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L’INFANZIA “INATTUALE”

PRIMO CAPITOLO
Biografia individuali tra rischi e libertà
Gli anni Ottanta del secolo scorso rappresentano una data di cesura: con l’avvento del
neoliberismo, le logiche incentrate sulla collettività e sulla valorizzazione del benessere
comune hanno ceduto il passo alla convinzione che il libero mercato fosse il modo migliore
per fare il bene degli individui. Così, la società non avrebbe più interferito con la vita del
singolo, lasciandogli la responsabilità totale delle sue scelte. Iniziò così il declino di quello
che Margaret Thatcher avevo definito il “Nanny state”, ovvero lo stato bàlia, assoggettato
alle logiche economiche di mercato, meno responsabili e democratiche. A tal proposito, il
sociologo Bauman nel 2008 pubblicava “Individualmente insieme”, citando l’ultima opera
di N. Elias, in cui il sociologo tedesco utilizzò il termine “società degli individui” intendendo
con essa una società che determina l’individualità dei suoi membri i quali, a loro volta,
danno forma alla società stessa attraverso le loro azioni quotidiane. Le storie individuali
sono assemblate nella storia tout court; questo significa che non può più esserci analisi
sociale che possa tralasciare gli individui, né analisi degli individui che possa ignorare gli
spazi attraverso i quali essi agiscono e si trovano a transitare (Augè,2009).
La parola globalizzazione assume quindi un significato nuovo: ha che fare con un sistema
di relazioni e azioni che si dipanano a grandi distanze e che derivano da una
trasformazione dei concerti di “qui e ora”, di “spazio” e “tempo”. Lo spazio e il tempo
nell’epoca della comunicazione web e degli spostamenti a velocità supersonica sono
assenti. Esiste, come afferma Augè “una globalità senza frontiere”, che si manifesta in
differenti settori dell’attività umana, tuttavia è una globalità in rete, che produce effetti di
omogenizzazione ma anche di esclusione. In questo scenario, l’individualismo richiama a
quell’ “io minimo”, “io narcisista” che definisce gli obiettivi della propria vita in termini
restrittivi, di sopravvivenza quotidiana.
La realizzazione dell’individualità passa attraverso il riconoscimento di una libertà di scelta,
che però molto spesso è tale solo in potenza (“de iure”), poiché l’acquisizione degli
strumenti che permettono di agire <de facto> dipende dal singolo. Come afferma Beck,
quello dell’individualizzazione intesa come libertà di scelta e di realizzazione è un atto che
richiede di essere rinnovato quotidianamente. In questo vagare, l’individuo inventa la
propria biografia, cercando di rispondere alle contraddizioni e ai rischi che la società
produce costantemente. Bauman e Beck ci ricordano che è proprio necessità di far fronte
agli imprevisti che finisce per essere individualizzata.
Ne “L’invenzione del quotidiano”, M. de Certeau si riferisce a “astuzie delle arti del fare”,
che permettono agli individui di aggirare rischi e ostacoli. Di fronte all’incertezza del mondo
globale, l’individuo non può fare a meno di prendere le sue decisioni: di conseguenza le
persone vengono risospinte verso sè stesse: sradicamento senza radicamento è la
formula, ironica e tragica al contempo, che secondo Beck descrive questa dimensione di
individualizzazione nella società mondiale del rischio. Nel mondo occidentale le persone
desidera innanzitutto condurre una vita propria, con il proprio denaro e all’interno del
proprio spazio: la lotta quotidiana per costruirsi una vita è diventata “l’esperienza collettiva
in cui si riflette la comunità residua cui ciascun appartiene” (Beck, 2008). Si tratta di un
movimento apparentemente personale e unico ma che tende a seguire fasi precise e
percorsi tracciati. La biografia da normale diventa elettiva, a rischio, poiché le possibilità di
cadere sono in agguato, nonostante la sicurezza e il benessere generalizzati. Da cui
derivano sentimenti come l’ansia e il timore che pervadono tutti individui della società.
Seguendo la tesi di Beck, la vita degli individui nell’attuale società del rischio è
caratterizzata da una costante propensione (o condanna) all’azione: è il tempo del fare.
Questo obbligo all’attività implica anche i fallimenti che qualora avvengano, saranno
fallimenti personali, sottraendo all’individuo la possibilità di attingere ad una “colpa”
collettiva, di classe o sociale. Da qui il passaggio alla responsabilizzazione dei singoli è
breve: la società scarica le colpe sull’individuo, che a sua volta percepisce “il male
comune” come un rischio personale.
In questo magma dai confini definiti prevale un senso di inquietudine e di disincanto: Beck
suggerisce che questa è anche l’occasione per una vita riflessiva o riflessivamente
moderna. L’elaborazione di informazioni contrastanti, il dialogo, la mediazione ed il
compromesso rappresentano competenze sempre più richieste alla riflessione e all’azione
degli individui che sono chiamati a vivere, (pensare e agire), all’interno delle loro cerchie
sociali. Questa competenza riflessiva si trova ad esercitare una forte resistenza di fronte al
culto dilagante della razionalità che la contrasta, promuovendo un individualismo
narcisistico teso a compensare con il potere e di successo una scarsa stima di sè. E
questo stesso individualismo è al servizio del potere (o dei poteri). Si tratta della messa in
maschera di quel pensiero che Heidegger chiama “calcolante”, in grado di fare di conto, di
rispondere al richiamo dell’utile del conveniente, in modo tale da ottimizzare al massimo le
proprie energie.
Consumo ergo sum!
Secondo il pensiero di Bauman la principale caratteristica dell’attuale società è “la
battaglia”, quella del “consumatore conforme” che più o meno consapevolmente assilla i
soggetti ponendoli di fronte alla prova costante della loro adeguatezza, trasformandosi in
un sentimento di paura di cui i mercati sono avidi. Anche la trama dei legami e delle
relazioni passa attraverso il mercato dei beni di consumo: il senso di appartenenza si
esplicita nell’identificazione che si verifica ancor prima, nel momento stesso in cui il
soggetto aspira a possederli. Si tratta di un’azione preventiva rispetto a quel senso di
inadeguatezza che si traduce in rifiuto ed esclusione da parte del “branco” (Bauman). Da
questo processo di depersonalizzazione delle relazioni sociali si è passati ad un aumento
significativo delle libertà individuali, legate in particolare ad una apparente libertà di scelta.
Il reciproco riconoscimento riguarda gli individui in quanto titolari di interessi, per cui i loro
rapporti si dipanano a partire dalle cose di cui essi stessi sono i semplici rappresentanti. In
questo senso, il mercato diviene autonomo rispetto al sociale, poiché riflette il puro valore
delle cose e non il rapporto, come in passato, delle persone tra loro (Galimberti). L’idea di
individuo rischia di essere spogliata di una sua valenza qualitativa; a questo processo si
accompagna una grande libertà personale, legata a una scelta, che si deve fare per forza;
il che ci porta a riflettere sulla qualità di questa scelta che, solo apparentemente, si
accompagna a un senso di autonomia e libertà. La scelta riguarda il tipo di prestazione a
cui vincolarsi e/o di beni da possedere. Si inserisce in questo contesto il concetto espresso
da Lasch di consumatore sovrano, ossia di un individuo che è in grado di utilizzare con
cognizione le possibilità sempre crescenti offerte dalla società: si tratterebbe di una
sovranità fasulla, poiché “il consumo elevato a cultura, sembra portare a una situazione in
cui le persone sono fruitori passivi al servizio dei loro fantasmi”. Ciò che non viene mai
messo in discussione è che la responsabilità delle scelte è sempre iscritta al soggetto.
Quello che ci ricorda Sartre è proprio che nella condanna alla scelta che giace la nostra
libertà, e nella lettura di Bauman parole come “scelta” e “libertà” possono essere usati
come sinonimi, nel senso che si può fare a meno di scegliere soltanto nella misura in cui si
rinunci alla propria libertà. A questo proposito, risulta interessante accennare alla tesi di A.
Ehrenberg, il quale, ne “La fatica di essere se stessi”, riconduce le radici di una tanta
sofferenza umana, con riferimento particolare alla società occidentale, alla
sovrabbondanza di possibilità, più che, come avvenne in passato, ad un eccesso di divieti:
in una società in cui le norme della convivenza civile sono basate sulle capacità e la
responsabilità dei singoli, il grande dispendio di energie messe in campo per mostrarsi
costantemente adeguati e all’altezza farebbe delle nevrosi e della depressione un esito
quasi necessario. In questa battaglia senza fine, in cui la fine rappresenterebbe la morte
dei mercati, ciò che conta è che i soggetti consumatori siano “mobilitati”. Si è passati da
una fase in cui il momento dell’acquisto del possesso erano il fulcro della vita del soggetto
consumatore ad una fase, quella attuale, che pone il suo focus sull’essere in movimento.
Anche i beni materiali hanno un tempo limite entro cui il consumatore deve smettere di
essere soddisfatto. Nella società dei beni, i consumatori soddisfatti rappresentano la
peggior minaccia per i mercati e i loro flussi.
In uno scenario di più questo tipo, alla caduta della soddisfazione corrisponde il
sentimento della “noia”, che si verifica quando i beni di consumo, animati o inanimati che
siano, si trattengono più lungo del dovuto nei contesti della nostra quotidianità. Alla base le
leggi del mercato risiede il principio della circolarità tra processi produttivi e di consumo.
Riprendendo le tesi del filosofo Schopenhauer, in particolare le sue riflessioni sulla forza
insaziabile e inesorabile, definita volontà vediamo come il soggetto sia mosso dal suo
volere, tanto che, per ogni bisogno che giunge a consapevolezza ce ne sono molti altri a
maturazione a livello inconscio. Va da a sé che una società che si rivolge ai suoi membri in
quanto consumatori che rispondono conformandosi alle tentazioni del mercato, è una
società che crea una nuova “classe di poveri”, definita “nuova povertà”, in cui i soggetti
sono colpevoli proprio per il fatto di non contribuire al consumo, rappresentando uno
scarto.
Al crescente individualismo, c’è la necessità di un forte bisogno di comunità (Bauman): di
fronte a una società multiculturale in cui la diversità è spesso vissuta e socialmente
alimentata come una “minaccia”, il timore è quello di un impoverimento dell’identità
culturale: all’antica lotta di classe si è venuta sostituendo una lotta tra individui che si
trovano vivere le stesse condizioni di insicurezza e precarietà. Secondo M. Ignatieff il
prezzo più alto da pagare per i costi di modernità e postmodernità è la perdita dei legami
comunitari.
Giovinezza “in corpore bello” = felicità (?)
In una società siffatta, il potere dei media è dominante e gioca un ruolo decisivo nella
stimolazione di mode e consumi, spesso associati a grandi valori quali libertà e felicità. Le
emozioni da “questione privata”, legata all’intimità delle relazioni sono diventate nel tempo
il protagonista della pubblica arena. In tutto questo, un posto è occupato dal mito del corpo
e della sua bellezza. Il corpo, da mediatore di emozioni vissuti diventa un “corpo oggetto”
(Manuzzi, 2009), finendo per interpretare se stesso come l’oggettivazione del desiderio
dell’altro, teso a soddisfare quei bisogni, legati alla sessualità, che sono indotti e
manipolati da una cultura che lo riduce a semplice “supporto”. Il corpo diventa uno status
symbol il cui unico piacere che può offrire è relegato alla sfera del piacere narcisistico a
sua volta alimentato dagli ideali di rappresentanza, successo e competizione. Collegata
all’idea di corpo è il mito della giovinezza: il corpo non-più giovane diventa un ostacolo da
“aggiustare” per continuare a essere al mondo: agli occhi della società il corpo della
vecchiaia non è più un soggetto intenzionale (se soggetto dell’amore) bensì un oggetto da
accudire. Il mito della giovinezza è associato alla corsa sfrenata verso il piacere, il
godimento, la soddisfazione dei bisogni indotti, la quale (la corsa) è che il tentativo degli
individui di distrarsi dal lato della loro finitudine (Heidegger). Per credere di salvarsi dal
destino della fragilità il soggetto umano ricorre al divertissement (Pascal), ovvero il
divertimento, inteso proprio come un distogliere l’attenzione rispetto alla propria
condizione di temporalità, distraendosi con surrogati di felicità. Il tempo della vecchiaia,
potrebbe essere considerato un’invenzione (Tramma): uno spazio disteso in cui imparare
le virtù del prendersi cura di sé da cui giovani paiono essere dispensati. Dentro a questa
corsa dei più giovani il mito del piacere e del suo soddisfacimento molto spesso viene
confuso con un’idea di felicità, che nell’attuale è una faccenda del tutto personale,
connessa con le logiche dell’individualismo e della realizzazione di un progetto che
raramente comprende l’altro da sé: in questa logica il piacere - felicità è in linea con la
società dei consumi. Nella logica per cui anche il piacere si consuma, il soggetto
dell’attuale perde di vista il suo essere parte di un tutto, ostinandosi a fissare le proprie
“mete di felicità” guardando a se stesso come il tutto. Freud parla del baratto della felicità:
piuttosto che vivere una felicità inquinata dalla “minaccia del dolore”, ossia non assoluta, il
soggetto sceglie di accontentarsi della quiete. Nella definizione di S. Natoli, la felicità è un
bene transitorio, a differenza del dolore, che invece pare essere condizione più abituale e
consueta. Se, come suggerisce Contini, si educasse al riconoscimento della mescolanza
fra sofferenza e felicità, forse sarebbe più semplice per il soggetto dell’attuale intravedere
nella propria esistenza, quel momento di felicità.
Una vita in vetrina: la tecnologia al servizio dell’immagine
Con il predominio della vista sugli altri sensi, il soggetto dell’attuale ha imparato a coltivare
l’arte dello sguardo, contribuendo a formare quella che è stata definita la civiltà delle
immagini. Oggi, le forme di comunicazione sono imperniate sul linguaggio visivo e la vista
è il mezzo di contatto con la realtà maggiormente utilizzato. In questo contesto, è cruciale,
secondo l’analisi di Codeluppi, il ruolo metaforico della “vetrina”, che funge da
palcoscenico e specchio insieme, garantendo senso e significato ai diversi ruoli sociali che
gli individui rivestono.
Già Goffman, nella sua pubblicazione “La vita quotidiana come rappresentazione”,
utilizzava la metafora della rappresentazione (teatrale) per descrivere, da un punto di vista
sociologico, il modo in cui gli individui presentano se stessi e le proprie azioni agli altri (il
pubblico), seguendo una parte (copione), nel tentativo di guidare e controllare le
impressioni su di sé. Questa descrizione si fa ancora più calzante se calata nell’attuale
società in cui un individuo, dovrebbe essere ciò che pretende di essere, obbligando gli altri
a valutarlo e trattarlo nel modo “atteso” e rinunciando a sua volta “al diritto ad essere ciò
che non appare”: questo significa che le “impressioni attese” hanno, da parte del soggetto,
un aspetto idealizzato poiché egli, per avere successo come attore, deve mettere in scena
una performance all’altezza degli stereotipi che sono nella mente e negli occhi di chi
guarda. L’immagine del proprio io regge solo quando gli altri la riconoscono e in un certo
senso la approvano. È importante riuscire ad inscenare la propria rappresentazione,
rendendo vera la sua apparenza. Nella società dei media e delle immagini i due ambiti
fondamentali della vita degli individui, che Goffman aveva definito la “ribalta” e il
“retroscena”, si vengono mescolando, creando uno spazio intermedio che Codeluppi
definisce della “vetrina”, in cui la sfera pubblica e la sfera privata si incontrano in una
commistione che (non può essere autentica) è intenzionale. In questa messinscena, si
inseriscono oggi le nuove tecnologie che con il “loro” mito si vanno a sostituire a quel ruolo
che nel tempo moderno era stato attribuito alla scienza e alla tecnica (Galimberti). La
scienza, infatti era considerata il mezzo principale per la diffusione di una descrizione del
mondo più “razionale”. La tecnologia si fa contesto globale al di fuori del quale non è data
alcuna esperienza. Le tecnologie, secondo McLuhan, esercitano un’azione plasmante
sugli individui e sulla società, che a loro volta divengono “consumatori” delle immagini
prodotte. Le conseguenze non sono senza rilievo: come scrive Anders, il rischio è che sia
il mondo “a venire a noi” mentre noi finiamo per “non essere- nel- mondo”, secondo la
famosa espressione heideggeriana, ma solo consumatori del mondo stesso. Secondo R.
Simone, le nuove tecnologie sarebbero dei veri e propri condizionatori di pensiero perché
modificano radicalmente il nostro modo di pensare. È dunque il trionfo dell’homo videns,
che non è più portatore di un pensiero (sapiens), ma fruitore di immagini che spesso porta
ad un impoverimento del capire. La tecnologia non rappresenta il male in sé per sé, ma
sono le sue conseguenze di un utilizzo a critico e poco riflessivo a dover essere prese in
considerazione. Le tecnologie, infatti, possono offrire delle occasioni di scambio
costruttive, ma quello che sfugge è il fatto che il confronto avviene sempre nello spazio
intermedio della vetrina, arena sociale fluida e difficilmente governabile, o dentro uno
schermo in cui la realtà finisce per confondersi con la sua rappresentazione.

SECONDO CAPITOLO
Un’esistenza problematica in direzione di ragione
Il soggetto umano vive una condizione esistenziale caratterizzata da condizionamenti, che
agiscono con forza sul suo essere-nel- mondo. Questa esperienza definita da Heidegger
“gettatezza” e da Bertin “condizione data”, è l’esperienza primaria dell’esistenza: da
questo presupposto parte la riflessione problematicista, la cui pedagogia vuole offrire al
soggetto gli strumenti per una progettualità esistenziale ricca di senso e autenticità. Il
campo che permette questo processo è dato dalla problematicità stessa, i cui aspetti critici
richiedono al soggetto l’impegno di una scelta. Si pone la necessità di scegliere quindi di
progettare il modo in cui rapportarsi alla condizione data: occorre una spinta significativa,
che mostri il senso che una progettualità può assumere per la propria esistenza. Sartre
scriveva che l’uomo si definisce in base al suo progetto, superando di continuo la
condizione che trova già fatta e determinando la propria situazione trascendentale.
Anche sulla scorta delle riflessioni sartriane, Bertin incoraggia a sperimentare al di fuori e
al di là dell’“esistente”, “già dato” e conforme. L’obiettivo della progettazione esistenziale è
rappresentato, dalla sperimentazione dinamica dei sistemi esistenziali differenti, che siano
aperti alla pluralità e al possibile, in un’ottica di creatività e invenzione. Come ricorda
Frabboni, si tratta di una “pedagogia con le ali”, nella sua tensione costante al futuro, per
arricchirlo. Una volta decifrata la problematicità, è auspicabile un suo “superamento”
nell’unica direzione possibile, in “direzione della ragione”. La ragione problematicista si
pone con resistenza di fronte a unilateralità e conformismi, e persegue, sia sul piano
teoretico sia su quello delle relazioni socioeducative, il dialogo, il confronto, la
destrutturazione. Si tratta di una ragione che interviene nell’ambito del disordine
conseguente alle sollecitazioni interne ed esterne che caratterizzano l’essere umano e il
rapporto reciproco di istanze intellettive ed affettive. Il momento della creatività
rappresenta, nel cuore della problematicità, il movimento dinamico del principio di ragione.
L’elemento che distingue i due principi (ordine- disordine) è costituito, per il razionale,
dall’esigenza di composizione del diverso e di riconciliazione del contraddittorio. L’uso
della ragione proposto nella riflessione berniniana prende origine dalla filosofia kantiana
che sottolinea nella sua proposta, la valenza emancipatrice dinnanzi al momento di
problematicità: non vi è contrapposizione tra uso teoretico della ragione (conoscenza), e
uso pratico (interesse); entrambe sarebbero inconcepibili l’una senza l’altra ed è dall’
intreccio che nasce il momento regolativo, ma è assoluto, della ragione, il suo principio
trascendentale.
Il demonismo o “diritto alla differenza”
In virtù della sua passione per Nietzsche, Bertin connette al concetto di ragione
problematicista il momento del demonismo, una tensione verso l’apertura, verso percorsi
alternativi: il demonismo, si muove nei territori della problematicità, attraversando, accanto
al bello e al buono, anche il tragico e il violento, cercando di praticare un dialogo
incessante tra le diverse istanze, evitando risposte definitive e perseguendo nuovi spazi di
pensabilità e di progettazione. L’idea problematicista del demonismo deve la sua origine
alle pagine del pensiero nietzschiano, soprattutto nella fase più tarda della sua
elaborazione pedagogica. La proposta di Bertin attinge alla fonte dello Zarathustra
(profeto iranico, del quale il filosofo tedesco scrisse) riprendendo la riflessione di
Nietzsche sull’oltreuomo (è colui che rigetta i valori della morale tradizionale, affronta la
Morte di Dio e si pone in prospettiva dell’Eterno Ritorno) e la sua critica alla condizione
umana: Nietzsche propone al soggetto, essere biologicamente imperfetto e in cerca di una
soluzione nel caos esistenziale, di superare se stesso, ossia la propria inautenticità.
Secondo il filosofo tedesco il sapere rappresenta la leva più salda per il progetto dell’uomo
ed il superamento della sua condizione: l’io non possiede una struttura consolidata e può
sconfiggere il momento della pesantezza in direzione di “lievità esistenziale”, laddove è
circondato da un contesto di crisi socio-culturale (“la morte di Dio”). Nietzsche fa
riferimento ad atteggiamenti esistenziali nuovi, a nuove visioni della vita e a nuovi tipi di
valore conseguenti, che fungano quali linee di rottura e prospettive di opposizione rispetto
a quelli accolti dagli esemplari di uomini “mediocri” o “superiori” che condanna. Questa
proposta in termini pedagogici problematicisti, si traduce per Bertin nell’elaborazione di
una progettazione esistenziale che abbia come obiettivo il superamento del già dato e
dell’esistente, nel momento della sua piattezza e unilateralità. Il principio del superamento
(Ueberwindung), considerato in prospettiva etico- pedagogica, insegna qualcosa per
quanto riguarda le istanze della trasformazione del soggetto e della società, e in esso si
accentua la categoria del possibile, che da un lato legittima l’intervento educativo e
dall’altro lo mette in gioco valorizzando il momento della differenza e il pluralismo dei
percorsi. È proprio a proposito della categoria problematicista della differenza che emerge
con forza la prossimità tra il pensiero nietzschiano e la proposta di Bertin: il pedagogista
(Bertin) sottolinea il valore etico- pedagogico di tale categoria e ne richiama il diritto per
ogni soggetto, quale espressione di pluralismo e autenticità. L’individuo ha il diritto a
essere considerato portatore di “trascendenza esistenziale” intesa nel senso nietzschiano
del superamento, dell’andare oltre.
La differenza non ha nulla a che vedere con lo status sociale o con caratteristiche
psicologiche, bensì è intesa come patrimonio di possibilità di superamento dei
condizionamenti psicologici, socio-politici e culturali da cui l’individuo è pressato nella sua
realtà storica e in ogni aspetto del quotidiano.
La tensione per l’inattuale e il coraggio di usare l’utopia
Riprendendo la filosofia esistenzialista Bertin propone il momento dell’inattuale come
alternativa a quello della massificazione (fenomeno sociale e politico, tipico della
contemporaneità, caratterizzato dall'annullamento dell'individuo e della sua singolarità,
nella totalità della massa come aggregato variegato e informe) e dell’appiattimento, che
connotano l’attuale che si esplicita nel momento del tragico nel suo valore potenzialmente
distruttivo (di morte). È l’esperienza esistenziale stessa ad avere una componente tragica
poiché è disturbata da un disordine che rischia di prevalere sull’istanza della ragione,
intesa in senso bertiniano; a contrasto di ciò e per un suo superamento, il problematicismo
pedagogico fa leva sulla progettazione esistenziale in direzione di ragione, rivendicando
per il soggetto un protagonismo nel campo della scelta che sia coerente con il suo essere
con gli altri nel mondo. Bertin definisce la progettazione esistenziale come l’orientamento
del soggetto (individuale o collettivo) rivolto ad elaborare, vagliare ed unificare aspirazioni,
criteri di valore e obiettivi, in funzione del possibile (inattuale), un piano del quotidiano che
è vissuto in rapporto al futuro. Tale definizione è cruciale, secondo Filograsso, per le sorti
dell’esistenza umana, sollecitata a recuperare la naturale vocazione dell’autorealizzazione
e alla progettualità razionale, che rappresentano il contrario dell’appiattimento, del definito,
evitando “le fughe dalla libertà” (Fromm). Il “disordine” minaccia la ragione e tende a
rafforzare chiusure e rigidità, ma la progettazione può cercare di ricontrollarlo e riassorbirlo
in un ordine nuovo, più aperto e dinamico.
Il problematicismo di Bertin e della sua scuola si caratterizza come critico (dichiarando la
sua origine nel pensiero critico razionalista banfiano), aperto anche su se stesso in una
circolarità riflessiva razionale, teso alla ricerca dell’integrazione le molteplici piani
dell’esistenza, portando il soggetto stesso ad “essere nel mondo assieme agli altri” nel
tentativo di sviluppo della personalità razionale. Il soggetto, quindi, è immerso
costantemente in relazione interpersonale all’interno del rapporto io-mondo.
Il rischio di una pedagogia scarsamente critica o che si accontenta di ciò che appare è
infatti quello di adattamento al presente e dell’offuscamento del futuro; per dirla utilizzando
le parole di Cambi, far coincidere l’hegelianamente, il razionale con il reale. Le direzioni di
superamento indicate da Bertin, In ripresa della lezione di Nietzsche, rappresentano il
prefigurarsi di possibilità per le quali, ad oggi, potrebbero non esserci ancora le condizioni
di realizzazione, ma che, in linea utopica potrebbero essere possibili domani: entra campo
il concetto chiave di utopia: una scelta di coraggio laddove il possibile non offre garanzie
sulla realizzazione di quanto si progetta nel proprio orizzonte.
L’infanzia come “scarto”: in difesa della sua inattualità
Bertin affermava la necessità di storicizzare l’esperienza per focalizzare l’attenzione sui
diversi condizionamenti che operano sul reale. Seguendo questo ragionamento, è utile
analizzare le motivazioni che ci spingono a dichiarare che l’infanzia come categoria
socioculturale sia inattuale e di conseguenza gravemente a rischio.
Attraverso Contini, filosofa dell’educazione, possiamo definire lo “scarto” alludendo a tutto
ciò che all’interno della società dell’attuale è marginale, ossia considerato residuo in
relazione a tutto quello che conta e che si colloca in primo piano e gode di una diffusa
rappresentazione sociale positiva. Si tratta di un arricchimento del concetto bertiniano di
inattuale. Contini definisce lo scarto e ne tesse le lodi per valorizzare tutte quelle
categorie dense di implicazioni per la riflessione e per azioni educative che rischiano di
venire oscurate dalla voce mediatica che è sotto i riflettori. Contini, arricchisce e
accompagna l’elogio con un monito all’impegno pedagogico in termini di resistenza.
Egle Becchi analizza riguardo alla “retorica dell’infanzia” intesa come il rispetto alle
descrizioni, nell’ordine del discorso, che nel tempo sono state utilizzate per denotare
l’infanzia, come sia costante la descrizione che fa riferimento a realtà differenti: l’infanzia
non esiste e se esiste è in funzione di altro. L’infanzia come categoria rientra a pieno titolo
nella definizione continiana di scarto e necessita a livello di impegno pedagogico una
riabilitazione della sua stessa essenza, all’esercizio di pratiche di resistenza in difesa dei
suoi tratti di autenticità.
L’infanzia, essendo diversa biologicamente, a livello sociale e sul piano esistenziale non
può e non deve essere omologata ad un’altra fase della vita, a quella adulta, ma richiede il
rispetto di alcuni presupposti e la tutela di alcune sue peculiarità per essere garantita. Il
richiamo è ad una riflessione pedagogica che sia improntata alla valorizzazione di quei
tratti inattuali che ancora oggi sono considerati scarto. L’infanzia inattuale è scarto, in
quanto i suoi tratti più autentici non hanno mai avuto nulla a che vedere con i valori della
triade denaro- potere-successo; ed è proprio per questo che la società adulta ha fatto in
modo di rendere attuale i bambini, ossia di snaturare quel loro mondo misterioso ed
inafferrabile, allineandolo e asservendolo alle logiche del tempo dominanti
Immagini di infanzia inattuale: “tra le pagine” della diversità
È bene ricordare come la letteratura per l’infanzia abbia contribuito nel tempo al fiorire
dall’immaginario legato all’infanzia, rappresentando, non in tutta la sua produzione ma in
alcuni prodotti esemplari, forse l’unico vero baluardo a difesa della sua inattualità.
Secondo Grilli, la letteratura per l’infanzia può essere definita lo spazio per eccellenza in
cui il perturbante dell’infanzia, l’alterità, l’inafferrabilità di quest’età trovano espressione, lo
spazio in cui queste caratteristiche affascinano e vengono ampiamente esplorate, Lo
spazio in cui i bambini vengono davvero mostrate come diversi, come creature solo in
parte nostre, mai in fondo familiari.
I grandi libri per l’infanzia da sempre ne rispettano l’alterità: l’infanzia della letteratura è
abitata da bambini che in qualche modo sono presentate come “alieni” poiché vedono
cose che gli adulti non vedono, entrano in dimensioni che per gli adulti non esistono o
trasformano il qui in un altrove per lo sguardo con cui lo colgono. I bambini della letteratura
spesso sono orfani, creature che non appartengono a nessuno, con una propria natura e
un proprio destino. L’orfanezza diventa una metafora letteraria, vera condizione
esistenziale e rimanda al complesso percorso di crescita, scoperta, metamorfosi,
iniziazione che ogni bambino o bambina intraprende per vivere. Il contributo della
letteratura per l’infanzia è prezioso per favorire quel processo di recupero dei tratti inattuali
dell’infanzia, per riportare al centro “l’infanzia come scarto”, categoria socio-culturale ai
margini della società.
Per coloro che di educazione si occupano la letteratura può diventare uno strumento
prezioso nella lotta alla de-naturalizzazione dell’infanzia, poiché le pagine diventano delle
lenti di ingrandimento sulle tante sfaccettature del “mondo incantato”. Le pagine per
l’infanzia sono abitate da grandi metafore che permettono all’adulto di esplorare un po’ più
a fondo quel mondo opaco in cui si dipana la “diversità” di bambini e bambine. Il contributo
della metafora arricchisce l’immaginario sull’infanzia e sostiene un pensiero educativo che
non si ferma di fronte all’esistente, che non si accontenta del già dato ma che ricerca altri
significati per far uscire qualcosa che è rimasto nascosto, inesplorato, inascoltato. Le
metafore diventano uno strumento comprensivo di lettura del reale.
La strada più semplice: rendere l’infanzia attuale adultizzandola
L’infanzia come categoria socio-culturale si è quasi sempre caratterizzata per un forte
processo di adultizzazione. Con “adultizzazione” dell’infanzia, si intende l’assunzione
precoce la parte di bambini e delle bambine, di atteggiamenti, comportamenti, espressione
che sono tipici del mondo dei grandi e che sono veicolati sia attraverso pratiche quotidiane
ispirate dai modelli adulti sia attraverso le caratteristiche dominanti dello “spirito del tempo”
in cui infanzia si trova gettata: si tratta della caduta della a-simmetria di cui parla Contini
che in seguito all’invenzione della stampa aveva caratterizzato la separazione tra i due
mondi, riconoscendole e tutelandone le reciproche specificità. Fare indagine sulla
categoria infanzia è analizzare le circostanze in cui la sua vita si svolge: si tratta di una
difficoltà legata a una tradizione che studia i bambini e le bambine soprattutto a partire
dalle figure con cui essi sono in relazione.
Sempre e da sempre l’infanzia è inevitabilmente detta, non da sè ma da altri, poiché per
definizione, in quanto in-fans, essa non sa parlare. Infanzia, è una parola dotata di potere,
non solo perché “parla di ciò che non parla” ma anche in quanto deve “far parlare chi non
è ancora capace di parola”, ed è forse proprio a partire da questo passaggio, ovvero
dall’impossibilità dell’infanzia di replicare e parlare di sé, che prende corpo il rischio della
sua eterna scomparsa nella storia dell’umanità.

TERZO CAPITOLO
L’infanzia, alterità senza parola
Il linguaggio nel caso dell’infanzia diviene discriminante per eccellenza: l’infanzia è un
mondo senza parola (in-fans), e, poiché nella visione antropocentrica, attraverso le parole
e linguaggio si plasma la cultura, l’infanzia è anche senza cultura.
Il modo in cui l’infanzia si esprime è riconosciuto come disordinato e illogico, tanto da non
assumere, per la società adulta, alcun valore di linguaggio. Il termine infanzia, quindi, fa
riferimento, sì, all’assenza di parole ma anche al fatto che i bambini non siano in grado per
lungo tempo di parlare bene. Nella lingua italiana la parola infanzia è rimasta in uso come
termine generale collettivo, mentre si è scelto il termine bambino per designare e
identificare il singolo individuo. L’obiettivo del mondo adulto e della sua azione educativa
(più o meno consapevole) è quello di trasformare l’infante, ovvero di fornirgli gli strumenti
di acquisizione del linguaggio condiviso, in modo tale che finalmente sia in grado di
comprenderlo.
Una svolta semantica avviene nel XVI secolo, quando entra in voga l’uso del termine
putto, dal latino putus, con il significato di puro, schietto: il bambino da questo momento è
spesso paragonato a un amorino (Eros, uomo alato) il quale, per nascita, è consegnato al
mondo come un essere pulito e puro. Così puro, però, che anche sbarazzino, ossia senza
alcun imbarazzo che si traduce in senza freni e impedimenti e che quindi finisce ancora
una volta per arrecare danni e fastidio. Secondo Pancera queste notazioni legate alla
linguistica relativa all’infanzia sono espressioni, da parte del mondo adulto, cui manca
l’altro da sé e con cui relazionarsi, di un tentativo di esorcizzare tale mancanza,
rimuovendo o soggiogando l’infanzia.
Le parole sull’infanzia descrivono in negativo coloro che ne fanno parte e sottolineano
tutto ciò che al contrario valorizza l’essere adulto: i bambini e le bambine non sanno
parlare, non sanno camminare, divenendo privi di potere. Il rifiuto dell’alterità, oltre che
nella semantica delle parole è riscontrabile anche in alcune metafore che, nel tempo, sono
state utilizzate dal mondo adulto per designare la propria “retorica dell’infanzia” (Becchi),
a testimonianza di atteggiamenti e pratiche collettive più o meno diffuse. Le metafore
vanno rapportate alle circostanze e al contesto storico-sociale entro cui sono state
costruite.
Il Seicento è un’epoca in cui la pedagogia “è senza soggetto”; essa è una paideia1 che si
impegna attraverso i suoi precettori nell’educazione di un generico destinatario, “deposito
prezioso” degli insegnamenti dei suoi maestri e “piccolo gregge di Gesù Cristo”.
L’idea dell’infanzia è legata a quella di un non- adulto da trattare come un infermo e come
foriero (preannunciatore) di una alterità che va contrastata e guarita. La metafora è un
mezzo per celare la realtà infantile, eludendo una sua denotazione, a riprova della
costante difficoltà, da parte del mondo adulto, di portarne alla luce una precisa definizione.
Non c’era una volta l’infanzia
I bambini e le bambine sono sempre esistiti, ma l’infanzia come categoria culturale
significativa e degna di riconoscimento, non c’è sempre stata. In passato l’infanzia non
c’era, ma i bambini e le bambine erano una presenza necessaria, nel senso che la loro
nascita era inevitabile. L’infanticidio era un fatto culturalmente ammesso e giuridicamente
concesso (fino in epoca tardo-romana), e così valeva anche per la vendita (molti bambini
venivano utilizzati come prostituti) e l’abbandono, pratica quest’ultima che portava alla
morte del bambino, lontana dagli occhi della madre, poiché nell’antichità non esistevano
istituzioni per bambini abbandonati.
All’infanzia vengono attribuite fragilità e infirmitas (infermità) fisica e mentale; essa viene
esclusa dalla vita politica e sociale allo stesso modo dei vecchi, delle donne e dei pazzi.
Gli storici individuano un mutamento di interesse verso l’infanzia con l’insorgere del
cristianesimo e di una società più orientata al bambino, in continuità con l’idea che tutti gli
esseri umani sono uguali di fronte a Dio (l’infanticidio viene condannato). Essere i bambini
1
La maieutica socratica è il metodo di questa nuova paideia, che Platone descrive nel Teeteto e nel Menone,
nella quale il ruolo del maestro è limitato alla funzione dialettica di stimolo e confutazione dell'opinione.
inizia ad essere una condizione onorata poiché era convinzione diffusa, che Dio e i suoi
angeli li proteggessero affiancandoli segretamente. Con il Medioevo le cose subiscono un
arresto e la fase della primissima infanzia è di nuovo quella più a rischio, minacciata da
morte precoce, malattia, invalidità e povertà. In questo periodo scompaiono le scuole ed
emerge un analfabetismo dilagante: l’incuria nei confronti dell’infanzia si accentua e
prende forma, in particolare, nell’assenza di pudore e separazione; adulti e bambini
condividono spazi, tempi e comportamenti in totale promiscuità, senza filtri, senza segreti
e senza mediazione.
Secondo Ariès, nella società medievale il “sentimento dell’infanzia” non esisteva,
sottolineando la scarsa considerazione che gli adulti avevano dell’infanzia, che si
ripercuotevano il modo in cui essa veniva trattata. L’assenza dell’infanzia come “idea” è
rintracciabile nelle raffigurazioni pittoriche del tempo. In un mondo adulto che non vede
l’infanzia, se non come essa appare il suo sguardo, la sua rappresentazione non può che
essere attraverso immagini di adulti miniatura. Dal XIII secolo cominciarono a circolare dei
“manuali di predicazione” che contenevano le indicazioni sui temi specifici dell’infanzia, in
cui si incoraggiava l’istruzione e si invitava alla moderazione delle punizioni.
A sette anni, il tempo della pueritia, iniziava l’istruzione dei figli maschi ad opera dei padri,
mentre le ragazze restavano sotto l’egida delle madri: per la maggioranza, l’istruzione non
significa scuola, bensì un’iniziazione al mondo del lavoro adulto, in maniera graduale. A
partire dal XV secolo la scuola cominciò a sostituirsi all’apprendistato contribuendo a dare
origine al binomio bambino-scuola e a dare l’avvio ad una separazione tra il mondo adulto
e quello infantile. L’istruzione scolastica era per una minoranza: solamente le classi
superiori ricevevano un’educazione, la quale era in primo luogo riservata
all’addestramento alle professioni clericale (Cunningham).
Il sentimento dell’infanzia
Secondo Postman grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili la società adulta
scopre l’infanzia: sarebbe “il divario di conoscenza” tra adulti e bambini, che si crea con i
testi scritti, a dare avvio a questo processo. Comincia ad emergere una netta differenza tra
coloro che sanno leggere e coloro che non ne sono capaci, tra chi è adulto ed
alfabetizzato e chi invece deve ancora diventarlo. Per il verificarsi di quello che lo storico
francese Ariès definisce la “scoperta dell’infanzia”, il momento storico in cui la società
adulta individua le specificità dei bambini e ne riconosce i loro bisogni fondamentali,
dobbiamo attendere il XVI secolo, periodo in cui grazie ad una serie di rivoluzioni storiche
sono poste le basi per la crescita di un reale “sentimento dell’infanzia”. Viene riconosciuta
una differenza dell’essere bambini: l’infanzia ha una sua identità specifica ed è da tutelare.
Comincia a crescere un interesse nei confronti di questa fase della vita connotato da
curiosità positiva e amorevole attenzioni (è di questo secolo il primo libro di pediatria,
mentre risale al Settecento la nascita della letteratura per l’infanzia). È in questo periodo
che nasce la “famiglia moderna”, in cui i genitori divengono responsabilmente impegnati
nella cura e nella tutela dei figli: nel mondo protestante la famiglia è vista come un
microcosmo della Chiesa e dello Stato, i cui dettami si deve ispirare nella sua opera di
“addestramento” e educazione. Persino il linguaggio si differenzia e certe parole volgari e
violente non devono essere più pronunciate in presenza dei bambini. Viene posta enfasi
sull’istruzione e le punizioni corporali iniziano ad essere smitizzate, nonostante rimanga
l’idea di fondo che il bambino debba essere “plasmato” dall’adulto.
Nella letteratura protestante dell’epoca, dalla quale Erasmo in parte si discosta, emerge
un’idea del bambino come essere “malvagio”, in quanto ignorante e non addestrato alla
devozione: il genitore protestante era dunque ansioso di rendere il suo bambino al più
presto consapevole della necessità della salvezza (Cunningham). Quest’ultima questione
sembra essere meno pressante per quanto riguarda famiglie cattoliche, le quali erano
sollevate dal periodo della perdizione attraverso l’esercizio del battesimo. Erano famiglie
sulla cui responsabilità genitoriale era posta molta enfasi, soprattutto a partire dalla fine
del XVI secolo.
Nel Seicento nascono i primi convitti e i primi collegi, veri e propri centri di potere che si
ponevano in rivalità con le famiglie: l’esempio più autorevole di questo modello educativo
era rappresentato dalle piccole scuole di Port Royal, convitti maschili e femminili in cui
regnava l’idea dell’infanzia come “luogo del male e del peccato”. Con il Settecento, in
particolare con gli scritti di Locke e Rousseau, la sensibilità sociale e culturale nei
confronti della categoria infanzia si innalza esponenzialmente. È questo il periodo in cui
prende vita quell’attenzione, da parte non solamente dei singoli individui ma dall’intera
società, che riconosce i bisogni di una categoria e intende tutelarli: si attribuisce ai bambini
una capacità di sviluppo e di crescita il cui motore è la natura e non solo Dio. Si diffonde la
teoria di Locke secondo cui la mente, al momento della nascita è una “tabula rasa”. Da
qui derivano una serie di responsabilità per la società intera: infatti, un fanciullo ignorante
e indisciplinato rappresenterebbe il fallimento degli adulti che se ne sono occupati:
tuttavia, lo stesso autore preciserà in seguito che con il “foglio bianco” (tabula rasa)
intendeva fare riferimento esclusivamente all’apparato delle idee, mentre ciò non
riguardava il temperamento e le attitudini del bambino, e questo spiega anche la sua
inclinazione a condannare il ricorso eccessivo alle punizioni corporali.
Rousseau riconobbe in Locke un suo precursore, ma il filosofo francese, propose una
visione più romantica dell’infanzia, attenta a quello che era il bambino prima di essere
uomo. La prospettiva è rovesciata ed è l’adulto nella visione di Rousseau a non essere
sufficientemente preparato a commisurarsi con la spontaneità e la schiettezza
dell’infanzia, qualità che vengono a perdersi con l’alfabetizzazione e l’educazione formale.
Nell’Emilio l’autore insiste sulla qualità peculiari dell’enfant (infante) di essere altro rispetto
all’adulto e perciò di avere bisogno di un supporto pedagogico ad hoc. Il pensiero di
Rousseau si diffuse contribuendo a definire un nuovo ideale di infanzia: un periodo di
“primavera che avrebbe nutrito la vita intera”. Il pensiero dell’autore venne assimilato a più
riprese dai poeti e letterati romantici, che definirono un ideale di fanciullezza quale età
d’oro da tenere in vita e preservare.
“L’infanzia riconosciuta” tra sfruttamento e violenza
Perché si possa parlare di un’idea di infanzia socialmente diffusa e di processo avviato
dalle èlite si compia, è necessario aspettare il XIX secolo, quando questa idea prenderà
piede anche tra le famiglie meno abbienti. La storia dell’infanzia, come suggerisce Becchi,
non è per nulla lineare ed è caratterizzata da tagli sociali: ossia di bambini più o meno
privilegiati che attraversano nel tempo modalità esistenziali e contesti culturali differenti.
La filantropia (principio stoico dell’amore dovuto all’essere umano) fu determinante nel
traghettare lo sguardo adulto verso il cambiamento di paradigma: i filantropi, donne per la
maggioranza, istituirono case per gli orfani e per i bambini a rischio, organizzarono scuole
e giardini d’infanzia e numerosi programmi di lotta alla povertà e alla crudeltà.
L’Ottocento è stato dominato da una concezione dell’infanzia il cui nucleo era l’idea che il
modo in cui veniva vissuta l’infanzia fosse cruciale nel determinare il tipo di adulto in cui il
bambino finiva per trasformarsi e una crescente consapevolezza che l’infanzia avesse
diritti e privilegi propri.
Questa idea assunse nel tempo un aspetto diverso in rapporto all’ambiente economico,
religioso e intellettuale in cui veniva compresa e integrata. In alcuni casi si trattava di una
rappresentazione romantica, ma in altri di una condizione trascurata, se non degradata.
Tra il XVIII e XIX secolo si consumano le più atroci nefandezze nei confronti dell’infanzia
soprattutto a causa dell’inarrestabile processo di industrializzazione che finì per rendere
naturale il considerarli una componente essenziale della forza-lavoro. Conseguente è la
posizione dell’infanzia, che subisce, attraverso il lavoro, un violento processo di rapida
adultizzazione.
Riguardante il lavoro in fabbrica è interessante citare il testo di Engels del 1845 sulla
situazione della classe operaia in Inghilterra: l’autore racconta che gli industriali
cominciano ad occupare i fanciulli tra 6 e 7 anni, e che molto spesso i piccoli operai erano
vittime di maltrattamenti da parte dei sorveglianti. Anche nelle famiglie benestanti,
nonostante il prevalere di un’immagine dorata dei bambini, ad amare incondizionatamente,
l’infanzia subisce violenze e privazioni: il terreno della cura è alimentato dal paradigma del
controllo della disciplina, le pratiche educative sono spesso molto rigide e come ci ricorda
Miller molteplici sono gli strumenti utilizzati: minacce umiliazioni violenze psicologiche e
punizioni. Secondo il pensiero di Beseghi, la Miller non esita a parlare di una pedagogia
nera per l’incapacità di riconoscere i modi di essere del bambino al di fuori di ciò che deve
diventare per l’occhio adulto.
Questo si evidenzia soprattutto nel caso dell’istruzione: Postman ci ricorda che l’istruzione
formale è inattuale, nel senso che richiede al giovane un alto grado di concentrazione e di
compostezza, contrario alle sue inclinazioni naturali, che iniziarono ad essere viste come
un ostacolo risoluzione formale e come un’espressione di indole perversa.
I bambini costretti a reprimere la propria aggressività, come sostiene la Miller potrebbero
da adulti far fatica a reagire all’ingiustizie e ad esprimere in maniera sufficientemente
buono il dolore e la frustrazione. I bambini per essere all’altezza delle aspettative degli
adulti erano costretti a reprimere tutti quei sentimenti come la rabbia, la gelosia, l’invidia e
l’ambivalenza.
Nonostante ciò, verso la fine del XIX secolo, nell’azione in difesa all’infanzia, ci fu uno
spostamento di equilibri dalla filantropia alle istituzioni: numerosi Stati tentarono di istituire
un sistema di istruzione obbligatoria (molti Stati avevano già introdotto già prima della fine
dell’Ottocento leggi sull’istruzione che avevano come obiettivo quello di costruire una rete
di scuole per tutti i bambini). Per la prima volta nella storia “salvare l’infanzia” significava
metterla in cima all’agenda politica dello Stato moderno.
Il secolo dei fanciulli
Con il XIX secolo anche le leggi cominciarono a regolare e limitare i fenomeni di maggiore
sfruttamento e violenza nei confronti dell’infanzia soprattutto relativamente al lavoro: è del
1834 la prima legge inglese che proibisce il lavoro dei piccoli al di sotto dei nove anni,
obbligando i datori di lavoro a mandare i bambini a scuola per almeno due ore al giorno.
Anche il governo italiano si impegnò per combattere, accanto all’analfabetismo, la piaga
dello sfruttamento economico e del lavoro minorile. La prima legge italiana in merito è del
1886, sotto Umberto I Re d’Italia, e introduceva il concetto di età minima lavorativa (9- 10
anni): questa norma, tuttavia, risultava incompleta rispetto alle tipologie di attività vietate e
non prevedeva l’obbligo di scolarità per i piccoli lavoratori. Sarà soltanto con la legge del
giugno 1902 che il limite per l’assunzione verrà elevata 12 anni e il compimento del corso
elementare per i piccoli lavoratori sarà reso obbligatorio. Nonostante questo, l’Italia di fine
Ottocento era ancora un paese dove regnava la miseria e la povertà.
È a partire dal Novecento, “il secolo dei fanciulli”, che accanto al concetto di tutela si
aggiunge quello di diritto dei bambini, che mirava a salvare i bambini affinché potessero
vivere la propria infanzia.
Per la prima volta nella storia, il bambino è riconosciuto come soggetto in grado di
interagire, pur con le sue specificità, in modo attivo e competente con l’adulto, che assume
la consapevolezza per cui il bambino non è in grado, in maniera autonoma, di provvedere
al soddisfacimento dei suoi bisogni fondamentali e per questo motivo necessita che questi
stessi bisogni siano tradotti in diritti. È grazie ad intellettuali come Key e Montessori che
si preparò il terreno in cui germinerà la cultura dei diritti dell’infanzia: grazie all’impegno e
all’opera di costoro si apre la strada per un dibattito nuovo che vede al centro la tutela
dell’infanzia e delle sue specificità.
Key scrive nel 1900 la celebre opera “Il secolo dei fanciulli”, un invito, un monito, un
augurio a fare sì che il secolo avviato si distingua per una nuova sensibilità verso
l’infanzia. Nel suo testo l’autrice utilizza la parola “diritto” in relazione ai bambini: i bambini
avrebbero persino il diritto di essere cattivi per esprimere liberamente le proprie
potenzialità anche quando questi dovessero confliggere con i modelli e le aspettative degli
adulti. Risale più o meno allo stesso periodo una crescente professionalizzazione della
medicina pediatrica all’interno della quale si inserisce, anche se solamente inizialmente, il
contributo di Montessori, universalmente riconosciuta tra le voci più autorevoli nel campo
della pedagogia.
Montessori sostiene che un’infanzia che vive in un ambiente creato dagli adulti, a
immagine e somiglianza dagli adulti, rischia di vivere in un ambiente inadatto: il bambino è
“represso da un adulto più forte di lui, che di lui dispone”, con l’idea “fin troppo ingenua”
che un giorno dovrà vivere nel suo stesso ambiente sociale.
Secondo Montessori, il bambino è una riproduzione dell’uomo.
Infanzia e diritti: un eterno paradosso
La via privilegiata verso il riconoscimento giuridico dei diritti all’infanzia ha preso avvio
dalla questione del lavoro: la maggioranza della popolazione infantile a inizio Novecento
era impiegata in qualche attività lavorativa, molto spesso pericolosa e disumana. Per
contrastare questo fenomeno nel 1922 compaiono la Carta dei bambini dell’International
Council of Woman e la Dichiarazione dei diritti dell’adolescente dell’Unione internazionale
delle organizzazioni giovanili socialiste.
Il primo documento, noto ufficialmente come riconoscimento su Carta dei diritti dei bambini
è la Dichiarazione di Ginevra del 1924 che vieta ogni forma di sfruttamento ma al
contempo riconosce ai bambini il loro diritto di guadagnarsi la vita. L’idea è ancora quella
per cui il bambino non è soggetto attivo dei suoi diritti bensì oggetto bisognoso di tutela e
attenzione da parte degli adulti, della società, dei governi e degli Stati.
Ci vorranno molti anni e la Seconda Guerra Mondiale perché i contenuti della Carta del
1924 vengono sviluppati in un nuovo documento internazionale: è la Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani del 1948 a rompere il silenzio ma sarà solamente nel 1959,
con la Dichiarazione sui Diritti dei bambini, nota anche come Dichiarazione di New York,
che l’attenzione tornerà ad essere posta sul mondo infantile, riconoscendogli un surplus di
diritti che ne segnano la differenza dal mondo adulto. Con questa dichiarazione viene
bandito il lavoro minorile: fa riflettere il fatto che tale veto, affermatosi in Italia alla fine degli
anni Cinquanta, coincida con la ripresa economica e con il miglioramento delle condizioni
di vita delle famiglie.
La Dichiarazione del 1959 aveva il limite di non essere vincolante sul piano giuridico e di
non poter imporre il rispetto dei diritti in essa espressi. Perché i diritti siano riconosciuti nei
fatti è necessaria una nuova Convenzione: il 20 novembre 1989 l’ONU approva la
Convenzione internazionale sui diritti per l’infanzia introducendo elementi di novità
significativi sia sul piano culturale che su quello giuridico, primo tra tutti il riconoscimento
del minore come soggetto attivo dei suoi diritti.
Il testo comprende un ampio Preambolo che richiama i contenuti delle carte precedenti e
54 articoli.
Nonostante questo, la sottoscrizione della Convenzione del 1989 non è affatto un
traguardo nel campo della cultura dell’infanzia: essa semmai è un punto di partenza di un
percorso tortuoso, che dovrà confrontarsi con l’opportunità di scardinare tutte quelle
condizioni che impediscono i bambini stessi di essere e agire come soggetti attivi dei loro
diritti. Da qui è derivata la necessità di promulgare una serie di protocolli aggiuntivi per
intervenire nella tutela dell’infanzia coinvolte situazioni simili: è del 2000 il Protocollo sul
coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, (età minima per l’arruolamento 18 anni), ed
è dello stesso anno e anche il Protocollo sulla vendita dei bambini, prostituzione e
pornografia infantile.
La maggioranza dei documenti internazionali che riguarda i diritti dell’infanzia non ha
carattere vincolante per gli Stati e, anche nel caso della CRC (sigla inglese che indica la
Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza), che rappresenta il testo più
“condizionante”, non esiste un organismo di controllo e vigilanza super partes che operi
con costanza. Ogni Stato attua le direttive a suo modo e tale attuazione risente
dell’influenza del contesto di riferimento, spostando l’equilibrio da una “questione di diritti”
a una “questione culturale”.
Il grande paradosso in campo d’infanzia e diritti risiede nell’accostamento dei due termini
stessi: all’infanzia sono riconosciuti i diritti che non è in grado di auto- garantirsi, bensì è
necessario che intervenga il mondo adulto, agendo nel principio del minor interesse. Si
tratta, di un doppio legame tra doveri da un lato, quelli degli adulti verso l’infanzia, i diritti
concretamente attuati dall’altro. La contraddizione risiede nell’incapacità da parte di chi ha
scritto le norme di decentrarsi dal proprio punto di osservazione. Il minore, nella sua
stessa definizione terminologica, incompiuto e necessariamente dipendente, è percepito
come un individuo in divenire che deve essere educato a diventare persona, ubbidendo e
conformandosi al volere dell’adulto. Sarebbe il mancato riconoscimento da parte del
mondo adulto delle capacità di agire in autonomia e di partecipazione attiva dell’infanzia,
secondo Moro, il grande ostacolo alla realizzazione di una cultura dei diritti priva di
contraddizioni.
Va riconosciuto lo sforzo dispiegatosi nel Novecento, a livello locale e internazionale, a
fare sì che il diritto, per la prima volta, traduca i bisogni essenziali dell’infanzia in diritti
soggettivi da tutelarsi con la stessa puntualità e intensità di quelli degli adulti. Tuttavia,
alcuni dei bisogni fondamentali possono essere esauditi esclusivamente nell’incontro tra
persone i cui rapporti non possono essere costruiti e strutturati da norme scritte. La
garanzia dei diritti passa attraverso una complessa rete di servizi e un complesso e
organizzato sforzo collettivo di gestione delle risorse.

QUARTO CAPITOLO
Fare i conti con il proprio essere bambino
La psicoanalista svizzera Miller ha dedicato parte della sua riflessione a proposito di
alcune pratiche, definite di pedagogia nera a proposito dell’educazione dei bambini e delle
bambine. Ancora oggi, in circostanze diverse in contesti talora lontani, possiamo scovare
alcune sottili violenze, che il mondo adulto esercita nei confronti di questa delicatissima
fase della vita. I bambini ripetutamente maltrattate e abusati rischiano una volta diventati
adulti, di incontrare comportamenti devianti nonché di vivere alcune nevrosi o malattie
mentali. Tuttavia, va ribadito all’interno di questa riflessione pedagogica, che se questi
stessi bambini hanno incontrato nella loro strada per almeno una volta, qualcuno che
abbia scardinato quella convinzione per cui, ad essere deviante non è tanto soggetto che
passato è stato smarrito, bensì l’ambiente, il contesto che lo ha cresciuto e circondato,
questi stessi bambini vivranno la possibilità di salvarsi. Ecco, quindi, l’importanza di
puntare il riflettore sulla responsabilità del mondo adulto, a maggior ragione laddove
l’infanzia ha subito o continua a subire soprusi e violenze e a prendersi cura dei contesti,
facendo in modo che essi siano sufficientemente buoni e che offrono possibilità di
ristrutturazione alle ferite e alle negazioni del Sé. Per lavorare su questo tipo di
responsabilità, la Miller suggerisce al mondo adulto di iniziare a fare i conti con la propria
infanzia, quella parte della vita di cui poco si ricorda ma tanto si reca con sé. Un sé
bambino è presente in ogni adulto. Nonostante questo invito, per gli adulti è generalmente
molto difficile riuscire a mettersi in contatto con la propria infanzia; in parte per via
dell’affievolirsi della memoria e in parte a causa di un processo di rimozione.
A questo proposito è interessante citare anche la posizione di Freud, il quale nelle sue
riflessioni sulla sessualità e sullo sviluppo infantile, non fa dell’infanzia patologia o colpa,
bensì il luogo dell’estraneità dell’uomo a sè stesso. Ecco perché è necessario lavorare
come adulti e come professionisti di cura. L’infanzia dell’“attuale”, quella che “sta bene”, di
cui mondo occidentale si prende cura e a cui, però, spesso si sostituisce, sebbene non
rischi di ricevere un’azione educativa ispirata alla violenza e dalla brutalità della storica
“pedagogia nera”, rischia tuttavia di subire altri condizionamenti che possono rivelarsi
pericolosi. Piccole schegge di pedagogia nera si insinuano anche nell’educazione
dell’attuale, improntata all’efficienza, alla bravura, al talento e alla competitività. Le
pratiche educative sono il risultato dello spirito dei tempi in cui si inseriscono e riflettono
una tendenza dominante e generalizzata che testimonia, ancora una volta nella storia, la
fatica che il mondo adulto fa a prendersi cura dell’infanzia in un modo che ne rispetti le
caratteristiche intrinseche.
Del diritto di essere “cattivi”
Esiste un rischio di “pedagogia nera” anche per l’infanzia (“curata”) dell’attuale: un rischio
che, rispetto al passato è più sottile e insidioso, ma altrettanto violento e subdolo e che si
gioca sul piano che la Miller definisce dramma del bambino dotato, che è anche il
bambino dell’oggi.
L’infanzia pende dalle parole e dai gesti del mondo adulto e la tolleranza che è in grado di
esercitare nei propri confronti è illimitata. I bambini non hanno una storia alle spalle cui
fare riferimento per regolare le proprie risposte emotive: ecco perché, la tolleranza che
mostrano è tanto grande nei confronti delle violenze a loro esercitate. I bambini sono
amore- dipendenti, e questo li porta ad accettare i comportamenti degli adulti così come
vengono presentati.
Un bambino piccolo, che ancora non ha gli strumenti della comunicazione verbale, vive un
originario sentimento definito di “paura abbandonica” da parte dei genitori, per contrastare,
il quale è disposto a qualsiasi cosa. L’adattamento ai bisogni dei genitori è per un bambino
una scelta necessaria, poiché unica garanzia della durata del loro amore e delle loro
pratiche di cura. A lungo andare, se le rinunce del bambino ad assecondare la propria
indole e ad esprimere le proprie esigenze si fanno ripetute, è possibile che si sviluppi una
personalità “altra”, un come se, che viene definito anche falso Sé (Miller). Si tratta di un
atteggiamento in cui il soggetto si limita ad apparire come da lui ci si aspetta, mentre in
suo vero Sé, con i suoi relativi sentimenti, non può essere vissuto.
Un bambino, i cui adulti di riferimento, fin dalle primissime fasi dell’attaccamento, siano in
grado di offrire un ambiente accogliente che lo rispetti nelle sue manifestazioni più
autentiche, ossia anche quelle più disturbanti di rabbia e dolore, è un bambino che saprà
costruire una buona immagine di sè e che, di fronte agli scacchi esistenziali e alle
ingiustizie, sarà in grado di superarli. È necessario ricordare che Key, nel “Il secolo dei
fanciulli”, pone il richiamo al diritto di essere cattivi tra i diritti individuati come specifici
dell’infanzia, ribadendo importanza, per i bambini, di un certo grado di libertà attraverso cui
esprimere personalità ed inclinazioni. È evidente che laddove un bambino si presenti
vivace, curioso e con altri tratti che “mal si sposano” con un contesto socio-educativo
eccessivamente rigido e severo, egli entrerà in conflitto con i modelli pedagogici proposti e
con le aspettative sociali.
Tutti i bambini avrebbero il diritto di pensare di poter essere cattivi, sapendo che “nessuno
muore per questo, a nessuno viene il mal di testa” e di poter “strepitare”, qualora si
sentissero feriti, senza per questo perdere i genitori e il loro amore.
Volontà e idee infantili spesso sono lette dagli adulti come forme di ostinazione da
combattere, per “ottenere” bambini obbedienti, docili e buoni. Ma chi è il bambino “buono”?
Ha senso parlare di cattiveria, se con questo concetto intendiamo tutto quello che di
inattuale risiede nell’infanzia ed ha come unico e vero difetto quello di rimanere in difficoltà
e in crisi con il mondo adulto? Prendersi cura di bambini e bambine è davvero faticoso, e i
bambini come tali non sono gli adulti e non possono essere in grado di comportarsi come
loro o come vogliono loro. L’infanzia subisce, più o meno intensamente, processi per cui
la sua spinta vitale, in particolar modo, quella “cattiva” (capricciosa, oppositiva e
scontrosa) viene smorzata, di volta in volta, per mezzo di umiliazione, indifferenza, rifiuto
violento. Di fronte a un certo tipo di persecuzione i bambini subiscono ferite importanti
all’interno del proprio processo di crescita e che molto spesso minacciano il loro senso di
sicurezza, inibendoli, soprattutto nella volontà.
L’infanzia non va abbandonata a sé stessa e cresciuta allo “stato brado”. I bambini e le
bambine hanno un estremo bisogno di adulti che li accompagnino, con il loro amore e con
la loro cura, nello sviluppo psicologico, fisico, affettivo. Si tratta di riportare all’attenzione la
necessità di mettere sempre in primo piano il rispetto per l’infanzia. Una “buona”
educazione rispetta l’alterità (che all’infanzia è connaturata), e abbandonando qualsiasi
pretesa di controllo, la conduce alla scoperta della propria specificità, che non è detto
coincida con quello che si aspettano gli adulti. La cura educativa più autentica, infatti, si
snoda su percorsi lenti, fatte di soste contemplative e di grande rispetto dell’altro bambino,
della sua individualità e delle sue inclinazioni. È necessario offrire ai bambini la possibilità
di esprimere, nel proprio momento della frustrazione, tutto il dolore che recano con sé.
I bambini non sono angeli: l’infanzia tra pulsioni sessuali e aggressività
Secondo Freud è l’organismo infantile è una “centrale” di energie sessuali e aggressive
insieme: certi comportamenti non sono da considerare come preoccupanti e bizzarri, bensì
come naturale espressione di un processo di crescita e sviluppo. Con l’attenzione ad
alcune parti del corpo (gli orifizi orale, anale e genitale)2, Freud identifica alcuni centri di
importanza vitale per la salute del sistema emotivo del bambino di oggi e dell’adulto di
domani. La sessualità nell’infanzia è una sfera che viene ignorata o violentemente
repressa. I bambini durante i momenti che precedono la fase dello sviluppo sessuale vero
proprio (pregenetalità) provano piacere in alcune parti del corpo attraversate da quelle che
Freud definisce libido, energia sessuale che durante l’infanzia investe zone del corpo
diverse da quella genitale e che rafforza, con il piacere ad essa specifico, quello connesso
all’espletazione di altre funzioni vitali, come quella nutritiva, intestinale ed emotiva.
La condizione ideale si realizza quando da un lato abbiamo un bambino disponibile ad
accogliere ciò che, attraverso i suoi centri di piacere, gli viene dato e dall’altro abbiamo
una madre che permette al figlio di sviluppare e di coordinare i mezzi che egli stesso ha
per ricevere, ma al contempo, per iniziare a coordinare e sviluppare le sue capacità di
offrire.
Inizialmente, infatti, il bambino in sé non è nulla: ecco l’importanza del seno, con cui si
identifica. Una volta riconosciuta la differenziazione, all’inizio traumatica, si avvia l’attività
psichica che corrisponde alla continua ricerca del Sé. L’ambiente che la circonda deve
sostenere il bambino in questa ricerca, il suo desiderio di autonomia, se non si vuole che
venga sopraffatto dalla sensazione di essersi esposto troppo presto, provando sfiducia.
Solo dopo che la libido è passata senza particolari complicazioni (importanza del
contesto), attraverso le varie fasi presi genitali, la sessualità infantile approderà con
serenità alla fase genitale, fase destinata a divenire presto latente, anche perché ai primi
oggetti del desiderio ovvero mamme papà, sono preclusi dal tabù universale dell’incesto.
Dove la libido viene con costantemente repressa, Freud individua le fonti principali delle
nevrosi. È naturale che bambini provino i primi sentimenti d’amore e affetto nei confronti
degli adulti che di loro si sono presi cura, così come è naturale che essi sviluppino
emozioni di gelosia contro gli adulti che minacciano in loro “possesso esclusivo delle figure
primarie” (esempio del complesso di Edipo).
L’infanzia esprime il bisogno attraverso la sua libido, di sentirsi potente e indipendente
dagli altri con i quali ha un rapporto fusionale: essa si serve di funzioni organiche legate
alla corporeità per elaborare fantasie, spesso aggressive, In cui si figura di imporre agli
altri il proprio controllo. Ira e aggressività sono dimensioni altrettanto vitali di quelle
sessuali e ad esse connesse. Si manifestano ogniqualvolta un’azione che ha
un’importanza vitale per il bambino, è impedita o inibita, magari con umiliazioni e violenza.
L’aggressività sarebbe la risposta allo spostamento delle pulsioni sessuali “proibite” e
desideri edipici espressi con tanta semplicità dal bambino.
Secondo la riflessione di Klein, l’aggressività occupa un posto centrale sui processi
psichici dell’infanzia. Ciò che a noi interessa considerare è l’importanza per l’infanzia
ritrovare vie sane per incanalare l’energia aggressiva, e questo dipende dall’atteggiamento
che mostrano gli adulti nei confronti del bambino. Se non si prendono in considerazione

2
La storia sessuale di Freud vede in un primo momento definito “orale” in cui il centro di piacere è rappresentato
dall’incontro del neonato con il seno materno: egli vive ed ama per mezzo della bocca, proprio come la madre lo ama
attraverso il seno. In un secondo momento, si passa alla fase “anale” in cui un altro piacere si affianca all’esperienza
libidica della nutrizione: è questa la fase del piacere legato al procedimento dell’evacuazione dell’intestino e della
vescica.
queste teorie, il rischio è quello di non considerare uno dei tratti più inattuali dell’infanzia:
ossia quello che la vede del tutt’innocente sul piano dei sentimenti e delle pulsioni (I
bambini desiderano anche sessualmente, i bambini provano vissuti di aggressività e odio
nei confronti delle figure d’amore).
Di chi sono i problemi dei bambini?
Secondo il pensiero della Dolto è responsabilità degli adulti, determinare i “problemi dei
bambini”, assumendo uno sguardo relazionale e sistemico, l’autrice suggerisce un cambio
di prospettiva: è nell’ottica degli adulti che l’educazione di un bambino si fa problematica,
ovvero i “problemi dei bambini” divengono tali perché creano difficoltà agli adulti che di loro
si occupano e prendono cura. Tali questioni, vissute come fastidi e fatiche da parte dei
genitori sono espressione, seppur ancora immatura e approssimata, di tutta una serie di
emozioni connesse all’andamento delle relazioni più significative. I problemi dei bambini
non vanno identificati come tali e non è sui fastidi derivanti dalla loro manifestazione che
andrebbero concentrati gli sforzi dell’adulto. L’attenzione andrebbe indirizzata a
comprendere quali messaggi si celano dietro queste manifestazioni. Non esistono bambini
buoni e non esistono bambini cattivi; quello che esiste è l’espressione di emozioni, non
sempre positive, che si esplicitano sottoforma di comportamenti etichettati molto spesso
come fastidiosi e problematici.
In linea con le riflessioni di Miller, la Dolto pone alle basi della sua riflessione
psicoanalitica il rispetto del bambino e la necessità di un ascolto autentico della sua
personalità, perché ci sarà sempre un momento in cui i bambini soffriranno e non saranno
felici. Educarsi al rispetto dell’infanzia e all’ascolto dei suoi bisogni serve ad essere
preparati a contenere le loro emozioni, dare loro un feedback costruttivo e aiutarli a
inserirle in un discorso di significato. L’insidia più grande nel rapporto con l’infanzia è
quella di non riuscire a riconoscere i suoi veri bisogni, dei quali fa parte anche la libertà: di
sperimentare, di sbagliare, decadere, di farsi male, infrangere… b Trovare la “giusta
distanza” nel accompagnare la crescita dei bambini è il compito più difficile: da un lato si
affacciano il rischio dell’iperprotezione e la tentazione dell’adulto di sostituirsi nei compiti
più difficili, dall’altro riemergono retaggi dell’educazione eccessivamente severa e
colpevolizzante di fronte agli errori e alle ostilità.
Il compito degli adulti è quello di consolare i bambini e aiutarli a diventare sicuri di sé nel
mondo un po’ più liberamente. Questo tipo di educazione, come sostiene la Dolto di
un’educazione del bambino al rispetto, prima di tutto d sé, che passa attraverso lo stesso
rispetto che l’adulto mostra nei confronti dell’infanzia: “educare un bambino significa
trattarlo da essere umano”.
Certi atteggiamenti volti all’umiliazione dell’infanzia di fronte alla comunità, non tengono in
mente una postura etica di rispetto nei confronti dei bambini, delle bambine e della loro
crescita. A tal proposito, Dolto parla di “perversione”, nel senso etimologico del termine
per cui pervertire significa rovesciare, del processo educativo.
Contesti “sufficientemente buoni”: dall’illusione alla realtà.
È inevitabile, secondo un’ottica che vede le scienze dell’educazione, in particolare la
psicologia e la psicoanalisi, afferenti ad un paradigma relazionale e sistematico, che il
discorso verta sui contesti che possono essere più o meno a favore dello sviluppo.
Secondo Winnicott, lo sviluppo dell’infanzia dipende in maniera complessa dal fatto che
venga offerto ai bambini un ambiente “sufficientemente buono”, ossia capace di facilitare
lo sviluppo dell’individuo in conformità alle sue molteplici tendenze innate. Il compito
genitoriale è, legato alla responsabilità degli adulti di essere sufficientemente capaci di
adattarsi ai bisogni individuali del bambino: garantendo questo tipo di risposte gli adulti
presentano all’infanzia il mondo in modo tale che essa ne tragga un’esperienza di
onnipotenza, elemento fondamentale affinché possa accettare più avanti il principio di
realtà.
Il trauma rappresenta una frattura nella continuità dell’esperienza e solamente grazie a
questo senso di continuità può realizzarsi come caratteristica della personalità individuale,
il senso del sé, del sentirsi reale e dell’esistere. Non esistono delle “tecniche” o “strategie”
ideali per garantire un ambiente a favore di sviluppo, ci sono “amorevoli cure” prestate che
costruiscono la struttura della relazione di accudimento. Lo stadio dell’onnipotenza e del
principio di piacere è cruciale per Winnicott: attraverso il pieno soddisfacimento di esso
un bambino potrà sopravvivere senza traumi al confronto con il principio di realtà.
Secondo Winnicott il successo della cura di un bambino dipende dal senso di devozione
dell’adulto e non tanto dall’abilità (tecnica) e dall’informazione intellettiva. Il compito
dell’adulto è quello di disilludere gradualmente il bambino, ma questo processo può
giungere a buon fine e solo se in principio si è stati in grado di fornirgli “sufficienti
opportunità di illusione”. Allora arriverà anche il tempo per le frustrazioni che sono molto
importanti nella costruzione del senso di Sé. Dalla possibilità e capacità di accettare i primi
piccoli grandi scacchi dell’esistenza prende avvio la costruzione del Sé e il bambino, se
accompagnato fin da subito e con gradualità dell’espressione della rabbia e del dolore,
sarà in grado da adulto, di far fronte anche a più grandi frustrazioni. Sebbene il compito di
accettazione della realtà non sia mai completato, esistono per l’infanzia delle aree definite
“intermedie” che divengono necessarie affinché il rapporto tra il bambino e il mondo si
sviluppi con una certa fluidità. Cruciali sono la possibilità del gioco, e la presenza di
“oggetti transizionali”. Questi oggetti fungono da testimone di continuità della relazione
primaria, permettendo all’infanzia di entrare nel mondo con basi “sufficientemente solide” e
fa sì che all’interno della diade, comincino ad entrare anche altri soggetti.
Lo stesso Freud, riportando l’esempio del “gioco del rocchetto” testimoniava l’importanza
per il bambino in questione della capacità di padroneggiare l’assenza della madre:
l’esperienza del proprio Sé resta costante, nonostante il fatto che la persona attraverso cui
ha sperimentato la propria identità non sia sempre presente. Il gioco secondo Freud ha
una funzione collegata al fenomeno della “coazione a ripetere”, una tendenza che spinge
l’individuo a ripetere comportamenti schematici o modi di pensare e costitutivi di
esperienze conflittuali, costringendolo a ripetere il rimosso come esperienza attuale,
anziché ricordarlo come un brano del passato. Il comportamento ripetitivo riveste nel gioco
della prima infanzia una funzione essenzialmente catartica, utile al superamento delle
esperienze dolorose e traumatiche.
Il gioco è una cosa seria
Con la crescita si affaccia la possibilità, per i bambini, di incontrarsi tra loro e di
sperimentare le prime relazione tra pari e di esprimere, mettendola alla prova, la propria
corporeità.
Il gioco è universale e appartiene alla sanità dell’infanzia e del suo sviluppo, contribuendo
a rafforzare la relazione del Sé il mondo esterno, è una delle prime forme di
comunicazione. È la fiducia nelle figure di attaccamento che produce un’area di gioco
“intermedia” (Winnicott), dove si origina l’idea del magico, poiché il bambino fa
esperienza, dell’onnipotenza (facciamo che io sono il Re).
All’interno della dimensione ludica si affaccia anche lo stadio dello star da soli una tappa
importante che viene spesso negata dalla società adulta, convinta di dover intrattenere i
bambini che altrimenti si annoierebbero senza la presenza di un adulto in interazione con
loro. In realtà il bambino sicuro è perfettamente in grado di stare da solo, a giocare, poiché
si basa sull’assunto che la persona che egli ama sia disponibile e continua ad esserlo ogni
qualvolta venga ricordata (dopo essere stata dimenticata). È attraverso questa fase (dello
stare da soli) che il bambino sperimenta il potere della solitudine, quale momento di
conoscenza di sé e di creazione della propria personalità. La capacità di solitudine è un
elemento di “sanità”, di equilibrio e di relazioni primarie positive. Lo stare da soli durante
l’infanzia rappresenta una capacità che rischia di non essere affatto considerata all’interno
della società dell’attuale, dove tutto, si deve compiere con grande godimento, chiasso e
clamore.
Il gioco richiede a chi educa di “varcare una soglia” e di modificare i propri parametri di
osservazione e conoscenza. Il gioco infantile è cosa seria che poco o nulla ha a che fare
con l’evasione e la futilità. Ogni “gesto giocato” rappresenta una apertura creativa al futuro
e indica una direzione possibile di sviluppo. Gli adulti devono saper cogliere le possibilità
di crescita insite nel gioco infantile.
I bambini hanno bisogno di limiti (a pericoli reali) perché sono proprio essi che permettono
di sviluppare il senso di sicurezza. Quando l’adulto non tollera la forma primaria di
comunicazione dell’infanzia, il suo gioco continuo, soprattutto fino a che la parola non
abbia il predominio, è difficile per un bambino incontrare uno sviluppo armonico nel suo
rapporto con il mondo esterno a sé. Un bambino che si diverte è un bambino che sta
bene: ciò vale per il bambino quando è solo, così come quando è in compagnia di altri.
Fino a che non è in grado di verbalizzare, l’infanzia ricorre al gioco simbolico (secondo
Freud, questo tipo di attività ludica può liberare il bambino dall’ansia e dall’angoscia che si
producono dall’allontanamento e dalla scomparsa della madre, riproducendo la
ricomparsa e negando la definitiva separazione), soprattutto come forma di reazione alle
prime frustrazioni e privazioni. La ripetizione ludica e la drammatizzazione diventano per il
bambino una possibilità di superamento dell’angoscia; la spinta a ripetere serve per
elaborare un evento che ha suscitato una forte pressione emotiva, il tentativo sotteso è
della ripetizione del trauma per cercare di eliminarlo. Dal gioco creativo prende forma
quell’ “essere sé” che pone le basi per sviluppare i primi tratti di indipendenza creativa.
Infanzia individualista o desiderosa di comunità?
Nella fase che segue la separazione e coincide con la padronanza del linguaggio i bambini
si cercano tra loro vivendo, seppur inconsapevolmente, un grande desiderio di comunità: è
proprio grazie le prime relazioni con il mondo e alle relative frustrazioni, che l’infante
costruisce sé stessa e crea le basi per lo sviluppo delle sue potenzialità. Secondo
Ferenczi, in questa fase, sarebbe proprio il fatto di sentire sé stessi, sentire di essere, che
postulerebbe l’esigenza di un non Io, di un qualcos’altro. L’Io è un’astrazione prima della
quale, è necessario aver fatto una “sana esperienza” del tutto (universo).
Secondo Sennet, c’è bisogno di richiamare l’attenzione sul bisogno di unirsi in un’ottica di
rete e di collaborazione le cui radici risalgono alle pratiche tribali. Il tribalismo, secondo il
sociologo, abbinerebbe la solidarietà per l’altro-simile con l’aggressività contro il
diverso-da. Va riconosciuto con Sennet che questa pratica primordiale pone le sue basi
nell’essere insieme.
Su questa linea di pensiero si inserisce la riflessione della psicologa infantile Gopnik,
secondo cui il neonato umano vivrebbe in una condizione molto fluida, in cui le facoltà
sensoriali e percettive si modificano rapidamente dando forma a capacità collaborative. I
bambini fanno esperienza della relazione e del contatto con gli adulti ed a questa relazione
dipende a loro sopravvivenza fisica ed emotiva: adulti e bambini devono imparare presto a
collaborare. Gli schemi genetici, suggerisce Gopnik, forniscono una guida. La
collaborazione diventerebbe consapevole già da quarto mese quando il neonato comincia
collaborare con la madre nel processo di allattamento: nel secondo anno di vita invece il
bambino e l’adulto, attraverso la “reciprocità”, stabiliscono un legame affettivo tramite il
processo del dare e ricevere. Entro il terzo anno fiorisce la capacità sociale di collaborare
a un progetto comune, anche tra i pari. Entro i quattro anni di età i bambini sono in grado
di osservare il proprio comportamento in modo riflessivo e di distinguere un atto dal
soggetto che lo compie (Erikson). Secondo lo schema di Erikson i bambini sono individui
autonomi; tuttavia, questo non comporta un isolamento dai coetanei, bensì una capacità di
essere riflessivi insieme. Tra i cinque e i sei anni I bambini iniziano ad accordarsi sulle
regole del gioco anziché assumerle per date.
Erikson sostiene che, dal punto di vista evolutivo, la collaborazione precede
l’individuazione, la quale (collaborazione) sia il fondamento dello sviluppo umano, nel
senso che i soggetti, prima di imparare a porsi come individui, imparerebbero a stare
insieme.
QUINTO CAPITOLO
La società dell’immagine e il cervello lento
Con l’invenzione del telegrafo (con Morse nel 1837) ha inizio la grande rivoluzione per la
società umana: si inaugura l’industria dell’informazione e le notizie prima appannaggio
personale, diventano di dominio più ampio e spesso sfuggono all’individuali possibilità di
controllo. Tra il 1850 e il 1950 si assiste ad un flusso ininterrotto di invenzioni che vedono
da un alto la cultura, uscita trasformata e dall’altro, anche i singoli individui le cui entità si
fondono in un “tutto collettivo” (Marshall).
La svolta è epocale soprattutto perché gradualmente si trasformano le modalità di accesso
alle notizie anche da parte dei bambini. Con l’avvento delle nuove tecnologie non sussiste
più quel divario di conoscenza che differenzia il gruppo degli adulti, con i loro saperi, dai
bambini che ancora non li hanno, venendo così ad attenuarsi l’idea di pudore; la sua
assenza (del pudore stesso) comporta una caduta di autorità nel mondo adulto.
Dovrebbero essere i grandi a sapere e a controllare quali parole usare o meno dinnanzi ai
bambini, e soprattutto quali azioni confinare in una dimensione rigorosamente privata. Con
la televisione tutto questo inevitabilmente cade. Secondo Postaman, la televisione viene
identificata come uno dei principali colpevoli della scomparsa dell’infanzia, rischiando di
avere ricadute sul piano dello sviluppo individuale di ogni bambino e bambina: maturità
cognitiva e maturità emotiva, non vanno sempre di pari passo: un bambino sveglio e
intelligente può certamente capire una situazione dolorosa e spiacevole, non significando
che riesca ad assimilarla sul piano emotivo. Pe questa ragione ci ritroviamo con bambini e
dopo aver guardato la televisione ripetono espressioni da grandi senza realmente
comprenderne il significato. La tesi proposta da Maffei, nel suo testo intitolato “Elogio della
lentezza” riporta l’attenzione del lettore sul fatto che il cervello umano è una macchina
lenta, che sembra contrarsi continuamente contro i ritmi dell’attuale. Secondo il
neuroscienziato, la tecnologia ha reso più veloci le comunicazioni tra agli uomini, ma
ribadisce i tempi di comunicazioni tra i neuroni sono rimasti immutati.
Caduti nella rete ed esposti alla lingua dei grandi
La televisione, i videogiochi e il Web hanno tempi veloci che non lasciano spazio alla
riflessione: questo significa per l’infanzia che essa impara, in pochissimo tempo, molto di
più di quanto in realtà è in grado di comprendere. La sfida principale della società
dell’immagine è relativa alla possibilità che l’infanzia ha o meno di interagire
soggettivamente con le tecnologie. Se con la televisione il controllo risulta più accessibile,
la rete sfugge più facilmente alle negoziazioni: si tratta di essere in movimento all’interno
di un contenitore dai confini fluidi e cui contenuti si possono fruire e scegliere, creare o
incontrare per caso. Attraverso il dominio delle nuove tecnologie dobbiamo riconoscere il
rischio che l’infanzia viva “in promiscuità” con il mondo adulto, non solo in termini di
condivisione dei contenuti ma anche di condivisione di linguaggi, che non sono mai
neutrali. Questo significa che le nostre infanzie, immerse senza protezione nella lingua dei
grandi, ne apprendono, spesso senza comprenderle, le sfumature e i tratti più violenti e
brutali. Il problema è che i bambini scoprano la realtà da subito senza aver sostato nel
regno del magico e del fatato per il tempo in cui sarebbe stato un loro diritto. Attraverso la
fusione dei linguaggi i ruoli si fanno simmetrici e l’educazione diventa una negoziazione
sempre più paritetica: si assiste al crollo dell’autorevolezza e a rischio del concretizzarsi di
un’impotenza pedagogica collettiva, con un capovolgimento di ruoli: domina una tendenza
generale all’appiattimento che distrugge la separazione tra il mondo dell’infanzia e quella
degli adulti e che da tempo aveva costituito l’unico modo per difendere i bambini.
Il bambino- consumatore e la dinamica del gioco
Gli anni Ottanta sono identificati come una data di cesura: con l’avvento del “neoliberismo”
le logiche incentrate sulla collettività e la valorizzazione del benessere comune cedono il
passo alla convinzione che il libero mercato sia il modo migliore per fare il bene degli
individui. La società da quel momento non sente il dovere di interferire con la vita del
singolo ma gli lascia la responsabilità totale delle sue scelte: si tratta del declino che la
Thatcher aveva definito il nanny state, lo stato bàlia, che finisce per soccombere le
logiche economiche di mercato, meno responsabili e democratiche (Harvey).
In questo scenario, l’ethos dominante che risponde alla logica del mondo libero e ai suoi
mercati, “sponsorizza” il possesso dei beni facendolo assurgere a sinonimo di felicità e
legato a ciò, “promette” godimento facile e veloce. In linea con i canoni di questo scenario
rientra il bambino-consumatore.
Come sostiene la sociologa D’Amato, ad oggi si può parlare di un puer oeconomicus,
connotazione prevalente nel determinare lo status sociale dell’infanzia contemporanea:
esso corrisponde e fa da contraltare all’homo oeconomicus che abita la società degli adulti
e a cui viene richiesta, solo in apparenza, l’autonomia delle scelte, che si traduce con la
possibilità di scambiare i desideri con i bisogni.
L’Infanzia è il target privilegiato dei mercati, facilmente influenzabile e terreno fertile su cui
far germinare l’induzione dei desideri. L’infanzia consumista costituisce
inconsapevolmente la migliore creazione del mondo dei mercati, i quali hanno individuato
nei mezzi di comunicazione di massa gli alleati principali.
È diffusa l’idea per cui la felicità dipenda dal rapporto con gli oggetti e dall’individualità ed
esclusività del loro possesso. Diverse ricerche hanno dimostrato questa correlazione tra
atteggiamenti materialisti e sentimenti di infelicità, fino ad ansia e depressione, oltre che
carenza di “competenze sociali”, quali cooperazione ed empatia (Barber).
Il gioco è importante e di grande valore assunto per lo sviluppo psico-fisico e sociale
all’interno dell’infanzia. Dietro le teorie consolidate e al riconoscimento universale del
diritto dell’infanzia a giocare, si nasconde una contraddizione: il gioco, inteso nella sua
accezione originaria, non dovrebbe essere l’oggetto che si possiede o che si desidera
possedere, bensì, riprendendo Bateson, una “cornice” entro cui avviene l’azione ludica.
Quello che avviene nello scenario attuale è un qualcosa che ha a che fare poco con
questo processo e si avvicina maggiormente alle logiche dell’industria dei bisogni e dei
desideri. Spesso sono gli adulti che scelgono i “giochi” dei bambini. Una delle
caratteristiche che rendono avvincente il gioco è la possibilità, da parte del giocatore di
trasformarne le regole, di inventare mentre “si fa: ciò rappresenta per il bambino la
possibilità di interagire interamente con il mondo. Tuttavia, come è già stato detto, sono gli
adulti a scegliere i “giochi” dei e per i bambini: per questo motivo, le multinazionali del
giocattolo, essendo a conoscenza dei desideri da genitori nei confronti dei giochi,
progettano giocattoli che vanno incontro ai loro bisogni e non a quelli dei bambini, il quale
(desiderio) viene introdotto solo successivamente attraverso la pubblicità.
In realtà l’unico gioco che stimola la fantasia è l’assenza di giochi. La crescita dei bambini
necessiterebbe di spazi aperti, di pause e di silenzio ma la nostra angoscia da
prestazione, da adulti insicuri, finisce per anticipare, oltre ai bisogni dei bambini, anche i
loro desideri decretando la fine di quel mondo magico e fiabesco in cui dovrebbe crescere
l’infanzia. Ma se un bambino non si confronta di tanto in tanto con divieti e frustrazioni,
sarà più difficile per lui uscire dalla fase dominata dall’illusione della sua onnipotenza e
sarà anche più difficile che impari il tempo dell’attesa in cui poter coltivare la grandezza dei
propri sogni e desideri. Bisognerebbe educare lasciando all’infanzia alla libertà di soffrire
un po’, di annoiarsi, di imparare a reggere la frustrazione, apprezzare gli sforzi ed
esercitare la volontà.
Come in un luna park: la paura della noia e il mito dell’intrattenimento
È interessante riportare alla luce come l’infanzia dell’attuale non possa affacciarsi alla
noia, condizione temuta dagli adulti perché è temuta dalla società stessa dove imperativo
dominante è quello del divertimento. Nel caso dell’infanzia gli adulti sembrano impegnati a
corrispondere senza tregua al bisogno di fornire stimoli e risorse all’infanzia: più i bambini
sono piacevolmente intrattenuti più gli adulti sono considerati dei caregiver di qualità: il
mito dell’intrattenimento sembra accompagnare le giornate di tanti genitori che lottano alla
ricerca di un equilibrio per conciliare e incasellare tempi e attività. I bambini però possono
rischiare di annoiarsi, poiché come dice Winnicott questa capacità è sintomatica
dell’equilibrio positivo nel loro sviluppo è sintomo di un rapporto significativo con gli adulti
di riferimento. Inoltre, la noia rappresenta la premessa per il progredire di un pensiero
simbolico, fantasioso e creativo, motore di crescita e sperimentazione.
Ferraris afferma il valore del silenzio che è indice una dimensione necessaria affinché il
pensiero possa spaziare, cuore e cervello possono percepire una vasta gamma di
emozioni, la mente possa operare in libertà, al di fuori dei condizionamenti e degli
stereotipi.
L’imperativo dell’intrattenimento non è fine a sé stesso ma nasconde il paradosso per cui i
nostri bambini dovrebbero divertirsi solamente nei modi e nei tempi che noi adulti
scegliamo per loro. Ma sei bambini e bambine continueranno ad immergersi in mondi
costruiti dagli altri perderanno quel potenziale creativo insito nella loro immaginazione,
attraverso cui possono rielaborare i loro vissuti e le loro esperienze. In aggiunta le attuali
neuroscienze ci dicono che alcuni gruppi di neuroni “riverberano” (Rilke) anche quando
noi non facciamo nulla: si tratta della resting-state network, ovvero una rete neurale che si
attiva quando non facciamo nulla e quando ci estraiamo dal mondo esterno. Questa teoria
fa fatica ad affermarsi; quel che emerge è l’idea che le percezioni, i ricordi, i pensieri
possono aver bisogno di una mente a riposo per arrivare al cervello e formare nuove
connessioni.
Il mondo virtuale tra gioco, consumo e dipendenza
Cosa succede all’infanzia quando il mito dell’intrattenimento incontra il mondo virtuale?
Cosa succede quando il cervello di bambini e bambine è bombardato da stimoli
elettronici? Il loro cervello non trova il tempo per stabilire nuove connessioni e trovare
nuove idee, perché impegnato a reagire agli stimoli virtuali. La rete offre infinite possibilità
di intrattenimento in riferimento soprattutto alla violenza, che riflette il clima generalizzato
che si respira nel mondo reale e ci ritroviamo, senza rendersene conto, con prodotti che
vengono definiti per bambini e per ragazzi e che realtà presentano scene molto più crude
e violente. Diversi network per l’infanzia che permettono la fruizione di giochi brutali e
violenti hanno l’obiettivo di incentivare l’effetto specchio, ovvero il desiderio dei bambini di
imitare il mondo adulto. A differenza della televisione, nei social media i bambini e gli
adolescenti si trasformano essi stessi nei protagonisti delle narrazioni che mettono in
vetrina. In questo modo, nei social network sono gli utenti ad influenzarsi gli uni con gli altri
attraverso i contenuti che scelgono di condividere he sono promossi dal mercato, senza
che esso se ne occupi esplicitamente. Infatti, gli utenti diventano agenti pubblicitari in
borghese, contribuendo ad alimentare un marketing inconsapevole ed invisibile. Tutto
questo fa leva sulla ricerca di appartenenza al gruppo dei pari che caratterizza la tarda
infanzia e la prima adolescenza, che viene soddisfatta dalla sensazione di incontrare gli
altri pur rimanendo comodamente seduti davanti allo schermo del computer di casa.
Charmet definisce questi bambini che passano la maggior parte del tempo seduti davanti
allo schermo come eremiti inaccessibili.
Piccole Lolite crescono, nel mito della seduzione
Insieme all’ “effetto specchio”, desiderio dei bambini di imitare gli adulti e di diventare
come loro, si inserisce un’altra fetta di mercato: l’adultizzazione. Uno degli esempi di
adultizzazione è il risultato dell’influenza di un certo tipo di immagini del corpo femminile
esercitata sul mondo delle bambine, molto spesso trascinate nella trappola del mito della
seduzione.
A questo proposito, riprendendo i lavori di Ferraris, la questione di genere merita un breve
approfondimento: immagini di “piccole Lolite3” che dominano lo scenario massmediatico
legato all’infanzia finiscono per rappresentare un potente modello di identificazione. Si
tratta di una negoziazione continua in cui questi repertori si sommano e competono con
quelli con cui entrano in contatto attraverso altre agenzie di socializzazione, come la
famiglia la scuola o il gruppo dei pari. Nell’era dell’immagine e dell’informazione, vengono
meno le separazioni tra il mondo adulto e il mondo infantile, anche nel caso della
sessualità, che riveste una collocazione centrale nel contesto post globalizzato.
All’infanzia, e in particolare alle bambine, è richiesto di corrispondere agli stessi modelli
degli adulti: le donne devono essere sexy e seducenti e altrettanto, le bambine, passando
innanzitutto attraverso l’erotizzazione. Si è creato un circolo vizioso in cui le stesse
famiglie, spesso animate dalle migliori intenzioni, in realtà finiscono per esercitare
un’azione di sfruttamento nei confronti di quella infanzia tanto desiderata e amata. Il
pericolo di tutto questo non è solamente il rischio di una precoce attività sessuale da parte
dei giovanissimi, bensì le conseguenze deformanti all’interno dell’immaginario sulla
corporeità, l’amore e la sessualità dei più piccoli. L’immaginario dei bambini è instabile
3
In riferimento al libro “Lolite. Storie e visioni di piccole seduttrici” di Katia Ceccarelli
poiché è ancora in corso di costruzione. La portata delle premesse di un ambiente
fortemente sessualizzato e ciò che queste stesse premesse insegnano alle nuove
generazioni, potrebbero indurre i bambini e i preadolescenti ad assumere atteggiamenti
certamente seduttivi e provocatori ma di cui non comprendono la portata. L’autore
Charmet scrive che l’erotizzazione precoce dell’infanzia, l’anticipo pubertario (che produce
prima piccoli maschi e piccole femmine al posto di bambini), la rincorsa ai valori di
bellezza, successo, visibilità, felicità personale caratteristici della società del narcisismo,
hanno avuto e continueranno ad avere un’influenza sulla maturazione affettiva degli
individui e contribuiranno a forgiare la costruzione delle coppie degli adolescenti di oggi e
dei futuri adulti di domani. Il ruolo degli adulti all’interno della società delle immagini non
pare più essere quello di prevenzione e protezione dei più piccoli, quanto piuttosto quello
di intervenire per tutelare dalla pervasività e dalla capacità di seduzione di certi modelli di
bellezza e successo sociale che trasudano da tutti gli schermi.
Corpi- bambini narcisi, tra successi, competenze e … fatica!
Charmet sostiene che i bambini e le bambine di oggi sarebbero dei piccoli narcisi, educati
sin da subito a lavorare per la piena realizzazione di sé, in risposta alle esigenze
narcisistiche dei loro adulti di riferimento e della società. Infanzia dell’attuale è chiamata
molto precocemente a mettere sulla scena, inizialmente all’interno delle mura domestiche
e via via sempre più all’esterno, lo spettacolo delle sue straordinarie competenze. Il rischio
è quello di ritrovarsi con bambine e bambini che di fatto sembrano essere stati
programmati per rispondere alle aspettative degli adulti. Il rapporto dell’infanzia con la
società sembra essere connotato dall’ansia della prestazione collettiva degli adulti che
trasformano i loro bambini in strumenti di prestigio, impossibilità di riscatto ma in un
progetto di capolavoro.
Come sostiene Juul, il bambino è competente, nel senso che è attivo sin da subito nella
relazione con gli adulti e dimostra di essere in grado di stimolare le interazioni e di
rispondervi. Le visioni odierne dell’infanzia dimostrano che i bambini nascono già
disponendo di alcune competenze che gli orientano concretamente nell’esperienza con il
mondo: Jull invita gli adulti a compiere un’attenta osservazione del bambino,
considerandolo come centro attivo di competenze e a non ridurlo come essere passivo il
cui contributo alla relazione educativa è pari a zero.
Gli adulti si ritrovano spesso catturati dalla contemplazione delle straordinarie capacità dei
loro bambini, ma ciò che li muove non è tanto il rispetto nei confronti di quel mondo
magico e misterioso che all’infanzia, quanto lo stupore misto all’orgoglio di vedere replicati
da esserini ancora così piccoli schemi e rituali tipici dei grandi. Nella società narcisistica,
l’esistenza stessa dei bambini e delle bambine, finisce per riempirsi di senso e valore solo
se è stata in grado di incontrare lo sguardo e l’approvazione degli altri. In termini di stili
educativi questo comporta il fatto che molti degli stimoli familiari, culturali e sociali
finiscono per condurre anche l’infanzia alla valorizzazione di tutte quelle aree in cui è
possibile una soddisfazione narcisistica (es. sport, scuola, musica…). Così facendo
emergono le proposte di attività scolastiche ed extra in cui poter far emergere i diversi
talenti e soddisfare i bisogni (adulti) di gratificazione, comportando il diffondersi di attività e
di proposte che poco hanno di educativo, ma che si orientano verso ideali di successo e
competizione. Queste attività finiscono per saturare il tempo dei bambini, arrivando in certi
casi ad annullare quei margini di libera espressione e di creatività tipici dell’infanzia. In
questa corsa verso il successo una tensione spiccata gli accomuna: quella verso la vittoria
e il trionfo, il cui rischio sembra essere quello di essersi focalizzati su obiettivi individuali e
personali, incentrati sulla performance del singolo e non sulle sue capacità di relazionarsi
costruttivamente con gli altri.
Esistono inoltre corpi di bambini reali e molto spesso sono corpi in sofferenza, perché in
difetto rispetto a quanto richiesto, che cercano per quanto possibile di essere osservati e
ascoltai. Sono i corpi dei bambini considerati iperattivi, quelli in sovrappeso che cercano
nel cibo un legame che forse non trovano nella realtà. Oltre a questo, un ruolo non
indifferente nel favorire un’alimentazione scarsamente equilibrata è giocato dalle
pubblicità, inserite all’interno dei programmi televisivi rivolte ai bambini. Parlando di corpi
bambini in sofferenza va rilevata una forte correlazione tra diagnosi di iperattività e ricorso
a farmaci psicotropi sin dalla tenera età: nella società occidentale si è diffusa un’etica
terapeutica per cui basta che un bambino sia un po’ vivace e turbolento per rientrare nella
macrocategoria del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Galimberti). Secondo il
sociologo ungherese Furedi, la spinta a patologizzare gran parte delle esperienze umane
risponderebbe a un’esigenza socioculturale di omologazione degli individui, non solo nel
loro modo di pensare ma anche nel loro modo di sentire.

SESTO CAPITOLO
A propria immagine e somiglianza: l’infanzia non è una proprietà privata
I bambini hanno bisogno degli adulti: sono loro che garantiscono il soddisfacimento dei
bisogni e la realizzazione di parte dei desideri. È necessario per l’infanzia, che la società
adulta torni a ricoprire il suo ruolo guida lungo il complesso cammino della crescita. Quali
sono gli strumenti che la società adulta può introdurre per ritornare a ricoprire il ruolo che
le spetta e che è fondamentale per garantire ai bambini un’infanzia degna di questo
nome? Tra i tanti, c’è la necessità che gli adulti smettano di sostituirsi all’infanzia: è diffusa
la volontà di fornire ai bambini un mondo privo di ostacoli in cui poter crescere quasi
sovrani e costruire una realtà in cui essi siano facilmente controllabili e assumano una
condotta a propria immagine e somiglianza. Chi ha responsabilità educative è chiamato ad
una presa di consapevolezza su come stiano effettivamente le cose per l’infanzia
dell’attuale e poi ad un’assunzione rigorosa di responsabilità affinché sia restituita
all’infanzia la sua “grazia rivoluzionaria” come l’ha definita Benjamin, quale antidoto ad
una società sempre più opaca. I bambini secondo Benjamin soprattutto nei primi anni
d’età, vivono un periodo di massima indipendenza ideologica. È in questa fase che gli
adulti dovrebbero preoccuparsi di fornire loro gli strumenti necessari per la costruzione di
una capacità e di una libertà di critica. Invece, a quanto pare, una delle tendenze
dominanti sarebbe costituita dall’insorgenza sempre più potente che vede il mondo degli
adulti impegnato nell’esaltazione delle competenze dei più piccoli e nella canalizzazione
dei loro talenti. Si tratta, secondo Ponti, di adulti “avviluppanti”, che circondano l’infanzia,
relegandola in una grande bolla (la famosa campana di vetro), con l’intento di proteggerla
da tutti i mali del mondo. Si vanno a creare così dei bambini totalmente dipendenti e
affatto pronti a sperimentare la vita.
È difficile uscire dal paradigma secondo cui i bambini e le bambine sono sempre in
funzione di una relazione con gli adulti e portano con sé un’appartenenza che viene data
per scontata, ma che realtà è risultato di un’affermazione prettamente storico culturale. A
questo proposito, è interessante riprendere alcuni passaggi di un testo che ha segnato
l’epoca della controcultura, in cui due filosofi francesi hanno avanzato una proposta
pedagogica e di contestazione, facendo una lettura della condizione infantile come
connotata dalla dipendenza dal mondo adulto e animata prettamente da consenso e
torpore. Gli autori sostenevano che la società adulta fosse vittima di una grande illusione:
quella secondo cui le famiglie e le istituzioni fossero “proprietarie” dei bambini, (“il bambino
è stato progressivamente spogliato di tutto quello che gli permette di esistere come essere
sociale, per diventare un bene privato”: Scherer e Hocqueghem). Questa appropriazione
sarebbe la prima grande violenza perpetrata a danno dell’infanzia. I bambini e le bambine
rischiano di essere visti e trattati non già per quello che sono ma sempre in funzione degli
adulti che saranno, rischiando di sostituirsi all’infanzia, impedendone oltre che di vivere
secondo i suoi tratti originari e originali, di sperimentarsi sul terreno della crescita e
dell’autonomia.
Educare è faticoso ed educare autenticamente richiede di ritrovarsi faccia a faccia con il
senso di colpa e la frustrazione.
Tuttavia, fare il bene dei bambini non è sostituirsi a loro e ai loro percorsi, non è fare il loro
bene evitare che si sbucciano le ginocchia o che litighino con i compagni, non è fare il loro
bene comportarsi da “adulti elicottero” (espressione per indicare quegli adulti che
volteggiano sopra i loro piccoli con uno sguardo di controllo ad ampia veduta, pronti a
planare ogni qualvolta ce ne sia il bisogno).
Il valore di regole e limiti
Nel postulare l’importanza per l’infanzia di un riconoscimento che ne sancisca le differenze
e nell’affermare il suo diritto ad essere tutelata è garantita nelle sue specificità, n si intende
sottrarre agli adulti le loro responsabilità educative. I bambini hanno bisogno degli adulti, e
la loro infanzia deve poter essere garantita, non solo come stadio della vita umana ma
anche come categoria sociale e culturale. Per fare ciò un passaggio decisivo potrebbe
essere realizzato con l’affermazione, da parte degli adulti, della propria autorevolezza.
Questo significa porsi come guide sicure e amorevoli in grado di definire limiti e regole.
Compito degli adulti, infatti, è quello di rassicurare l’infanzia nei suoi passaggi evolutivi che
deve passare attraverso messaggi di forza e di sicurezza, da trasmettere nel tempo e con
la pazienza dell’attesa. L’atto educativo attuale sembra dominato da incertezze e
confusione che portano all’incapacità di definire dei limiti e delle regole. Oggi vige uno stile
educativo più incentrato sui bisogni del bambino, che però a tratti rischia di sfociare in un
orientamento eccessivamente aperto e liberale. Questa grande difficoltà nella gestione dei
limiti potrebbe trovare un’origine proprio nell’accezione che gli adulti hanno dei bambini e
dell’infanzia. Abbiamo visto come l’infanzia sia vissuta come alterità, in parte perché
rimossa dalla memoria in parte perché inevitabilmente un po’ opaca: questo porterebbe ad
una sorta di timore dei bambini e soprattutto della loro volontà. Dolto sostiene che gli
adulti hanno paura: pensano che se si lasciasse fare ai bambini non ci sarebbero più
regole: da queste parole si intravede la possibilità per gli adulti di definire alcune regole,
pur nel rispetto di quella specificità che caratterizza l’infanzia e garantendone la
sostanziale libertà. L’infanzia ha bisogno che vengano definiti dei limiti e che questi stessi
limiti siano messi in parole, vengano detti, anche e soprattutto quando i desideri non
possono essere sempre realizzati. La verità, dosata nei modi e nei tempi, è la spinta che
permette all’infanzia di crescere e di affrontare la realtà: partendo dall’esperienza dei
bambini, vanno utilizzate parole di verità affinché essi non sentano di essere o essersi
ingannati. Dialogo e comprensione valorizzano certamente la possibilità che l’infanzia si
esprima, e al contempo garantiscono una certa onestà nel flusso di comunicazione, che
può anche porre dei limiti ed affermarsi attraverso dei no. Dire di no, nell’attuale società,
pare essere uno dei compiti più difficili e rientra all’interno di quel ruolo di adulto autorevole
di cui l’infanzia ha bisogno. Infatti, per svolgere un ruolo guida è necessario confrontarsi
anche con la possibilità di non esaudire tutti desideri: questo non significa imporsi con
severità e cattiveria sottomettendo l’infanzia alla volontà degli adulti, ma cercare di
affermare con coerenza alcuni punti fermi. Secondo Juul, sarebbe la capacità degli adulti
di tenere conto delle proprie esigenze a caratterizzare un buon ruolo guida, a trasmettere
sicurezza bambini e a garantire una relazione paritaria, intesa come il riconoscimento di
uguale dignità alle parti, e non come invece si potrebbe credere, di medesimi diritti e
doveri. La violazione delle regole poi sarà possibile e inevitabile, poiché l’infanzia cerca
sempre di soddisfare i propri desideri, ma soprattutto sarà questo il terreno in cui imparerà
a conoscere gli adulti, le loro reazioni e il loro mondo.
Le regole servono ai bambini come feedback del loro costante processo di esplorazione e
collaudo della realtà, come segni inequivocabili dei confini imposti dagli adulti per loro. Ciò
che è importante, suggerisce Juul, è la capacità di distinguere tra bisogni e desideri. I
bisogni sono fondamentali per la crescita dei bambini (vicinanza, sicurezza, cura,
alimentazione, riposo…) e devono essere riconosciuti e dagli adulti garantiti. Distinguendo
tra bisogni e desideri è impossibile viziare i figli dando loro troppo di ciò di cui hanno
davvero bisogno. I bambini viziati sono quelli che non riescono ad accettare un “no”, quelli
convinti che i loro desideri immediati possono essere esauditi sempre all’istante. I bambini
non sono consapevoli delle loro esigenze, ma sono sempre ciò di cui hanno voglia: ecco
spiegato il loro diritto ad avere adulti che guidino e insegnino loro a distinguere tra questi
due momenti. I bambini hanno bisogno che qualcuno si preoccupi per loro, che capisca
cosa sta succedendo e che contribuisca a contenere le emozioni in un clima di sicurezza e
accettazione.
Regole limiti rappresentano una palestra per la vita sociale. Se inizialmente i limiti e le
regole potranno essere visti come restrizioni e far leva sul senso di rabbia e la
frustrazione, tuttavia essi rappresentano anche dei cancelli che proteggono e fanno sentire
al sicuro, aiutando l’infanzia a sviluppare le proprie potenzialità e risorse. L’apprendimento
dei limiti richiede un tempo e i bambini hanno un loro personale ritmo di interiorizzazione, il
quale necessita di essere apprezzato e rispettato.
Il rischio è quello di far crescere bambini fragili dal punto di vista emotivo, affatto avvezzi
alla minima dose di frustrazione, circondati affettivamente da una tenerezza rispecchiante,
dallo specchio speciale, che rinvia loro un’immagine satura di valore affettivo, prodigiosa,
essenziale. Per alcuni studiosi il problema sarebbe rappresentato dal contesto: per essere
adulti efficaci c’è bisogno di un contesto efficace in cui esercitare la propria autorevolezza.
Dal potere alla responsabilità
Il rischio di un discorso sull’importanza dell’esercizio delle regole e dell’affermazione di
un’autorevolezza nei confronti dell’infanzia potrebbe indurre a male interpretare il concetto
di potere, confondendolo con la forza. Il potere che dovrebbero assumere gli adulti nei
confronti dell’infanzia va inteso nel terreno di quell’autorevolezza che serve per essere
adulti educatori e nasce da una relazione appropriata e in sintonia con le esigenze infantili,
ed è connesso con il concetto di responsabilità ed è proprio in questo sentire che esso si
rivela indispensabile al compito degli adulti. Non possiamo essere adulti che assolvono al
proprio compito se non assumendo la responsabilità che questo stesso compito comporta.
L’infanzia è dipendente dal mondo adulto, ma questo non significa che la qualità di questa
dipendenza possa essere data per scontata. Ecco che in questo caso entra in campo la
responsabilità di assumere questo tipo di potere in una direzione a favore di apertura di
spazi di possibilità. Il punto essenziale non è tanto l’abilità degli adulti di farsi rispettare,
quanto la qualità della relazione che l’infanzia vive con gli adulti che ne sono responsabili.
Tra le responsabilità degli adulti rientra anche quella di dare potere all’infanzia, non nel
senso di farla regnare incontrastata nei contesti quotidiani, bensì di aiutarla a divenire
davvero protagonista competente all’interno del proprio percorso di crescita. Gli adulti,
nella società di consumi, dovrebbero affinare la capacità di sottrarre cose ed esperienze
anziché di aggiungerne. Una distanza emotiva garantita dalla asimmetria è necessaria per
favorire la capacità dell’altro, in questo caso il bambino, di sviluppare la propria autonomia,
il proprio essere persona originale e separata dal destino degli adulti preposti alla cura. La
responsabilità si profila in termini di osservazione e ascolto dell’infanzia e si concretizza
nella capacità degli adulti di porsi al servizio della crescita dei bambini. È una grande sfida
che richiama la società adulta al suo impegno più autentico. Novara, suggerisce alcune
linee di operatività, per andare nella direzione di un’educazione che realmente rispetti
l’infanzia: egli propone il recupero della socializzazione spontanea dei bambini e delle
bambine, per poter restituire all’infanzia gli spazi in cui essa si possa incontrare,
frequentare, aggregare liberamente. Oltre a restituire gli spazi andrebbero anche liberati in
modo da favorire la creatività infantile. Infine, è doveroso assumersi la responsabilità di
offrire all’infanzia la possibilità di osare, ossia di vivere esperienze dirette e reali in cui
confrontarsi con l’arte, con il cinema e con la natura. I bambini hanno bisogno di rischiare,
di sfidare sè stessi e mettersi alla prova.
“Fare spazio al possibile” accogliendo le domande dell’infanzia
A sostegno di un’educazione all’infanzia che rispetti l’essenza è interessante riprendere
alcune riflessioni di Dolci sulle condizioni essenziali che dovrebbero caratterizzare
l’esperienza di cura. L’autore scriveva “ciascuno cresce solo se sognato” sostenendo il suo
pensiero, in linea con la pedagogia maieutica, in cui l’ambiente educativo e con esso i suoi
attori dovrebbero essere in grado di infondere il desiderio della conoscenza e soprattutto
della ricerca creativa. Per questo motivo Dolci propone un metodo fondato
essenzialmente sull’arte del domandare, sul “tirare fuori”, del porre l’altro (il bambino) nella
condizione di allargare i propri orizzonti e di apprendere attraverso la curiosità e le
domande. Un atteggiamento euristico che sia in grado di contrastare le tendenze
conformiste e “anti” pensiero critico. Le domande per Dolci sono un invito a interrogare
l’esistente, soprattutto quando sembra ovvio e già dato. Le domande, al contrario delle
risposte, tengono la mente al lavoro e alimentano la miccia della creatività: le domande
dell’infanzia sono importanti e attraverso di esse passa la possibilità per i bambini e le
bambine di costruire la propria identità e di emanciparsi interni di pensiero critico e di
creatività. A questo proposito è opportuno un richiamo alla proposta problematicista di
Bertin, per cui l’educazione, dovrebbe porsi accanto al soggetto per accompagnarlo nel
passaggio dalla condizione data (che non ha scelto, e da cui discendono i suoi
condizionamenti di partenza) verso la ricerca di uno stile esistenziale, autentico, che
sostituisca al repertorio della “passività che subisce” quello del “protagonismo che
sceglie”. Per diventare soggetti progettuali occorre essere vocati alla progettualità fin da
piccoli, in più contesti e da più soggetti (Contini). Da qui deriva, nella riflessione di
Contini, una definizione molto chiara di deontologia pedagogica, ossia l’impegno da parte
di chi educa di confrontarsi costantemente con la “condizione data” dei soggetti cui si
rivolge, una “condizione pesante” che ha il potere di orientare il cammino e a volte di
ostacolarlo. L’obiettivo fondamentale dell’educazione è quello di promuovere nei suoi
soggetti un impegno a essere protagonisti, per quanto possibile, della propria esistenza.
La proposta di Contini è racchiusa nell’espressione “fare spazio al possibile per tutti,
nessuno escluso” indicando una promozione del possibile in apertura di spazi esistenziali
in termini metodologici, implicando l’esigenza c he più strade siano intravedibili e
percorribili; ciò significa che per tutti (soprattutto e anche i bambini, a cui deve essere
garantita l’infanzia nei suoi tratti più autentici e originali) bisogna promuovere l’impegno e
la capacità di tendere alla propria emancipazione. A questo proposito è opportuno un
richiamo alla “Convenzione internazionale sui diritti all’infanzia”, la quale riconosce ai
bambini la titolarità dei loro diritti e tra di essi annovera il diritto all’educazione e allo
sviluppo. L’infanzia cresce solo se sognata, ossia se resistiamo, noi adulti, alla tentazione
di incasellarla in percorsi che non sono coerente con essa o che non tengono conto di
tutte quelle strade che potrebbe percorrere e tutte le occasioni che potrebbe incontrare.
Il rispetto dell’infanzia passa per la “cura”
Per concludere questa pagina è necessario fare riferimento al concetto di cura educativa,
categoria chiave d’educazione infanzia, che però rischia nel contesto attuale di essere
data per scontata. Esiste il pericolo che contesti di cura all’infanzia si richiudono su loro
stessi, dimenticando l’impegno primario, ossia quella di garantire ai bambini uno sviluppo
armonico e, in una parola, la loro infanzia. Con la diffusione, negli anni Sessanta dei
servizi per la prima infanzia (pionieri sono i primi servizi dei Comuni di Reggio Emilia,
Bologna e Modena) su gran parte del territorio nazionale, la cura cessa di essere un
fenomeno essenzialmente privato e legato alle sorti della famiglia di origine e diviene
paradigma che orienta prassi socialmente rilevanti in cui si tiene in considerazione
l’infanzia come terreno fondamentale di crescita e sviluppo di bambini e bambine. La cura
nelle sue diverse accezioni è espressione di un legame inscindibile con l’educazione,
soprattutto se si parla di infanzia. Nel tentare di definire la cura Mortari, rintraccia nei
diversi approcci offerti, gli elementi essenziali che ne danno il colore e il senso. La cura è
parte integrante dell’esperienza umana e, nel caso specifico dell’educazione, essa si fa
pratica: non è semplicemente idea o sentimento, ma è qualcosa che si fa nel mondo in
relazione con altri. L’adulto che si prende cura dell’infanzia cerca di conoscerla attraverso
l’ascolto dell’osservazione, in una postura di rispettoso silenzio e contemplazione di
qualcosa che ha a che fare con la meraviglia. La cura, dunque, non appartiene solamente
al piano delle premesse teoriche, ma si delinea come in pratica, come insieme di azioni
che implicano precise disposizioni e mirano a precise finalità. La cura è un altro modo di
chiamare lo “sguardo progettuale” o il “sogno del non ancora” di cui, dovrebbe essere
dotato chiunque abbia responsabilità educative. Nella sua grande opera “Essere e tempo”,
Heidegger ci racconta la favola antica della cura, in cui essa è impegnata nel complesso
compito di impastare l’argilla per dare origine a soggetto umano. Ma prima di creare il
soggetto, la cura lo immagina, prefigurandosi dunque la possibilità del suo essere prima
ancora che esista. Lo immagina, ne delinea il profilo, ne prospetta la forma aprendo una
pluralità di strade percorribili, affinché egli possa individuare e costruire le tappe della sua
realizzazione. Questo riguarda quello “sguardo progettuale” che l’umanità adulta deve
assumere ogni volta che si rivolge all’infanzia: nel rispetto dei suoi diritti e nella
promozione delle sue possibilità, nessuna esclusa. L’infanzia non può nemmeno esistere
se non se n’è presa preliminarmente in carico l’idea e, con essa, il pensiero della sua cura.
La prospettiva della cura dovrebbe valorizzare tutti i soggetti coinvolti, promuovendo
esperienze educative che si sforzino di tenere insieme il piano più strettamente cognitivo
con quello dell’alfabetizzazione alle emozioni, il piano dello sviluppo armonico del sé con
quello della convivenza sociale. Solamente in questo modo, l’impegno pedagogico
all’insegna di una cura autentica, potrà intercettare le domande e i bisogni di tutti, anche di
coloro che sono scarto e che rischiano di rimanere ai margini dell’azione educativa. A
mettere in moto un’azione di cura, ci dice Mortari, è l’interesse per l’altro, inteso come
inter-essere , ovvero un guardare all’altro mosso dal sentirsi in connessione con lui, mosso
da una preoccupazione per lui. Questo altro, nel caso dell’infanzia, si trovi una condizione
necessaria di dipendenza dall’adulto per cui l’azione di cura è inevitabilmente legata alla
dimensione relazionale complessa e delicata. Ecco, quindi, la necessità di trattare
l’infanzia con rispetto e delicatezza, con uno sguardo silente e in ascolto che cerca di
entrare in contatto con l’alterità della sua dimensione. La cura è accompagnare l’infanzia
senza dominarla, parlarle senza ambiguità e senza metterla in confusione, proporre la
propria visione delle cose senza imporre alcuna verità.

Rovesciando la prospettiva: postilla non conclusiva


A seguito delle pagine di denuncia del fenomeno dell’adultizzazione dell’infanzia e delle
pagine di ammonimento sul bisogno profondo di bambini e bambine di adulti che siano in
grado di essere guide sicure oltre che amorevoli, crediamo di poter chiudere questo testo
rovesciando completamente la prospettiva, cioè portando alla luce ciò che l’infanzia
stessa, quella più autentica, può donare alla società. In questo passaggio ci può aiutare il
recupero della celebre favola di Andersen sul bambino che vede l’imperatore nudo (“I
vestiti nuovi dell’imperatore”): in questa favola troviamo un’idea che rimanda ad una
rappresentazione dell’infanzia che ha a che fare con il suo essere sapiente. Alle origini sta
l’innocente verità, “il re è nudo”, una sapienza nascosta via via perduta con l’incedere
dell’età adulta. Prima che gli adulti intervengano il bambino conosce la verità. È evidente
che non ci riferiamo a verità assolute, ma si suggerire di riportare l’attenzione ai processi
di conoscenza che l’infanzia mette in atto, alle sue modalità euristiche, al suo procedere
con curiosità e con innocenza. I bambini si trovano sulla soglia del mondo e da questa loro
“liminalità”, questo non- essere- ancora, possono, se ascoltati, farsi tramite di realtà altre
rispetto a quelle già date e conosciute agli adulti. Nella favola di Andersen trova
espressione un mito antico, quello dell’infanzia come momento alto della conoscenza, un
momento che gli adulti dovrebbero imparare a rispettare e a recuperare anche per sé.
Un altro esempio riguarda il fanciullino di Pascoli: secondo il poeta ogni adulto reca in sé
un fanciullo che sa ragionare in modo fanciullesco e che d’un tratto, senza farci scendere
uno ad uno i gradini del pensiero, ci trasporta nell’abisso della verità. L’infanzia vede tutto
con la meraviglia della prima volta e in questo è molto simile ai poeti e agli uomini primitivi,
non troppo agli adulti che ormai disincantati, di lei si prendono cura. Il contatto con
l’infanzia diviene occasione, per il mondo adulto, di esperire qualcosa di nuovo o di
dimenticato.
A questo proposito è interessante la proposta di alcuni filosofi, che partendo dalla pratica
di fare filosofia per i bambini (ideata negli anni Sessanta da Lipman, filosofo di formazione
dewayana, interessato a problematiche pedagogiche e fondatore dell’IAPC) sono arrivati
ad elaborare alcuni pensieri riconducibili ad un filone di pensiero definito filosofia
dell’infanzia. Secondo questi autori proprio a partire dalla pratica filosofica e dal metodo
dell’indagine, attraverso cui si accompagna l’infanzia nella costruzione di un pensiero
critico e creativo, si può prendere qualcosa anche su quanto questa delicata fase della vita
possa dare alla società adulta: nasce così la Philosophy of Childhood, che riconosce
l’infanzia come oggetto filosofico con una sua dignità e che cerca, attraverso gli strumenti
dell’indagine euristica, di dare voce alla specificità di bambini e bambine. In altre parole,
l’infanzia diviene educatrice degli adulti, in particolare nel recupero della loro capacità di
fare domande e indagare la realtà. Il tempo dell’infanzia è il tempo della creatività e della
ricerca filosofica, è il tempo della scholè (Kohan) un’educazione che dovrebbe rendere il
soggetto libero di agire e di pensare al di fuori del l’assillo di aspettative altrui e interessi
etero diretti. Si tratta di una scholè che affonda le radici nella meraviglia e nello stupore, in
un pensiero che muove e si muove: ciò che conta è la possibilità di immaginare un’altra
posizione. Il compito della filosofia dell’infanzia dovrebbe essere quello di aiutare il
recupero di questa scuola, di impegnarsi a costruire un’educazione che sia coerente con
essa, che si snodi attraverso le sue voci. Per fare ciò è necessario mettere in discussione
l’adultocentrismo che domina gran parte dei tentativi di prendersi cura educare l’infanzia.
La teoria della conoscenza degli adulti tende ad escludere l’infanzia e con essa il suo
pensiero e la sua esperienza; tuttavia, non si riuscirà a recuperare la voce esclusa dei
bambini fintanto che si continuerà a credere e dimostrare che essi non sono in grado di
pensare. Ecco dunque che la filosofia, nel suo incontro con l’infanzia, può aiutarla a patto
che ne ascolti e rispetti le domande, a raggiungere autonomi livelli di pensiero. Ma non
solo; anche la filosofia può essere a sua volta aiutata. Anche i bambini decidono, anche i
bambini producono pensiero, anche i bambini costruiscono idee. Imparare ad ascoltare le
voci dell’infanzia significa apprendere l’incontro con la differenza, con l’espressione di
filosofie, di ragioni, di teoria della conoscenza e di un’etica differenti. Spetta all’educazione
il delicato compito di creare le condizioni in cui i bambini possono pensare ed esprimere
liberamente ciò che hanno pensato, in cui tutte le domande sono possibili e vengono
accolte. La tradizionale idea di educazione, quella di plasmare l’infanzia e farla diventare
adulta, sottende una specifica idea d’infanzia che ha a che fare con il tempo cronologico
della vita. Se abbandonassimo un’idea di plasmare l’infanzia e farla diventare adulta le
cose cambierebbero. Nella proposta di Deleuze, l’infanzia diviene uno spazio di
trasformazione: l’autore parla di diventare un bambino (becoming-child) e fa riferimento a
un flusso, ad un processo, che essendo minoritario, richiede uno spazio di resistenza alla
cui fonte si possono attingere creatività e differenza. La proposta è quella di un rifiuto
dell’idea di infanzia come semplice tappa evolutiva, breve, insignificante, in attesa della più
importante trasformazione nell’età adulta: il suggerimento è quello di ricercare, nell’età
adulta, le tracce dell’infanzia passata. L’infanzia, quindi, smette di essere vista come uno
stadio che deve essere superato e diventa una condizione da nutrire e di cui prendersi
cura. La proposta è quella di imparare a diventare bambini praticando una Childlike way of
being nel mondo. I bambini sono meno “pieni”, più aperti e pronti a mettersi in discussione.
Occorre imparare ad affrontare la vita come essi se sono abituati a fare, come se si stesse
facendo qualcosa per la prima volta, come se ogni cosa fosse ancora possibile4. In questo
approccio, centrale è il rispetto per l’infanzia e in particolare per il suo modo di esprimersi
e ragionare: i bambini sono a tutti gli effetti partner nell’indagine filosofica e questo è
l’unico contesto in cui ha senso parlare di simmetria. Perché il processo di pensiero, sia
esso adulto o infantile, ha pari dignità di esistere e soprattutto di essere espresso e posto
in condivisione. Il pensiero dei bambini può essere un dono inestimabile alle orecchie di un
adulto che sappia ascoltarlo, ben venga dunque una simmetria, se espressa in termini di
rispetto di ciò che anche l’infanzia è in grado di realizzare. All’infanzia, la società adulta
deve in primis il suo rispetto, e può farlo imparando a riconoscere la filosofia nei bambini, a
rispettarla quando compare e infine parteciparvi incoraggiandola.

4
L’infanzia è il regno del “come se”, del “facciamo finta che” del “e se le cose fossero diverse”, la novità di ogni nascita
va presa seriamente.

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