanto stolto quanto il soggetto seppellito. Viene rappresentato il ciclo naturale
della vita e della morte: non è il funerale a cambiare le cose, è il funerale a riciclare il corpo. Considera
stupido ogni tentativo umano di trascendere attraverso la metrialità la morte o l’inesorabile destino.
Naturalmente, c’è anche l’immagine del perpetuarsi della vita in qesto ciclo; la morte non termina
l’esistenza in senso ampio; tutto viene rimesso in circolazione e genera altra vita. Negli ultimi versi, l’io lirico
si rende consapevole dell’inutilità degli sfrozi umani per esorcizzare il timore della morte e respinge il fasto
di una celebrazione che ritiene inutile; prospetta lo stesso atteggiamento nei confronti dell’arte. C’è
l’esaltazione della schiettezza di chi rinuncia all’accademismo, invece c’è un volgere lo sguardo alla purezza
e alla semplicità espressiva.

XX

È una poesia molto breve e semplice, sullo stesso piano di XXXIX. C’è una rappresentazione dello spirito con
cui Martí si rapporta con i sentimenti. Il sentimento erotico e amoroso ha un’estrema fragilità, che dipende
dal fatto che, se non è ricambiato, da grande gioia si trasforma in grande tormento. L’immagine della
controparte è come tentazione e, al tempo stesso, c’è una rappresentazione dell’oggetto d’amore come un
archetipo – non a caso di chiama Eva. Falsa si rierisce a comportamenti o manifestazioni d’affetto ambigue.
Nei versi successivi, spiega la fragilitò dei sentimenti. Appare l’idea di un amore infelice che la natura si
porta via, un dolore che è fuggevole come il muoversi delle nuvole nel cielo, tanto quanto il sentimento
amoroso. Se si apre con immagini negative, si chiude con una riconciliazione quasi panica con un’altra
donna (Martí era particolarmente donnaiolo). Il quinto verso rappresenta una forma speculare del primo; il
gioco di riflessi si ripete al verso successivo, che gioca sull’omofonia tra il «se va» e «es Eva». Negli ultimi
due versi, l’io lirico esprime una visione sdrammatizzata dell’amore e del dolore causato. Se vogliamo, è
presente anche qui una ciclicità, una capacità della natura in senso complessivo di rigenerarsi e di
rigenerare. È la ciclicità della vita che trionfa sulla morte e sugli aspetti negativi.

22/04/22

Quetse due raccolte sono esplicitamente caratterizzate da un profondo desiderio, da parte dell’io lirico, di
rendersi intelliggibile a tutti, è una poesia piuttosto semplice a un primo livello. In questi due volumi, Martí
affronta temi universali (amore, rapporto dell’uomo con la anatura, valori etici e civili), ma soprattutto
tende a esprimersi attraverso forme eleganti, ma non eccessivamente lavorate. Usa metri popolari e della
cosiddetta arte menor. È una poesia luminosa, musicale, che non respinge l’ascooltatore, bensì lo lascia
libero di fruirne a vari livelli.

Diverso è il discorso che bisogna fare per quanto riguarda la terza raccolta di poesie, ovvero Versos libres.
Fu pubblicata postuma, ma bisogna dire che, a differenza di altre raccolte ceh sono state ricostruite
posteriormente con poesie che non erano state pubblicate oppure erano stato pubblicate su riviste ed
erano rimaste successivamente inedite, questa raccolta, pur non avendo l’imprimatur di Martí, è stata
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

organizzata dallo stesso autore. Questa raccolta è costituita da composizioni che furono scritte più o meno
negli stessi anni delle poesie di Ismaelillo. Versos libres rappresenta l’espressione lirica più tormentata e
pessimista di Martí; al tempo stesso, è anche quella più difficile, sia perché evita sistematicamente la rima
sia perché in certi momenti è difficile seguire il flusso di pensieri dell’autore, proprio perché si tratta di una
poesia confessionale e non sempre le allusioni risultano chiare. A questo proposito, nel prologo alla
raccolta, Martí scrive: «Amo las sonoridades difíciles, el verso scultórico, vibrante como la porcelana,
volador como un ave, ardiente y arrollador como una lengua de lava», tutti elementi contrastanti, quindi
indicano una poesia ricca dal punto di vista formale. «Tajos son estos de mis propias entrañas, mis
guerreros, ninguno me ha salido recalentado, artificioso, recompuesto. Estos versos son como lagrimas que
salen de los ojos y la sangre a borbotones de la herida». I temi affrontati in queste poesie sono ancora una
volta quelli tipici di Martí (amore, sofferenza, senso di angoscia esistenziale, senso di responsabilità civile e
morale che sente l’io lirico come essere umano e patriota). Il tono è sempre molto intenso e, a tratti,
l’emotività sembra quasi prendere il sopravvento, soprattutto quando il poeta affronta le questioni sociali
che nascono nel e dal contesto contesto storico, così come quando esprime su un piano più esistenziale e
filosofico l’angoscia dell’uomo di fronte alla vita e al mondo.

Martí parte sempre dall’esperienza vissuta, ma tende a proiettarla su un piano universale. In questa
raccolta, spesso questo processo emotivo e intellettivo coincide con una forma di trascendenza visionaria,
sempre fondata su solide basiche etiche e morali. A questo proposito, bisogna sottolineare che, se per
molti poeti modernisti si può parlare di un misticismo visionario che tende a una trascendenza escapista,
per Martí si deve parlare di un misticismo laico, etico e morale: non è una forma di escapismo, al contrario
riporta il lettore alla realtà storica e contingente. Oltre ai fondamenti morali, umanitari e civili, l’altro punto
fermo di Martí è la dimensione naturale, che contrasta sempre con la dimensione urbana. Andare verso la
natura non significa fuggire dalla realtà e dalle responsabilità, ma piuttosto ritornare all’essenza stessa della
vita, ovvero l’autenticità. Per Martí, la natura e l’etica umana costituiscono le due facce della stessa
moneta. Non bisogna dimenticare le influenze che Martí riceve: negli Stati Uniti, Martí legge i
trascendentalisti (Emerson, Whitman, Thoreau), autori che ammira molto e che sono in sintonia con la sua
visione del mondo. In Amor de ciudad grande c’è una riflessione etica e morale sulla fragilità e sulla
mercificazione dei sentimenti nel mondo urbano; l’amore nella grande città, agli occhi di Martí, risulta
degradato dalle interferenze della materialità con la dimensione sentimentale.

Poética

Già il titolo è un’affermazione programmatica. È una composizione nella quale Martí ricostruisce i
fondamenti della sua poetica, non in senso tecnico, ma sul come vede e considera la poesia. Il primo verso
è una dichiarazione di principio etico ed estetico: arte e verità sono inscindibilmente legate.
Programmaticamente, Martí afferma che la forma va coltivata e raffinata, ma soltanto nella misura in cui
serve a esprimere l’idea, non soltanto il senso del bello. Gli spadini sono armi di mera rappresentanza, non
hanno la funzione propria dell’arma. Le immagini espresse rimandano a un’atmosfera e a un mondo frivolo.
Il poeta dice che il suo verso conosce questo mondo. Usa una lunga metafora; fuori di allegoria, il poeta
dice di essere in possesso degli strumenti tecnici e retorici che usano i poeti alla moda, che cantano gli
sfarzi della nobiltà – potrebbe tranquillamente esprimersi come loro, scrivendo composizioni leziose per
celebrare personagi tra l’immaginario e il reale. Alla pura eleganza formale il poeta rinuncia in favore
dell’espressione di sentimenti autentici. L’ultima è un’affermazione metaforica: il canarino rappresenta la
società descritta in precedenza, quella degli spadini, dei farsetti colorati, della principessa – una sorta di
corte; questa società viene contrapposta alla vita rustica, semplice, del mondo naturale, rappresentato
dall’aquila, che qui ha una connotazione positiva.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Banquete de tiranos

Possiamo definirla come una poesia di denuncia ed è una tra le poesie più antologizzate, quindi famose e
conosciute. Nasce dall’osservazione critica della società statunitense, che, in quel periodo, sta andando
incontro a una netta trasformazione: dal capitalismo classico basato sulla competizione e sul libero
scambio, si sta passando al capitalismo dei monopoli, che concentra grandi ricchezze nelle mani di pochi e
limita molto la mobilità sociale. È un periodo che vede un’involuzione nella politica del Paese, che è sempre
meno rappresentativa, meno democratica e che tende a proteggere gli interessi delle corporazioni e dei
finanzieri.

I tiranni sono i magnati della modernità, dell’industria e del commercio e della finanza. Martí li descrive
come esseri vuoti di valori umani, quindi pieni di nulla. Per esprimere la loro disumanizzazione, Martí
ricorre alla zoomorfizazzione (o teratomorfizzazione), quindi li trasfigura in essere bestiali. A questi soggetti
contrappone parte del resto dell’umanità, che spande amore per gli altri, non per la materialità e per la
ricchezza. Possono essere assimilati agli uomini generosi che agiscono per il bene comune anziché per il
proprio interesse personale. La dicotomia dell’umanità è presente anche nella natura (tortore-fiere). Va inn
profondità a questa metafora e spiega cos’è questo banchetto, cosa mangiano i tiranni. Questi vengono
rappresentati come esseri che cannibalizzano i propri simili, gli svuotano l’anima, quindi sviliscono la natura
umana. Ce ne sono alcuni che sono gli sfruttatori; gli altri danno l’anima perché questi, rappresentati come
dei ghiottoni, se ne nutrano. I potenti sono persone ciniche, fredde come il coltello che uccide l’innocente,
l’inerme; questo coltello, penetrando nel corpo, si riscalda col sangue e con le carni; l’immagine è rafforzata
dal termine vergine, che indica l’innocenza. Il ferro freddo è una metonimia dell’economia industriale
spietata. Con la mano, ritorna l’immagine della cannibalizzazione, con il cannibalizzato che diventa martire
del sistema. Il termine hocico rimanda alla bestializzazione/zoomorfizzazione dei potenti. In questi versi,
l’alta società viene rappresentata come un banchetto empio, dissacrante. I tiranni divorano la vittima
sacrificale, che può essere assimilata al lavoratore, ma improvvisamente questo loro pasto viene interrotto:
è la ribellione di chi si oppone alla loro tirannia; oppure possiamo considerare che la luce che spunta sia
quella dei valori morali, umanitari – è un’immagine visionaria e apocalittica che rappresenta i potenti come
animali dal muso ancora sporco di sangue umano, ma, di fronte a questa luce, i tiranni vengono visti fuggire
tremanti nelle viscere della Terra, lontano dalla bellezza e dalla vita. Quella rappresentata da Martí è una
sorta di degradazione della vita e un qualcosa di grottesco. A questo punto, l’autore precisa chi sono questi
tiranni. Martí usa le negazioni anche perché sembrano sottrarre l’elemento umano. I segundones erano i
secondogeniti, quindi una classe che ha potere economico e politico, ma che, in una visione etica della vita,
rappresentano degli scarti dell’umanità; sono inferiori perché non hanno la nobiltà d’animo che hanno gli
onesti, coloro che si preoccupano anche del prossimo. Conclude dicendo anche con termini negativi e
sottrattivi: «sólo A su goce ruin y medro atentos Y no al concierto universal». L’ultima strofa chiude il
discorso. Martí diventa abbastanza ellittico: il sottinteso è che i tiranni cercano, amano la frivolezza. A
questa visione pessimistica finora riscontrata, qui inizia a contrapporsi una visione che prefigura un
rovesciamento della situazione. «Y si acaso sin sangre hacerse puede, Hágase…»: esorta alla ribellione
sociale che Martí auspica possa avvenire senza violenza, ma che deve portare alla fine dello sfruttamento.
Ritorna l’immagine molto forte dei potenti come cannibali e c’è l’immagine dell’ideale operaio, che
letteralmente inchioda i tiranni a dei pali e sigilla la loro ideologia in una bara.

A cominciare dal 1890, Martí si dedica quasi a tempo pieno all’organizzazione della guerra di liberazione di
Cuba, in quanto è consapevole che la situazione storico-politica dell’isole è favorevole per i patrioti: la
Spagna èin difficoltà a mantenere il controllo delle colonie. Per questa ragione, abbandona l’attività
giornalistica per i quotidiani statunitenti, così come qualsiasi cosa che possa togliergli energie per la sua
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

opera principale di patriota. Nel 1892, viene fondato il Partido Revolucionario Cubano, di cui Martí
vieneeletto presidente e l’organo ufficiale di questo partito sarà il periodico Patria, diretto e scritto, in gran
parte, dallo stesso Martí. In questi ultimi anni di vita, viaggia molto tra Stati Uniti e Costa Rica, Santo
Domingo e Messico; questo per tenere le fila dell’organizzazione militare che sta costruendo insieme a
molti altri patrioti; in quest’impresa, c’è anche un fattore economico, perché bisogna trovare i fondi per
comprare le armi. Nel 1895, finalmente viene decisa l’invasione di Cuba da parte del piccolo esercito di
rivoluzionari. Il primo piano di sbarco sull’isola (Plan de Fernandina) va a monte per un problema
organizzativo. Alcuni giorni più tardi, Martí lascia New York, si dirige a Santo Domingo, dove incontra
Máximo Gómez e firma il Manifiesto de Montecristi, proclama della prossima liberazione di Cuba. Alcuni
mesi più tardi, insieme a pochi uomini, Martí lascia Santo Domingo e sbarca a Cuba, nella provincia di
Oriente. Sull’isola è stata già organizzata una forma di ribellione guidata da Masseo e Gómez, veri
comandati militari di questa rivolzuione. Anche Martí, ufficialmente, ricopre una carica militare, ma non ha
competenze in fatto di armi e addestramento, infatti viene visto dalla popolazione come colui che sarà il
futuro presidente della Cuba liberata. Tuttavia, nel maggio del 1895, in uno scontro con le truppe spagnole,
Martí viene ucciso. Rimarrà padre della patria, ma non svolgerà alcun ruolo ufficiale nella Cuba
indipendente.

Manuel Gutiérrez Nájera

Fra gli autori della prima generazione modernista, troviamo questo messicano. È uno degli scrittori più
raffinati, colti e idealisti. Insieme a Martí, contribuisce a introdurre e diffondere in America latina quelle
novità stilistiche che caratterizzeranno la cultura letteraria ispanoamericana sotto l’egida del Modernismo.
Nasce nel 1859 a Città del Messico e ha una vita decisamente intensa dal punto di vista artistico, che però
viene stroncata da una morte precoce, che avviene nel 1895. Nato da una famiglia benestante e colta della
capitale, cresce seguendo un percorso religioso, perché la madre voleva che diventasse sacerdote. Questo
desiderio che la madre vorrebbe indurre lo porta a leggere da giovane i poeti della tradizione stilistica
spagnola (Luis de León, San Juán de la Cruz, Teresa Dávila): queste letture contribuiranno ad alimentare
un’inclinazione per il mistero e per la dimensione trascendente. Il progetto di fare di Gutiérrez Nájera un
sacerdote non dura molto perché la sua vera vocazione è la scrittura, infatti inizia a lavorare come
giornalista a 17 anni, attività che continuerà a svolgere fino alla sua morte. Come molti altri artisti della
generazione modernista, è uno scrittore completo, che pratica la prosa saggistica e di costume, che erano i
ferri del mestiere del giornalista dell’epoca; scrive anche poesia e narrativa breve. La sua vita è breve, ma,
dal punto di vista biografico, quasi insignificante. È la vita di un lettore accanito e molto impegnato nel suo
lavoro. Altro aspetto che si può sottolineare è che l’autore non si allontanerà mai dal Messico, dove
comunque potrà vivere immerso nel culto e nella cultura francese, sia perché il suo gusto va in quella
direzione sia perché il Messico di Porfirio Díaz aveva avviato questo rinnovamento soprattutto della
capitale ispirandosi a Parigi, tant’è che si può dire che il Messico era una nazione afrancesada. Per questa
ragione, il cosmopolitismo di Gutiérrez Nájera non nasce da un’esperienzavissuta, ma può essere
considderato un atteggiamento puramente intellettuale e letterario. A 29 anni, venne eletto deputato e,
poco prima dei trent’anni, sposa una donna di origine francese. Nel 1894, fonda la rivista Azul, che
diventerà uno degli organi più importnti di diffusione del Modernismo in America latina.

Nájera iniziò a praticare la poesia fin da adolescente e le sue prime composizioni sono inevitabilmente
dominate da un gusto romantico, che si evolve presto in forme più originali. Le sue composizioni liriche
vengono pubblicate su riviste e periodici, ma mai raccolte in un volume. La raccolta di queste poesie verrà
realizzata solo dopo la sua morte. L’unico volume che Nájera pubblicò in vita è una raccolta di racconti
molto suggestivi, ovvero Cuentos frágiles (1883). A proposito della prosa, il contributo di Nájera ala
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

scrittura in prosa del periodo è importante almeno quanto il suo contributo come rinnovatore della poesia.
Molti dei suoi racconti evocano l’atmosfera parigina di fine secolo, anche se non sono quasi mai ambientati
nella capitale francese. Sono tutti racconti brevi in cui domina un’atmosfera irreale, l’eleganza, i toni
languidi e una grande espressività verbale ottenuta soprattutto grazie all’uso del cromatismo. Spesso, come
accade per Darío, i suoi racconti avevano una struttura molto affine a quella della poesia, così come alcune
delle sue cronache. La sua prosa è quasi poematica, tendenzialmente va verso una cura e un’attenzione ai
termini che usa, alle atmosfere che può creare con i vocaboli, tutti riferimenti a elementi evocativi. Il 1882 è
un anno che segna una svolta significativa nella produzione artistica di Nájera, soprattutto per quanto
riguarda la poesia. Si forma attraverso l’estetica romantica, che assimila dai francesi, ma anche da Leopardi;
gli inizi di questa sua produzione poetica riflettono la sua influenza romantica sia dal punto di vista dei temi
e della sensibilità rispetto alla scrittura. Verso gli inizi degli anni ’80, Nájera inizia a leggere anche i simbolisti
ed entra in contatto con i parnassiani, sia attraverso la lettura di Leconte de Lisle sia attraverso l’opera di
Gautier. Nájera è attratto dal loro immaginario e dalle loro tecniche di scritture, dall’abilità con cui usano la
forma e il cromatismo, ma anche dagli effetti visuali che si riescono a rendere attraverso la parola. A questo
repertorio, Nájera tende ad attribuire un valore simbolico, cosa che molto spesso i parnassiani non
facevano; generalmente, il simbolo viene associato a uno stato d’animo. I soggetti delle sue poesie hanno
spesso una valenza intima, per certi aspetti autobiografica. L’inizio degli anni ’80 coincide con un momento
di evoluzione dal punto di vista artistico, che deriva dalle sue letture di scrittori parnassiani e simbolisti.
Questa fase di trasformazione è testimoniata sia da alcune traduzioni che Nájera fa dei suoi scrittori
francesi preferiti sia dalla sua stessa produzione poetica. Gutiérrez Nájera è particolarmente sensibile
all’artificio del cromatismo, che inizia a usare in modo deliberato e nella poesia e nella prosa. Le tracce di
questo tratto stilistico sono evidenti in numerose poesie, in particolare De blanco e Ada verde. A differenza
di altre composizioni, in cui i riferimenti visuali sono di vari colori, queste due composizioni sono
monocromatiste. Questa strategia compositiva crea effetti molto intensi grazie al virtuosismo di Nájera. La
duquesa job è una rappresentazione molto eloquente della dimensione anche frivola a cui il Modernismo
attinge, che si troverà anche in Rubén Darío e che diventerà motivo di critica quando questa inclinazione
per la leggerezza diventerà un cliché o quando verrà abbandonata dallo stesso Darío, che, nelle ultime fasi
della sua vita, scriverà una poesia più esistenziale, sobria e cupa.

28/04/22

De blanco (1888)

È una delle composizioni più conosciute e intriganti di Nájera. È la poesia per eccellenza nel repertorio di
Nájera che si avvale della resa cromatica. L’ispirazione di questa poesia viene a sua volta da una
composizione analoga di Gautier, ovvero Simphonie en blanc majeur. Nella poesia di Nájera si trova anche
la dimensione musicale. In questa poesia, troviamo fusi i procedimenti tecnici simbolisti e parnassiani per
rendere gli effetti plastici del colore e, al tempo stesso, lo spettro di valori simbolici associati al colore
bianco. A proposito del carattere simbolico che il bianco rappresenta in tutta l’opera di Nájera, questo
colore è sempre presente nel registro lirico dell’autore. Alcuni critici hanno provato a ricondurre questo
colore a un valore esatto, a un senso preciso, a un significato stabile e dominante, un preciso stato d’animo.
C’è chi vi ha visto un distacco spirituale dalla realtà, una dimensione immaginaria di serenità e isolamento
mentale che corrisponderebbe al cliché della torre d’avorio. Il bianco, in questa poesia, è associato
all’elemento erotico, alla donna, quindi lo spiritualismo c’è fino a un certo punto. In parte, l’interpretazione
che assimila il bianco a un distacco dalla realtà ha senso, ci sono numerose immagini che rendono
quest’idea di momento mistico, però il bianco introduce connotazioni diverse. Si può dire che il bianco,
nell’ideale tavolozza emotiva e simbolica dell’autore, corrisponde a una costellazione di suggestioni che
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

vanno dal senso di purezza alla luminosità spirituale, alla dimensione immaginaria, all’astrazione,
all’espressione di leggerezza e fa riferimento alla fragilità, alla bellezza assoluta e idealizzata, però, per a sua
intrinseca natura di tonalità astratta, il bianco allude anche al mistero, all’inesprimibile, alla dimensione
trascendente. Per questa ragione, rappresenta il colore simbolico prediletto da Nájera, così come l’azzurro
sarà quello prediletto da Darío. Queste suggestioni vaghe e inafferrabili si esprimono anche attraverso gli
oggetti e le immagini associati a detto colore, che danno vita a una rete di relazioni e di corrispondenze
semantiche che attraverso questa poesia arrivano al lettore. Bisogna anche considerare che questo
immaginario di torri bianche, cieli, vestiti bianchi, fiori, animali, ecc. si aggiunge a dei valori plastici legati
all’iconografia e alla forma.

La poesia può essere sommariamente descrita come un’ideale escursione nella dimensione rurale nelle
prime ore della giornata. Il mattino vede il sorgere del sole e della vita, infatti la poesia inizia con l’alba,
legata alla luce bianca. È una poesia che usa in modo molto efficace la rima ed è costituita da strofe di
dodecasillabi, che danno ritmo al testo – a parte alcuni versi esasillabi nelle prime due strofe, usa sempre il
dodecasillabo.

In tutta la prima strofa, permeata dalla sensazione cromatica del bainco, di fatto questo termine compare
una sola volta; tutto il resto allude al bianco senza nominarlo, attraverso la rappresentazione di oggetti con
un valore simbolico: il cero rappresenta l’elevazione spirituale; il bianco è innocenza; la zagara è il fiore che
in genere accompagna i matrimoni. La tenera zagara rappresenta il bianco, ma i fiori d’arancio sono
profumatissimi: c’è una sinestesia tra il profumo, il colore, il senso simbolico della castità e la dimensione
tattile data dall’aggettivo tenera. La bruma introduce la dimensione naturale e appare come magica,
irreale. Tutto ciò che si trova in questa poesia ha una connotazione positiva. Usando il termine ara si
accentua la connotazione liturgica che nn allude solo al Cristianesimo, ma alle religioni classiche,
richiamando l’immaginario ellenistico e latino; è un elemento che indica l’influenza della tecnica poetica dei
parnassiani. Tutta la strofa è costruita su una catena anaforica che, attraverso un accumulo di aggettivi,
esprime la diversa connotazione simbolica e semantica del bianco, non riducibile a un’equazione.

Cominciano ad apparire delle rime difficili, che vengono costruite con termini non spagnoli, bensì francesi. Il
bianco, di nuovo, si trova nella sua dimensione aerea, con la colomba a personificarlo. Le colombe
rappresentano l’elemento vitale e sono collegate al sacro. La nebbia subisce un’antropomorfizzazione
grazie alla tunica. L’immagine del torrione è costruita usando la sensazione di leggerezza data dalla nebbia,
dove si aggiunge, in un gioco di contrasti, anche la sua componente opposta, materiale e pesante, che è
proprio il torrione. Alla natura inerte dell’edificio, adesso si giustappone la natura vitale e fertile dell’albero
fiorito, con l’acacia che produce fiori penduli, bianchi e profumatissimi, quindi ancora l’elemento cromatico
si unisce a quello olfattivo. L’albero sembra anche annimato dal soffio del vento. La natura assume ancora
una dimensione quasi umanizzata e frivola.

Il poeta di rivolge al suo immaginario lettore interlocuendo con lui, chiamandolo in causa direttamente.
L’immagine è quasi fotografica. Inizia la contemplazione diretta su cui viene costruita la poesia.
L’ambientazione è rurale, idilliaca in questa mattina. Questo paesaggio, di verso in verso, rivela i suoi
particolari. Attraverso lo sguardo dell’io lirico, questi estrae dall’ambiente gli elementi iconografici di una
dimensione che appare quasi irrreale. La forma del vulcano è assimilata a un’anfora, che di solito è nu
reperto archeologico. In questo senso, c’è un altro rimando sottile al gusto classicista, romantico e
parnassiano.

A questo punto, dal mondo naturale, il poeta ci porta a quello umano, ma nella sua connotazione più
mistica, ovvero il tempio divino. La prima cosa che compare nella mente dell’autore è l’ostia consacrata.
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Anche i particolari più banali vengono usati per esprimere la tonalità cromatica dominante. In questo caso
conferiscono anche un tono famliare, domestico. Il prete sembra quasi riflettere lo stesso elemento divino
dell’ostia. L’alba è l’abito del sacerdote e richiama un elemento classico nella poesia – momento in cui gli
amanti si separavano. Insieme alle bambine, le tuniche costituiscono una metonimia della bellezza. I fiori
d’aprile vanno imamginati come fiori di ciliegio.

L’io lirico entra nella parte più sacra del tempio, dove si trova al cospetto della Vergine e di Cristo, elementi
che rimandano all’innocenza, legati al colore bianco, che caratterizza anche la novizia che compare in
questa strofa. La luminosità della fiamma, che va supposta, ha valore simbolico e si aggiunge la
connotazione della luce a quella del bianco della cera. Usa una sorta di radoppiamento del senso: non c’è
bisogno di dire che le candele sono di cera, ma qui serve per enfatizzarre e per la rima. Il candore dei
paramenti sacri appare superato dal chiarore del giorno, dal sole che sta sorgendo. Tutta la poesia è
un’apoteosi della vita, rappresentata in tutti i suoi aspetti sacralizzati, ma anche in quelli prosaici, perché la
sacralizzazione riguarda la sfera del divino, ma anche la natura può essere considerata elemento sacro.

Dalla dimensione del sacro, ora si entra in un’altra dimensione; lo sguardo del poeta di rivolge alla
dimensione naturale, che rappresenta il sacro nella sua dimensione più vitale. In questa strofa tutto diventa
dinamico, carico di energia, rappresentata particolarmente dall’acqua in tutte le sue forme (neve, nebbia,
acqua liquida). L’elemento idrico, che è inerte, è zoomorfizzato e dinamizzato dall’associazione al tumulto
di piume. Questi versi sono pieni di elementi retorici, soprattutto di sinestesie. Ritorna la bruma mattutina
che sembra quasi nascondere alcuni elementi del paesaggio. La montagna sembra avvolgersi come faceva il
torrione. Dall’immagine della montagna, idealmente passiamo al mare.

Dal tono ieratico che ha la poesia si passa a un tono più frivolo e mondano. Dalla dimensione naturale si
passa a quella domestica, con l’immagine della bella giovane che si sveglia, tema ripreso ne La duquesa job
e immagine che fa parte della tradizione letteraria. L’acqua accentua la vitalità legata alla giovinezza e il
corpo della ragazza assume connotazioni sensuali ed elementi scultorei. A queste immagini classicheggianti
si alternano quelle frivole e intime legate alla quotidianità. Lo specificare che il pettine è arabo mette in
mostra l’esotismo.

Fa una sorta di sintesi di ciò che ha già espresso. Il bianco viene associato ancora all’immagine della donna,
con l’esaltazione della figura femminile che dà una dimensione fisica già espressa nella strofa precedente;
qui assume una connotazione sacrale e si fonde e confonde con lo stesso bianco e i suoi valori simbolici. I
termini rimandano a una costruzione plastica, quasi tridimensionale, della versificazione, quindi abbiamo
un rimando al Parnassianesimo. Ci sono due campi semantici contrastanti: l’eternità dell’angelo e la
mortalità del sudario. Quest’ultimo sembra quasi prefigurare una pace ultraterrena.

Con il bambino, il bianco fa riferimento ancora alla vitalità, ma anche al rinnovamento, all’amore e al futuro
rappresentati dalla sposa. L’ermellino porta il bianco a conservare, nella sua valenza regale e sfarzosa,
qualcosa del sacro e del solenne. Il tono di questi versi è abbastanza in linea con la poesia romantica. i trova
una vena confessionale che si rivolge a un tu, che è la sua amata; questo tratto difficilmente si sarebbe
trovato in una poesia di autori parnassiani, più cerebrali e distaccati rispetti agli elementi personali che gli
autori introducevano nelle loro opere.

La poesia si conclude con la visione, piuttosto scontata, di un matrimonio che unisce l’io lirico e la donna
evocata. L’originalità di questa chiusura non sta nel soggetto o nel tema, quanto invece nella sintesi
iconografica degli elementi legati al senso del bianco, disseminati nelle strofe precedenti. È come se la
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poesia, avendo una struttura circolare e autoreferenziale, tende a rappresentare una sfera dell’esistenza
che è quella del bianco simbolico, della spiritualità.

La duquesa job

Gioca molto sull’elemento ludico, giocoso. Se De blanco rappresenta perfettamente il cromatismo e il


plasticismo della poesia modernista, questa composizione rappresenta altrettanto bene il gusto per la
cultura e l’immaginario francese, ma anche l’elemento frivolo. Non va considerata solo come espressione
personale delle inclinazioni estetiche dell’autore, che era un afrancesado; è una sorta di testimonianza in
chiave artistica di un processo di assimilazione culturale che l’intera capitale messicana stava vivendo alla
fine dell’Ottocento, con il francesismo che stava diventando una sorta di moda e di mania che andava dalla
letteratura alla moda in senso proprio (cibo, architettura, vestiario, ecc.). Questo gusto non coinvolgeva
solo i ceti più alti, bensì tutta la società della capitale. Altro aspetto che caratterizza questa poesia è il tono
giocoso, allegro e frivolo, che caratterizza anche altri autori modernisti. Questa frivolezza non è affettata o
puramente esornativa, piuttosto è leggera e garbata, prende spunto dall’ambiente in cui il poeta viveva e
da un episodio legato alla sua vita sentimentale. La protagonista è un’anonima bella ragazza che di
professione fa la sarta e di cui Nájera si è innamorato. Tra i tanti pseudonimi che lo scrittore usava durante
la sua attività di giornalista vi fu anche quello di duque job, per questo motivo questa donna viene
scherzosamente chiamata duquesa job. Questa composizione è molto lontana dalle preoccupazioni etiche e
morali che caraterizzano la poesia di Martí e Prada, mentre è rappresentativa dello stile e delle tematiche
di certo Modernismo ispanoamericano, legato a una visione fantastica.

È una composizione in sestine intercalate da strofe di cinque versi. La musicalità è affidata alla rima, che è
difficile perché costruita con termini inusuali e in lingua straniera. I versi sono quasi tutti decasillabi con una
cesura nel mezzo. Questo, sul pianofonico, produce un ritmo vivace.

I primi versi definiscono il tono dell’atmosfera: il mondo umanizzato. Il mangiare la fragola rimanda a una
certa sensualità. Il cane è un’immagine di intimità e di costume – la bella con il cagnolino da compagnia. I
toni sono anche sottilmente ironici. La sartina è un garbato cliché che appare spesso nella letteratura
europea. Ha origini modeste, appare come un po’ civetta e di buona indole.

In tutta la poesia si trovano riferimenti difficili da cogliere perché legati alla realtà contemporanea di Città
del Messico. Villasana era un caricaturista molto famoso al tempo che aveva fatto la caricatura della
moglie, che era una contessa. Prieto fu un illustre autore che aveva dedicato una poesia a una popolana di
cui si era invaghito. Non è sgraziata e non ha ambizioni malriposte, non si lascia ingannare dalle apparenze.
L’altro riferimento è ai galli di Micoló, politico che al tempo aveva reso illegali le corride in Messico e i
combattimenti dei galli.

La sartina è una ragazza semplice, di buona famiglia ma non snob. Paul de Cock era un famoso romanziere
francese e aveva scritto un’opera in cui la protagonista era una sartina – immagine che diventa un cliché.
Non segue le mode, non frequenta i divertimenti dell’alta società. Il linguaggio poetico che introduce
neologismi ed espressioni in lingue straniere si trovano spesso alla fine del verso per dare la sensazione di
esoticità e di vitalità.

La quarta strofa è un’iperbole volutamente enfatica. Viene richiamato l’episodio biblico della scala di
Giacobbe. Né l’artista né il mistico hanno mai visto una bellezza simile all’amata duchessa.

Ritorna l’immagine della ragazza modesta. Plateros era il nome di una strada di Città del Messico, oggi una
delle strade principali della città. Madame Marnat era una stilista che aveva un suo negozio lungo la Calle
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Plateros e qua appare che la sartina ha un rapporto con questa famosa modista. Ci sono molti riferimenti
alla cultura popolare francese, che corrispondono a quella dell’epoca di Città del Messico.

29/04/22

V’lan e pschutt sono due espressioni popolari diffuse nella lingua francese di fine Ottocento: la prima
signica ulano, ovvero un soldato napoleonico, ed equivale a elegante; il secondo significa snob, nel senso,
ancora, di elegante, vitale. La Francia è vista come sineddoche. I termini sono tutti di moda, del linguaggio
frivolo. Hélene Kossut era una modista francese molto famosa che risiedeva a Città del Messico e che si
dedicava a produrre abiti per l’alta aristocrazia durante il porfiriato. La Sorpresa e il Jockey Club erano un
negozio di abigliamento francese e un bar alla moda che delimitavano il quartiere che appare come il regno
della bella duchessa job. I paragoni e i riferimenti sono sempre fatti con la cultura europea: il fine è quello
elegante si celebrare la bellezza della ragazza messicana, che non incarna l’ideale femminile messicano.

Viene ricostruita la figura della donna usando dei frammenti della sua persona. L’indole allegra e
spensierata della duchessa è evocata attraverso il movimento del suo corpo – non ha atteggiamenti snob,
ma dalla sua figura graziosa si sprigiona un senso di aristocrazia, di nobiltà e di civetteria. L’ultimo
riferimento è a un’importante attrice lirica dell’epoca, protagonista di un allestimento de La bohème di
Puccini; era una figura molto nota all’epoca.

La duchessa è una ragazza che sa il fatto suo, che tiene a bada gli estemporanei corteggiatori che incontra
per strada e che sa difendersi.

La donna viene descritta attraverso una serie di comparazioni con i modelli idealizzati della donna, in
particolare con riferimenti alla cultura del tempo. La figura della donna viene ricostruita attraverso singoli
dettagli, come se la poesia, in questo momento, facesse delle inquadrature fotografiche. Veuve Clicquot è
una delle marche più famose di champagne francese. Louise Theo era una cantante d’opera e aveva un
fisico imponente, ovviamente di origine francese.

Probabilmente, il crac era il corsetto chhe andava di moda all’epoca. Un’altra volta, appare la rima con un
termine straniero. C’è una serie di luoghi comuni nella rappresentazione della donna, però sono in sintonia
con il tono gioioso e leggero della composizione.

La descrizione della donna vira verso il bianco.

Comincia a descrivere la donna nella sua dimensione più intima, che l’io lirico conosce direttamente –
questo è un privilegio concesso soltanto a lui, che la frequenta. Fare una descrizione di questo tipo a finne
‘800 era già un certo osare. La donna viene rappresentata come essere bianco, e questo colore ha funzione
erotica.

Si trova un tratto di costume: le abitudini della popolazione urbana cominciano a cmabiare, quindi la
domenica è il giorno del riposo e la duchessa job si gode la mattinata restando a letto. Si nota una
differenza di classe: ha una domestica che, mentre lei sta a letto a godersi le prime ore del mattino, va a
messa.

La duchessa si sta per vestire, e il ritratto dell’abbigliamento è abbastanza fedele. La poesia rappresenta
anche un quadro di costume dell’epoca.

L’atteggiamento ricorda quello indolente e sensuale di un gatto (agile, salta dal letto, si appoggia al
materasso), infatti era stata chiamata gattina in precedenza, quindi c’è un’assimilazione della donna con
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l’animale. Il cotillón era una danza in voga a fine ‘800, quindi il poeta fa riferimento alla sua frequentazione
della società.

Compare sulla scena lo stesso io lirico, è un’apparizione improvvisa. Il Chapultepec è un enorme parco di
Città del Messico. Nell’ultima strofa, compare la figura del poeta che, nel giorno del riposo, viene a trovare
la sua amata e a trascorrere la giornata nello svago. Questo rimanda alle abitudini sociali che iniziano a
diffondersi in quel periodo.

Julián del Casal

La corrente modernista propone un’estetica cosmopolita radicata in una concezione peculiare di


contemporaneità. È una modernità che ha come suo faro la cultura metropolitana francese di fine secolo,
ma il Modernismo attinge con abbondanza anche all’immaginario del lontano Oriente, del Rinascimento
italiano, del Rococò dell’epoca di Luigi XIV, ma anche dell’arte e della classicità greca e latina. L’ambizione
di quest’estetica dell’eterogeneità del Modernismo è duplice: realizzare un’attualizzazione cosmopolita che
sincronizzi la letteratura e l’arte latinoamericana con i centri della modernità europea da un lato; affermare
un’estetica che costituisca una sintesi selettiva e artificiosa di culture raffinate lontane nello spazio e nel
tempo. Quest’estetica viene proposta come il fondamento di un’arte nuova la quale dovrebbe costituire
l’espressione creativa ed elevata propria di una nuova epoca caratterizzata dal progresso, che agli occhi di
alcuni scrittori si profila come una nuova età dell’oro dell’umanità. L’autonomia estetica e artistica
postulata e praticata dal Modernismo – l’arte che si isola dalla contingenza e dalla quotidianità – sembra
essere direttamente proporzionale, come dice Saúl Yurkievich, al distacco dalla realtà immediata; questo
distacco viene praticato facendo ricorso a tutti gli strumenti di evasione (sogno aocchi aperti, l’esotico,
l’esoterico, il fantastico) e questo si realizza rompendo con le connessioni logiche e con la verosimiglianza
propria dell’arte realista. Yurkievich conclude questo pensiero dicendo che così si accentua il messaggio
estetico, il mezzo espressivo diventa strumento per trasmettere un messaggio più estetico che tematico o
contenutistico. Questa arte modernista attribuisce alla forma un’assoluta egemonia.

Tra i riferimenti culturali che costruiscono l’immagine di alcuni poeti, vi è la classicità greca e latina, la cui
arte plastica e letteratura veniva assunta come modello non solo di bellezza e armonia, ma anche,
ideologicamente, come l’espressione più compiuta di civiltà superiori. In questo senso, al ricchissimo
repertorio mitologico delle culture classiche avevano già attinto in America latina: in alcuni casi, i cronisti e
letterati del ‘500 avevano fatto ricorso per celebrare e nobilitare, mediante le figure di divinità e di eroi
mitici della classicità, le gesta dei protagonisti della conquista dell’America. Analogamente, la cultura
classica continuò a rappresentare, durante il periodo coloniale, un modello immutabile da imitare e
rielaborare. Questo soprattutto nel ‘700, con il Neoclassicismo, che ebbe un ruolo importante,
condizionando le scelte tematiche, i soggetti e le forme espressive. In seguito al conseguimento
dell’indipendenza delle giovani nazioni ispanoamericane, che sul piano artistico e culturale si aprono agli
influssi europei, l’antichità classica inizia a perdere il suo status di modello privilegiato. La classicità greca e
latina continua a essere ammirata e a essere considerata un modello autorevole, ma, dal punto di vista
pratica, la sua letteratura viene sempre meno letta e diffuso, così come sempre meno diffusa è la
conoscenza del greco e del latino, soppiantati dall’interesse per le lingue moderne. In questo modo, la
cultura classica è coltivata da un numero sempre più ridotto di artisti e intellettuali. In questa temperie
poco favorevole al culto del classicismo, fu la prima generazione di poeti modernisti che riprese a usare in
chiave estetizzante e con nuove modalità rielaborative i temi, gli episodi e le figure della mitologia classica.
Non tutti gli autori introdussero in egual modo e misura questo repertorio: alcuni si limitarono a semplici
allusioni o citazioni, oppure a dedicare sporadiche composizioni a soggetti della tradizione greca e latina.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Tra coloro che usarono poco il riferimento alla classicità, possiamo trovare esempi nel colombiano José
Asunción Silva, nella cui opera lirica i riferimenti sono quasi del tutto assenti; José Martí, per quanto
riguarda l’opera in versi, usa motivi i carattere mitologico, ma con molta parsimonia e quasi esclusivamente
nella raccolta Versos libres; nonostante González Prada avesse una profonda conoscenza della cultura
classica, nella sua opera ricorre a riferimenti mitologici in poche poesie della raccolta Exóticas, l’autore è
molto più attento agli aspetti tecnico-formali della poesia classica, infatti tenta di recuperarne alcuni metri
propri della lirica classica; poco frequenti sono i riferimenti che appaiono nella produzione in versi di
Guetiérrez Nájera. Tra i poeti della prima generazione modernista, sono due gli autori che si distinguono
per un uso abbastanza consistente e, per certi aspetti, assai originale del repertorio mitologico greco e
romano: Julián del Casal e Rubén Darío, autori molto diversi per quanto riguarda le vicende biografiche e
l’influenza sul piano letterario, ma accomunati dalla fascinazione per la bellezza imperitura della tradizione
classica, assimilata attraverso la lettura di scrittori latini, ma soprattutto grazie all’influsso di correnti
artistiche europee che già avevano assorbito e reinterpretato questo repertorio.

Del Casal ha una vita tormentata da ristrettezze economiche. Nasce nel 1863 a L’Avana, dove morì a soli 30
anni nel 1893. Pur isolandosi quasi completamente dall’ambiente culturale della capitale cubana, che
considerava povero di stimoli, coltiverà rapporti epistolari con alcuni scrittori modernisti, ovvero Gutiérrez
Nájera e Darío; avrà collegamenti epistolari anche con due figure chiave del Decadentismo francese, vale a
dire Joris-Karl Huysmans e il pittore Gustave Moreau, con cui intrattiee una corrispondenza proficua in
francese, grazie alla quale riesce a ottenere informazioni e materiale letterario sulla vita artistica parigina,
che furono essenziali per lo sviluppo della sua estetica. Riuscì anche a ottenere le riproduzioni
cromolitografiche di alcuni quadri che contribuirono a orientare il gusto del giovane cubano per le arti
plastiche e che influenzarono la sua poesia.

La sua prima raccolta di liriche, Hojas al viento, fu pubblicata nel 1890 e mostra ancora una spiccata
influenza romantica degli spagnoli Zorrilla e Bécquer e di quello francese, in cui si inseriscono anche i
parnassiani e i simbolisti. Complessivamente, quest’opera si può considerare immatura, dominano
meditazioni sentimentali e filosofiche, esercitazioni di stile legate all’estetica decadente. La Canción de la
morfina, per esempio, va verso il Decadentismo e gli elementi sono molto eterogenei. A prescindere da
alcuni difetti espressivi, si segnala questa raccolta per la presenza di una sensibilità che sembra avvicinarsi
molto a quella modernista. L’imitazione dei poeti romantici rappresenta solamente una fase di acquisizione
degli strumenti formali e la sua scuola, che abbandona per il postmodernismo.

La sua seconda raccolta, pubblicata nel 1892, è intitolata Nieve. Si tratta di un titolo insolito per un artista
cubano, perché a Cuba la neve non c’è, tuttavia è anche molto indicativo rispetto al punto di vista estetico
dell’autore, che non nutre mai interesse per il paesaggio latinoamericano, mentre mostra una profonda
attrazione per l’immaginario esotico orientale (Giappone, i deserti dell’Arabia), ma anche per l’esotico
europeo (il mondo nordico). Nieve è strutturata come un catalogo che permette al lettore di visitare un
virtuale museo culturale dell’artista. È divisa in cinque sezioni che possono essere assimilate ad altrettante
sale in cui compaiono soggetti e opere d’arte raffinate. Questo museo ideale si sviluppa seguendo un
percorso che si snoda attraverso rielaborazioni di temi eroici e mitologici dell’antichità (Bocetos Antiguos e
Mi Museo Ideal); una sezione dove compaiono immagini esotiche (Cromos Españoles); in Marfiles Viejos
troviamo le confessioni di uno spirito affascinato e, al tempo stesso, assillato dal pensiero della morte; alla
fine si trovano delle rappresentazioni esornative e decorative che descrivono paesaggi che
metaforicamente corrispondono agli stati d’animo dell’io lirico (La Gruta del Sueño). La sezione che più
delle altre rappresenta l’originalità della proposta estetica di del Casal è la seconda: è costituita da 11
sezioni, tra cui 10 sonetti ispirati ad altrettante opere pittoriche di Gustave Moreau e una lirica più lunga
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intitolata Apoteósis de Gustave Moreau, in cui il poeta celebra il genio del pittore francese, che, in un saggio
del 1892, del Casal aveva definito «il re poeta del colore, la cui tavolozza, come la volta celeste, sembra
tempestata di pietre preziose». Nei sonetti, costruiti in un modo quasi perfetto, la dimensione plastica si
fonde in modo molto suggestivo con quella musicale; ciò che il lettore nota immediatamente è la capacitò
dell’artista di tradurre e ricreare in forma verbale e con notevole fedeltà ciascuno dei modelli pittorici a cui
si è ispirato. Di questi 10 sonetti sono tutti giocati sull’uso della tecnica ecfrastica – ovvero il rappresentare
attraverso la parola altre forme d’arte – e i primi due si riferiscono all’episodio della tradizione
giudeocristiana di Salomè e di Giovanni Battista: sono titolate, per l’appunto, Salomè e La aparición; le
restanti otto sono dedicate a scene della mitologia greca e hanno come protagonisti eroi e divinità.

Si vedono in primo piano Salomè (a sinistra) e Giovanni Battista


decollato (al centro). La sua testa rappresenta il premio che
Erode dà a Salomè dopo che questa ha danzato di fronte a lui.
Dietro a Salomè, si intravede la figura di Erode; a destra si
intravede il boia che ha decapitato il Battista. Ai piedi di
Salomè, una pantera che rappresenta la decadenza e lo spirito
assassino della donna.

La aparición

Del Casal è fedelissimo, nei suoi sonetti, alla rappresentazione


pittorica. Naturalmente, questo comporta delle difficoltà.

Prometeo

La serie di apre con questo sonetto, ispirato all’omonimo


quadro che Moreau realizzò nel 1868 e che ha come
soggetto la rappresentazione del supplizio a cui Zeus
condanna il titano per la sua ribellione. Il poeta, che usa
sempre la forma classica castigliana dell’endecasillabo,
rispettandone la posizione delle rime e degli accenti, in
questa composizione inizia presentando l’eroe incatenato
alle rocce del monte del Caucaso, a cui Zeus lo aveva
relegato. La postura e l’atteggiamento del protagonista,
assimilato alla figura di Cristo, riflettono il suo animo fiero
che si manifesta attraverso una stoica impassibilità.

Il baldacchino dà già un’idea di una struttura


architettonica. L’aggettivo marmoreo e i contrasti
cromatici lo rappresentano come una statua. Il
riferimento a Cristo è presente nella fiammella che si vede
sopra a Prometeo. Questa descrizione verbale rimanda
alla tradizione iconografica che ha come soggetto
Prometeo; in questo caso specifico, la fedeltà al quadro di
Moreau è prevalente rispetto alla tradizione mitica. Degno
di nota è l’uso dell’aggettivo marmoreo, che, oltre a
rappresentare la posizione statuaria della figura, appare
con uno sguardo sereno, fissando un orizzonte invisibile: questa rappresentazione sembra costituire un
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riferimento all’estetica plastica della poesia parnassiana, che il poeta cubano ebbe modo di conoscere
approfonditamente attraverso la lettura degli scritti di Mendès, Gautier, de Lisle e altri.

La seconda strofa riprende l’immagine della quartina precedente e aggiunge un particolare iconografico che
si trova ai piedi di Prometeo, ovvero un altro avvoltoio.

Nelle due terzine che chiudono il sonetto, la scena, che anche nella poesia è rigorosamente statica, prende
vita con l’evocazione della turbolenza delle onde che si infrangono sulle scogliere e con tre riferimenti
monocromatici: il candore delle piume e delle grinfie dell’animale e il nero del suo occhio predatore.
Queste immagini conducono lo sguardo del lettore sul secondo avvoltoio, che è intento a lacerare il ventre
del titano. In questa breve sequenza di dettagli, il poeta evoca, ricorrendo al sostantivo redenzione, ciò che
il pittore non può materialmente rappresentare, ovvero la prospettiva del riscatto di Prometeo e del suo
sacrificio attraverso il futuro dell’umanità, che il suo simbolico dono del fuoco prefigura – nel quadro di
Moreau, questa allusione si trova nella fiammella che fluttua sulla testa dell’eroe.

La figura di Prometeo costituì un riferimento etico e mitologico particolarmente congeniale allo spirito di
del Casal, che in un’altra poesia di questa raccolta e che apre la sezione Bocetos Antiguos (Las oceánidas) il
protagonista è ancora il nobile Prometeo. È una lirica piuttosto lunga, costituita da quattro parti di
lunghezza variabile, per un totale di un centinaio di endecasillabi; la rima si trova solo nella terza parte,
quando parla lo stesso Prometeo. La sezione di apertura presenta una certa ricchezza di dettagli ambientali
che costituiscono lo scenario nel quale si svolge l’episodio: è una notte serena di primavera, illuminata dalla
Luna; ai piedi di questa scena, si infrangono le onde di un mare in tempesta. Immediatamente dopo,
compare la figura prostrata del Prometeo incatenato, il cui sguardo è definito come torvo. In questa
composizione, del Casal ha la possibilità di riferire alcuni elementi della tradizione mitologica legata a
Prometeo (per esempio, dice che è stato generato da due mostri mitologici, ovvero Tifone e Echidna). Nel
complesso, in questa poesia il titano appare vinto nella carne e sarà soltanto nel suo monologo che
manifesterà lo spirito ribelle e l’orgoglio tradizionalmente associato alla sua figura. Nella seconda parte, del
Casal rappresenta il supplizio dell’eroe: le immagini del rapace che ne strazia l’addome e le viscere e il
sangue che ne sgorga, scendendo verso il mare, sono contrapposte alla dimensione quasi placida della
natura circostante. Poi improvvisamente lo sguardo del poeta si sposta sulla distesa marina e, di fronte ai
tormenti di Prometeo, compaiono le ninfe marine, che vorrebbero uscire dalle acque e salire la scogliera
per dare consolazione, e intonano dei canti per alleviare la solitudine e l’eterna agonia del personaggio.
Prometeo, alla vista di questo atto pietoso, «con virile accento» si rivolge alle nereidi iniziando il monologo
che costituisce la terza parte della composizione. Si rivolge a loro esortandole a cessare «l’amorevole
sussurro» che, agli occhi di Prometeo, esprime un senso di compassione che risulta inaccettabile per il suo
animo stoico. Le parole del titano sono cariche di fierezza e di una dignità sovrumana. Il titano affermerà
che il suo riscatto ultimo consisterà nel ricordo della propria impresa fra gli umani e sarà un esempio di
ribellione e di libertà che costituisce il suo testamento spirituale.

02/05/22

Galatea

Questa composizione è dedicata a Galatea e ispirata da un quadro che Moreau dipinse nel 1880, ovvero
Galatée. Il soggetto, sia della poesia che del quadro, è tratto dalla dodicesima favola del libro tredicesimo
delle metamorfosi di Ovidio. Il riferimento è alla cultura latina, anche se Ovidio nelle sue metamorfosi
riprende miti ellenistici. Anche in questo sonetto, del Casal mantiene una rigorosa fedeltà al modello
pittorico che si riflette nella descrizione di alcuni particolari e nel gusto per il cromatimso e per la forma
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

scultorea. Ai piedi di Galatea, che si trova nella sua grotta,


compare la fauna marina. La difficoltà è riuscire a
coondensare tutti questi tratti in una forma chiusa come il
sonetto spagnolo.

La prima quartina presenta la protagonista della composizione


e del quadro: la bella ninfa marina Galatea, figlia di Nereo e di
un’altra creatura semidivina delle acque, ovvero Doride.
Galatea appare assopita nella sua grotta marina dove vive. Lo
spazio chiuso dell’antro in cui si trova restituisce l’immagne di
un mondo occulto, protetto. Questo ambiente pullula di
forme di vita marine, le quali suggeriscono al lettore l’idea di
una sorta di cavità organica, che metaforicamente è
assimilabile a un grembo. Nel dipinto si staglia al centro della
scena la figura luminosa – il nome Galatea deriva da latte,
quindi il bianco più puro – della donna. Si individuano anche
delle minuscole ninfe marine guardando bene il dipinto. Tutta
questa vitalità marina conferisce alla descrizione del quadro e alla poesia un’atmosfera incantata.
Naturalmente, costretto dalla forma concisa del sonetto, del casal non può riprodurre verbalmente tutti
questi dettagli, di conseguenza li sintetizza in tre elementi contrastanti. A proposito della presenza di questi
elementi dettagliati e realistici nel quadro, Gustave Moreau, prima di dipingere questo quadro, si era
dedicato allo studio iconografico della biologia marina su un manuale illustrato conservato nel Museo di
Storia Naturale di Parigi. Bisogna anche ricordare che la vicenda di Galatea e di Aci (il pastore che lei ama) e
di Polifemo era stata un tema mitologico che aveva avuto grande fortuna anche dopo l’epoca classica,
soprattutto nella letteratura spagnola del siglo de oro, cui avevano fatto ricorso diversi autori (Góngora con
Fábula de Polifemo y Galatea), quindi del Casal conosceva senz’altro queste opere letterarie, anche se non
si trovano riferimenti diretti a queste opere; il tema fa parte della cultura alta della Spagna.

Nella quartina successiva compare il secondo personaggio: Polifemo. Qui del Casal compie una sorta di
integrazione al dipinto e rappresenta Polifemo che idealmente osserva Galatea dall’ambiente esterno,
ovvero dalla spiaggia. L’unica cosa che riesce a fare il gigante è affacciarsi all’ingresso della grotta per
guardare Galatea. Quest’immagine è decisamente luminosa e riflette e diffonde il bagliore della luce solare.
A quest’immagine luminosa, cui fa da contraltare la figura stessa di Galatea, si contrappone «el pico negro
de la roca bruta». Il gigante, figlio di Poseidone e innamorato di Galatea, viene descritto nelle due terzine
conclusive nel suo rapimento estatico.

Nello svolgersi della scena, il rimanere assorto e muto è solo per qualche istante. In quest’ultima allusione
cromatica che fa del Casal, il verde è un riferimento all’invidia e alla sua concupiscenza – verde, in spagnolo,
ha anche il significato di osceno, lascivo.

Questa allusione all’ira che sta per scatenarsi di Polifemo si prefigura nel sonetto La tragedia, con cui si
conclude la narrazione mitologica della tradizione greco-latina, cui né il dipinto di Moreau né la sua ecfrasi
possono riferirsi direttamente. Secondo la tradizione mitologica, mentre Galatea riposava in riva al mare sul
petto del suo amante Aci, Polifemo scorge i due e lanciò contro di lui una roccia enorme che lo schiacciò,
nonostante il tentativo di fuga; Galatea, dopo la morte del marito, gli ridà la natura della ninfa da cui era
nato e ne fece un fiume dalle acque chiare. In questo qadro Polifemo appare come un essere enorme, un
po’ accigliato, ma nulla lascerebbe presagire la reazione di Polifemo. Questi ha diverse caratteristiche
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nell’episodio mitologico e, in genere, è rappresentato come un selvaggio che vive allevando pecore che si
mangia come spuntino. Nell’altra parte della tradizione mitica, Polifemo è figlio del signore dei mari e ha
una natura semidivina. Nel quadro sembra che Polifemo abbia tre occhi: il terzo occhio è generalmente
associato a una forma di conoscenza superiore, è quello della mente, quindi Polifemo non è un personaggio
monolitico – nel senso che la sua figura sta in un carattere solo; nei pochi versi con cui caratterizza
Polifemo, del Casal riesce a sintetizzare il conflitto tra la parte istintuale e la ragione che il suo essere
incarna. Polifemo, infatti, è l’essere mostruoso della versione omerica, ma è anche colui che,
nell’undicesimo degli idilli di Teocrito, mostra un animo tenero e gentile, è l’amante geloso che cede al
furore e uccide il rivale schiacciandolo con un masso, lo spasimante trasognato che, nella versione ovidiana,
si strugge per questa nereide e le intona un canto pastorale descritto come delicato e raffinato. Nel quadro
e nella poesia, Polifemo appare sospeso tra queste due diverse anime che lo caratterizzano.

La quinta e l’ottava composizione di Mi museo ideal hanno come riferiemnto dei temi dell’antichità, ma non
presentano elementi che attengano alla tradizione mitologica e classica in senso stretto: si tratta dei sonetti
intitolati Elena (ispirato a Elena di Troia) e Una peri. Questo rappresentano episodi ispirati a quadri di
Moreau di cui del Casal possedeva le riproduzioni. Nel primo caso, il modello che ebbe sotto gli occhi il
poeta cubano fu probabilmente la versione oggi perduta di un olio su tela intitolato Helén. Effettivamente,
gli elementi iconografici che tratta del Casal non permettono un’identificazione certa di quale sia il quadro
di riferimento che del Casal usa per costruire il suo sonetto. Non ci sono elementi propri della mitologia.
Nel secondo caso, il titolo che del Casal attribuisce alla poesia è frutto di un equivoco perché, sebbene la
poesia sia palesemente l’ecfrasi di uno dei quadri di Moreau che rappresentano il suicidio di Saffo, motivo
che Moreau riprende più volte anche prima del 1891 – l’anno in cui del Casal aveva ricevuto le
cromolitografie che gli erano state inviate dal pittore. Per questo equivoco, il poeta assegnò erroneamente
queto titolo: Peri è un personaggio mitologico della tradizione perisana, non greca.

Con la sesta lirica di questa sezione del Casal riotrna a un soggetto eroico-mitologico attraverso un episodio
tratto dalle dodici leggendarie fatiche d’Ercole.

Hércules ante la hidra

Nel titolo del sonetto il poeta introduce una piccola


variazione rispeto a quello del quadro di riferimento
(Hercule et l’Hydre de Lerne, 1876). Modificando
leggermente il titolo, il poeta sostituisce alla
congiunzione copulativa e l’avverbio ante, di fronte a.
Questo può sembrare un particolare insignificante,
ma nell’economia della composizione questa scelta
ha la funzione di accenturare la drammaticità della
scena che viene rappresentata verbalmente,
precisando che l’eroe greco si trova precisamente
davanti al mostro. L’Idra era un essere mostruoso
allevato da Era, generato da Tifone ed Echidna, due
mostri che avevano ceduto il frutto della loro
mostruosa unione alla moglie di Zeus. Il quadro
rappresenta la narrazione di questo episodio
nell’istante che precede la lotta. Anche il sonetto si
apre con alcuni dettagli dell’ambiente in cui si svolge l’episodio. Nella composizione si vedono tre elementi:
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due sono illuminati e hanno quasi una luminosità propria, con il bianco a caratterizzarli (Ercole, l’Idra); ai
piedi dell’Idra, le vittime. Tra tutta questa massa informe di morti, spicca l’ultima vittima, un giovane dalla
pelle biancca che funge da elemento di contrasto nella pittura.

Il sonetto si apre con alcuni dettagli dell’ambiente, che è un dirupo illuminato dalla luce rossastra del
tramonto.

La seconda quartina sembra fare una sorta di introspezione quasi psicologica descrivendo la natura crudele
e diabolica dell’Idra, che osserva compiaciuta i cadaveri delle sue vittime umane. Se il primo di questi versi
offre al lettore un dettaglio che il modello pittorico di riferimento non può rappresentare, i tre successivi
riproducono fedelmente la scena che nell’opera di Moreau rappresenta i cadaveri straziati disseminati
attorno all’Idra, tra i quali spicca il giovane cui il poeta allude nel settimo verso. In questo scenario da
incubo, nella composizione lirica il focus si sposta sulla figura di Ercole, che appare in una posa statuaria e la
sua figura è caratterizzata dagli attributi con i quali l’eroe viene rappresentato. L’immagine del lauro
stabilisce un’identificazione del poeta con l’eroe della sua stessa poesia. Altri particolari sono l’arco e la
faretra riempita di frecce. L’altro emblema di Ercole è la temibile mazza, impugnata saldamente con la
mano destra: questo paticolare rimarca l’immobilità del protagonista e suggerisce la tensione del momento
che precede l’azione.

La terzina che chiude il sonetto mostra Ercole che si è avvicinato all’Idra e si trova dinanzi alle serpi di
vischiose pelli. Il movimento implicito compiuto dall’eroe è reso indirettamente da del Casal ricorrendo
all’immagine con cui l’eroe si arresta a metà del labirinto. Mentre nella fantasia del lettore questo mostro
mitologico dalle teste serpetine si contorce sinistramente, il suo avversario appare ancora immobile.
Questo sguardo folgorante perfigura e condensa in un’allusione icastica la fine della vicenda, quindi con la
lotta feroce che permetterà a Ercole di concludere una delle sue imprese, uccidendo, con l’aiuto del nipote
Iolao, la creatura che terrorizzava la città di Lerna. Il topos dello sguardo del protagonista è uno degli
elementi ricorrenti nelle composizioni di questa sezione.

Venus anadyomene

Questo sonetto rappresenta un netto stacco


tematico rispetto alla composizione precedente, con
uno dei protagonisti preferiti della mitologia classica
e della sua rielaborazione letteraria e figurativa
anche nei secoli a venire, cioè Venere che nasce dal
mare. Anche questa poesia è costruita su un modello
pittorico di Moreau, ovvero Venus sortant de l’onde
(1866). Molti termini ricorrono in più sonetti. Il
poeta cubano trasforma il titolo del dipinto di
Moreau in una forma marcatamente
classicheggiante, quindi accompagnando al nome
latinizzato della dea l’aggettivo greco, richiamando il
leggendario affresco realizzato da Apelle e
conosciuto come Afrodite anadyomene.

La protagonista appare stagliata sullo sfondo di una


formazione rocciosa che funge da cornice della
scena. Il particolare della descrizione del delfino è il
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frutto di una sorta di interpolazione che fa del Casal, che si discosta dalla rappresentazione pittorica di
Moreau, nella quale il cetaceo è a malapena riconoscibile nella sua forma, e soprattutto è di colore grigio
scuro Questi sono versi ricchi di suggestioni cromatiche, di vibrazioni date dai riflessi della luce solare e dal
giallo ambrato del dorso del delfino. Il termine citrino allude a una particolare colorazione di una varietà di
quarzo, quindi assume la connotazione di qualcosa di prezioso. Questi versi conferiscono al testo una
suggestiva colorazione dinamica.

Ai piedi della dea, sulla riva del mare, si stende un tappeto di conchiglie dalle tinte rosee. Il termine
alfombrado riconduce alla dimensione sacrale di questa rappresentazione; questo tappeto è quello che si
può trovare in un tempio. Nelle due terzine conclusive si realizza l’apoteosi di Venere, che appare dagli
occhi materni: è l’immagine della dea della vita. Queste due creature marine, con il movimento delle loro
code lucenti, accentuano il dinamismo della composizione, in contrasto alla staticità di Venere. Nel quadro,
queste due figure sono un tritone e una nereide: in particolare, il tritone è riconoscibile per la conchiglia
che porta nella mano sinistra. Questi doni hanno un significato allegorico: la conchiglia con la perla
rappresenta la bellezza pura e la fertilità generatrice; la seconda offerta, con il suo colore rosso acceso,
raffigura il lato più erotico e passionale di Venere.

Júpiter y Europa

Il nono sonetto può essere considerato, dal punto


di vista tematico, affine a quello dedicato a
Venere. Se il soggetto, nella lirica precedente, era
una celebrazione idealizzata della potenzialità
vitale dell’amore e della bellezza, in questa poesia
l’eros trova la sua realizzazione materiale
attraverso il ratto di Europa. Júpiter y Europa,
ecfrasi del dipinto L’enlèvement d’Europe, fu
realizzato intorno al 1869 sempre da Moreau.
Questa poesia è il testo dell’intera serie di sonetti nei quali l’autore dà maggior spazio alla sua creatività
verbale introducendo numerosi elementi assenti nel quadro. In realtà, i quadro dipinti da Moreau sono
due: il primo è molto statuario, vicno all’estetica parnassiana; il quadro di riferimento, invece, ha una
tessitura piuttosto grezza, si vedono alcuni particolari mentre altri no.

La prima quartina si apre con la precisazione del luogo dove si svolge l’episodio, ovvero la spiaggia fenicia.
Questo elemento rispetta la versione tradizionale del mito e delle sue radici storiche. Questo è un
particolare storico secondo cui Europa era principessa di Tiro e, in seguito al suo rapimento da parte dei
cretesi, divenne regina dell’isola di Creta. Anche in questo sonetto la collocazione temporale è il tramonto,
quando la bella giovane sorge dalle acque del mare avvolta nei zendali della spuma. La descrizione è
ulteriormente impreziosita dall’uso di cultismi propri dell’epoca modernista ed è parte di una sequenza
narrativa che prescinde dal quadro di riferimento.

Nella quartina successiva appare Zeus, che si è invaghito di Europa. Per sedurla e portarla via con sé si è
trasformato in un maestoso toro bianco, ma dall’aspetto mansueto per non terrorizzare la donna. Il dio
zoomorfizzato viene descritto come un toro che si addentra tra oscuri cespugli. Nei suoi versi, del Casal
conferisce movimento a questa scena, ma improvvisamente arresta il flusso della narrazione, evitando di
rappresentare l’incontro tra Europa e Zeus: nelle due terzine lo sguardo si sposta verso quello che succede
intorno ai due protagonisti, descrivendo l’istante che il dipinto rappresenta. Appare così nei versi un gruppo
di umili pastori/pescatori, definito con il termine generico plebe. Costoro sembrano quasi un rustico e
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spontaneo corteo nuziale che saluta i due amanti «con su clamor sonoro». La descrizione di ciò che si vede
nel dipinto corrisponde esattamente al momento che viene colto da Moreau. Il toro alza le sue corna al
cielo e si appresta ad attraversare il mare con la sua amante il mare che lo speara da Creta. Questa
celebrazione della passione erotica costituisce quasi un unicum nella poesia di del Casal, che nella sua
produzione tende a raffigurare la figura e l’essenza femminile come l’idealizzazione della bellezza inaffabile,
del sentimento casto.

Hércules y las estinfábiles

Questo personale museo virtuale e personale di


del Casal termina con la composizione Hércules y
las estinfábiles, composizione nella quale il poeta
ritorna su un episodio mitologico, con la sesta
fatica d’Ercole. Il riferimento iconografico e
pittorico è con due dipinti di Moreau che hanno
lo stesso titolo (1872 e 1875-80). Si può anche
immaginare che del Casal abbia cercato di fare
una mediazione tra i due, ma il riferimento
principale è a quello più tardo. Come di consueto,
la prima quartina descrive il contesto ambientale in cui si svolge la scena, che appare immersa in una
«rosada claridad de luz febea».

05/05/22

Gli stinfalidi sono uccelli mitologici estremamente aggressivi e con una connotazioen mostruosa, perché le
loro piume erano piume di bronzo scagliate come frecce, uccidendo coloro che passavano per la palude
dello Stinfalo. Sulla riva di questa palude appare, nella seconda quartina, l’eroe, chiamato, secondo la
tradizione del mito, a liberare questo specchio d’acqua dalla presenza mortale di questi leggendari uccelli
provvisti di becco, artigli e penne di bronzo con le quali trafiggono gli esseri umani che si avvicinano e si
cibano delle loro carni. Anche in questa composizione, del Casal caratterizza sinteticamente la figura del
semidio attraverso il riferimento a due suoi attributi tradizionali e facendo riferimento alla sua espressione
caruca di virile fermezza, concentrata dal poeta negli occhi che sembrano lanciare dei fulmini. Il leone di
Menea era invulnerabile alle armi, infatti era stato sconfitto da Ercole a mani nude. Con il dettaglio della
corona di foglie di pioppo, del Casal introduce un elemento che risulta incoerente rispetto alla tradizione
mitologica e questa discrepanza può essere considerata una sorta di licenza oetica o una semplice
incongruenza: secondo la tradizione greca del testo La Biblioteca, fu soltanto alla fine della dodicesima
fatica che Ercole, uscendo dagli inferi, intrecciò una corona con le fronde di un pioppo che cresceva presso
la fonte sacra a Mnemosine; questo albero era la ninfa Leuche, la quale era stata rapita dal signore dell’Ade
e, per sfuggire al signore dell’oltretomba, si era trasformata in un pioppo che, però, Ade si era portato nel
suo regno. La caligine infernale aveva tinto le foglie di questo pioppo, si era depositata sulla parte supeiorre
delle foglie e le aveva tinte di questo colore cupo. Quando Eracle era entrato nell’Ade e, dopo aver
sconfitto Cerbero, si era intrecciato questo serto di rami di pioppo e se l’era messo sul capo, la parte
inferiore delle foglie, a contatto col sudore della fronte dell’eroe, aveva assunto un colore argenteo – da
qui, il niveo serteo che cita del Casal. Questa rappresentazione entra in conflitto con la storia delle dodici
fatiche. A questo punto del sonetto, del Casal apre una sorta di iato, di sospensione nella narrazione
dell’evento. Tra le quartine e le due terzine, il lettore deve interpolare l’intervento della dea Atena, la quale
nel mito compare di fronte allo smarrimento dell’eroe, che, appena arrivato alla palude, non vede traccia
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degli uccelli, nascosti tra le rocce che circondano la palude. Non vedendo gli uccelli, Ercole rimane
sbigottito; compare Atena e fa comparire due grossi sonagli di bronzo. Ercole, che ha capito il
suggerrimento che gli dà Atena, chiede al suo aiutante Iolao di cominciare a scuotere questi sonagli; il
suono spaventa gli uccelli, che si levano in volo e diventano vulnerabili. Qui riprende la narrazione lirica.

Le punte delle frecce usate da Ercole sono intrise del veleno dell’Idra che aveva già ucciso in precedenza e
che il poeta, con un traslato molto efficace, definisce incandescenti, nel senso che fanno strage di questi
uccelli mostruosi, non perché calde. Ercole ha così portato a conclusione la sua sesta impresa.

La terza raccolta (1893) è intitolata Bustos y rimas – richiamo alla tradizione classica-ellenica e latina.
Appare pochi mesi dopo la morte del poeta. È un lavoro suddiviso in due parti: la prima è intitolata Bustos
ed è costituita da composizioni in prosa lirica; la seconda, Rimas, comprende 41 poesie in cui si nota, a
differenza degli accenti parnassiani della seconda raccolta, un’intensificazione di una visione più affine al
Decadentismo, infatti in queste poesie abbondano immagini macabre, morbose, repulsive – è un
riferimento al Decadentismo. Questo tipo di poesia riflette lo spirito tormentato e nichilista degli ultimi anni
di vita di del Casal, la sua instabilità emotiva, la sua alienazione dal mondo e il fatto che si sentiva in un
posto che non si confaceva alle sue esigenze di novità artistiche e culturali. Queste composizioni affrontano
tematiche che vanno dalle riflessioni su bellezza e arte a composizioni di tipo biografico, rappresentazioni
descrittive di paesaggi malinconici e meditazioni apertamente decadenti (es.: Neurosis e Niquilismo). n
quest’ultimo libro, del Casal introduce meno innovazioni formali e ritmiche rispetto al passato, ma
conferma la religione dell’arte per l’arte e il culto della bellezza e della forma.

Rubén Darío

La critica lo considera la figura chiave della letteratura ispanoamericana ottocentesca e lo identifica come lo
scrittore che segna la nascita di una letteratura continentale matura o comunque avviata alla maturità che
caratterizzerà la cultura latinoamericana del ‘900. Questo suo ruolo di figura totemica è in parte legato alla
sua opera; deriva anche dalla sua attività pubblica di promotore culturale, di intellettuale e dalla grande
popolarità che la sua figura ebbe non soltanto fra gli artisti e le figure colte. Darío tende a essere
identificato con il Modernismo stesso. Questa semplificazione finisce per mettere in ombra altre figure che
hanno avuto un ruolo non di secondo piano nello sviluppo della letteratura di quel periodo. Darío nasce nel
1867 in Nicaragua, al’epoca nazione con una tradizione letteraria estremamente di secondo piano. Fin da
giovanissimo, Darío mette in luce tre aspetti chiave della sua personalità:

1. Un grande talento e una grande sensibilità per la poesia e la letteratura. Scrivere per Dario è
qualcosa di naturale.
2. La sua grande ambizione, che nasce dalla consapevolezza dei suoi mezzi.
3. Un bisogno quasi maniacale di superare il provincialismo del Paese in cui è nato e di cercare sempre
nuovi stimoli in ambienti sempre più cosmopoliti. La sua esistenza è caratterizzata da un continuo
nomadismo artistico che dal Nicaragua lo porterà a risiedere nelle grandi metropoli dell’America
latina, poi, all’inizio del ‘900, a trasferirsi in Europa (Francia, ma soprattutto Spagna). In questo suo
trasferimento si trassforma in una sorta di ambasciatore e diffusore dell’estetica modernista. Il
Modernismo, nella suaa diffusione latinoamericana, segue le orme di Darío, infatti è soprattutto
quando lui è in Argentina che qui la corrente si sviluppa in modo più pieno.

In Nicaragua, Darío inizia a scrivere molto precocemente e altrettanto presto viene riconosciuto come
talento innato. Tra i 15 e i 18 anni è influenzato soprattutto dalla letteratura romantica francese e
spagnnola e, in misura minore, dai classici latini. Nei suoi scritti in prosa e in versi prodotti in Nicaragua, che
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rappresentano la sua fase di appredniemtno, l’impronta di un tardoromanticismo è abbastanza evidente.


Nel 1886, Darío lascia il Nicaragua per trasferirsi in Cile, dove rimarrà per tre anni, risiedendo soprattutto a
Valparaíso, ma sarà presente anche a Santiago. A Valparaíso trova un ambiente culturale molto più vivace
rispetto al Nicaragua; è una città portuale in piena fase di espansione e modernizzazione, per questa
ragione i contatti via mare con l’Europa sono piuttosto intensi – questo favorisce la vivacità culturale del
luogo. Qui Darío trova stimoli culturali e artistici, ma anche patrocinatori e mecenati che riconoscono il suo
talento e che lo aiutano – Darío nasce da una famiglia modesta, quindi non aveva i mezzi per vivere solo di
arte. Durante la sua permanenza in Cile, comincia a lavorare come giornalista e a pubblicare i suoi articoli,
che rivelano una prosa brillante ed elegante. In Cile approfondisce la sua conoscenza della letteratura
contemporanea, soprattutto della cultura francese coeva, e supera l’estetica del Romanticismo. Fra i vari
libri che pubblica in quei tre anni, spicca la raccolta Azul, che appare nel 1888 e che può essere considerata
il vero esordio del Darío modernista. Questo libro ottiene subito un buon riconoscimento di critica e
pubblico, tanto da essere considerato il manifesto di una nuova letteratura. A proposito del termine
modernismo, nel 1888 Darío pubblica in una rivista di Santiago un articolo (La literatura en centro-América)
in cui usa per la prima volta questa parola per definire la nuova estetica e cultura che si stava diffondendo
in America latina. Azul è costituito da due parti: la prima è una serie di racconti brevi; la seconda è
composta da una breve sezione di poesie. La prima parte è in prosa, ma questa prosa è caratterizzata da
una spiccata liricità. Per quanto riguarda la poeisa, si notano due cose: le forme usate non siano inedite
(romance, silva, sonetti), quindi recupera la tradizione lirica spagnola, ma appare come una novità l’uso di
immagini vivide e sensuali e di una versificazione molto melodica – doveva avere una grande sensibilità per
la musica. Le sei poesie contenute in questa sezione (El año lírico) sono concepite come una celebrazione
dell’amore, cioè della donna, e una celebrazione della natura, cioè delle stagioni – o viceversa. Queste due
tematiche permettono a Dario di applicare nel modo migliore alcuni degli artifici tecnici più caratteristici
della sua poesia, ma anche di esprimere il suo sentimento profondo dell piacere sensuale, che nasce dal
connubio tra la fertilità esuberante del tropico e dalla concezione panteistica e solare dell’esistenza, propria
della tradizione culturale classica latina e greca. Queste sono tematiche che, insieme al culto dell’arte, del
bello e della raffinatezza, saranno dominanti almeno nella prima parte della sua carriera di poeta.

Durante la permanenza in Cile, Darío inizia a percorrere la strada della fama, ed è una strada che passa
anche attraverso la frequentazione degli ambienti dell’alta borghesia e degli uomini potenti della politica,
dai quali il poeta otterà aiuti economici e incarichi di prestigio. Questo aspetto – la mondanità di Darío –
mette in luce uno dei tanti lati contraddittori della sua personalità, che da un lato criticava la materialità dei
borghesi, la subordinazione dei valori spirituali ed estetici alle esgenze del progresso tecnologico e
mercantile, e dall’altro glorificava la bellezza e la raffinatezza degli oggetti d’arte di ambienti o di stili di vita
che soltanto i disprezzati borghesi si potevano permettere e di cui lo stesso Darío si circondava.

Nel 1889, Darío lascia il Cile e fino al 1892 continua a viaggiare e a risiedere in vari Paesi del centro-
America: ritorna in Nicaragua, poi si trasferisce a El Salvador, poi ancora Nicaragua e, infine, Costa Rica. In
questo periodo, definisce sempre pi precisamente la sua concezione teorico-pratica del Modernismo: «La
libertad y el vuelo, el triunfo de lo bello sobre lo perceptivo, esto en la prosa. En cambio, en la poesia, la
novedad: dar color y vida y aire y flexibilidad al antiguo verso que sufría de anquilosis». Vede la poesia
contemporanea come qualcosa che doveva esssere rivitalizzato. Il Modernismo si proponeva di risanare la
poesia e l’arte in generale. In questo periodo, Darío viene nominato rappresentante culturale del Nicaragua
nelle celebrazioni che si svolgono in Europa per i 400 anni dalla scoperta dell’America: in questa occasione,
fa il suo primo viaggio in Spagna, dove la sua opera era già conosciuta. Nel 1893, viene nominato console
del governo colombiano in Argentina. Questo comporta il trasferirsi a Buenos Aires. Dal 1893 al 1899, Darío
risiederà a Buenos Aires e, in questo ambiente cosmpolita, sarà molto attivo non soltanto come poeta e
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scrittore, ma sempre di più come diffusore del Modernismo, diventando il punto di riferimento di un
gruppo di artisti che lo riconosceranno come loro maestro. Il soggiorno argentino di Darío coincide con la
pubblicazione di due opere importanti: Los raros (1903) e Prosas profanas (1906). La prima consiste in una
raccolta di scritti critico-letterari dedicati a 19 scrittori e intellettuali eccentrici per i quali Darío sente una
grande affinità artistica. Ne fa dei cammei, cogliendo le peculiarità della loro scrittura. Tra questi
compaiono Edgar Allan Poe, Verlaine, José Martí (riconosciuto da Darío come un maestro della scrittura),
Leconte de Lisle, Adam Villeres de Lisle, Mallarmé, Henrik Ibsen e Lautréamont. Prosas profanas è una
raccolta di poesie che può essere considerata l’opera più rappresentativa non solo della scrittura di Darío,
ma anche dell’estetica modernista virata al decadente. Questo perché coincide esattamente con il periodo
aureo di questa corrente, ma anche perché contiene il repertorio quasi complto dell’iconografia, delle
forme espressive e delle idee più caratteristiche del Modernismo. Già il titolo contiene un’allusione a un
aspetto particolarmente importante di questa raccolta, infatti Darío usa il termine prosas nella sua
accezione più arcaica, che si riferisce a una composizione di carattere religioso cantata durante la messa. Il
titolo, dunque, ha un senso equivalente a liturgia/cerimonia profana. L’elemento profano coincide con
l’erotismo e l’amore sensuale, motivo dominante di questa raccolta. Il tema dominante e ricorrente è la
divinizzazione dell’impulso erotico, che si trasforma in esperienza quasi ascetica, in un asscetismo che entra
nella carne, in un’esperienza mistica che si contrappone al misticismo della dottrina cristiana. Accanto al
tema dell’erotismo, che si esprime attraverso l’esaltazione della donna, rappresentata attraverso
l’iconografia classica e decadente, spicca un altro elemento, ovvero la profonda musicalità del verso, che si
fonde con il cromatismo e altre forme di artifici retorici. L’esempio cui attinge in modo particolare Darío è
soprattutto la poesia di Verlaine. Questi elementi si colgono molto bene in una composizione come Era un
aire suave.

Era un aire suave

L’immaginario e i riferimenti iconografici di questa poesia sono molteplici e vanno dal classicismo greco-
latino al gusto per la cultura raffinata del Rinascimento italiano e spagnolo, al Rococò francese e arrivano al
Decadentismo. Il tono è ludico e molto sensuale, a tratti frivolo e leggero, ma è sempre elegante grazie alla
musicalità data dalla struttura dei versi e dalla scelta dei vocaboli. L’ambiente rappresentato in questa
composizione è quello elegante di una festa che si svolge in un giaridno lussureggiannte e ricco di statue
classiche, dove suona un’orchestra e si respira un’atmosfera languida. La protagonista è la divina Eulalia,
donna giovane e bella che ingaggia le sue schermaglie amorose con un biondo visconte e con un giovane
abate – l’uomo d’armi e quello di cultura. Questa donna civetta con ambedue senza mai concedere il suo
favore né all’uno né all’altro. La civetteria e la viatlità leggiadra si manifestano soprattutto nel suo
comportamento, ma anche attraverso il suo viso spensierato e quasi innocente. Questa risata di Eulalia
assume la forma di una sorta di ritornello e contrasta con l’atmosfera vagamente malinconica di questo
giaridno immaginario e idealizzato. L’ambientazione è una sorta di museo all’aria aperta che il peta situa in
uno spazio e in un tempo paradossalmente indefiniti: ci sono molti elementi che riconducono a momenti
storici, ma di fatto alla fine della poesia Darío dice che non sa dove nella realtà si possano essere svolte
queste scene rappresentate. Questa collocazione è una dimensione in cui trinfano l’amore, la sensualità, il
piacere, il culto dell’arte e il buon gusto.

La poesia è costituita da versi di dodici sillabe; lo schema di rime è semplice, è ABAB CDCD; c’è un ampio
uso di artifici che servono a regolare la metrica; le strofe sono quartine; il lessico è colto, così come colti
sono i riferimenti culturali. Per quanto riguarda il titolo, in italiano non rende, perché aire dà il senso sia di
un’aria musicale che di una brezza che pervade il giardino.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Le prime due strofe descrivono l’ambiente in cui è collocata la scena di questa festa galante. Subito
compare un’immagine tattile. La sensualità che la poesia suggerisce è realizzata attraverso luso della
sinnestesia e immagini evocative. È come se i violoncelli si stessero esprimendo con voce umana e questi
suoni melodiosi del violoncelli si mescolino nei sussurri dei partecipanti alla festa. La a accentata (á) è un
tratto tipico della poesia latinoamericana a cavallo tra Otto e Novecento.

Nella terza strofa, troviamo la prima descrizione della portagonista e della sua schermaglia con il visconte e
l’abate. Il primo è rappresentazione della prestanza fisica e dell’irruenza, l’uomo di mondo; il secondo è
l’intellettuale e l’artista.

Le seguenti tre strofe riprendono la descrizione fisica, materiale del luogo e troviamo statue, archi, edifici,
riferimenti all’architettura classica, all’arte rinascimentale/barocca italiana e alcune precisazioni sulla
musica che si ode in questo giardino. Termino era una divinità dei latini dall’iconografia grottesca e
rappresentava la stabilità cosmica. L’immagine che segue è decadentista, nel senso che c’è quasi
un’ambiguità sessuale. L’arte classica greco-latina funge da parziale scenografia di questa festa ed è una
scenografia che nei versi successivi richiamerà quella dell’Arcadia recuperata in tempi più moderni. Fa un
riferimento all’arte rinascimentale, alla statua del Giambologna. Qualcuno ha trasformato questa statua in
candeliere, quindi c’è una sorta di desacralizzazione dell’arte. Nella strofa successiva, precisa che tipo di
musica si ascoltava. Il verbo perlar se l’è inventato Darío, non esiste in spagnolo. Le note sono assimilate a
perle. L’etereo della musica viene associata alle ali, quindi a uccelli, che cantano. I pavani e le gavotte erano
composizioni tipiche del Rinascimento e di parte dell’epoca barocca. Sono una sinestesia del cosmpolitismo
culturale europeo.

Nelle due strofe successive, Eulalia appare burlarsi dei due innamorati e come colei che dispone delle armi
di Eros e della bellezza di Venere. Il poeta rappresenta questa donna come la tentatrice e la seduttrice
crudele che gioca con i sentimenti dei suoi spasimanti. Eulalia ride perché la lotta tra i due soddisfa l’amor
proprio di Eulalia; in questo riso c’è anche l’inocenza, l’ambiguità della donna tra l’innocenza e una certa
malignità nel gestire questa schermaglia amorosa. Troviamo una catena di riferiemnto alal mitolgoia
espressi attraverso delle perifrasi colte. Le frecce di Eros indicano che lei è in grado di far innamorare
chiunque, è come Venere, quindi si avvale dell’arco di Eros. Il cinto di Cipria si riferisce a Venere e,seocnod
la tradizione mitica, conteneva i principi della seduzione. Onfale era, nei miti di Ercole, una regina della Lidia
presso cui Ercole dovette recarsi e dichiararsi suo schiavo perché così aveva detto la sacerdotessa presso
cui si era recato Ercole prima di iniziare le sue fatiche per espiare le colpe che aveva; per tre anni, Ercole
rimane schiavo di Onfale e tra i due nasce una relazione amorosa; alla fine di questi tre anni, Ercole viene
liberato e proseguirà con le sue avventure. C’è questa rocca perché quando Ercole è presso Onfale, in alcuni
momenti della sua vita nel palazzo, egli sembra perdere la sua virilità. Onfale lo prenderà in giro vedendolo
barcollare semiubriaco, annoiato dalla vita presso Onfale e lo vedrà anche filare. La rocca di Onfale è come
Eulalia mette al suo posto un maschio. La struuttura anaforica si ripeterà alla fine della poesia, ma lì
diventerà un’anafora strofica che rimanda a una domanda retorica.

06/05/22

C’è il cliché della seduttrice, controbilanciato da altre immagini di carattere positivo. L’animo di champagne
è una sineddoche, simbolo di voluttuosità e coonnota la raffinatezza francese. Il ballo in maschera è un
riferimento al carnevale, e carnevale o personaggi della commedia dell’arte appaiono spesso nella poesia di
Darío. Con l’allusione al ballo in maschera, si precisa l’occasione di questa festa galante. Ritorna l’immagine
della femme fatal celebrata dai decadentisti.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Nelle strofe successive, lo sguardo del poeta si concentra sul riso di Eulalia, assimilato alla musica di un
piano, poi alla danza di una ballerina e, infine, ai gorgheggi di un uccello. La tastiera armonica è un
pianoforte, i cui tasti bianchi ricordano un sorriso puro. C’è un estremo dinamismo in questi suoni e in
quete immagini. L’immagine dell’innocenza di mescola alla civetteria. Viene paragonata a un uccellino: la
sua risata è un trillo e il suo nascondersi dietro il ventaglio viene paragonato al nascondere la testa sotto
l’ala. L’allitterazione rende anche dal punto di vista musicale questa immagine dell’ala.

Le due strofe successive sono una sorta di prolessi, quindi danno indicazione di ciò che avverrà allo scoccare
della mezzanotte. Come una sorta di Cenerentola al contrario, Eulalia incontrerà il suo amante nel folto del
giardino. C’è un riferimento aulico per indicare il canto dell’usignolo: Filomela, secondo la tradizione, era
una figura mitologia greca, figlia di un re di Atene, e venne violentata dal re della Tracia, che, nonostante
avesse sposato la sorella di Filomela, era innamorato di lei; per impedire che la donna denunciasse le
violenze subite, Pereo le tagliò la lingua, ma lei riuscì comunque a informare la sorella dell’accaduto, quindi
un membro della famiglia uccise il re di Tracia. Queste due donne dovettero fuggire dalla loro patria e gli
dei, per compassione, le trasformarono in due uccelli: la sorella in una rondine e Filomena in un usignolo.

Le strofe conclusive, in forma di apostrofe al lettore ideale, vedono il poeta interrogarsi sulal collocazione
spazio-temporale di tutto ciò che ha descritto finora. Il riferimento è all’Ottocento o al periodo barocco,
dove l’Italia era famosissima per i suoi cantanti d’opera. Descrive lo stemma araldico di Luigi XIV, in cui
compare una corte di stelle con il sole in campo azzurro. Alcázar viene dal latino castrum e, sotto il regno
moresco di Spagna, indicava il palazzo del governatore, quindi era un complesso architettonico che aveva
funzione militare e di dimora principesca. Si riferisce alla cultura araba, che importò e perfezionò la
coltivazione delle rose. Compare quasi un passaggio di testimone dalla cultura araba della Spagna moresca
alla cultura raffinata della Francia settecentesca. Il riferimento alla rosa contiene due allusioni: all’esotismo
(cultura moresca); uno più storicizzato, chiamando in causa la marchesa di Pompadour alla corte francese
del Re Sole. Fa un riferimento all’Arcadia del Settecento, con personaggi che si vestivano da pastori, ninfe,
ecc., e queste erano occasioni di festa, di ritorno alla natura bucolica. «Divinas Tirsis de Versailles» è
un’immagine di un travestimento, che va a rafforzare l’idea del carnevale, o comunque del ballo in
maschera. Gli ultimi vers accentuano la dimensione irreale e trasognata della poesia, chediventa priva di un
preciso riferimento spazio-temporale. La scena che immagina Darío ha una connotazione visionaria, quasi
onirica, e allude a una forma di bellezza eterna. Eulalia si sovrappone all’immagine stessa dell’arte,
concepita come armonia universale.

Questa celebrazione della sensualità femminile e il culto della bellezza furono interpretati da una parte dei
lettori come una sorta di atto di sfida di Darío nei confronti del perbenismo e dei valori morali della
taradizione: in particoalre, poesie come Ite, missa est suscitarono un certo scandalo. L’uso di immagini
sacre finalizzato all’esaltazione dell’erotismo fu giudicato blasfemo oltreché decadente. In realtà, con
questa poesia, Darío intendeva usare l’immaginario della religione cattolica e del suo rito più sacro, ma non
per degradarlo o ridicolizzarlo assimilandolo a un atto profano. Leggendo attentamente la poesia, si nota
che la finalità non sia desacralizzare la liturgia della messa, piuttosto mettere in evidenza, attraverso l’uso
dell’immagine sacra, la sacralità dell’unione erotica. L’obiettivo è quello di cancellare la connotazione
negativa e peccaminosa dell’amore profano rappresentandolo come un atto sacro. Il sentimento religioso
di Darío io è molto vicino al panteismo, e celebrare la natura, la sua fecondità, la vita che si rigenera
attraverso l’unione sessuale, per Darío equivale a celebrare lo spirito immanente della divinità. In Darío, la
cultura classica si fonde e confonde anche con il misticismo cristiano e un generico spiritualismo.

Ite, missa est


Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

Questa è la formula con cui il sacerdote congeda i fedeli una volta temrinato il rito della messa. È un
sonetto classico in versi alessandrini, ovvero di quattordici sillabe, con uno schema di rime altrettanto
classico, tipico del sonetto. Già il titolo definisce il tema sacro della composizione, che il primo verso
rovescia in accezione profana. Non è la celebrazione dell’amore divino, bensì di quello carnale e sensuale e,
in un certo senso, anche spirituale tra i due amanti. Quindi, il rituale della messa diventa una sorta di
liturgia dell’erotismo.

Eloisa è un riferimento alla memorabile relazione tra il filosofo medievale Abelardo e la sua discepola
Eloisa, conclusosi tragicamente con la morte dei due amanti e divenne uno dei topos dell’amore casto e
infelice, particolarmente popolare durante il Medioevo e nell’arte occidentale. La donna profonda come il
mare è emblema della natura misteriosa e possente. C’è anche un riferimento allo gnosticismo: nel
pensiero gnostico la divinità era concepita come un’entità asessuata e definita come l’abisso, ‘insondabile,
ciò che trascende l’intelletto umano. Il terzo verso racchiude la rappresentazione che venne ritenuta
blasfema dell’amore profano: il poeta è assimilato al sacerdote, la donna all’eucarestia, ovvero a quella che
secondo i cattolici è la transustanziazione del corpo di Cristo; l’incontro erotico è assimilato alla messa. Il
rituale erotico viene esplicitamente assimilato alla celebrazione della messa e del suo momento più solenne
e mistico – la consacrazione dell’ostia. La musica evocata non è quella di organo, bensì di una lira
crepuscolare, strumento profano che allude alla poesia; crepuscolare è immagine del decadente. L’intera
composizione gioca sulla sovrapposizione tra sacro e profano.

La donna è ammaliatrice, figura ieratica e sacrale. Il riferimento è ai culti pagani della Grecia arcaica e della
cultura latina. L’altare non è quello di una chiesa; possiamo immaginarlo come il letto. L’istinto erotico della
donna è messo in primo piano, rovescia l’immagine della tentatrice biblica. La bellezza ineffabile e
misteriosa della donna è emblematizzata da una delle opere d’arte per eccellenza (Mona Lisa). Così come
per vedere il riflesso nel simbolico, così come la donna è l’unica da baciare, il Dio è unico per il credente.

«Y he de besarla un día con rojo beso ardiente»: il poeta-amante svolge la sua funzione sacerdotale
trasformando la donna da soggetto passivo e oggetto di contemplazione a soggetto attivo, incarnazione
della sensualità e della passione. Poi sembra che ripeta l’immagine della donna frastornata. Il timore è
quello del concedersi, di perdere il controllo. La sfinge rappresenta l’enigmaticità. L’unione erotico-carnale
tra i due amanti viene prefigurata come una sorta di risveglio da un’istintualità vitale e generatrice. È la
celebrazione della vita che si perpetua e del legame intenso che unisce l’uomo e la donna. L’antica faunessa
è la rappresentazione del mondo pagano classico e dell’impulso animale, vitale.

Nel 1899 Darío lascia l’Argentina e, come redattore e opinionista di spicco de La Nación, viene inviato come
corrispondente in Spagna. Dal 1899 fino al 1905 Darío vive lontano dall’America latina e soggiornerà anche
in Francia, visitando altri Paesi europei, tra cui l’Italia. A questo periodo risale la raccolta di scritti in prosa
España contemporanea, dove Darío esprime le sue riflessioni su storia e cultura contemporanee. Ormai è
un uomo maturo, artista di successo e acclamato anche fuori dall’America latina; la sua influenza sulla
generazione spagnola del ’98 è piuttosto evidente, quindi è accolto anche in Spagna come un grande
scrittore. A questa situazione favorevole dal punto di vista materiale non corrisponde una situazione
altrettanto positiva sul piano emotivo e spirituale. Fin da adolescente, si era dedicato all’attività artistica,
ma ha anche vissuto un’esistenza frenetica. Bisogna anche dire che ha iniziato a coltivare una passione
eccessiva per l’alcol, che inizia a causargli problemi di salute. Spesso è preda della malinconia e della
depressione, del male del secolo definito spleen. A questa situazione lui reagisce continuando a condurre
una vita di eccessi. È in questo clima che hanno origine le poesie raccolte in Campos de vida y esperanza
(1905). È l’ultima delle tre grandi opere che segnano la carriera di Darío. Questa raccolta presenta
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

differenze nette rispetto alle altre due sia dal punto di vista formale, con l’introduzione del verso libero e
della metrica accentuativa, sia da quello tematico e ideologico. Darío è perfettamente consapevole di
questo nuovo atteggiamento artistico e umano, e lo dimostra nel prologo stesso alla raccolta. Per quanto
riguarda l’aspetto formale, nel prologo scrive «anche se rispetto alla tecnica avrei fin troppo da dire nel
Paese dove l’espressione poetica è anchilosata al punto che la mummificazione del ritmo ha finito per
diventare un articolo di fede, mi limiterò a fare una breve osservazione: in tutti i Paesi colti d’Europa si è
usato l’esametro assolutamente classico senza che la maggioranza delle persone colte, e soprattutto i
lettori, siano mai stati turbati da questo modo di scrivere versi»: sta giustificando innovazioni formali che
inizia a introdurre con questa raccolta. «Senza citare gli antichi, è già da tempo che in Italia Carducci ha
legittimato l’uso degli esametri. Per quanto riguarda la lingua inglese, non oso quasi segnalare, per rispetto
alla cultura dei miei lettori, che il poema Evangeline di Longfellow è scritto con gli stessi versi con cui Orazio
aveva espresso i suoi migliori pensieri». È soprattutto dal punto di vista tematico e dell’atteggiamento che
l’io lirico manifesta che si registrano le novità più sostanziali. Si potrebbe dire che in Cantos de vida y
esperanza ci troviamo di fronte a un Darío molto diverso rispetto al passato. Appare, infatti, quasi come un
altro uomo: inizia a preoccuparsi per le sorti del continente latinoamericano – che in passato era rimasta
latente e marginale –, cui inizia ad aggiungersi un interesse per la cultura ispanoamericana, ed è il
cosiddetto mundonovismo (o americanismo). Questa visione caratterizza un po’ tutto il tardo modernismo.
Questo non significa che Darío rinunci alla sua visione cosmopolita dell’arte e della vita e al suo interesse
per le culture lontane dalla tradizione ispanica. A ogni modo, non c’è dubbio che la situazione storica di
quegli anni si rifletta anche sul piano politico in alcune composizioni di questa raccolta.

Questa preoccupazione appare espressa già nella seconda poesia della raccolta (Salutación del optimista),
dove nonostante il tono di speranza che il poeta manifesta per il futuro della cultura ispanica in America, si
fa strada un senso di inquietudine di fronte a un clima di grande instabilità sociale e politica mondiale –
sono gli anni che preludono alla Prima guerra mondiale, ma anche in cui si scatena il conflitto russo-
giapponese. Un altro esempio di questo atteggiamento critico che si propone di ammonire e risvegliare la
coscienza dei propri concittadini è la famosa Oda a Roosevelt, in cui Darío affronta un tema di grande
attualità, ovvero i rapporti tra Stati Uniti e America latina. Una traccia della consapevolezza di aver allargato
gli orizzonti della sua poesia introducendo temi sociali e politici si trova nella chiusura del prologo alla
raccolta: «Se in questi campi vi è politica è perché questa appare universale, e se incontrerete versi rivolti a
un presidente è perché rappresentano un clamore continentale. Domani potremmo essere tutti degli
yankee e ciò è assai probabile. A ogni modo, la mia protesta rimane scritta sulle ali dei cigni immacolati,
tanto illustri quanto Giove». Non rinuncia a scrivere una poesia decisamente estetizzante. A questa
dimensione estetizzante, Darío aggiunge sostanza sociale e politica. La novità è la presenza di toni e
atmosfere di profonda inquietudine esistenziale. Ciò che Darío manifesta spesso è un senso doloroso e
drammatico dell’esistenza e della vita, e questa è la presenza della sofferenza e della morte che incombono
in ogni istante sull’uomo. Questo è ciò che amareggia ogni momento di felicità e mostra una natura
effimera dei piaceri sensuali cui Darío si era sempre dedicato.

Il poeta decide di scrivere le sue composizioni proprio a partire da questo sentimento di disillusione e di
tristezza, riconoscendo pubblicamente di vivere, come tutti gli esseri umani, in una condizione di estrema
precarietà, ossessionato dal pensiero della morte inesorabile e dall’immagine del dolore. Facendo ciò,
compie una sorta di revisione della propria esistenza, senza comunque rinnegare il passato o la propria
estetica, ma affermando che questo passato e questa estetica del piacere sono ormai qualcosa che per lui
deve convivere con una senso ben più drammatico dell’esistenza. Non è un caso che la prima poesia della
raccolta costituisca una vera e propria confessione di questa fragilità e di questa amarezza, che rivela un
Darío inedito e che neanche i suoi lettori si aspettavano. Qui Darío mette in luce un cambiamento profondo
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

che l’uomo e il poeta hanno vissuto, dall’altro sottolinea una certa continuità con il proprio passato, visto
come un’età dell’oro e che anagraficamente coincide con i suoi venti/trent’anni, quindi il momento più
fulgido dell’esistenza.

Il titolo della raccolta lascerebbe immaginare che il libro contenga una poesia piena di ottimismo, ma la
maggior parte delle composizioni è dominata da sentimenti opposti. Il pensiero ricorrente è quello della
sofferenza e della morte, la fine inesorabile; filosoficamente, il pensiero del nulla che incombe e rende
apparentemente insensato il vivere dell’uomo. Alla luce di ciò, la speranza evocata dal titolo corrisponde a
un desiderio ossessivo di cancellare la realtà tragica dell’esistenza piuttosto che a un’effettiva convinzione
che ci possano essere motivi di autentico ottimismo. A causa del bisogno impellente di trovare una ragione
di ottimismo di fronte a una realtà storica mondiale che presenta segni minacciosi, Darío introduce e
recupera una visione religiosa cristiana nella sua poesia, come si po’ notare in Canto de esperanza. Darío è
maturato e l’illusione di poter condurre per sempre una vita edonistica e spensierata incomincia a vacillare.
Per questo il poeta cerca rifugio e conforto nella tradizione cattolica e nella figura di Cristo. La concezione
religiosa di Darío non coincide mai con l’ortodossia, ma questa poesia è un’invocazione a Dio perché si
manifesti, e tende a presentarsi come una risposta irrazionale di fronte a una situazione storica angosciante
piuttosto che essere un effettivo bisogno spirituale. Darío sembra vedere nell’apocalisse (nuova venuta di
Cristo) la soluzione ai mali del mondo materiale e delle afflizioni umane concrete al posto di vederlo come il
compimento di un disegno divino atto alla redenzione finale.

Canto de esperanza

Questa poesia fa parte della prima sezione, cui ne seguono altre due intitolate rispettivamente Los cisnes e
Otros poemas. Il metro di questa lirica è costituito da alessandrini, riuniti in terzine, tutte in rima omofona.

Il primo verso contiene un senso di minaccia incombente sul mondo ed è l’immagine della morte e del lutto
che spengono la vitalità. Il tono e il riferimento biblico sono al regno millenario di Cristo. Questo regno
millenario allude al compiersi della profezia dell’apocalisse, che si manifesta con i segni dell’inimicizia, del
lutto e delle guerra. La peste è immagine del castigo divino. Il terzo verso è un riferimento storico ben
preciso alla guerra russo-giapponese, che Darío aveva già stigmatizzato e condannato in un suo articolo
giornalistico su La Nación del 1904. Il sognatore è immagine del poeta, che partecipa, nonostante la sua
indole sognatrice, alla tragedia di un’umanità travagliata dal dolore, dalle guerre, dalle ingiustizie e immersa
in una prospettiva futura che appare sempre più tenebrosa, tanto che il poeta non riesce più a proiettarsi
nella dimensione dell’arte per l’arte. C’è una visione quasi profetica egli eventi bellici che si scateneranno
nel mondo nel ‘900, secolo delle guerre. A questo punto, Darío invoca direttamente la divinità con
un’immagine del Cristo trionfante che dovrebbe cancellare il male dal mondo. La strofa successiva è un dei
passaggi in cui si esprime chiaramente il senso religioso di Darío, che emerge con una certa frequenza. La
glorificazione ci porta nell’ortodossia. Ci sono immagini visionarie e intensamente drammatiche che si
trovano nell’Apocalisse. L’abisso è il mondo umano, assimilato all’inferno. Nell’ultima strofa fa riferimento a
uno dei cavalli con cui si manifestano i quattro cavalieri dell’apocalisse secondo la rivelazione di Giovanni. Il
clarín è uno strumento musicale che corrisponde alle trombe del giudizio bibliche e annuncia la fine dei
tempi, nonché uno strumento che appare diverse volte nella poesia di Darío. La speranza, in questa poesia,
è un elemento ambiguo: Los cisnes si conclude con un verso in cui il cigno bianco dice che la speranza non è
mai morta, è ancora conservata nel vaso di Pandora; anche il cigno nero dice che nel futuro vede una luce,
quindi è sempre lì. Il poeta è in bilico tra la speranza, sentimento che lo sostiene e lo porta a continuare a
vivere, però si rende conto che nel suo corpo le cose non vanno così bene. Insieme a lui, sta decadendo
l’umanità nel suo complesso. Possiamo dire che la speranza è di avere ancora un po’ di speranza.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

09/05/22

Los cisnes

Dedicata a Juán Ramón Jimenez, alle sue prime composizioni all’inizio del ‘900. Darío dedica
simbolicamente questa poesia a questo autore spagnolo, infatti nella composizione si trovano alcuni
riferimenti alla cultura di origine spagnola, tra cui c’è anche quella ispanoamericana. È una poesia di
stampo classico, costituita da alessandrini raccolti in quartine, con uno schema di rime ABAB CDCD. In
questa poesia, il cigno diventa, oltre che elemento esornativo nell’immaginario modernista, simbolo dello
spirito dell’unità spirituale del continente latinoamericano; tra l’altro, nella mitologia classica, Giove si era
incarnato nel cigno per unirsi a Leda, quindi ha anche questa dimensione divina. Questa poesia risente del
periodo che stava vivendo Darío ed è costituita da una serie di interrogativi e di riflessioni che ne
scaturiscono. Si conclude con una sorta di oracolo affidato a due cigni, uno bianco e uno nero, che
chiudono la poesia con una nota di speranza.

Il cigno è emblema del mistero della vita e dell’universo. Il suo collo disegna un punto interrogativo. I
sognatori sono le persone colte, quindi anche lo stesso poeta. Il cigno è anche simbolo dell’eleganza e della
bellezza, che è appare imperturbabile e pura. Non si capisce bene perché dica che il cigno è tiranno con le
acque. Il senso dei versi 3 e 4 è “perché sembri ignorare tutto ciò che ti circonda e sembri essere il signore
del luogo in cui abiti?”.

Il cigno sembra incarnare valori estetici permanenti, che arrivano dalla classicità. Questi versi sono costruiti
su evocazioni di sensazioni uditive. Il canto dell’usignolo viene riprodotto in modo onomatopeico con le
allitterazioni.

Il poeta si rivolge idealmente ai cigni. Il poeta che si rivolge al cigno sa già che quest’ultimo è stato chiamato
in causa come interlocutore. Alla latinità classica si giustappone un riferimento alla letteratura ispanica del
siglo de oro, infatti nomina Garcilaso de la Vega, uno tra i più importanti poeti del Rinascimento
ispanoamericano e che prelude al siglo de oro.

L’ideale dell’arte pura è incarnato dal cigno come unica forma possibile di esistenza felice. Cominciano
anche a inserirsi delle meditazioni di tono marcatamente negativo, che si riferiscono alla eocntingenze
storiche dell’epoca.

Le «brumas septentrionales» indicano un tempo cattivo, quindi qualcosa di minaccioso che si sta
avvicinando. Tutti i termini sono negativi, comportano assenza, morte o qualcosa di fatale. La rosa è
emblema della poesia, quindi l’arte, se non fosse per i modernisti, sarebbe calpestata, sembra dire Darío.
Queste immagini hanno un crescendo di drammaticità nel rappresentare in termini molto vaghi un
presente desolato.

Il potea precisa, rispetto alla quartina precedente, qual è la minaccia che lui vede: la ragione delle sue
preoccupazioni, che non sono esistenziali, è la situazione storica, quindi la violenza e la guerra incombono. I
girifalchi sono falchi di grosse dimensioni, usati per la falconeria nel Medioevo, ma anche u antico pezzo di
artiglieria di piccolo calibro; in questo caso personificano i potenti che ricorrono alla violenza. Il termine
falce potrebbe riferirsi anche alla rappresentazione tradizionale della morte. La puntualizzazione dell’ultimo
verso richiama la guerra di cavalleria: Darío dice che non ci sono più i cavalieri di una volta; oggi la guerra è
disumanizzante, non c’è più il senso dell’onore.
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

La condizione di impotenza e sconforto che il poeta vive lo spinge a rifugiarsi nella dimensione artistica,
lontana dalla realtà prosaica. Questa è un’immagine di esistenza derealizzata. Darío appare rassegnato. È
meglio immergersi nel mondo dell’immaginazione della bellezza pura, che la poesia e l’arte in generale
hanno sempre coltivato e posto come obiettivo e ancora di salvezza dell’esistenza umana. «Y a falta de
victorias busquemos los halagos»: una sorta di degradarsi dell’arte.

Tutto il mondo aspetta di conoscere la sua sorte, scruta l’orizzonte e cerca di comprendere il suo destino
scrutando idealmente nel futuro. Il cigno rappresenta la bellezza eterna e diventa l’oracolo cui il poeta si
rivolge per conoscere il futuro attraverso una serie di domande retoriche.

La minaccia che prima era stata evocata in modo così drammatico adesso viene esplicitata nella suditanza e
nell’assimilazionismo culturale – il riferimento è agli Stati Uniti. L’America latina considerava gli Stati Uniti
un Paese ancora barbaro. Darío, chiamando in causa i cavalieri, si appella al senso dell’onore.

Il cigno ha assistito alle disillusioni del poeta, ma, al tempo stesso, è simbolo di ciò che gli ha dato forza. I
puledri americani che fuggono sono un’immagine ambigua, che rimanda alla minaccia del cedimento dello
spirito e dell’orgoglio delle nazioni indipendenti; può anche rappresentare una vitalità. Il leone morente è
emblema di una grande potenza al tramonto (la Spagna).

A questo punto c’è il responso dei cigni, creature che incarnano anche l’essenza divina. Questo responso
rovescia tutto il tono della composizione, è positivo. La visione offerta dal cigno nero è ottimistica, anche
nel profondo della notte non è lontana la luce del Sole. Il cigno bianco allude all’immortalità della vita e di
un futuro sconosciuto ma aperto. Il poeta conclude rivolgendosi ai suoi lettori, non più ai cigni. La s
maiuscola di speranza divinizza in qualche modo questa entità. Secondo la tradizione classica, il vaso di
Pandora contiene tutti i mali del mondo, e la curiosità di qualcuno fece sì che il mondo cadesse, dall’età
aurea, nell’epoca umana. Questa speranza che rimane nell’ultimo verso costituisce il messaggio che i cigni
hanno trasmesso al poeta.

José Asunción Silva

È un autore che ha un posto particolare nella storia della letteratura ispanoamericana e soprattutto
colombiana: merita questo posto particolare sia per la sua opera e per la sua indole di scrittore eccentrico,
ma anche per una serie di disavventure che segna la sua esistenza e culmina con il suicidio a trent’anni. È
diventato una figura leggendaria per la sventura che lo accompagna continuamente.

Silva nasce a Bogotá nel 1865 da una famiglia agiata della borghesia commerciale. Fin da adolescente,
manifesta un carattere introverso e una passione per la letteratura, alimentata anche dai gusti raffinati di
suo padre, che apparteneva a un circolo di scrittori costumbristi: era un intellettuale raffinato, però legato a
moduli espressivi decisamente passati di moda. Silva inizia a studiate nei migliori istituti della capitale
colombiana. A quindi anni abbandona gli studi regolari e inizia a lavorare nella ditta del padre, quindi
completerà la sua formazione essenzialmente da autodidatta. In questo periodo legge soprattutto gli autori
del Romanticismo francese e spagnolo, e inizia a scrivere anche la sua prima raccolta di poesie che
intitolerà Intimidades e concluderà nel 1884, però senza che questa veda mai la luce. In queste
composizioni è evidente l’influsso degli autori romantici europei, soprattutto di Bécquer e di Hugo. Nel
1885, quando ha vent’anni, su invito di suo zio, che viveva in Francia, fa il suo viaggio in Europa e qui
rimarrà per un anno, risiedendo quasi sempre a Parigi, dove Silva legge molto soprattutto gli autori coevi
(Nietzsche, D’Annunzio, ecc.), conosce personalmente Mallarmé e Moreau; in particolare, inizia a
frequentare l’ambiente degli artisti e a vivere come un dandy. Quando ritorna in Colombia, comincia a
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

manifestare una certa insofferenza nei confronti della società della capitale colombiana, che, rispetto al
mondo vivace e culturalmente affascinante di Parigi, gli sembra intellettualmente povera e provinciale,
nonostante la città si fosse definita, negli ultimi secoli, “l’Atene americana”; continua a scrivere poesie che
cominciano a presentare una notevole originalità. Otto di queste poesie vengono pubblicate nel 1886 in
un’antologia collettiva intitolata La lira nueva, che segna l’inizio del Modernismo in Colombia. Nel 1887 il
padre dell’autore muore improvvisamente, lasciando l’azienda e la famiglia sull’orlo della bancarotta. Da
questo momento si apre per Silva un periodo di difficoltà economiche e di lutti familiari che renderanno
sempre più angosciosa la sua esistenza. Inizia a scrivere un’opera in prosa – quello che sarà il suo unico
romanzo, che rimarrà semi-incompiuto – intitolata De sobremesa e a frequentare alcuni scrittori della
capitale colombiana che condividono i suoi stessi gusti. Negli anni successivi compone alcune delle sue più
famose poesie, che vengono lette durante le riunioni con gli amici e pubblicate sparse su numerose riviste
letterarie. Nel 1891 subisce un duro colpo emotivo dal quale non si riprenderà più: muore la sorella Elvira,
alla quale il poeta era molto affezionato e a cui dedicherà la sua poesia più famosa, ovvero la terza versione
del Nocturno, pubblicata nel 1894. Tra il 1892 e il ’94 lavora come traduttore di autori inglesi e francesi e
inizia a preparare El libro de versos, una raccolta di poesie pubblicata soltanto dopo la sua morte. Nel 1894
viene inviato come diplomatico in Venezuela, ma durante il viaggio di ritorno la nave su cui è imbarcato
affonda; Silva si salva, ma perde tutti i manoscritti che aveva con sé, tra cui alcune opere in prosa, ma anche
saggi e molte delle sue poesie. Miracolosamente ritornato a Bogotá, inizia a riscrivere De sobremesa, perso
in questo naufragio, e a ricostruire la sua raccolta di poesie. La situazione economica della famiglia è
sempre più disperata, e, nel tentativo di risollevare le sue sorti finanziare, il poeta avvia una nuova attività
economica, una fabbrica di maioliche, che si rivelerà un fallimento. Silva vive gli ultimi mesi della sua vita in
uno stato di depressione e angoscia, causate dalle disavventure personali. Tra l’altro, lui era il maggiore tra i
suoi fratelli, quindi su di lui gravavano molte responsabilità. Oltre a questo, ci sono le pressioni dei creditori.
Il 24 maggio 1896 Silva si reca dal suo medico e gli chiede di indicargli con precisione dove si trova il cuore.
Il medico, con una matita dermografica, gli disegna sulla camicia esattamente la posizione del cuore. Il
giorno seguente Silva viene trovato morto, con un colpo di pistola proprio dove il medico aveva segnato la
posizione del cuore. Questo episodio ritorna in alcuni riferimenti di autori successivi: in Cien años de
soledad (Gabriel García Márquez) il colonnello Buendía, in una delle sue avventure, cerca esattamente di
fare la stessa fine di Asunción Silva.

Come risulta da questa sintesi biografica, finché era in vita, Silva non pubblicò neppure un libro. Quando
morì, però, era uno scrittore che godeva tra i suoi contemporanei di una certa fama. Nell’ambiente chiuso e
provinciale di Bogotá si era fatto conoscere, oltre che per i suo i modi di dandy raffinato nonostante fosse in
condizioni economiche disperate, anche e soprattutto per la vena polemica con cui aveva attaccato
pubblicamente alcuni intellettuali e artisti che praticavano ancora una scrittura tradizionalista e molto
imitativa. A questi attacchi gli avversari rispondevano con gli stessi toni, tant’è che il suo soprannome era
José Presunción Silva. Al tempo stesso, era molto apprezzato da una ristretta cerchia di colleghi e artisti,
che lo invitavano nei salotti per recitare le sue poesie. Complessivamente, la sua opera poetica è piuttosto
esigua, sono poco meno di un centinaio di composizioni quelle rimaste, contando anche quelle
adolescenziali. Questo corpus lirico si può suddividere in tre gruppi:

1. Quello artisticamente più importante contiene le composizioni che lo stesso Silva aveva riunito in
una collezione che aveva intenzione di pubblicare, suddivisa in quattro sezioni e intitolata El libro de
versos. Questo è senz’altro la raccolta più rappresentativa della sua produzione poetica e ne riflette
gli elementi più caratteristici.
2. Un gruppo di tredici composizioni prende il titolo di Gotas amargas. Si contraddistingue per il tono
ironico di alcune poesie, in cui l’autore attacca il Romanticismo più melenso e il valori della società
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

borghese, nonché lo squallore della società contemporanea. Questa raccolta fu resa pubblica da
alcuni suoi amici e circolò in forma manoscritta quando Silva era ancora vivo.
3. Nell’edizione delle opere complete va sotto il nome di Poemas varios, dal momento che Silva non
aveva dato un titolo a questa possibile sezione di poesie. Si tratta di una serie di poesie eterogenee,
alcune già pubblicate in periodici e riviste, altre ancora inedite alla morte dell’autore.

Tipici della poesia di Silva sono i paesaggi notturni, una vera e propria ossessione per la morte e la presenza
di atmosfere morbose e malinconiche, tipiche del Decadentismo ma che, al tempo stesso, sono lontane
dall’artificiosità lamentosa dei tardoromantici.

Il romanzo De sobremesa fu pubblicato nel 1925 ed è scritto con una prosa molto artificiosa, tipica del
Decadentismo. Dominano l’iconografia raffinata di fine secolo e le atmosfere sono languide. Il protagonista
di questa narrazione, in forma di diario, è José Fernández, che possiamo immaginare come un alter ego di
Silva e rappresenta l’esteta colto ed elegante dalla personalità contraddittoria, che oscilla tra la passione
istintuale e l’ascetismo, il desiderio di conoscere tutti gli aspetti, anche quelli più torbidi, della vita
moderna; al tempo stesso, cerca rifugio in una dimensione idealizzata lontano dalla quotidianità e dalla
banalità.

Nocturno (1894)

La figura di Silva è conosciuta soprattutto per il terzo Nocturno, una composizione abbastanza breve ma
particolarmente suggestiva, considerata la sua poesia più riuscita. Quando apparve pubblicata per la prima
volta nel 1894 su un settimanale di Cartagena de Indias, questa poesia attirò subito l’attenzione dei lettori,
dei critici e degli autori del tempo essenzialmente per due caratteri:

 L’innovazione formale che introduce (si tratta di una poesia costruita su una versificazione
poliritmica, senza uno schema strofico o rimico); Silva recupera, sul modello anglosassone, la
metrica quantitativa dell’antichità classica, non basata sull’isocronia, sulla rima e sul verso sillabico,
bensì su una distinzione tra sillabe/vocali lunghe e brevi. Tra le mani di Silva, queste sillabe
lunghe/brevi davano origine a unità minime di due o più sillabe (piedi della poesia greca), che
formavano sequenze che costituivano i versi. Silva usa essenzialmente un’unità minima di quattro
sillabe ripetute in sequenza e che formano versi che arrivano anche a 24 sillabe. Questa è una
modalità compositiva che si avvicina a una sorta di partitura musicale. Infatti, la composizione è
intitolata Nocturno non solo perché l’ambiente e l’atmosfera sono crepuscolari, ma anche perché vi
è un richiamo alla composizione musicale romantica per eccellenza, ovvero il notturno. Per questa
tecnica, che permette al poeta di esprimersi senza troppi vincoli formali, questa poesia viene
accolta con grande interesse dai lettori.
 Il secondo aspetto che contribuì ad accendere l’attenzione attorno a questa poesia è la biografia
dell’autore. Questa poesia dedicata alla sorella Elvira, morta qualche anno prima e a cui lo
scrittore era molto affezionato. Il fatto che nella composizione la figura dell’io lirico e la donna
appaiono uniti da un amore profondo, che nel finale sembra alludere a un’unione fisica, spinse
alcuni lettori e i primi critici a pensare che tra questi due fratelli ci fosse una relazione incestuosa.
Questo non aveva alcun fondamento, però questa speculazione morbosa contribuì ad attirare
l’attenzione sulla figura di Silva e a mitizzarlo anche al di là dei suoi meriti strettamente letterari.

Il tono è profondamente elegiaco. Possiamo dividere questa composizione in due parti, che corrispondono
a due momenti cronologici ben distinti. Il registro linguistico di tutta la poesia è caratterizzato dall’uso di un
vocabolario semplice e antiretorico (aspetto formale riconducibile all’essenza dell’estetica modernista).
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

All’estetica modernista sono riconducibili anche la musicalità dei versi e altri elementi come il poliritmo.
Nella prima parte, proiettata nel passato, l’io lirico rievoca la presenza della sorella attraverso il ricordo di
una passeggiata notturna in un ambiente solitario, immerso nella luce della luna e animato dalla presenza
di una vitalità naturale che viene percepita attraverso suggestioni multisensoriali.

Si può dire che il tempo sia indeterminato, perché non sappiamo se si tratta di una notte di primavera o di
qualche altra stagione. Tutto appare pervaso da un senso di quiete e di serenità, trasmesso al lettore
mediante le tonalità smorzate dell’oscurità, nella quale palpitano forme di vita fantasmagoriche. Oppure, il
poeta ricorre a evocare forme di vita che appaiono invisibili, e sono gli animali notturni che si manifestano
per i loro movimenti furtivi. Dopo aver evocato l’atmosfera notturna del luogo, il poeta introduce le due
figure umane che camminano l’una di fianco all’altra, inoltrandosi in questo paesaggio solitario. L’immagine
della donna appare già connotata da un senso di fatalità incombente («como si un presentimiento de
amarguras infinitas»): si tratta di una prolessi proiettata nel passato. Questa fatalità incombente allude alla
perdita e al dolore che si manifesteranno pienamente nella seconda parte della composizione. Il tono è
languido e malinconico, ma non è ancora tragico, anche perché è associato al ricordo nostalgico di una
presenza amata che evidentemente non c’è più. La figura femminile viene rappresentata anche in modo
ambiguo: da un lato, l’io lirico avverte la sua presenza fisica, il contatto materiale con il suo corpo; dall’altro
lato, la rappresenta come una forma quasi spettrale («muda y pálida»). Questa connotazione è accentuata
nei due versi successivi, in cui la donna sembra presagire inconsciamente la presenza di un destino doloroso
incombente. Nei versi successivi, viene rievocato il paesaggio notturno quasi idilliaco in cui le due figure
umane si inoltrano come fossero due amanti malinconici. L’oscurità potenzialmente negativa della notte
appare stemperata dalla luce lunare e dal colore del cielo, che non è nero, ma della tonalità azzurrastra
tipica dei pleniluni. Il senso di sgomento è reso attraverso gli aggettivi che connotano il cielo. Questi termini
alludono al senso di finitudine e di fragilità dell’essere umano. Anche il paesaggio terrestre, che corrisponde
alla savana di Bogotá, viene rappresentato in modo idilliaco, nella sua dimensione più vitale, ovvero la
distesa fiorita, preludio della vita. Gli ultimi versi che chiudono questa prima parte rievocativa riportano in
primo piano le figure umane, non mostrate attraverso la loro presenza tangibile e corporea, bensì
attraverso la proiezione delle loro ombre allungate, che tendono a evocare un senso di perdita, di
incorporeità spettrale. Ad accentuare il tono malinconico contribuiscono gli aggettivi associati alla figura
femminile, che appare esile e fragile; anche il sentiero lungo il quale questa coppia si muove viene definito
come triste, e questa strada conduce verso un futuro di morte e separazione. Da notare la ripetizione dei
versi, tipica dei notturni come composizioni musicali. Questi ultimi versi riprendono una melodia
dominante, presentando i due esseri umani come un’unica ombra che si allunga sul terreno, e suggeriscono
un senso profondo di unione spirituale ed emotiva tra l’io lirico e la figura femminile; al tempo stesso,
presagiscono la solitudine che Silva manifesta in modo lacerante nella seconda parte della poesia.

Non esiste una frattura vera e propria nella poesia a dividere le due parti, ma si può scorgere dal momento
che determina il tempo con «esta noche». Questa seconda parte, che costituisce una sorta di meditazione
post-mortem, può essere considerata la proiezione speculare della prima parte. Questa cesura è
virtualmente evidente nella struttura complessiva della composizione ed è costituita dal salto temporale
durante il quale avviene la morte della donna. Questa frattura cronologica è assimilabile all’ipotetica
superficie di uno specchio che riflette la prima parte, dominata dal tono nostalgico, nella seconda,
dominata da un tono funebre e angosciato. Il senso della specularità non consiste solo nel fatto che il
paesaggio e il percorso che viene seguito dalla figura solitaria dell’io poetico essenzialmente coincidono con
quelli della prima parte, ma consiste anche in una serie di rovesciamenti semantici ed emotivi rispetto alla
prima parte. Da questo punto di vista sono assimilabili all’immagine identica ma capovolta che viene
riflessa nella superficie di questo metaforico specchio: mentre nella prima parte la figura femminile è viva e
Matteo Cortinovis Matr. n° 1072749 Università degli Studi di Bergamo

presente, nella seconda è morta e assente; nella prima parte il poeta ricorda con nostalgia, mentre nella
seconda riflette con amarezza e profonda inquietudine; nella prima parte la natura appare viva e fertile,
mentre nella seconda questa vitalità è sinistra e rappresentata dai cani che latrano nel buio e dalle rane che
stridono, o addirittura assente, con la pianura che è diventata una steppa, un ambiente arido e di erbe
secche.

Il poeta è ritornato nel luogo in cui era solito passeggiare in compagnia della sorella, ma ora domina il senso
della solitudine. Il vuoto che la morte della persona amata ha lasciato nello spirito dell’io lirico viene vissuto
e appare come una sorta di abisso infinito, buio e nero, e come se la notte si fosse riempita di angoscia e di
sofferenza, come se questo abisso fosse quello della morte. Questa sofferenza nasce da una separazione
definitiva e inesorabile, e assume una connotazione esistenziale profonda: l’ombra, fin qui associata alla
presenza dell’essere umano, ora diventa metafora esplicita di un’assenza, quella della sorella, e della
presenza della morte, che impedisce ogni possibile contatto («donde nuestra voz no alcanza»); impedire
questo possibile contatto fisico vuol dire anche impedire qualsiasi tipo di consolazione. Non usa il termine
croar (=gracidare), ma chillar (=stridere), che connota un rumore disturbante e sinistro. In questi versi a
natura appare in sintonia con lo stato d’animo angosciato dell’io lirico. Effettivamente, le rane che vivono in
quelle zone hanno un gracidio simile allo stridio di una porta, quindi non è soltanto un dettaglio legato al
senso che il poeta vuole esprimere, ma a un fatto reale. Al senso di solitudine e di perdita inesorabile della
sorella, che fin qui il poeta avverte ed esprime sul piano emotivo e spirituale, si aggiunge una percezione
fisica, materiale della morte, a cominciare dalla sensazione di freddo che adesso lo coglie nella sua
passeggiata, e che contrasta col tepore della notte evocato nella prima parte. Questo freddo sembra essere
l’unico legame materiale che lo unisce alla donna defunta. Infatti, assimila questa sensazione al gelo del
cadavere nella camera funeraria della sorella, in cui il candore niveo delle lenzuola è metafora di purezza,
ma soprattutto espressione di assenza di vita – il bianco è sì unione di tutti i colori, ma di fatto non ne
presenta nessuno. Il senso della morte si espande dalla dimensione fisica (sepolcro) a quella metafisica (il
non esistere, il nulla). I versi successivi esprimono la desolazione del poeta, che da solo sta attraversando lo
stesso ambiente che un tempo contemplava in compagnia della sorella. Al tempo, questo luogo gli appariva
malinconico, ma si manifestavano i segni di una vita esuberante, mentre adesso questo mondo tropicale
appare morto e disseccato. Anche l’ombra solitaria, non a caso osservata da un punto di vista esterno a
quello del soggetto, sembra prefigurare da parte dell’io lirico il senso di una fine che sente vicina anche per
sé stesso. Ora compare, nell’immaginario del poeta, la seconda ombra, quella della sorella; sembra che le
due ombre si allontanino, camminando verso la morte. Il passato prometteva una stagione felice, ma
improvvisamente questa si è interrotta. Nei versi conclusivi, il poeta immagina di astrarsi da questa realtà
triste in cui vive dopo la morte della sorella. per un istante che sembra trascendere il tempo e lo spazio,
immagina di ricongiungersi con lei e rievoca la notte in cui anni prima aveva camminato in sua compagnia
lungo quello stesso sentiero che ora sta attraversando da solo. Questa ricongiunzione diventa
inevitabilmente una forma di unione funebre, perché, come ha affermato poco prima lo stesso io lirico, tra i
vivi e i defunti si erge una barriera invalicabile, che soltanto la morte o l’immaginazione possono infrangere.

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