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INSICUREZZA E PAURA OGGI

CAPITOLO 1: LA SOCIETÀ CONTEMPORANEA


TRA RISCHI GLOBALI ED INSICUREZZE
LOCALI

Con il termine insicurezza si intende tutto ciò che non è prevedibile né affrontabile: questo comporta un
sentimento di impotenza rispetto alle minacce prodotte dalla società moderna. La conseguenza è quella
di trovarsi a vivere all’interno di una società basata sul rischio e sull’incertezza. Rischio, pericolo e
minaccia producono un danno, ovvero un’alterazione indesiderata dello stato originario di un qualsiasi
bene.

La nozione di rischio si fa risalire al periodo medioevale, ma solo a partire dal 18° secolo viene
affrontato in termini scientifici. Durante l’epoca moderna, assume un’accezione tecnico-ingegneristica,
riferibile alla probabilità di accadimento di un evento. Infatti, il rischio assume una dimensione che i
teorici della sicurezza definiscono “speculativa”, opposta a quella dei rischi puri. Quando non si ottiene
alcun vantaggio, allora avremo la produzione di un danno, che può essere di tipo diretto o indiretto. Il
rischio esprime due differenti dimensioni: quella oggettiva, relativa all’effettiva probabilità che la
minaccia si manifesti, e quella soggettivo-individuale, inerente a come ogni singolo individuo
percepisce i rischi.

Il pericolo costituisce un evento capace di compromettere la sicurezza e quindi di produrre un danno: è


dunque la minaccia l’elemento provocatorio. Luhmann propone una distinzione tra rischi e pericoli.
Partendo dal presupposto che il tipo di decisione presa nel passato avrà delle nette conseguenze sul
futuro, definisce il pericolo come qualcosa a cui si è esposti, mentre il rischio rappresenta <<l’eventuale
danno visto come conseguenza della decisione>>. Dunque, il rischio, a differenza del pericolo, si
presenta come una fattispecie ben più complessa, in quanto legato all’incertezza degli eventi.

Studiare il rischio è un’operazione complessa, poichè bisogna individuare una specifica cornice
concettuale nel quale collocarlo e analizzarlo. Esistono due diversi approcci allo studio del rischio:
quello tecnico-scientifico e quello socio-culturale. Il primo rimanda alla corrente psicologica
cognitivista, dove si studia il rischio facendo riferimento al calcolo della probabilità di accadimento. Il
secondo filone presuppone che il rischio venga percepito <<attraverso la mediazione dei valori sociali e
culturali che contribuiscono a costruirne il significato>>: si ritiene dunque che gli individui utilizzino il
legame sociale per proteggersi dai rischi. Bagnasco afferma che <<la percezione di rischi diversi
produce effetti combinati di senso di disagio e di insicurezza generalizzati>>; dunque la sensazione
avvertita è quella di uno stato di assoluta incertezza esistenziale, privo di punti fermi.

Beck utilizza il concetto di <<seconda modernità>> intendendo il processo con cui entrano in crisi le
certezze e dove il rischio rappresenta parte della quotidianità. In particolare, nella <<società del
rischio>> le conseguenze sconosciute diventano dominanti e l’alto tasso di rischi prodotti dall’uomo
produce serie conseguenze alla struttura della società e alle relazioni interpersonali. Nell’affrontare
questi innumerevoli rischi, si fa costante la ricerca di sicurezza, che deve essere costantemente ribadita.
In realtà, Beck afferma che il rischio non è un’invenzione della tardomodernità, ma ha un carattere
globale, e questo aspetto si vede nel momento in cui, assunto un rischio, la sua distribuzione non
riguarderà solo la dimensione locale, ma l’intera comunità globale: il rischio subisce, dunque, un

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processo di universalizzazione. Beck afferma inoltre che la modernizzazione radicalizzata produce un
processo di individualizzazione, caratterizzato da tre dimensioni principali:

- Dimensione dell’affrancamento;
- Dimensione del disincanto;
- Dimensione della reintegrazione.

Tuttavia, Beck si interroga sui motivi che conducono gli individui a concentrare la loro attenzione verso
alcune tipologie di rischio, tralasciandone altre: questo perché si considerano solo i rischi visibili. Non
considerare le altre tipologie di rischi non visibili rappresenta uno motivo di alimentazione dei rischi e
della società del rischio in generale. Dunque, i rischi scaturirebbero dai processi di modernizzazione e di
globalizzazione e ciò induce la società a confrontarsi con tali cambiamenti, mettendo in discussione se
stessi.

Giddens, invece, ritiene che l’incertezza derivi dalla mancanza di progresso che la società moderna
avrebbe dovuto garantire. Infatti, lo studioso considera processi quali la globalizzazione ed il processo
di disgregazione delle relazioni come le cause della crisi della tardomodernità. Il processo di
globalizzazione viene definito come il prodotto de <<l’intensificazione delle relazioni sociali mondiali
che legano le diverse località, in maniera tale che gli avvenimenti di un luogo sono plasmati da eventi
che si verificano a grande distanza e viceversa>>. Non potendo più contare su un sistema condiviso di
condotte sulla religione e sulle tradizioni, l’individuo è costretto a riporre fiducia nei “saperi esperti”, i
quali spesso producono nuovi pericoli e una continua e costante domanda di sicurezza. Per poter
affrontare le circostanze rischiose a carattere globale, secondo Giddens occorre che gli individui
ricostituiscano il legame sociale, ricorrendo all’elemento psico-sociale della fiducia interpersonale.

Bauman definisce la società contemporanea come una società “liquida”, contraddistinta dai tratti della
varietà, contingenza e ambivalenza. In particolare, il sociologo parla, in maniera negativa, del concetto
di globalizzazione, affermando come si sia introdotto nel momento in cui era chiara l’impossibilità di
esercitare un controllo sulla rete globale già costituita. Nella società liquido-moderna si assiste ad un
processo di sgretolamento dei legami sociali, causato dal processo di individualizzazione: questo porta
alla nascita di nuove incertezze, paura per la propria incolumità e insicurezza dell’esistenza. Tutto ciò
conduce alla <<fine della sicurezza>>, concetto dal quale dipende la capacità di pensare ed agire in
maniera razionale, costituito da tre specifiche dimensioni:

- La sicurezza esistenziale;
- La certezza;
- La sicurezza personale.

La modernità liquida pone costantemente in discussione tali fattori, causando danni ingenti: la mancanza
di una di queste tre dimensioni ha l’effetto di produrre una totale cancellazione della sicurezza di sé e
della fiducia nei confronti degli altri. Ecco come la Sicurezza si trasforma in Insicurezza: la sicurezza
diventa insicura, poiché disseminata di rischi. Si parla di rischio intendendo ogni modo sistematico di
fronteggiare pericoli e insicurezze indotte e introdotte dalla modernizzazione: sono infatti i processi
della modernizzazione, lo sviluppo tecnologico e lo sviluppo scientifico i motivi di rischio per la
sopravvivenza individuale e collettiva. L’unica via di uscita, secondo Bauman, è rappresentata dal
superamento del paradosso della postmodernità: se da un lato la modernità liquida è capace di generare
autonomamente libertà e differenziazione, dall’altro non è in grado di produrre solidarietà, perché il
legame sociale è deteriorato.

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Il concetto di sicurezza si inserisce in molti aspetti della vita dell’uomo postmoderno, sia nella sfera
pubblica che in quella privata. Il binomio sicurezza/insicurezza è da lungo tempo al centro del dibattito
culturale, tanto da assumere un ruolo centrale e prioritario nelle attività dei governi nazionali e locali a
partire dalla constatazione che il sistema della giustizia penale, le strategie di controllo e di repressione
non sembrano essere in grado di produrre contesti di sicurezza. La sicurezza può essere intesa come
<<la convinzione che tutto quanto accada si possa fronteggiare o manipolare in misura considerata
sufficiente>>. In altri termini, la persona si sente sicura quando è persuasa che ogni situazione
minacciosa può essere affrontata con successo, sia perché è in grado di fronteggiarla con le proprie
forze, sia perché può rivolgersi ad un ente o a un’istituzione capace di fornirle la garanzia di un
intervento volto ad evitare danni significativi. Osservando la società odierna, è impossibile non
accorgersi di come il progresso, le scoperte scientifiche e tecnologiche abbiano fornito all’uomo le
condizioni e gli strumenti per affrontare un’esistenza al riparo da minacce di vario genere, godendo di
un completo e diffuso benessere. La sicurezza, quindi, non appare solo collegata all’aggravarsi dei
fenomeni criminali, ma anche alle rapide trasformazioni fisico-sociali delle realtà urbane, al ridursi delle
forme del controllo sociale formale e informale, alle crescenti difficoltà di relazione tra la società civile
ed il mondo istituzionale. La preoccupazione non deve essere sottovalutata, perché può produrre gravi
conseguenze sociale e psicologiche, minacciare i legami relazionali ed i flussi comunicativi.

Il sentimento di insicurezza rappresenta una delle principali componenti a cui riferirsi per poter
interpretare le forme dell’agire sociale. Nonostante abbia accompagnato tutte le società, è solo in quella
post-moderna che essa assume forme nuove rispetto al passato e raggiunge la massima espressione.
Differente dall’incertezza, l’insicurezza rimanda ad un aspetto emozionale, contraddistinto da due
dimensioni principali: quella soggettiva e quella oggettiva. Mentre l’insicurezza oggettiva scaturisce da
fattori misurabili, quella soggettiva si basa sul rischio percepito del singolo individuo riguardo alla
possibilità di restare vittima di un reato o di subire un danno. Oltre al problema criminalità ed alla sua
percezione, esistono altri fattori in grado di incidere sul senso di insicurezza, quali: crisi valoriale,
fenomeni di degrado urbano socio-ambientale, la crisi di alcuni valori sociali, morali e religiosi,
instabilità economica e politica.

Il frenetico e repentino processo di crescita delle città è il frutto delle grandi e radicali trasformazioni
sociali, politiche, produttive ed economiche che in più di un secolo hanno interessato l’Europa, a partire
dalla prima rivoluzione industriale sino ai giorni nostri. Questa nuova tipologia metropolitana sta
lentamente affiorando e tende sempre più a sostituirsi alla precedente morfologia urbana. Nella città si
sviluppa l’esigenza del senso di appartenenza, caratterizzato dal sentirsi parte integrante di una comunità
e come tale essere riconosciuto: è proprio questo bisogno che genera la formazione di gruppi e città, che
possono essere considerate come lo strumento attraverso il quale l’uomo è divenuto umano in senso
proprio. La città moderna, concepita come sistema urbano complesso di relazioni sociali, è divenuta tale
soprattutto nel dopoguerra. Questo ritardo rispetto ad altri paesi è stato dovuto alla particolare storia
italiana dall’Ottocento in poi ed alla più recente repentina trasformazione della nostra società da realtà
contadina ad industriale. Quattro pensatori in particolare fecero di tale passaggio un aspetto centrale
delle loro teorizzazioni: Tonnies, Durkeheim, Weber e Simmel.

Tonnies interpreta questo passaggio come l’avvento di un modello societario che ha la meglio su un
modello comunitario. L’organizzazione comunitaria implicava una vita basata sulla semplicità, sul
rispetto e sulla collaborazione fra gli individui. Il passaggio ad un modello di vita societaria, invece, si
realizza con l’inizio dell’industrializzazione e con la transizione dal mondo pre-industriale ad
un’organizzazione industriale, che ha nella produzione meccanizzata il punto di forza. L’esigenza di

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abbandonare le realtà di campagna porta alla disgregazione delle famiglie rurali e all’indebolimento dei
legami sociali e tradizionali.

Durkeheim riflette sulle implicazioni che il passaggio dall’una all’altra forma di produzione comporta
sui rapporti sociali, sulle relazioni fra gli individui e sugli assetti dei contesti in cui i soggetti vivono.
Partendo dal concetto di solidarietà, egli interpreta il passaggio da una forma di vita e di lavoro pre-
industriale ad industriale in termini di passaggio da forme di solidarietà meccanica a forme di
solidarietà organica. Durkeheim vede con favore e considera positivo il passaggio da
un’organizzazione preindustriale ad industriale e con esso il passaggio da una solidarietà di tipo
meccanico ad una di tipo organico, poiché la divisione del lavoro ed il differenziarsi dei compiti, propri
delle società moderne, danno origine ad un nuovo tipo di solidarietà definita organica per analogia con
gli organi degli esseri viventi i quali, pur possedendo ognuno una propria specifica fisionomia, sono
tuttavia ugualmente indispensabili alla vita dell’intero organismo: quindi, ogni soggetto è indispensabile
al funzionamento della macchina sociale ed è soprattutto libero di costruirsi la propria dimensione.

Weber analizza la teoria dello sviluppo urbano a partire dal 1889: la sua analisi prende in
considerazione non soltanto le città europee, ma anche quelle della Cina antica e dell’Oriente. In
particolare, il sociologo tedesco studia le caratteristiche primarie della forma urbana della civiltà
occidentale al fine di individuare un ipotetico modello onnicomprensivo: in questo modo, vuole
concentrare il focus d’attenzione sul fatto che i principi organizzativi e funzionali delle odierne città
sono presenti nelle società del passato. La città è, secondo Weber, uno <<stabile insediamento di
mercato>>. Le moderne società urbanizzate appaiono a Weber caratterizzate da un’organizzazione
razionale e un’economia fondata sul mercato e sulla produzione industriale.

Simmel associa la nascita del periodo moderno a quella di una nuova e complessa organizzazione
cittadina, la metropoli, luogo di continua e costante trasformazione sociale, culturale ed economica. Il
passaggio dalla società pre-industriale a quella industriale è stato accompagnato da un forte ed
incontrollato inurbamento che ha modificato la fisionomia cittadina dando luogo a spazi urbani
inutilizzati o semi utilizzati produttori di degrado. Al mutare della struttura architettonica dei luoghi
urbani, viene a modificarsi anche il rapporto dei cittadini nei confronti di questi; non vi è più un solo
luogo di aggregazione, ma si convive con varie realtà culturali e sociali diverse dalle proprie e, di
conseguenza, cambiano i rapporti interpersonali.

I reali cambiamenti caratteristici del passaggio dal mondo preindustriale a quello industriale sono stati,
in primo luogo, un caotico e selvaggio inurbamento, che accompagnò l’avvento delle fabbriche, e
successivamente la necessità di rispondere alle esigenze abitative della numerosa forza lavoro, e dunque
la costruzione delle abitazioni: ciò andò ad influire sulle caratteristiche infrastrutturali dei nuclei urbani
e sulla loro rapida espansione.

Dunque, sono state alterate le condizioni che garantivano un certo tipo di controllo sociale: in
particolare, Park parla di mobilitazione dell’individuo e di regioni in cui prevalgono codici morali
devianti. In particolare, i ricercatori della environmental criminology, basavano i loro studi sul
comportamento sociale, che assumeva certe regolarità entro le cosiddette “aree naturali”. Queste aree
sono il frutto di processi socio-economici correlati all’elevato tasso di immigrazione che investì la città
di Chicago. Ulteriore contributo sviluppato nell’ambito della Scuola di Chicago è quello di Burgess e
McKenzie, i quali svilupparono un modello di espansione urbanistica per fase e zone concentriche. In
questo modello idealtipico, si ipotizza l’esistenza di una città che si espande in forma radicale a partire
da un centro, il “loop”, all’interno del quale si concentrano la maggior parte delle attività commerciali e
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finanziarie, politiche e culturali; intorno al centro commerciale e amministrativo della città, si trova lo
slum, un’area di transizione, deteriorata, composta da quartieri di camere d’affitto, da quartieri del vizio
e dai ghetti urbani, spesso con le loro specificità etniche; oltre al cerchio, c’è un’area indefinita,
chiamata commuters zone, quella dei quartieri periferici e delle città satellite del centro metropolitano,
abitata dalla piccola classe media. Invece, Shaw e McKay, basandosi sul modello delle cinque zone
concentriche di Burgess, calcolarono il rapporto tra il numero di coloro che avevano commesso reati e la
popolazione totale della zona considerata: dalla ricerca emerse come il tasso di delinquenza diminuiva
progressivamente allontanandosi dal centro cittadino. Le osservazioni, eseguite nelle “aree
delinquenziali”, mostrarono l’evidente tendenza a mantenere alti tassi di criminalità, nonostante i
successivi cambiamenti nei gruppi etnici che in esse risiedevano. Questo significa che la criminalità è
influenzata in buona misura dalle qualità di un luogo e non soltanto dalle caratteristiche socio-
economiche dei suoi residenti: ciò condusse i due studiosi a sviluppare la Teoria della
Disorganizzazione Sociale.

Dare una definizione di città non risulta facile data la complessità della sua struttura e tenendo in
considerazione il suo processo di evoluzione. La città diventa, quindi, parte dell’identità dell’individuo,
non tanto perché l’uomo sente di appartenervi, quanto perché essa appartiene a lui. Il controllo delle
città da parte dei suoi abitanti, però, appare sempre più difficile: questo perché, come descrive
Martinotti, nelle grandi città contemporanee non troviamo soltanto la popolazione tradizionalmente
considerata, ma una pluralità di componenti riconducibili a quattro principali tipologie che si alternano o
sono compresenti. Parliamo dunque degli abitanti, ossia le persone che trascorrono una parte molto
significativa e consistente della loro vita nel territorio comunale; della popolazione dei pendolari; della
popolazione dei city users; della popolazione del turismo d’affari o congressuale. Queste quattro
popolazioni metropolitane influenzano il modo con cui il rischio della criminalità si distribuisce sulle
diverse categorie di persone. Aumenta, inoltre, la segregazione, coatta o volontaria, sia nei quartieri
poveri che ricchi: in entrambi è riscontrabile l’insicurezza, che induce la cittadinanza a chiudersi sempre
di più nella sfera privata per evitare di dover affrontare le diversità che si trovano all’esterno (il
“modello fortezza”). Il costante processo di deterioramento degli spazi pubblici, che sta interessando le
città contemporanee, appare come un fattore in grado di alimentare il sentimento di insicurezza dei
cittadini. All’interno di ogni comunità si sviluppa un particolare codice di norme locali e subculturali
che definisce ciò che socialmente si accetta o si rifiuta. Sempre più di frequente, ciò che viene
nettamente condannato non riguarda solo fenomeni di criminalità diffusa, ma anche gli atti di inciviltà.
Il termine inciviltà viene riferito ad una serie di comportamenti più o meno deliberatamente aggressivi
verso l’ambiente; tuttavia, qualora divenissero costanti nel tempo, eserciterebbero un ruolo significativo
nell’incrementare l’insicurezza urbana, poiché la maggioranza della collettività li percepisce come
segnali dell’assenza delle istituzioni e come un ostentato attacco alla serena convivenza civile. I
comportamenti che violano tali standard sono interpretati dai cittadini come un segno della rottura
dell’ordine della convivenza e come indizi di una potenziale minaccia.

L’insicurezza in ambiente urbano non sarebbe legata esclusivamente al disordine fisico, ma anche al
disordine sociale, che può rappresentare una minaccia per l’individuo. Il disordine sarebbe il risultato di
un processo di disaffezione delle persone al proprio ambiente di vita. Dunque, il disordine e
l’insicurezza non sono l’una la causa dell’altro, ma entrambi sono l’effetto della mancanza di efficacia
collettiva. Tra le teorie che hanno indagato il rapporto tra inciviltà e insicurezza, vi è quella elaborata da
Wilson e Kelling nel 1982, denominata Broken Windows Theory: i due autori identificarono un
legame tra degrado urbano e vera e propria criminalità; più un’area risulta essere degradata e soggetta ad

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episodi di devianza, maggiori saranno le possibilità che in quel contesto si manifestino forme gravi di
trasgressione.

CAPITOLO 2: LA PAURA ED I SUOI ASPETTI


SOCIALI

La paura rappresenta il filo conduttore dell’intera esistenza umana, in grado di assumere forme e
significati diversi a seconda dei differenti periodi storici, sociali e culturali. Bauman sostiene che la
nostra è un’epoca di paure in cui gli individui presentano una crescente sensibilità al pericolo in grado di
incrementare insicurezza e vulnerabilità. L’origine delle paure possiamo rintracciarla grazie al
contributo di alcuni studiosi che hanno ricostruito il suo sviluppo, ripercorrendo alcuni periodi della
storia dell’umanità. Tra essi, Delumeau sostiene che la paura è una emozione universale, appartenente a
tutto il mondo naturale, tanto agli uomini, quanto agli animali. Tuttavia, a differenza degli esseri umani,
gli animali non hanno consapevolezza dei potenziali rischi che corrono, poiché tendono a cogliere
solamente i pericoli immediati. L’uomo, invece, è l’unica creatura dotata di una fragilità intrinseca, che
lo induce a mettere in pratica delle strategie volte ad esorcizzare i timori. Solo in questo modo,
possiamo spiegare i motivi alla base della divinizzazione del timore e della paura operata dai Greci e dai
Romani; nell’età medievale, la paura sembra acquisisce il ruolo di protagonista a causa dell’influenza
esercitata dalla dottrina cristiana sui fedeli. È con il 1600 e il 1700 che il concetto di paura assume un
ruolo centrale per interpretare l’organizzazione politica e sociale della società civile: ricordiamo infatti il
contributo di Hobbes, che riconosce nella paura il fondamento della morale e della società politica.
Dalla paura, nascerebbe la rinuncia al diritto naturale a favore della legge naturale. Nel periodo
compreso tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800, il dibattito sul concetto di paura assume toni critici
proprio nei confronti della teorizzazione hobbesiana, poiché, per molti illuministi, la paura <<cessa di
essere una passione positiva, perde il ruolo di attivazione della ragione alla ricerca dell’ordine, e assume
i connotati di passione negativa, connessa all’esercizio del potere>>. A partire dalla metà del XX secolo,
il problema paura sembra diventare secondario nella vita dell’uomo occidentale, ma dagli anni ’70 in
poi la situazione inizia a modificarsi: la paura della criminalità e la domanda di sicurezza si impennano
in tutti i Paesi occidentali, diventando un fenomeno collettivo e uno dei principi organizzatori della vita
quotidiana.

Il termine paura derivante dal latino “pavor”, il quale rimanda ad un’intensa condizione emotiva,
caratterizzata da turbamento, preoccupazione ed inquietudine, quale risposta dell’individuo ad un
pericolo reale. Potremmo far dipendere la genesi della paura da tre fattori specifici:

- quello bio-fisiologico, dove l’individuo subisce dei cambiamenti a livello fisiologico che vanno
ad agire sul sistema neutrale;
- quello relativo alla personalità e al temperamento dell’individuo, dove si fa riferimento sia
alle soggettive modalità percettive del soggetto, sia alla sua capacità di valutazione, di
interpretazione e di reazione della nuova situazione;
- quello socio-ambientale, che richiama il tipo di struttura sociale entro cui l’individuo vive la
sua quotidianità, instaura le sue relazioni ed interiorizza le modalità percettive ed interpretative
dei fenomeni sociali che si manifestano, siano essi positivi o negativi.

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Provare paura rimanda ad una condizione psicologica e fisica di malessere, che ogni individuo vive nel
momento in cui affronta una situazione nuova. A differenza dell’ansia e della preoccupazione, la paura
sarebbe <<generata da un concreto segnale di pericolo, anche se la minaccia si dimostra non reale o non
effettiva, ed è limitata nel tempo>>. Si ha paura, quindi, perché ai nostri occhi una determinata
situazione rappresenta un potenziale pericolo.

Per comprendere la paura, dobbiamo partire dal concetto di percezione, che altro non è che un <<atto
per cui un’informazione passa dal conosciuto al conoscente>>. Sussistono alcuni elementi
imprescindibili da tenere in seria considerazione: innanzitutto, occorre analizzare sia le caratteristiche di
quegli oggetti in grado di produrre uno stimolo, sia le strutture sensoriali dei soggetti colpiti dallo
stimolo. Particolare attenzione, inoltre, deve essere posta alle caratteristiche psicologiche dei processi
mentali che insistono sulle modalità tramite le quali lo stimolo viene recepito ed elaborato. In altri
termini, nel momento in cui un soggetto viene a contatto con una stimolazione esogena, siamo in
presenza di due fasi: una prima fase, contraddistinta dalla percezione degli stimoli, e una seconda,
deputata all’interpretazione ed all’elaborazione degli stessi. Scherer propone una teoria della
valutazione, in base alla quale l’emergere di ogni specifica emozione dipende dall’esito di un
complesso processo di valutazione. Scherer individua 5 momenti di controllo degli stimoli: novità
dello stimolo; qualità della sensazione provocata dallo stimolo; significatività dello stimolo; possibilità
del soggetto di far fronte alle potenziali conseguenze dello stimolo; compatibilità dello stimolo con le
norme sociali di riferimento e con l’immagine di sé. In particolare, gli stimoli vengono suddivisi in tre
tipologie:

1. Stimoli specifici direttamente associati a situazioni di pericolo;


2. Stimoli specifici indirettamente associati a situazioni di pericolo;
3. Stimoli aspecifici indirettamente associati a situazioni di pericolo.

La paura della criminalità è un fenomeno complesso che sta caratterizzando sempre più la società
contemporanea e che comporta gravissime conseguenze sociali e psicologiche. La paura della
criminalità rappresenta il rapporto tra l’elemento crimine e il sentimento paura. La paura della
criminalità sarebbe inoltre influenzata da una paura socialmente condivisa, più che da un timore
individuale. Smith propone 3 tipologie di paura della criminalità:

- La paura vera e propria;


- La preoccupazione;
- La consapevolezza.

Dalle sue ricerche, emerge come i fattori che maggiormente influenzano i tassi di paura della criminalità
siano riconducibili non tanto al numero di crimini registrato, quanto alle variabili di genere, di età e
socio-economiche. Inoltre, Smith individua ulteriori fattori in grado di incidere sui livelli della paura
della criminalità, ovvero:

- Il ruolo dei giornali e dei mezzi di comunicazione;


- La concentrazione etnica;
- La bassa fiducia e stima nelle forze di pubblica sicurezza;
- Il ruolo delle incivilities.

Alcuni studiosi rilevano come la paura della criminalità venga determinata dalla reale criminalità: ad
esempio, Van Dijk afferma che i reati contro il patrimonio riguarderebbero la componente cognitiva
della Pdc, mentre i delitti contro la persona sarebbero legati alla componente affettiva dei singoli
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individui. Van der Wurff, Staalduinen e Stringer individuano due fattori in grado di insistere sul tasso di
Pdc: quelli socio-demografici e quelli psicologici. Quindi, per paura della criminalità si intende
un’emozione che nasce dalla percezione di una minaccia imminente messa in atto da altre persone e che
innesca una reazione psicofisica. In altre parole, una persona prova paura della criminalità quando
percepisce di essere in pericolo perché si sente minacciata dal comportamento di un’altra persona.

L’influenza sociale dei mass-media è una questione particolarmente rilevante nella nostra epoca. Da
questi, riceviamo informazioni sull’opinione pubblica rispetto a determinate questioni, che sono in
grado di investire la sfera privata, modificando ed influenzando credenze, valori e modelli di
comportamento. Prima di addentrarci nel rapporto media-paura, occorre definire i concetti di massa e
cultura di massa. Gallino definisce il primo come <<una moltitudine di persone politicamente passive,
in posizione di oggettiva dipendenza rispetto alle istituzioni portanti di una società e quindi fortemente
influenzabili da esse, incapaci di organizzarsi e di esprimere una propria volontà, che coincide con la
gran maggioranza della popolazione>>; la cultura di massa <<designa anzitutto un tipo di cultura di
qualità mediocre contraddistinto da superficialità, ripetizione di situazioni scontate, sfruttamento dei
gusti più banali del pubblico>>. Il complesso dei media registra una diffusione sempre più capillare ed
un crescente potere di influenza. McLuhan sostiene come le distanze, che in passato separavano le
varie parti del globo, si siano drasticamente ridotte: infatti introduce il concetto di “villaggio globale”
che sta ad indicare come le comunicazioni di massa abbiano finito col creare un mondo di ridotte
dimensioni, all’interno del quale si annullano le distanze fisiche e culturali e dove gli stili di vita,
tradizioni e lingue sono rese sempre più omogenee. Risultando la televisione un mondo unitario e
coerente di significati, questa entra prepotentemente nei processi di costruzione del senso comune,
intrecciandosi con le pratiche e le routines quotidiane. Idea di base dell’agenda setting, formulata nel
1972 da McCombs e Shaw sulla “rappresentazione del mondo” fornita dall’informazione giornalistica,
è che i media non costringono ad assumere un punto di vita ma organizzano un orizzonte tematico.
Secondo la teoria dell’agenda setting, il potere dell’agenda dipende dal processo di costruzione delle
notizie, a sua volta basato su:

- Selezione degli argomenti;


- Valorizzazione;
- Narrazione.

Per quanto riguarda la teoria della coltivazione, sviluppata da Gerbner verso la fine degli anni ’70,
afferma che i media “coltivano” lo spettatore dall’infanzia all’età adulta, offrendogli una visione del
mondo comune e condivisa. Uno dei potenziali effetti degno di maggiore preoccupazione è quello
definito come mean-world syndrome, ovvero la possibilità che tra l’audience si diffonda una visione
del mondo intrisa di preoccupazione e paura. La rappresentazione televisiva di un mondo violento e
pericoloso fa aumentare il senso di insicurezza e di vulnerabilità negli individui.

Negli ultimi anni, il tema dell’immigrazione è entrato nel dibattito politico e sociale di molti Paesi del
Vecchio Continente: è dai primi anni 90 in poi che l’Europa meridionale è diventata un punto di
approdo di molti emigrati, soprattutto in seguito agli spostamenti delle popolazioni dell’Est Europa, in
seguito alla siglatura degli accordi di Schengen, i quali sanciscono la libera circolazione dei cittadini
appartenenti ai paesi sottoscrittori e facenti parte della UE. Un migrante è <<una persona che si sposta
in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno>>. Nel
fenomeno migratorio intervengono tre imprescindibili aspetti:

- Le società di origine;
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- I migranti attuali e potenziali;
- Le società riceventi.

Nello scenario che tende a profilarsi è possibile tracciare alcune caratteristiche generali delle
immigrazioni, ovvero: globalizzazione delle migrazioni; velocizzazione delle migrazioni; eterogeneità
crescente delle migrazioni; femminilizzazione delle migrazioni. Fairchild, per quanto concerne lo
spostamento delle persone, classifica i grandi movimenti delle popolazioni migranti in quattro tipi: 1)
invasione; 2) conquista; 3) colonizzazione; 4) migrazione. Martinotti, invece, elabora una
classificazione in base al grado di mobilità territoriale delle popolazioni migranti, individuando tre tipi
di movimenti:

- Migrazione stagionale;
- Migrazione interna;
- Migrazione internazionale.

Nell’ambito delle politiche migratorie degli Stati, Zanfrini distingue tra: migrazioni interne e
migrazioni internazionali, tra migrazione regolare e migrazione irregolare. Altra questione riguarda
i fattori in grado di determinare e scandire i flussi migratori, di cui Pollini e Scidà ne individuano 2
differenti tipologie: i push factor o fattori impulsivi, e i pull factors o fattori attrattivi. Ambosini, sulla
base del lavoro di Castels, riporta le diverse tipologie di immigrati che si sono susseguite nel corso dei
periodi storici, quali: migranti per lavoro; rifugiati e richiedenti asilo; migranti forzati; migranti di
seconda generazione; immigrato irregolare, clandestino e vittima del traffico. Relativamente all’ultima
categoria, il sociologo individua: a) l’immigrato irregolare; b) il clandestino; c) la vittima del traffico.

La paura convive ed interagisce con molti altri sentimenti, alcuni di radice negativa. Un tipo di relazione
importante che viene ad istaurarsi è il rapporto tra paura e odio, quest’ultimo rivolto spesso contro un
individuo o un gruppo. Quando si manifesta la paura, gli individui tendono a individuare uno o più
oggetti sui quali proiettare i propri timori: in particolare, spesso, individuano una specifica categoria, i
cosiddetti “nemici interni”, considerati minacciosi e colpevoli. Quindi l’atteggiamento assunto dagli
autoctoni farebbe riferimento alla presenza di un pregiudizio che rimanda ad <<un giudizio precedente
all’esperienza, emesso in assenza di dati insufficienti>>. Tale ingiustificata contrarietà deriverebbe dal
fatto che la presenza di soggetti estranei alla propria cultura crei imprevedibilità sociale e dunque
impossibilità di controllo. A tale proposito, Hirshi sostiene come lo straniero, non avendo ricevuto una
socializzazione al valore della conformità, sia maggiormente esposto al rischio di deviare, poiché la
mancata o scarsa interiorizzazione delle norme condivise lo rende maggiormente vulnerabile. Secondo
Habermas, invece, lo straniero verrebbe fatto rientrare in una categoria negativa, opposta ad una
positiva costituita dagli autoctoni, portatrice di marginalità e devianza sulla base della propria
appartenenza. Secondo Simmel, a spaventare è proprio la scarsa adesione a tali vincoli normativi e
valoriali che conduce a considerare lo straniero una potenziale minaccia per la saldezza della comunità
intera. Al contrario, Sellin parla del conflitto culturale, del quale distingue due tipologie: primario e
secondario. Secondo lo studioso, il conflitto culturale si determina in alcune condizioni particolari,
ovvero:

- Quando gli attori sociali si muovono nelle zone di confine delle rispettive aree culturali
(boundary);
- Quando il sistema normativo degli immigrati di prima generazione non coincide con quello
presente sul territorio dove si trovano;

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- Quando i gruppi culturali si trapiantano all’interno di altri gruppi in cui le loro regole culturali
vengono ignorate o totalmente rifiutate.

Secondo Bauman, lo straniero è una figura sociale emergente all’interno dei fenomeni globalizzati
riscontrabili nella società contemporanea: in particolare, rappresenta un’entità trasparente nei confronti
della quale gli autoctoni non riescono a cogliere caratteristiche sociali ed individuali. Tuttavia, ha la
capacità di evocare un senso di minaccia e di invasione dei propri confini.

Nella società post-moderna, invece, le problematiche scaturite dal rapporto con gli stranieri non
vengono risolte attraverso la totale esclusione o l’accettazione passiva di alcuni valori da parte dello
straniero: questo comporta un indebolimento dei processi di appartenenza ad un gruppo, che ha l’effetto
di creare degli individui liberi ma privi di punti di riferimento e di identificazione e maggiormente
svantaggiati. Il modo in cui si concretizza la reazione sociale è spesso identificabile con la nozione di
“stigmatizzazione”, che per Goffman è un processo che conduce a identificare delle persone come
moralmente inferiori, attraverso l’utilizzo di etichette negative. L’applicazione di uno stigma comporta
l’evidenziazione di una determinata caratteristica del soggetto, il quale assume agli occhi degli altri una
diversa connotazione. Da parte sua, l’individuo portatore di stigma cerca di gestire le due dimensioni
della sua identità, attraverso delle strategie di controllo dell’informazione sociale, che sono volte a far
dimenticare o a servirsi dello stigma stesso quando questo è riconoscibile e palese, oppure a evitarne lo
svelamento quando è nascosto. Goffman rileva che non è il possesso dello stigma in quanto tale, ma il
tipo di rapporto sociale in cui il soggetto è coinvolto a determinare il sorgere della devianza. Goffman
indica tre specifiche tipologie di individui sui quali si concentrano le definizioni stigmatizzanti dei
membri di un gruppo:

- I soggetti con particolari caratteristiche fisiche;


- I soggetti con un atteggiamento immorale;
- I soggetti portatori di cultura e religione diverse.

Il rapporto io-noi/altro è un elemento ravvisabile in ogni tipo di società, dalle più elementari alle più
differenziate. Ad una maggiore o minore conoscenza dell’altro, corrisponde il tipo di legame sociale che
viene ad instaurarsi: minore è la conoscenza dell’altro, maggiori saranno le sensazioni di ansia e disagio.
L’integrazione, rappresentando <<sia un processo, sia lo stadio raggiunto al termine del processo stesso
di inserimento>>, presuppone la presenza di un individuo che cerca di inserirsi nel tessuto della società
ospitante e la società di arrivo che può accogliere, rifiutare o esprimere indifferenza rispetto ai tentativi
di inserimento. Possiamo individuare innanzitutto l’esistenza di almeno tre livelli di integrazione:

1. Integrazione sociale;
2. Assimilazione;
3. Partecipazione politica.

di cui l’integrazione socio-economica e l’assimilazione culturale costituiscono i principali processi


d’inserimento dell’immigrato nella società ospitante. Secondo Solivetti, i fattori in gioco che
determinano l’“integrazione” sono:

- Il quadro delle condizioni socio-economiche presenti nel paese ospitante;


- Le caratteristiche culturali e il comportamento della popolazione dello stesso paese ospitante;
- Le competenze e le qualificazioni professionali degli immigrati che si riflettono sulle loro
probabilità di inserimento sociale;
- La cultura e i modi di vita degli immigrati.
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Sulla base di questi fattori, lo studioso individua cinque modelli fondamentali di adattamento degli
stranieri alla società ospitante:

1. Integrazione con assimilazione: si realizza quando i vincoli che legano lo straniero alla propria
comunità non appaiono così consolidati da impedire l’assimilazione;
2. Adattamento culturale in un contesto multiculturale: presenza di una più netta differenziazione
negli immigranti tra valori primari e valori secondari. I primi sono quelli che gli immigrati
hanno interiorizzato nei primi anni di vita, all’interno dei gruppi primari. I valori secondari sono,
invece, quelli relativi a gruppi e a situazioni diversi con i quali si è entrati;
3. Integrazione senza assimilazione: l’emigrazione si presenta come una scelta meno definitiva:
l’attesa dei non-nazionali è rivolta ad un’integrazione lavorativa piuttosto che ad un adattamento
complessivo;
4. Assimilazione senza integrazione: sono da una parte costituiti dalle condizioni socio-
economiche del paese ospitante e dalle qualificazioni professionali dei non-nazionali, entrambe
tendenzialmente negative; dall’altra, da un certo distacco dei non-nazionali dalla propria cultura
e dai propri modi di vita e da una loro almeno parziale accettazione del modello di vita del paese
ospitante;
5. Non assimilazione e non integrazione: si concretizza quando i fattori legati al quadro socio-
economico del paese ospitante ed alle caratteristiche professionali dei non-nazionali risultano
non convergenti, anche a causa della distanza culturale tra le due popolazioni ed al forte legame
dei non-nazionali con la loro cultura di origine.

Si comprende come questi 5 modelli non si presentano con carattere esclusivo in nessuna realtà storica
della migrazione, ma sono tutti presenti in tutte le realtà storiche; non sono stabili, nel senso che un
immigrato nel corso della sua vita all’estero può passare da un modello all’altro. Nel rapporto tra
autoctoni e stranieri, un ruolo di assoluta importanza è quello ricoperto dalla strategia della
mediazione interculturale, intesa come <<un’azione positiva e proattiva volta a colmare la condizione
di svantaggio talora esperita dalla popolazione immigrata nella fruizione delle opportunità di accesso al
sistema di tutele e di garanzie dei diritti di cittadinanza>>.

Una delle conseguenze maggiormente gravi derivanti dal provare paura risiede nelle manifestazioni di
aggressività che si scatenano all’interno delle comunità e che interessano sia i singoli, sia le intere
collettività. Tra le principali manifestazioni di paura collettiva, si può parlare di “panico morale”:
espressione proposta per analizzare le reazioni sproporzionate dei mass-media, degli operatori del
controllo sociale e dell’opinione pubblica riguardo alcune lievi manifestazioni di devianza giovanile.
Molto spesso, la radice del panico morale è ravvisabile in dicerie <<che, alimentate da mass media,
politici o “imprenditori morali” costituiscono un sistema di credenze in grado di catalizzare gli umori
collettivi e di orientare le politiche>> e le reazioni della popolazione. Richiamando i contributi degli
studiosi Thompson, Goode e Ben-Yehuda, possono essere individuate 5 diverse condizioni in presenza
delle quali è possibile parlare di panico morale:

- In primo luogo, deve crescere la preoccupazione per le azioni di alcuni gruppi di personae e per
le conseguenze negative che tali azioni hanno per la società;
- In secondo luogo, deve aumentare l’ostilità verso questi gruppi i cui comportamenti vengono
considerati un pericolo per i valori, gli interessi e l’esistenza stessa della società;
- In terzo luogo, deve esservi un ampio consenso sul fatto che la minaccia che viene da questi
gruppi di devianti sia seria e reale;

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- In quarto luogo, la paura deve essere priva di fondamento, ingiustificata, prodotta da un pericolo
immaginario o almeno esagerata;
- Infine, il panico morale è volatile, in quanto appare improvvisamente ed improvvisamente
scompare.

Questi autori cercano, inoltre, di conoscere le motivazioni per le quali il panico morale si diffonde in
alcuni strati della popolazione, proponendo due diverse teorie: secondo la prima teoria, il panico morale
si produce spontaneamente tra la popolazione, per motivi morali o ideologici; secondo la seconda teoria,
il panico morale verrebbe deliberatamente prodotto dalle classi dominanti, per difendere il loro potere o
dalle classi intermedie. Se provocano il panico morale non è per sviare l’attenzione della popolazione
dagli altri problemi, ma per far pressioni sul Governo e sul Parlamento, per favorire l’emanazione di un
decreto o l’approvazione di una legge, per ottenere nuove risorse e per rafforzare la propria
organizzazione. I dati e le informazioni disponibili fanno pensare che oggi, in Italia, il senso di
insicurezza della popolazione urbana non sia totalmente ingiustificato. Il senso di insicurezza risulta
strettamente correlato alla frequenza con cui avvengono sia reati di media gravità, sia atti di inciviltà che
non rappresentano reati ma violazioni alle norme socialmente condivise. Questo avviene proprio perché
l’insicurezza trova continua alimentazione non dai reati oggettivamente più pericolosi, ma dai reati di
media gravità e dagli atti di inciviltà che rappresentano i fenomeni di maggiore incidenza percentuale.

CAPITOLO 3: AFFRONTARE PAURE ED


INSICUREZZE, TRA POLITICHE
DELL’ORDINE E PREVENZIONE

Le statistiche riguardanti la criminalità hanno da sempre avuto come oggetto le caratteristiche del reo e
il suo percorso processuale all’interno del sistema giudiziario. Si è sempre fatto riferimento agli indici
delittuosi ufficiali forniti dai ministeri degli Interni e della Giustizia, che offrono un quadro del
fenomeno della criminalità, ma che non tengono conto del sommerso dei reati: questo ha permesso di
capire che, mentre in passato si riteneva che l’incidenza del numero oscuro della criminalità fosse
minima, negli ultimi anni è stato dimostrato come il numero dei reati non denunciati abbia raggiunto
percentuali considerevoli. Le motivazioni che spingono i cittadini a non denunciare un fatto criminoso
sono molteplici. Oltre ai reati che rientrano nella categoria “numero oscuro”, vi sono i “crimini
invisibili”, ovvero quei delitti che spesso non vengono registrati o che vengono sottodimensionati ed
inseriti in titoli meno gravi. Un crimine viene definito “invisibile” se: non è stata individuata con
certezza una vittima; non sono stati indicati il dove e il quando un reato è stato consumato; risulta
carente il grado di attenzione e di professionalità delle Forze di Polizia. Far emergere il numero oscuro
rappresenta una necessità, poiché si può definire un’immagine più completa della mappa della
criminalità in una determinata area. Al fine di recuperare i fatti di reato non portati a conoscenza delle
istituzioni, da circa un trentennio sono stati introdotti indagini empiriche e sondaggi rivolti ad un
campione selezionato di rispondenti: assumono il nome di indagini di vittimizzazione, o victim
survey, che diventano uno strumento fondamentale e alternativo per la raccolta di dati rispetto alle
statistiche ufficiali. Tali survey consentono di raccogliere dati di una certa importanza circa la
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dimensione di sicurezza soggettiva, la paura, la preoccupazione dei cittadini caratterizzante il contesto
socio-ambientale. L’esigenza di indagare il fenomeno della paura della criminalità in ambito urbano trae
origine dagli USA, dove, a partire dal 1967, ebbero inizio i lavori della Commission on law enforcement
and administration of justice, con l’obiettivo di individuare le cause dell’incremento dei tassi di
criminalità che aveva interessato gli Stati Uniti a partire dagli anni ‘50. È solo nel 1972 che fu proposta
la National Crime Survey, prima indagine ufficiale sugli effetti sociali causati dalla criminalità e
quindi sull’incidenza della paura nella vita degli statunitensi. A seconda dell’ambiente di
somministrazione dei questionari, è possibile suddividere le inchieste in city survey (aree
metropolitane) e commercial survey (ambito degli affari). Anche in Italia, paura della criminalità ed
insicurezza finirono col diventare oggetto di studio, in concomitanza con un incremento statistico degli
indici di criminalità, registratosi a partire dagli anni 80. Tuttavia, sarà l’ISTAT a proporre nel 1997-
1998 il primo Rapporto/Indagine sulla sicurezza dei cittadini, ripetuta nel 2002 e nel 2008-2009. Negli
anni, tale rilevazione ha consentito di indagare il fenomeno della criminalità reale e del rischio
percepito, del degrado socio-ambientale, del rapporto con le forze dell’ordine ed il loro impatto sulla
vita dei cittadini. Un’indagine di vittimizzazione, dunque, è una ricerca statistica la cui finalità
principale è quella di identificare il numero ed il tipo di reati commessi in un dato territorio, attraverso
interviste effettuate direttamente alle vittime. Mediante il ricorso alle victim survey è possibile:

- Sondare l’insieme dei reati non denunciati alle forze dell’ordine;


- Indagare l’incidenza dell’insicurezza diffusa;
- Investigare il grado di soddisfazione dei cittadini circa l’operato degli operatori del controllo
sociale;
- Individuare connessioni tra i soggetti sottoposti a vittimizzazione e stili di vita.

Tali inchieste consentono di calcolare tre specifici indicatori:

- La prevalenza;
- L’incidenza;
- La concentrazione.

A partire dal 2004, venne introdotto il sistema SDI (Sistema di Indagine), ovvero una banca dati
contenente la totalità delle segnalazioni effettuate dalle Forze di polizia. Lo SDI risulta essere costituito
da due macroaree, ovvero quella dei “fatti” e quella dei “provvedimenti”. I dati contenuti nello SDI
provengono da tutte le Forze di polizia e dai Corpi di polizia locali, dando vita ad un processo di
integrazione di tutte le informazioni inserite, consentendo di incrociare dati scaturenti da rilevazioni
diverse. Il Rapporto sulla criminalità e la sicurezza, che nasce dal sinergico lavoro del Ministero
dell’Interno, della Confindustria, del Dipartimento di Pubblica Sicurezza e della Fondazione ICSA
mostra, dopo un lungo periodo di crescita del crimine in tutta Europa dagli anni ’70 agli anni ’90, un
miglioramento complessivo delle condizioni di sicurezza della penisola negli ultimi anni, evidenziando
il ruolo dei diversi attori istituzionali e il contributo della società civile. L’ISTAT ha deciso di ricorrere
a delle survey che consentissero di fare maggiore luce sul rapporto criminalità-sicurezza-vittimizzazione
in Italia. In particolare, ha optato per indagini telefoniche CATI (Computer Assisted Telephone
Interview) che garantiscono maggiore tranquillità e riservatezza all’intervistato anche rispetto
all’ambiente che lo circonda. In relazione all’entità della criminalità ed alla sua diffusione sul territorio
nazionale, a partire dal 2002, si registra una diminuzione delle vittime, sia per i reati alle famiglie, sia
per le aggressioni. Rimane stabile, invece, il numero dei reati contro gli individui.

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Dai dati emerge come l’esperienza ripetuta di diventare delle vittime, ovvero la multivittimizzazione,
aumenta quasi del doppio nel caso dei reati violenti. Le differenze di genere giocano un ruolo
importante: mentre le donne definiscono i loro comportamenti influenzati dalla paura della criminalità,
gli uomini si attestano su una percentuale inferiore. Tali percentuali tendono ad incrementarsi con
l’avanzare dell’età, soprattutto per le donne con più di 55 anni. In seguito alle indagini promosse a
livello internazionale emergono alcuni esiti comuni di fondamentale importanza:

- La Pdc è risultata essere molto più diffusa della vittimizzazione reale;


- I gruppi demografici maggiormente spaventati sono i meno vittimizzati;
- La Pdc è maggiormente avvertita nelle aree periferiche, piuttosto che nei centri storici dei siti
urbani.

Tali risultanze pongono in evidenza una vera e propria discrepanza, definita, da Skogan e Maxfield
come “paradosso paura/vittimizzazione” o “paradosso della paura del crimine”, poiché il timore di
subire un atto criminale non sarebbe legato tanto alla dimensione soggettiva dei singoli individui,
quanto ad una costruzione sociale. Una volta compreso che il basarsi sulle sole statistiche della
criminalità non rappresenta una strategia vincente in assoluto e dopo aver sottolineato l’importante ruolo
svolto dalle indagini sulla paura della criminalità, occorre evidenziare come queste ultime non
rappresentino una soluzione altrettanto definitiva in termini di conoscenza dei reati. Occorre infatti fare i
conti con l’oggetto di studio, ovvero la paura del crimine, che consta di una variegata serie di variabili
che spesso faticano ad emergere. Le difficoltà di individuare le potenziali cause della paura si sommano
a quelle della loro misurazione ed interpretazione, dovute spesso a:

- Inadeguati strumenti di indagine;


- Confusione circa la definizione concettuale e operativa di paura della criminalità;
- Influenza e strumentalizzazione della politica.

Tuttavia, sembra mancare un approccio onnicomprensivo allo studio della paura, in grado di includere
anche quei fattori non direttamente connessi alla criminalità ed alla vittimizzazione, come il tema
dell’insicurezza. Nonostante non si registri una corrispondenza tra le statistiche ufficiali ed i timori
espressi dagli individui, le ricerche attestano la presenza di un senso diffuso di paura: gli individui
richiedono costantemente un incremento del controllo della criminalità diffusa, capace di provocare
conseguenze negative quali insofferenza, preoccupazioni e senso di sfiducia. Ciò che si richiede agli
attori istituzionali è quello di attuare politiche di sicurezza in grado di intervenire sulle problematiche
delle realtà urbane. Per questo, si alternano due strategie di intervento al fine di ripristinare o migliorare
il livello di sicurezza: una votata alla repressione e l’altra alla prevenzione. Nel primo caso, le politiche
di ordine pubblico fanno ricorso alla forza pubblica e ad un irrigidimento del sistema delle sanzioni,
mirando al ripristino dell’ordine sociale. Nel secondo caso, le politiche di prevenzione partono dalla
constatazione che il sistema della giustizia penale, le strategie di controllo e di repressione non
sembrano essere in grado di produrre reali e duraturi contesti di sicurezza. Nel corso degli ultimi anni, si
è fatto spesso riferimento al concetto di “prevenzione integrata”, che sarebbe in grado di ridurre
sensibilmente i fattori di rischio ed incrementare i fattori di protezione. Tale approccio, quindi,
tenderebbe ad assumere gli aspetti vantaggiosi dei due modelli partendo dalla considerazione che il
maggior risultato ottenibile sta nel garantire il rispetto e l’applicazione delle norme penali, attraverso
l’introduzione di strategie utili a far diminuire il numero di atti devianti e criminali.

La sicurezza, riconducibile da sempre all’aspetto del mantenimento dell’ordine pubblico, viene definita
come attività preventiva rispetto dell’eventuale commissione di reati, denominandosi “pubblica
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sicurezza”. Essa è caratterizzata dal fatto di rappresentare una vera e propria materializzazione della
sovranità dello Stato e rinvia alla non negoziabilità delle regole e delle procedure di mantenimento di
tale bene. La law and order policy fa della forza coercitiva il suo principale strumento d’azione,
impiegato come modalità di gestione e ripristino dell’ordine sociale. La violenza può essere legittimata
solo quando si impone come caratteristica saliente della regolazione sociale. L’espressione “tolleranza
zero”, enunciata per la prima volta nell’ambito del movimento femminista, fa la sua comparsa negli
USA all’inizio degli anni ‘70, all’interno di un programma di contrasto alla criminalità redatto dallo
Stato del New Jersey. Il contenuto di tale documento rimarcava come fattore imprescindibile per la lotta
al crimine lo spiegamento di un importante numero di agenti di polizia, che avrebbero dovuto
distribuirsi capillarmente sul territorio; il programma, però, si rilevò di scarsa incidenza, forse a causa
dello scetticismo degli stessi agenti.

Successivamente nacque, nel 1993, grazie alla politica del Sindaco di New York Giuliani, la zero
tolerance policy. Agli inizi degli anni Novanta, la città di New York appariva come una delle più
degradate ed investite da una criminalità dilagante. Giuliani impostò la propria campagna elettorale sui
temi dell’ordine, del controllo e della sicurezza, promettendo di riconsegnare New York nelle mani dei
suoi abitanti. Ben presto, il sindaco repubblicano si avvalse della collaborazione di Bratton, capo
dell’organismo deputato alla sicurezza dei trasporti pubblici, il quale redasse un programma specifico di
riduzione del crimine basato sulla tolleranza zero, sintetizzabile nei seguenti punti:

- Adesione dichiarata alla teoria Broken Windows;


- Massiccio allargamento dell’organico di polizia;
- Massima discrezionalità della polizia nell’esercizio delle proprie funzioni;
- Pattugliamento continuo nelle zone sottoposte a maggior rischio criminalità;
- Valutazione dell’operato dei singoli agenti basata sull’unico parametro della riduzione degli
indici di criminalità;
- Introduzione di un sistema di banche dati informatiche, in grado di contenere tutte le
informazioni relative agli eventi criminali registrati.

L’implementazione di tali attività condusse ad un’effettiva riduzione statistica della criminalità, tanto
che Giuliani venne rieletto come primo cittadino. Ben presto, grazie alla vasta eco prodotta dai mezzi di
comunicazione nazionali ed internazionali, il modello newyorkese della tolleranza zero si tramutò in un
modello esportabile a livello globale. Tuttavia, l’enfasi creatasi intorno ai risultati soddisfacenti di
questa politica di controllo sociale, venne ben presto messa in discussione da alcuni analisti. La dottrina
della tolleranza zero si è rapidamente propagata anche in tutta Europa, Italia compresa, interessando
governi ed amministrazioni sia di destra che di sinistra. Si è, dunque, manifestata l’esigenza di ricorrere
a delle forme di intervento preventive finalizzate ad intervenire non sulle conseguenze di avvenimenti
negativi, bensì sulle loro cause.

Per prevenzione si intende ogni azione, di un individuo singolo o di un gruppo, privato o pubblico,
diretta ad impedire il verificarsi o il diffondersi di fatti non desiderati o dannosi; si fa anche riferimento
alla preparazione a danni futuri incerti, mirando alla riduzione della probabilità che si verifichi un
danno, quanto del suo ammontare. La prevenzione della criminalità può essere definita come
l’intervento sulle cause del crimine al fine di ridurre la loro sopravvivenza ed il loro impatto. Nello
specifico si parla di “nuova prevenzione”, implementando strategie orientate alla riduzione dei
fenomeni che generano insicurezza: essa ha l’obiettivo di ridurre la frequenza di determinati
comportamenti, siano essi qualificati o meno come criminali, ricorrendo a soluzioni diverse da quelle
offerte dal sistema penale. Quello della prevenzione non è un concetto degli ultimi anni, ma affonda le
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sue radici nella storia antica. Se la prevenzione può intendersi come l’interruzione del meccanismo che
produce un evento criminoso, tale meccanismo causale può ricondursi a tre elementi di fondo: la
struttura, la motivazione individuale e le circostanze. Nella prospettiva strutturale, la criminalità è il
prodotto di condizioni sociali ed economiche e la prevenzione si inserisce come attività che incide su
queste cause di fondo. Quando invece si intende il crimine come prodotto della psiche umana, la
prevenzione si orienta verso interventi individuali, in modo da evitare, controllare o riabilitare gli autori
reali o potenziali. Infine, in base alla terza prospettiva, si ritiene che la prevenzione possa essere attuata
attraverso azioni sul contesto, fisico e sociale, in cui si verificano i reati e che la criminalità sia quindi il
prodotto di una serie di circostanze combinate tra loro. A questi tre filoni di interpretazione dei
fenomeni criminali corrispondono diverse forme che la prevenzione può assumere:

- Forma situazionale, in relazione alle ipotesi che concepiscono la criminalità come risultato delle
circostanze della vita quotidiana;
- Forma sociale, in relazione alle teorie basate sulle cause, individuali e sociali dei fenomeni
criminosi;
- In linea di principio, la prevenzione sociale non si pone come azione specifica, ma come politica
globale orientata al benessere sociale che attraversa tutti i settori delle politiche amministrative.
- Integrata o partecipata, che, in teoria, riunisce entrambi gli approcci teorici.

Il modello preventivo situazione è quello che registra la maggiore diffusione, data la sua capacità di
adottare misure di deterrenza al crimine a seconda del contesto socio-ambientale nel quale viene
applicato. Le forme di prevenzione situazionale mostrano come il crimine sia generato dall’interazione
di variabili motivazionali e situazionali. Difatti, si tratta di una strategia che si concentra sul setting
criminale e che risulta essere applicabile ad ogni tipo di reato.

Il presupposto della razionalità come unico veicolo per la commissione di un crimine si pone alla base
della teoria della scelta razionale. Tale teoria pone l’accento sul fatto che le azioni devianti messe in
atto dagli individui siano in realtà il frutto di un razionale calcolo costi/benefici, che tiene però in
considerazione non solo il crimine specifico, ma anche il processo che conduce l’individuo ad aderire
alla condotta criminale. Molto spesso, la decisione razionale di porre in essere un’azione criminale
dipende dalla presenza di elementi ambientali/situazionali in grado di favorirla. In tale contesto si
inseriscono le teorie delle opportunità criminali, le quali traggono origine dalla Criminologia
ambientale, ovvero dallo studio del crimine, della criminalità e della vittimizzazione con riferimento a
particolari luoghi e al modo in cui gli individui e le organizzazioni danno vita nello spazio alle loro
attività. Secondo la Teoria dell’opportunità di Felson e Clarke, l’opportunità è considerata la causa
alla radice del crimine. Gli autori suggeriscono dieci principi in grado di favorire la prevenzione del
crimine:

1. Le opportunità hanno un ruolo nell’origine di tutte le tipologie di reato, e non solo dei reati
predatori;
2. Le opportunità sono altamente specifiche;
3. Le opportunità si collocano nel tempo e nello spazio;
4. Le opportunità dipendono dagli spostamenti abituali di autori e vittime;
5. Un crimine produce le opportunità per un altro;
6. Alcuni beni offrono maggiori opportunità di altri;
7. I cambiamenti sociali e tecnologici offrono nuove opportunità;
8. Il crimine può essere prevenuto riducendo le opportunità;
9. Ridurre le opportunità solitamente non sposta il crimine;
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10. La riduzione mirata delle opportunità può portare ad una significativa diminuzione dei reati.

Altra teoria è quella delle Attività Routinarie o Routine Activity Theory, formulata da Cohen e
Felson, i quali rilevarono che negli Stati Uniti, all’incremento del benessere generale della popolazione
si era accompagnato l’aumento del crimine. Nonostante il successo di diffusione e di impiego del
modello preventivo situazionale, non poche si sono rilevate le critiche circa la sua efficacia. Eliminare o
ridurre le opportunità sfruttabili dal criminale apportando delle modificazioni all’ambiente non sempre
riduce il crimine, ma talvolta semplicemente lo sposta. Secondo Felson e Clarke esistono 5 modi
principali con cui il crimine si sposta:

- Da un luogo ad un altro;
- Da un tempo ad un altro;
- Da un obiettivo ad un altro;
- Da un metodo ad un altro;
- Da una tipologia di crimine ad un’altra.

Un grande successo sta riscontrando negli ultimi anni la videosorveglianza, un efficace strumento volto
a preservare l’incolumità degli individui. Prima di comprendere la sua efficacia e la sua reale
propensione preventiva, occorre conoscere l’origine e gli sviluppi dei sistemi di videoripresa impiegati
nella nostra società contemporanea. La diffusione dei sistemi di videosorveglianza è avvenuta grazie
alle trasformazioni socio-economiche ed ai progressi tecnologici accorsi negli ultimi 40 anni. Tale
innovazione può essere considerata come uno dei più recenti e attuali strumenti di contrasto di
potenziali comportamenti illeciti che trova un proprio spazio anche nell’ambito politico e nel dibattito
pubblico. A partire dagli anni 50 del XX secolo si assiste ad una rapida evoluzione dei sistemi di
videosorveglianza nei Paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo; in seguito all’invenzione del
videoregistratore, nel 1956, considerato come il mezzo più semplice ed economico per registrare ed
archiviare immagini, l’applicazione dei sistemi di videosorveglianza viene estesa anche alle attività
commerciali, in particolar modo a quelle che si occupano della vendita di beni di lusso. Inoltre, le
telecamere sono state ampiamente sfruttate nella sorveglianza sui luoghi di lavoro, consentendo quindi
alle figure dirigenziali di incrementare le forme di controllo sul personale subordinato, di valutare la
regolarità e la qualità delle prestazioni fornite e di garantire al tempo stesso un discreto grado di
sicurezza nello svolgimento delle loro mansioni. Nonostante la notevole diffusione di sistemi di
videoripresa, in molti Stati europei, tale tecnologia fatica ad ottenere il consenso dell’opinione pubblica,
in quanto sembra non procedere di pari passo con la creazione e l’emanazione di leggi e regolamenti,
che possano tutelare i diritti degli individui. Le telecamere rappresentano una tecnologia all’avanguardia
e consentono di riconoscere ed identificare individui potenzialmente pericolosi per la società. Esse
agiscono seguendo il meccanismo della prevedibilità, poiché di norma installate in quelle zone dove si
prevede possano essere commessi reati o atti devianti di diversa entità, che possono essere considerati
fenomeni calcolabili. In base alle ricerche più recenti, si evince come non sempre l’applicazione di
questa tecnologia abbia ottenuto l’obiettivo di ridurre la criminalità, anzi, in alcuni casi gli svantaggi
registrati hanno superato i benefici auspicati.

Altra strategia si basa sullo stretto rapporto che lega l’individuo al suo ambiente, partendo dall’assunto
che si possa ottenere sicurezza ricorrendo ad una mirata progettazione dello spazio urbano. La forma
preventiva in questione viene denominata Crime Prevention Through Environmental Design che si
sviluppa negli USA tra gli anni 60 e 70, costituendo un importante punto di riferimento nell’ambito
della criminologia dello spazio urbano. L’espressione venne introdotta, agli inizi degli anni 70, dal
criminologo Jeffery, con l’intento di individuare una forma di prevenzione del crimine e del degrado
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che operasse tramite il ricorso alla progettazione ambientale. Secondo l’impostazione della CPTED, una
corretta e mirata pianificazione urbana si rivela in grado di contribuire al decremento dei crimini ma
soprattutto di quei pericolosi sentimenti, riconducibili alla paura e all’insicurezza. Nello specifico, la
progettazione urbanistica potrà operare:

1. Nel caso di reati predatori, ricorrendo ad un’attività di prevenzione;


2. Nel caso della percezione dell’insicurezza dovuta all’uso conflittuale dello spazio da parte di
gruppi devianti;
3. Nel caso di percezione dell’insicurezza dovuta al degrado e ad atti di vandalismo urbano;
4. Nel caso di un non proporzionale rapporto tra edifici e spazio urbano.

All’origine della prevenzione mediante il ricorso al disegno ambientale, è possibile individuare il


contributo di due studiosi che hanno realizzato una sintesi tra elementi antropologico-sociali ed
architettonici. La prima è l’antropologa Jacobs, che tratta del legame esistente tra produzione di
sicurezza e contesto urbano. Il suo contributo risulta di fondamentale importanza, in riferimento alla
presenza di due elementi: il controllo spontaneo degli spazi cittadini ed il grado di territorialità. Il
primo, rimanda al controllo informale di vicinato; il secondo concetto rimanda al grado di
identificazione dei singoli cittadini con il proprio territorio. In conclusione, quindi, secondo la Jacobs
per garantire la sicurezza e preservare i residenti da fenomeni devianti e criminali, le sole forme di
controllo sociale formale, pur se necessarie, non sembrano sufficienti: ad esse, devono essere affiancate
manifestazioni di controllo spontaneo messe in atto dai residenti. Il secondo studioso, l’architetto
Newman, propone un approccio operativo alla progettazione spaziale finalizzata alla riduzione
dell’insicurezza. Le sue considerazioni prendono spunto proprio dal lavoro della Jacobs, cercando di
individuare quegli interventi in grado di aumentare i livelli di territorialità e di vitalità dei vari quartieri.
Egli delineò il concetto di “spazio difendibile”, in base al quale l’unico modo per sottrarre spazio al
crimine è quello di sviluppare una maggiore territorialità e un più alto controllo sociale.

Una nuova e moderna politica della sicurezza richiede delle strategie che rendano possibile
<<l’integrazione delle attività di ordine e sicurezza pubblica, preventiva e repressiva, con l’efficienza e
l’efficacia dell’azione giudiziaria, ed un piano di interventi sociali utili a contrastare, insieme al crimine,
le sue cause nonché tesi a realizzare la vivibilità degli spazi urbani, la qualità delle relazioni sociali ed
interpersonali, e a dare sostegno alle vittime dei reati>>. In un’ampia ed articolata accezione di
sicurezza diventa indispensabile <<la partecipazione di tutti i soggetti che hanno una qualche efficace
possibilità d’intervento, a fianco e ad integrazione dell’apparato sicurezza, in senso proprio, per
contribuire ad assicurare al cittadino la fruizione dei diritti di civiltà che uno Stato a democrazia
avanzata deve garantire>>. La paura della criminalità, il grado di insicurezza percepita ed il timore di
subire esperienze di vittimizzazione contribuiscono alla diffusione di un fenomeno che sta
contrassegnando la società contemporanea, in grado di comportare gravissime conseguenze sociali e
psicologiche. Appare evidente quindi come l’insicurezza determini una limitazione dei comportamenti e
dei movimenti delle persone, modificando le relazioni sociali degli individui e dei differenti gruppi
sociali.

Dal momento che si è chiarito come il sentimento di insicurezza dipenda anche da cause diverse dalla
criminalità, l’obiettivo delle politiche di sicurezza urbana è quello di conoscere e intervenire sull’intera
gamma di fattori che determinano paure, ansie e preoccupazioni tra le persone. L’idea della sicurezza
urbana comporta il perseguimento di un ordine che si basa sulla corresponsabilizzazione nel produrre
l’ordine, poiché l’obiettivo è quello di curare il raggiungimento di una qualità della vita che corrisponda
alle aspettative dei cittadini. Produrre sicurezza, però, non significa stabilire un insieme di
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comportamenti assoluti e definiti una volta per tutte, bensì promuovere un processo di mediazioni
continue. La sicurezza comporta la necessità di elaborare politiche sociali basate su un modello
alternativo a quello criminologico e criminalizzante, che sia ispirato ai principi dell’inclusione sociale,
del rafforzamento dei legami sociali nel territorio, dell’allargamento dei diritti di cittadinanza, del
trattamento integrato delle cause dell’insicurezza. L’obiettivo principale di questa stretta collaborazione
è quello di contribuire all’eliminazione delle cause del disagio evitando di limitarsi a fronteggiarne gli
effetti. All’interno della nuova filosofia di prossimità, è presente un nuovo modo di intendere la
sicurezza, definita come “sicurezza partecipata”, che comprende tutte le manifestazioni che incidono a
vario titolo sulla tranquillità sociale e sulla percezione stessa della sicurezza. Sicurezza partecipata
significa adesione, da parte di soggetti diversi, ad un’impostazione pluralista della sicurezza pubblica, in
cui si tratta di compiere le scelte più utili, ognuno per la sua parte ma tutti in sintonia.

La strategia preventiva si pone come principale obiettivo quello di stabilire una relazione fra pratiche
formali delle Forze dell’Ordine per il controllo del territorio e pratiche informali messe in atti dalla
comunità: si basa sull’idea che per aumentare la sicurezza dei cittadini e ridurre la criminalità è
necessario incrementare la quantità e migliorare la qualità dei rapporti fra polizia e popolazione. Si
caratterizza, infatti, per l’incoraggiamento, rivolto ai cittadini, ad assumere un ruolo attivo nella gestione
della propria sicurezza, in modo che le competenze professionali degli agenti e la collaborazione degli
abitanti possano coordinarsi per ridurre gli episodi di criminalità. La varietà degli interventi di tale
strategia preventiva può essere riassunta in tre approcci:

1. Organizzazione della comunità;


2. Difesa della comunità;
3. Sviluppo della comunità.

Anche l’Europa ha conosciuto, come altri Paesi, una concezione di polizia comunitaria, per alcuni
aspetti differente rispetto al modello originario, che si è diffusa per la prima volta in Francia con il nome
di polizia di prossimità. In questo modello, è l’operatore di polizia che si avvicina alla collettività
attraverso una presenza più diffusa sul territorio, avviando nuovi modelli di contatto con i componenti
della comunità; i principi fondamentali che guidano la polizia di prossimità sono la comprensione dei
bisogni dei cittadini e la continua interazione con altri attori in un ristretto ambito territoriale per
un’efficiente capacità di intervento. Rispetto al modello anglosassone di community policing, nella
polizia di prossimità francese emerge maggiormente lo spirito di adattamento dell’organizzazione ai
bisogni dei cittadini. In particolare, con l’espressione “polizia di prossimità” si fa riferimento ad una
collaborazione fra la polizia e la collettività in una data area che viene sorvegliata dagli operatori del
controllo sociale, che vengono a conoscenza delle problematiche dei cittadini riuniti in una comunità,
tentando di individuarne le soluzioni appropriate. Introdotta ufficialmente il 18 dicembre 2002, la
polizia di prossimità rappresenta una strategia orientata verso il cittadino e finalizzata ad ottimizzare il
grado di sicurezza e di ordine pubblico. Una polizia di prossimità ben integrata nel tessuto sociale nel
quale si trova ad operare, deve sapersi guadagnare la fiducia e la stima della popolazione promuovendo
così anche la propria immagine. L’introduzione della polizia di prossimità presuppone un’impostazione
del lavoro basata su nuovi principi:

1. La selezione dei futuri agenti di prossimità punterà su candidati desiderosi di servire e aiutare la
comunità e dotati di spiccate competenze sociali oltre ad alcune qualità straordinarie;
2. La formazione degli agenti richiede una nuova impostazione fondata sulle relazioni umane, sulle
capacità d’ascolto;

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3. La valutazione dell’operato dell’agente di polizia non può più essere basata sul numero di
contravvenzioni o sul numero di pratiche trattate, in quanto gran parte della sua attività sarà
dedicata al rapporto interpersonale e diretto con i membri della comunità;
4. Il rapporto gerarchico in seno alla polizia deve allentare i propri vincoli per dar così spazio
all’iniziativa personale, allo spirito “imprenditoriale” del singolo agente ed alle proposte
operative;
5. L’organizzazione del tempo di lavoro degli agenti deve poter contare sull’esistenza di una
polizia mobile che si faccia carco degli interventi d’urgenza.

Negli ultimi anni, l’attenzione verso l’attività della polizia locale è notevolmente aumentata. Il motivo di
questo interesse può essere ricondotto al consolidamento del ruolo delle autonomie locali nelle politiche
di sicurezza urbana. La responsabilizzazione diretta dei sindaci e dei presidenti delle regioni,
l’incentivazione di attività e di programmi finalizzati al miglioramento della sicurezza urbana tramite
l’impiego del settore della polizia locale, hanno reso evidente e hanno contribuito a sviluppare il ruolo
significativo della polizia locale. L’agente di polizia locale acquisisce la stessa dignità giuridica di un
qualunque altro agente delle forze di polizia dello stato, ma permane una differenza sostanziale, non
solo per quanto riguarda le competenze in materia di pubblica sicurezza ma anche i limiti delle stesse.
Questo significa che la polizia municipale o locale può svolgere legittimamente funzioni di pubblica
sicurezza solamente in presenza di una formale e motivata indirizzata al sindaco da parte delle autorità
competenti e della conseguente messa a disposizione dello stesso sindaco. Per la Polizia Municipale,
l’esercizio di queste funzioni rappresenta un’attività di carattere eccezionale, mentre il carattere primario
del servizio è racchiuso nell’esercizio della funzione di polizia amministrativa, specializzata in materia
di polizia locale.

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