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La crisi nella crisi

La tristezza che attraversa la società moderna è innegabile. Il cambiamento che è stato


registrato nell’affluenza ai centri d’ascolto è, sì, quantitativo, ma ancor di più qualitativo,
come se ci trovassimo di fronte ad un malessere che siamo impreparati ad affrontare. La
complessità de tutto naturale del vivere è oggi diventata patologica. Esiste oggi una reale
incapacità di farsi carico di una situazione di angoscia senza considerarla per prima cosa
appannaggio della tecnica. Tuttavia è necessario ricordare che il fatto di vivere con un
sentimento persistente di insicurezza e precarietà produce conflitti e sofferenze
psicologiche, ma ciò non significa che l’origine del problema lo sia. Un nuovo tipo di
richiesta si aggiunge dunque, insieme a quella di tipo psicologico. Nessuno possiede una
reale risposta a questo disagio della società, nemmeno la tecnica. La situazione che si profila
oggi è infatti quella di una crisi nella crisi, ossia di una realtà in cui la crisi non interviene
come un incidente che costituisce una parentesi in un continuum stabile, ma in una società
essa stessa in crisi. Ci rendiamo dunque conto che non esiste un porto sicuro verso il quale
dirigersi perciò il supporto, soprattutto quello di tipo psicologico, deve accontentarsi di
stabilizzare le persone nella crisi. E’ necessario dunque essere realisti e conciliare
l’ottimismo della volontà con il pessimismo della ragione, al fine di opporre al dilagare delle
passioni tristi una prassi fondata sul dispiegamento delle passioni gioiose.

Una diversa idea di tecnica e futuro

Ma in cosa consiste allora la crisi della società e della cultura che ingloba al suo interno le
crisi personali e familiari? Potremmo parlare della fine della modernità o della rottura dello
storicismo teleologico, del venir meno cioè di quella credenza che stava a fondamento delle
nostre società e si manifestava nella speranza di un futuro migliore, una sorta di
messianismo scientifico che assicurava un domani luminoso e felice. Un tema centrale per
comprendere questa crisi dell’interiorità originata dall’esterno è il modo in cui l’uomo di
oggi vive e percepisce il tempo. Tale percezione è profondamente influenzata dal
cambiamento di segno del futuro. Assistiamo nella società occidentale al passaggio da una
fiducia smisurata ad una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro. Non più di
quarant’anni fa il “non ancora” rappresentava un avvicinamento progressivo alla
conoscenza. Non conoscere ancora tutto significava che per l’uomo essere un progetto in
fieri, proteso verso un sapere assoluto. Dall’Austria si era tuttavia levato già molto prima,
fuori dal coro, la voce pessimistica di un medico ebreo, che insinuava un certo sospetto nei
confronti della fiducia nel progresso. Il paradosso è che tali teorie critiche nei confronti del
progress passarono a loro volta nel bilancio dell’epoca come un progresso in più. Oggi ci
rendiamo conto che, nonostante le conoscenze si siano sviluppate in modo incredibile, esse
sono state incapaci di sopprimere la sofferenza umana, ma hanno anzi contribuito ad
alimentare la sofferenza ed il pessimismo dilaganti. Quando Spinoza parla di passioni tristi
non si riferisce alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione. Se lo
scientismo positivista si fondava sull’idea che “libero è colui che domina” (la natura, il
reale, il proprio corpo, il tempo), possiamo dire che a tutti gli effetti la promessa non si è
realizzata. Lo sviluppo dei saperi non ci ha condotti in un universo di saperi deterministici e
onnipotenti, ma al contrario ci ha gettato nella più totale incertezza (relatività?).
L’incertezza tuttavia non è sinonimo di fallimento, poiché consente lo sviluppo di molteplici
forme di razionalità. Ma, se pensiamo alle speranze suscitate dallo scientismo, non possiamo
che constatare che resta negli animi moderni una tristezza insuperabile.

Il fatto che ciò che è possibile realizzare tecnicamente lo sia per davvero, con conseguenze
non da poco sul piano umano e culturale, lungi dal lasciare indifferenti, costituisce uno dei
motivi quotidiani d’ansia. E’ importante rendersi conto che il nostro mondo produce,
paradossalmente, la più grande società dell’ignoranza. Il rapporto che ognuno di noi
intrattiene con le tecnoscienze è infatti un rapporto di esteriorità assoluta. Se nel passato le
tecniche non funzionavano secondo una propria logica, indipendente da ogni considerazione
umana, oggi non si può dire altrettanto. La nostra società è la prima che, possedendo delle
tecniche, ne è, al contempo, letteralmente posseduta. Questa realtà storica non può che
produrre una soggettività straniata. Da una parte sogniamo una “grande scienza”, fonte di
comodità, dall’altra soffriamo della nostra ignoranza, del non saper minimamente come
funzioni.

La crisi dell’autorità

Uno dei sintomi più significativi della nostra epoca è la contestazione del principio di
autorità. Tale contestazione è indice di una crisi di una crisi dei principi sui quali si
fondano le relazioni tra adulti e giovani e che consentono ai primi di educare e proteggere i
secondi. Il professore o l’educatore non sembrano più rappresentare uno stimolo sufficiente
per il giovane.Non esiste più un’asimmetria tra le due figure. Sempre più frequentemente
bambini anche molto piccoli vengono descritti come tirannici, violenti ed indomabili. I
genitori si ritrovano a trattare il bambino come un loro pari da dover persuadere. Questa
difficoltà dei genitori ad assumere una posizione di autorità rassicurante e contenitiva lascia
il bambino in preda alle proprie pulsioni e all’ansia che ne deriva. Paradossalmente però la
crisi del principio di autorità non coincide però con una messa in discussione
dell’autoritarismo. Anzi, proprio questa crisi apre la strada a varie forme di autoritarismo.
Questa società infatti oscilla costantemente tra due tentazioni: quella della coercizione e
quella della seduzione di tipo commerciale, che non sono altro che due declinazioni diverse
dell’autoritarsimo provocato dalla relazione di simmetria. Una relazione di questo tipo può
fondarsi infatti solo su di un rapporto di forza. L’autoritarismo non si fonda sul principio del
rispetto di una persona che agisce “in nome della legge”, ma sull’affermarsi di un individuo
grazie alla sua forza. Il principio di autorità si differenzia dall’autoritarismo perché
rappresenta un fondamento comune ai due termini della relazione. Uno dei due ubbidisce
all’altro, ma entrambi ubbidiscono a quel principio comune che determina dall’esterno la
relazione (io ti ubbidisco perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso un obiettivo
comune). Il problema dell’autorità tuttavia dipende da una domanda cruciale: “In nome di
cosa?”

La contestazione del principio di autorità sembra essere portatrice di istanze di


emancipazione e libertà. Tuttavia la messa in questione del principio di autorità di cui
stiamo parlando non ha niente a che vedere con quei movimenti che nascono da istanze di
giustizia. Il principio di autorità qui analizzato ha origine dalla coppia autorità-anteriorità:
l’anteriorità, il preesistente, rappresenta automaticamente una fonte di autorità. Ciò non
avviene perché l’adulto sia dotato di qualità personali particolari, ma perché incarna la
possibilità di trasmissione della cultura. Sembra tuttavia che gli adulti di un tempo non
abbiano saputo trasmettere agli adulti di oggi l’idea dio un mondo e di un futuro piacevoli. E
non c’è da stupirsene. A partire dagli anni settanta, che hanno segnato l’inizio della crisi,
almeno due o tre generazioni hanno vissuto una frattura storica, il passaggio da un futuro-
promessa ad un futuro-minaccia.

Non è necessario pensare la crisi e nemmeno prenderne coscienza per essere influenzati,
perché essa costituisce una sorta di sfondo sul quale intessiamo relazioni personali ed
interpersonali. Sono sempre di più gli insegnanti che affermano di non riuscire più ad
insegnare e di essere piuttosto costretti a farsi carico della missione di educare i giovani,
quasi dovessero porre rimedio alle carenze della famiglia. Il nocciolo duro della realtà dei
giovani è la manifestazione del determinismo o, meglio, del fatalismo che li condanna in
anticipo. Per i giovani di oggi il mondo è pericoloso. Corollario della crisi di autorità
diviene dunque il principio di realtà. Capita che ragazzi anche in serie difficoltà non si
considerino affatto “persone con problemi”. Questi giovani sono realmente sfasati rispetto
ad un qualunque principio di realtà? Ciò che possiamo osservare da un po’ di tempo a
questa parte è che l’adolescenza si è notevolmente allungata, fino a trentacinque anni e oltre.
Nelle società desacralizzate, l’adolescenza occupa il posto dei riti iniziatici e di passaggio
esistenti in altre culture. La società sancisce che il giovane deve entrare a far parte della
comunità, non più come figlio, ma come suo membro, e che è tenuto a sentirsi responsabile.
Tuttavia i giovani di oggi non sono più in grado di uscire dalla fase adolescenziale perché la
crisi personale si scontra con quella della cultura. Essi non “prolungano” semplicemente la
propria adolescenza: si trovano piuttosto nell’impossibilità di viverla perché la società non è
più in grado di offrirgli il contesto protettivo e strutturante che questa crisi esige. Non
trovando un quadro familiare sufficientemente stabile, la scena si sposta per lo più nella
città, nel quartiere. Ma le leggi del codice non vengono istituite per educare: presuppongono
che gli individui siano già educati e di conseguenza responsabili delle eventuali
trasgressioni. Trasportate nel quartiere dunque le trasgressioni perdono la loro dimensione
simbolica e ludica e divengono unicamente dei reati. Così i giovani si ritrovano a consumare
le loro energie in trasgressioni inefficaci e a prolungare in maniera indeterminata la propria
“adolescenza”. Ciò avviene anche ovviamente per i molti che non scendono in strada, ma
che non trovano comunque nell’universo familiare il principio di autorità con cui
confrontarsi.

La minaccia alla base dell’ideologia della crisi

La nostra società ha prodotto una sorta di ideologia della crisi, un’ideologia dell’emergenza
che ha finito per costituire, in ognuno di noi, il modo di pensarsi come persona. Tale
ideologia si rivela un “patch-work”, una specie di stampella. La crisi del progresso è una
crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà. Com’è possibile ormai educare i giovani in
una cultura che non solo ha perduto il proprio fondamento, ma l’ha visto trasformarsi nel
suo contrario, da promessa a minaccia? La cosa più strana è che questo cambiamento passi
tutt’ora totalmente inosservato. Tra gli “ideali patchwork” che si sostituiscono alle speranze
della modernità e nascondono la crisi c’è il passaggio dal desiderio alla minaccia. La
minaccia del futuro si è sostituita al desiderio di entrare a far parte della società. Sembra che
la nostra società non possa più “concedersi il lusso” di proporre ai giovani la loro
integrazione sociale come frutto di un desiderio profondo. Si dimentica così la motivazione
dell’apprendimento: il desiderio di imparare e comprendere. Per Freud l’apprendimento
consiste nella sublimazione della libido: il bambino accetta di negoziare una parte della sua
libido, della sua energia vitale, passando così da una libido narcisistica ad una libido
oggettuale, che è fondamentalmente attenzione al mondo. Il desiderio di imparare (pulsione
epistemofilica), fa si che il bambino consacri parte della sua libido agli oggetti del mondo
che deve apprendere. Il desiderio è quindi il fondamento stesso dell’apprendimento che non
nasce da un semplice utilitarismo. L’utilitarismo viene però presentato oggi come la sola
ideologia valida, un’ideologia che pretende di costituire un mondo in cui possiamo giudicare
ciascun essere umano in funzione di criteri quantitativi chiari, precisi ed univoci. Il voto non
è solo finalizzato a misurare il valore del bambino, ma viene considerato come una specie di
biglietto d’ingresso nel mondo degli adulti. Ciò che troppo spesso ci sfugge è che i problemi
di apprendimento sono rivelatori di una difficoltà di desiderare nella vita, di desiderare la
vita. Evidentemente perché questa dinamica di lavoro funzioni, occorre che gli adulti
considerino il futuro come qualcosa di positivo e desiderabile. Nella pratica quotidiana
dell’educazione si passa invece dall’invito al desiderio all’apprendimento sotto minaccia.
“Se non studi a scuola, non troverai lavoro…”. Gli adulti temono davvero l’avvenire e
cercano di formare i loro figli perché siano “armati” nei suoi confronti, mettendo in atto,
anche se in perfetta buona fede, una selezione precoce ed ingiusta. Così ogni sapere diventa
“utile” e tutto è influenzato dall’efficientismo, dall’ambito scolastico al lavoro clinico.
L’ospedale e la pubblica istruzione divengono imprese volte all’efficienza immediata. Di
colpo si è creata una tacita gerarchia dei mestieri per cui non importa più se il giardiniere, il
muratore o il falegname amino o meno il loro lavoro: agli occhi della società le loro scelte
professionali rimangono il frutto di un insuccesso.

L’emergenza e gli sbiaditi confini tra pubblico e privato

La tradizione psichiatrica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui ci si


sente di “non avere più tempo e spazio”, fino al punto da sentirsi braccati, preda di un
autentico stallo esistenziale. Da una parte il tempo ci scorre a gran velocità tra le mani,
dall’altra non c’è un posto in cui scappare. Questa descrizione coincide perfettamente con la
vita quotidiana di decine di milioni di persone che non si considerano affatto depresse,
contribuendo a costituire un mondo dell’emergenza. Ogni giorno siamo letteralmente
bombardati da informazioni apocalittiche su ciò che avviene nel mondo, ma, a poco a poco,
ogni catastrofe passa in secondo piano grazie all’arrivo di una nuova minaccia. E’ così che
le minacce vengono accettate, diventando parte integrante del nostro orizzonte “normale”.
Anche i bambini e gli adolescenti risentono, come gli adulti, di questo clima di costante
conflitto. Immaginare dei bambini astratti che sviluppano i loro conflitti psicologici
indipendentemente da qualsiasi altra influenza esterna è fortemente irrealistico. Veniamo
costantemente invitati ad occuparci delle “nostre faccende”, come se la vita ed il suo
divenire non fossero “affar nostro”, tramite una politica della rimozione permanente. Ma la
rimozione è sempre, come sappiamo, una sfida persa in partenza, perché il rimosso ed il
ritorno del rimosso costituiscono due momenti dello stesso movimento.

Il personale e l’intimo devono, oggi più che mai, essere intesi come suggerito da Plotino:
“Non esiste un punto dove si possano fissare i propri limiti in modo da poter affermare:
‘Fino a qui sono io..’”. La distanza e la separazione tra gli individui sono ciò che consente a
ciascuno di avere un’identità ed una storia unica e singolare, ma la separazione si fonda
anche su una base comune. Questa sotterranea connessione è vissuta da ciascuno dei
membri della società come qualcosa di intimo e segreto. La sfera personale continua da
sempre ad inscriversi in un ordine pubblico, storico e culturale. Allo stesso tempo non è
sulla soglia della casa che comincia il mondo, ma al suo interno: l’ordine del focolare
corrisponde all’ordine del mondo umano in un determinato momento del divenire della
civiltà.

Il fascino del disastro

Se pensiamo alle minacce che più pesantemente incombono sul nostro presente, ci viene
spontaneo portare la nostra attenzione sulla possibilità di una guerra nucleare. Questa
minaccia tuttavia è profondamente diversa da quella che stiamo cercando di analizzare. E’
una minaccia di sbandamento, non uno sviluppo naturale ed intrinseco alla civiltà. La
minaccia che scandisce la nostra quotidianità è ben diversa: il rischio è dato dal fatto che la
nostra società si sviluppa secondo la sua stessa essenza. Il che equivale a dire che corre
verso la propria rovina. Se le cose continuano il loro corso senza incidenti, l’avvenire
dell’umanità è più che compromesso. Infatti l’attuale visione del futuro configura una
minaccia che non riguarda niente in particolare. Il problema è che la situazione ci viene
presentata come se fossimo davvero in presenza di una nuova natura inevitabile. Non
possiamo inoltre nascondere l’attrazione aberrante che viene esercitata dalla decadenza e
dalla distruzione. Freud ha introdotto questa riflessione nel 1920 nel saggio Al di là del bene
e del principio di piacere, in cui inaugurava il concetto di “pulsione di morte”. Egli spiega
che chi adotta un comportamento che può rivelarsi per lui nefasto, non agisce solo per
ignoranza del pericolo: al contrario provoca un godimento che spesso non ha nulla a che
vedere con il piacere. Sappiamo per esempio quanto sia inutile cercare di fare prevenzione
informando sui pericoli del tabacco, della droga o della velocità. L’educazione e l’accesso
alla cultura non solo non bastano a proteggere l’umanità dalla barbarie, ma al contrario,
hanno spesso consentito di esercitare una barbarie molto più grande. I responsabili della
prevenzione conservano una fiducia kantiana nella ragione come strumento per evitare la
morte, il dolore -ze la sofferenza. Ciò non toglie che le persone a cui si rivolgano possano
finire per agire contro il proprio interesse razionale.

Educare i giovani ricorrendo alla minaccia può rivelarsi dunque molto pericoloso, perché
non si può mai sapere in quale momento la minaccia del disastro possa trasformarsi in
promessa del disastro. Gli adulti si dicono “per quanto riguarda il desiderio, si vedrà dopo,
quando tutto andrà meglio”, ma è una trappola fatale perché solo un mondo di desiderio, di
pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e comporre la vita in modo da
produrre qualcosa di diverso. “Armare” i giovani non significa proteggerli, ma contribuire a
sviluppare quel mondo da cui si pretende di metterli al riparo. Si tratta di armi molto
pericolose come il ricorso alla violenza, alla droga, l’autosabotaggio e la fuga nella
sensorialità. Ciò che va ricercata è invece l’inutilità dell’inutile che è utile alla vita e alla
creazione di qualcosa di migliore.

Etichette

L’evoluzione di una medicina della classificazione si ascrive in una tendenza più generale
ch porta la nostra società a credere che il reale debba disciplinarsi secondo griglie, modelli e
concetti. Oltre questa tassonomia, tutto ciò che deborda è percepito come elemento di
disturbo del reale. E’ evidente che senza classificazione non può esistere nessun sapere e
nessun pensiero, ma bisognerebbe forse ricordare il consiglio di Marx: non bisogna
confondere le cose della logica con la logica delle cose. La questione delle etichette ci
rimanda al concetto di norma sociale. E’ “normale” ciò che non si vede, ciò che non
sconfina dall’etichetta (es. nessuno sentirà la necessità di sottolineare che il presidente dello
stato è un uomo, mentre altrettanto non si può dire di una donna). Tutto ciò determina da un
punto di vista antropologico gli elementi principali di ogni cultura. E’ il meccanismo della
norma-sguardo che si fonda proprio sull’evocare senza però mai mostrare limpidamente.
Non essere un oggetto trasparente agli occhi dell’altro, infatti, costituisce la base della
socievolezza. La divisione tra scene pubbliche e private è a fondamento dell’esistenza di
qualsiasi comunità. Le etichette ci fanno adottare uno sguardo “normalizzatore”. Quando,
per esempio, posiamo lo sguardo su un disabile è come se guardassimo l’altro in una sorta di
nudità forzata. Questa dinamica dello sguardo è talmente codificata in ogni cultura che entra
a far parte dell’educazione dei bambini. Si assiste spesso alla scena di un bambino che
guarda un disabile, lo fissa e l’adulto gli insegna il limite dello sguardo: “Non bisogna
guardare in quel modo”. E’ il “miracolo” dell’etichetta: produce l’impressione che l’essenza
dell’altro sia visibile. A quel punto l’altro non è più una molteplicità contraddittoria che
esiste in un gioco di velato e svelato, ma diventa immediatamente riconoscibile. Si è
convinti, grazie all’etichetta, di sapere tutto sull’altro -chi è, cosa desidera e come è
strutturata la sua vita-.

Il diritto di guardare diviene inoltre in molti casi un segno dell’esercizio di potere


sull’altro. Il diritto ad una certa non-visibiltà, ad un’opacità privata è associato dunque ad un
privilegio e lo si può perdere nel momento in cui ci si discosta dalla norma sociale. La
visibilità contiene questa idea di determinismo e fatalismo che determina una violenza
fortissima sulle persone. Succede infatti che ciò che è dato a vedere ed il sapere riguardo ad
una persona vengano condivisi da quest’ultima. Essa sa cosa si aspettano gli altri da lei e si
sente oppressa da questo, a tal punto che l’unica possibilità di resistenza sembra essere una
violenza sintomatica verso il proprio ambiente e verso se stessi. E’ soprattutto l’azione
collettiva che consente di sfuggire al determinismo dell’etichetta che invalida come soggetti
del discorso: i altri sanno al posto tuo. Prendendo la parola ed esprimendosi, un gruppo non
diviene più trasparente, ma al contrario si mostra nella sua molteplicità. In tal modo la
società riconosce loro qualcosa che eccede l’etichetta. Paradossalmente il fatto di
comunicare se stessi conferisce una certa “privatezza” ed un’opacità che sono il fondamento
concreto della singolarità. La società della norma guarda in modo straniante chiunque venga
etichettato come folle o deviante, come barbaro. Etimologicamente la parola “barbaro”
designa colui che non possiede il linguaggio appropriato, che balbetta, e non è quindi
considerato in grado di rispettare i tre principi fondamentali della cultura. Queste tre forme
di deviazione (relative al cibo, al sesso e alla parola) rappresentano i tratti base che servono
a qualificare nella nostra cultura tutti i devianti e i malati.

Evitare di guardare il mondo attraverso delle etichette significa, a livello sia clinico che
sociale, non ridurre le persone ai propri sintomi. Ciò che il paziente chiama sintomo è nella
maggior parte dei casi un elemento di quello che potremmo definire il suo “modo di essere
nel mondo”. Non ha senso parlare di una persona ipoteticamente sana sulla quale si
sarebbero potuti innescare una serie di sintomi. La molteplicità dell’esistenza, sempre
contraddittoria e complessa, precede il sintomo che rischia di ridurre la persona ad un
elemento-essenza (es. “E’ un’anoressica”). La cura, così come i legami sociali, devono
passare attraverso il riconoscimento della molteplicità della persona. Riconoscimento che
dovrebbe riguardare anche le persone che si considerano “normali”, così che possano
liberarsi finalmente del fardello della normalità ed assumere molteplici dimensioni della
fragilità. Infatti è proprio in quel “niente da segnalare” della norma che una serie di esseri
umani vivono nella paura permanente di “dover essere forti”. Proprio da questi presupposti
nasce l’idea di una clinica della situazione, opposta ad una clinica del sintomo. Un
approccio tutto nuovo con i pazienti che si fondi sul non-sapere riguardo all’altro. Un non-
sapere che, beninteso, non è sinonimo di ignoranza, ma parte dal riconoscimento di una
miriade di potenzialità sconosciute che l’altro possiede e che può imparare a dispiegare.
Comprendere in fieri come possano intergire i corpi tra di loro per stabilire legami non
utilitaristici, ma fondati sulle affinità elettive: questo è il fine. Nello spazio della fragilità
tutti dipendono dagli altri, ma è una dipendenza che non rappresenta né una condanna né un
limite. E’ una dipendenza che, non porta per forza a cancellare i sintomi, ma permette di
non considerarli come tali e di accettarli e trasformarli, per creare nuove realtà e dispiegare
le passioni gioiose.

Limiti

Un’altra questione fondamentale è quella dei limiti imposti dalla società all’individuo.
Esiste una distinzione tra pensabile e possibile. Il pensabile è l’insieme degli atti che ogni
membro di una cultura, di una società o di una religione accetta in quanto rispettosi dei suoi
fondamenti. Il possibile è invece un insieme molto più vasto, che contiene il primo. Il limite
tra possibile e pensabile è fissato dai divieti e dalla sacralizzazione e si sposta in funzione
delle situazioni e dei periodi storici. Per esempio l’aborto è stato per molto tempo un
“possibile non pensabile” ed è divenuto “possibile pensabile” solo a scapito di una strenua
lotta. Generalmente si ritiene che tutte le civiltà umane siano accomunate da un duplice
divieto fondamentale: quello dell’incesto e dell’antropofagia. Anche quando questi atti
vengono compiuti sono immessi in una serie di riti e simbolizzazioni che paradossalmente,
contribuiscono a confermare la regola. Ovviamente una società che rende pensabili tutti i
possibili è destinata a scomparire. Il sacro appare all’uomo di oggi come una terra oscura da
conquistare, ma in realtà l’equilibrio di una cultura dipende necessariamente dalla capacità
degli uomini di accettare l’esistenza di un non-sapere e un non-potere. L’esperienza della
non-onnipotenza dovrebbe costituire per ognuno di noi un’esperienza positiva perché
sostituisce ad un abolizione dei limiti, una lunga e profonda ricerca di ciò che tali limiti
rendono possibile.

Il problema dell’autonomia

Ciò che viene chiesto ai centri di ascolto e ai terapeuti è di aiutare le persone ad essere
autonome. Questa idea dell’autonomia che sembra a prima vista positiva, pone tuttavia una
serie di problemi. In primo luogo ci obbliga ad una riflessione sul tema del legame.
Aristotele spiega che lo schiavo è colui che non ha legame, che non ha un posto, mentre
l’uomo libero è chi ha molti legami e molti obblighi verso gli altri e la città. Sono i legami
che ci rendono liberi. Nella nostra società “essere autonomi” significa per lo più “essere
forti”. Libero è colui che domina il suo tempo, il suo ambiente, le sue relazioni, il suo corpo,
gli altri. E’ necessario fare di tutto per vincere il destino. Non viene considerata invece
l’alternativa di assumere il proprio destino. Da un punto di vista filosofico, infatti, il
destino non coincide affatto con la fatalità. E’ inutile cercare di vincere il destino,
semplicemente perché esso è il nostro essere al mondo, senza alcuna distanza che ci separi
da esso. Il destino è quell’insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si
incrociano e si intrecciano, determinando una singolarità. E’ costituito dai legami che
creiamo e sviluppiamo liberamente e che ci rendono fragili. Questa fragilità non è né una
forza né una debolezza, ma rappresenta una molteplicità complessa e contraddittoria che ci
rappresenta nel suo insieme e nella sua unicità. L’incertezza rispetto all’io non può che
persistere, perché l’io non è un’etichetta né un ruolo definitivo, al contrario rimane sempre
una possibilità. I legami non sono i suoi limiti, ma ciò che conferisce potenza alla libertà e
all’essere individuale. La libertà di ognuno comincia con la liberazione dell’altro.

Non siamo esterni alle situazioni che viviamo e la nostra intimità si costruisce attraverso
queste. Qui risiede la differenza sostanziale tra individuo e persona. L’individuo è
un’astrazione, un essere che ambita tra esseri separati gli uni dagli altri, con i quali
stabiliscono contratti. L’individuo è libero poiché acconsente alle reazioni che stabilisce con
gli altri. Tuttavia il consenso non è affatto una garanzia di libertà: il consenso, al contrario
della volontà, è sostanzialmente inconscio. Basti pensare che i rapporti patologici più
dolorosi sono per lo più consenzienti. La persona è etimologicamente una maschera che
non nasconde un vero volto, ma una molteplicità di volti. Le persone, al contrario degli
individui, hanno un rapporto di apertura con il mondo. Come non esiste l’individuo, che è
una costruzione immaginaria che tenta di sostituirsi alla persona, non esiste nemmeno un
essere umano astratto, che contempli dall’esterno, dall’alto della sua purezza, un’economia
dittatrice e lo sviluppo del mondo-merce.

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