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STORIA

CONCETTO DI SOCIETA' DI MASSA DALLA FINE


DELL' OTTOCENTO AI PRIMI DEL NOVECENTO
(Vedi 1°Cap.Profili storici XXI secolo,dal 1900 a oggi, da pag. 4 a 21 e
da 34 a 59).

ZYGMUNT BAUMAN (1925-2017, sociologo, filosofo polacco


di origini ebraiche)
"SOCIETA' LIQUIDA"
Cosa si intende esattamente per società liquida? Con la crisi del concetto
di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più
compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo
soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile e,
mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di
liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come
nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono
da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo.
Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di
desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa
da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. La modernità
liquidaè la convinzione che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che
l'incertezza è l'unica certezza.

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Vita Liquida di Zygmunt Bauman, uno dei più noti ed influenti intellettuali
del Novecento, è un’opera pubblicata nel 2005, che costituisce la terza e
ultima parte di un’analisi all’interno di quella che viene definita dallo stesso
autore modernità liquida, una proverbiale e folgorante metafora attraverso
cui Bauman definisce la postmodernità.
Il sociologo e filosofo polacco infatti ha paragonato il concetto di
modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e a quello
liquido della società. Il progetto è composto oltre che da Vita Liquida,
oggetto di questa recensione, anche da Modernità liquida e Amore liquido.
La vita liquida è una vita di consumi.
È sufficiente questa definizione per capire dove l’analisi di Bauman, vuole
concentrarsi. Nell’epoca del consumismo più sfrenato ciò che conta, dirà
Bauman in un notevole passaggio, “è la velocità, non la durata”. Capire cosa
intenda esattamente Bauman con vita liquida può sembrare piuttosto
semplice ad un primo sguardo, ma le diverse definizioni che troviamo nel
testo, denotano la discreta poliedricità di enunciazioni che questa “liquidità”
palesa. La vita liquida è precaria. È quella vissuta in condizioni di incertezza.
La vita liquida è una successione di nuovi inizi; mette al bando l’eternità e
la fedeltà. E quella che si alimenta dell’insoddisfazione dell’io rispetto a se
stesso. Insomma è la vita che gravita nella profonda preoccupazione che
attanaglia la società moderna e che viene amplificata secondo Bauman dalla
trasformazione dei protagonisti della vicenda che da produttori diventano
consumatori. Altra grande intuizione di Bauman è quella unire tra di loro i
concetti di consumismo con creazione di rifiuti umani e globalizzazione con
industria della paura. Le sicurezze svaniscono dunque in questa dimensione.
La vita liquida è per definizione frenetica, in tutti i suoi aspetti, che non si
ferma e non si può fermare per alcun motivo e in nessun modo.
Tuttavia la parte fondamentale di questa società liquida-moderna
consumistica, teorizzata da Bauman, è ciò che viene consumato. Tutto è
oggetto di consumo, compresi gli esseri umani. Ogni oggetto deve trovarsi
nella condizione di avere una data di scadenza, perchè deve poter essere
superato, aggiornato, eliminato e smaltito in qualsiasi momento.

La crisi dell’individuo, il consumatore e il pensiero nei tempi oscuri


Il testo, suddiviso in sette capitoli, raggiunge secondo il mio parere, spunti
di riflessione notevoli soprattutto nel primo, nel quinto e nel settimo
capitolo, intitolati rispettivamente l’individuo sotto assedio, il consumatore
nella società liquido-moderna e pensare in tempi oscuri (rileggendo Arendt
e Adorno).
Bauman è piuttosto duro nell’affermare che l’individualità è terribilmente
entrata in crisi: “una crisi gravata da una aporia congenita, da una
contraddizione insanabile. Essa ha bisogno della società”. È dunque la
società degli individui a costringere i suoi membri a farsi carico della
propria individualità, per cui è soltanto essa la sola che può fornire a questi
membri i mezzi per condividere con l’impossibilità di essere singoli individui
nella società liquida. Aggravante paurosa di tutto ciò è il fatto che la
“contesa per l’unicità è il principale motore della produzione e del consumo
di massa”. Ad emergere in questo quadro è l’homo eligens. Bauman ne dà una
straordinaria definizione:
L’homo eligens è l’uomo che sceglie, non l’uomo che ha scelto, di un
io stabilmente instabile, completamente incompleto, definitamente
indefinito e autenticamente inautentico.
L’homo eligens vive in perfetta simbiosi col mercato dei beni di consumo.
Entrambi non potrebbero sopravvivere se non si sostenessero a vicenda.
Parliamo di uno stile di vita, di un modo di vivere profondamente inautentico,
perché i pezzi dell’identità vengono forniti solo ed esclusivamente
sottoforma di beni di consumo che si trovano nei centri commerciali.
La società dei consumi riesce a rendere permanente la non-
soddisfazione.
Con questa frase Bauman introduce la riflessione che si sviluppa all’interno
del capitolo dedicato al consumatore. I prodotti di consumo, secondo il
filosofo, vengono denigrati e svalutati subito dopo essere stati lanciati nel
mercato. Le necessità, i desideri ed i bisogni vengono continuamente
soddisfatti proprio
per dar vita ad altre necessità, desideri e bisogni. È questa la vita che
consuma e gli esseri umani non sono altro che dei consumatori.
Il consumismo dunque non riguarda secondo Bauman il soddisfacimento dei
desideri ma l’evocazione di un numero sempre maggiore di desideri. Il
desiderio esaudito per il consumatore non è affatto piacevole; ci deve
essere un meccanismo incessante che genera, sette giorni su sette e
ininterrottamente desideri. Il consumatore ideale, infatti, è colui che non
smette mai di desiderare e di continuare ad alimentare questa sequenza
ininterrotta di desideri. Bauman intesse su queste corde una riflessione di
ampio respiro che analizza con precisione tutte le vicissitudini, le
aspettative, le condizioni entro cui si muove il consumatore all’interno della
società moderna consumistica.
I tempi oscuri in cui viviamo, sulla scorta di Arendt e Brecht, necessitano
di una presa di coscienza forte. Consapevoli di questa dimensione
riprendere in mano l’opera di Hannah Arendt e di Adorno, assume per Bauman
un’importanza decisiva. È chiaro che lo strumento da prediligere in
quest’ottica è la filosofia. La filosofia, che secondo Adorno esprime “la
decisione della libertà intellettuale e reale”, pur consapevoli dell’immane
difficoltà con cui i filosofi, oggi come allora (si pensi al mito della caverna
di Platone e al destino tragico dei filosofi che desideravano condividere con
i compagni nella caverna la grandezza del mondo reale), devono confrontarsi.
Tutto questo è ancora più difficile per via dell’inclinazione del gruppo che
secondo Freud, “desidera essere governato con forza, nutre una passione
estrema per l’autorità, ha sete di obbedienza.
Lo spunto di riflessione più importante, Bauman lo introduce nel capitolo
dell’individualismo. Si tratta di un tema molto importante da un punto di
vista strettamente filosofico, per il quale è opportuna un’ultima
considerazione. È probabile che Bauman ritenga (e questo si evince in più di
un passaggio) che in una società liquido-moderna, una qualsiasi forma di
individualismo sia impercorribile, perché si riduce ad essere solo un
argomento di vendita. A questo punto, se essere individui significa essere
diversi da chiunque altro, il paradosso nasce dal fatto che io ho necessità
di porre l’accento proprio su quell’altro da cui non posso fare a meno di
essere diverso.
Bauman sembra escludere a questo punto ogni individualismo. Ma chi pensa
in maniera critica e autonoma è disposto a rinunciare alla propria essenza
di individuo? Proprio questo paradosso rende interessante la sua riflessione.
Il mio status di essere individuo è possibile solo all’interno di un confronto
con l’altro. È lì che si avverte la propria diversità. È impossibile trovare la
propria individualità costruendosi una vita diversa da quella di un altro. Solo
la stretta collaborazione tra esseri umani fa di questi degli individui. Ma se
tutti ci consideriamo individui, nel senso che desideriamo riconoscerci tutti
diversi, non finiremo alla fine per essere inevitabilmente tutti uguali?
Vita liquida non è un testo semplice ma merita di essere letto perché è su
riflessioni filosofiche come queste che l’uomo emerge dal pantano e
costruisce una propria dimensione critica, all’interno di una spietata società
che tende sempre di più a comprimere le menti, inculcando metodi e sistemi
prestabiliti, con l’obiettivo di annichilire il pensiero.

La Scuola di Francoforte è stata una scuola sociologico-filosofica


influenzata dalla tradizione hegeliana, caratterizzata da una innovativa
interpretazione marxista e ispirata anche dalla lezione di Max Weber.
È stata fondata a Francoforte nel 1922 con il nome di Istituto per la
ricerca sociale. Le caratteristiche principali di questa scuola sono la
spiccata vocazione interdisciplinare, la riflessione filosofica ispirata a
Marx ed Hegel e la forte critica alla società capitalistica, che spesso
portò i suoi esponenti a maturare uno spiccato pessimismo. Gli esponenti
principali furono filosofi del calibro di Marcuse, Horkheimer, Adorno e
Benjamin, economisti come Grossmann e Pollock, psicologi eccellenti
come Erich Fromm e sociologi come Franz Neumann. Il più grande
esponente della seconda generazione della Scuola è senza dubbio Jürgen
Habermas.

HERBERT MARCUSE (Berlino, 1898-1979, filosofo della Scuola di


Francoforte)
L’UOMO A UNA DIMENSIONE (1964)
Marcuse è stato l’esponente francofortese che ha avuto la maggiore
notorietà e il maggior peso dal punto di vista politico. Fu colui che integrò
il marxismo con la psicanalisi freudiana, criticando aspramente la società
capitalistica che non solo è stata colpevole per avere represso il principio
di prestazione dell’uomo, ma ne ha anche mortificato gli istinti.
Autore di altre pregevoli opere come Eros e civiltà pubblicato nel 1955 e
Ragione e rivoluzione del 1941, tuttavia è L’uomo a una dimensione il suo
testo più famoso, apprezzato, tradotto e diffuso. L’uomo a una dimensione
riesce ad avere un successo di pubblico impressionante, soprattutto a
livello giovanile. Diventerà uno dei testi di riferimento del movimento
sessantottino: un libro che consacra Marcuse a maestro della nuova sinistra.
Un’opera che col suo linguaggio filosofico complesso e rigoroso, ricco di
concetti avvincenti, dallo straordinario acume politico, si districa in
maniera egregia tra risonanze hegeliane e marxiste.

Chi è l’uomo a una dimensione?


Ne "L’uomo a una dimensione" Marcuse sottolinea come l’uomo della società
industriale avanzata sia un uomo standardizzato e omologato secondo
precise esigenze del sistema economico e sociale. Questo sistema si
presenta come totalitario perché pone in essere una sorta di
amministrazione totale dell’esistenza che è ridotta, di fatto, a una sola
dimensione. All’interno di essa si riducono anche i bisogni e le aspirazioni
umane. Quest’unica dimensione dove vengono incanalati l’esistenza, i
desideri e le necessità degli uomini è quella del consumo.
Marcuse a tal proposito introduce un termine decisamente azzeccato,
quello di “tolleranza repressiva”. Si tratta di un sistema ideato dalle classi
di potere che estende sì le libertà individuali delle persone (libertà di
opinione, di parola, di stampa ecc), ma lo fa in maniera apparente. È un
sistema che si limita a dare concessioni fittizie, che non ledono
minimamente gli interessi e gli obiettivi dell’ordine esistente, e di contro,
ne rafforzano il conformismo generale.
Un individuo che è libero di scegliere tra i vari beni che ha a disposizione,
con i quali soddisfare i propri bisogni, non è veramente libero, nel senso più
profondo del termine, e quindi nel senso filosofico. Questa non è una prova
della sua libertà, ma è una dimostrazione di come l’individuo è soggetto al
controllo e al dominio della società. I bisogni infatti sono creati dal sistema
capitalistico anche se sembrano spontanei.

Questo testo smascherava finalmente con parole precise e severe come le


democrazie non fossero altro che espressioni e forme di una società
bloccata; immobile sia da un punto di vista politico, che economico, e
ovviamente culturale. Ma bloccate anche sul piano della speranza di un
cambiamento futuro. Il vero protagonista, l’uomo, che ruolo ha in questa
società? Nessuno. O meglio interpreta il ruolo del fantoccio. Ecco a cosa si
è ridotto l’uomo. Ad essere un automa, un indegno burattino manipolato e
scortato dall’incessante desiderio di sviluppo della nuova società industriale
avanzata. Essa, si sa, è orientata a perseguire, sotto la perenne sete di
profitto, il dominio tecnologico assoluto, tanto sulla natura quanto sull’uomo,
che a questo punto non ha più nessuna voce in capitolo.
Le decisioni relative alle questioni di vita o di morte, di sicurezza
personale o nazionale, sono prese in luoghi sui quali gli individui non
hanno alcun controllo. Gli schiavi della società industriale sono schiavi
sublimati, pur sempre schiavi poiché la schiavitù è determinata non
dall’obbedienza, bensì dalla riduzione dell’uomo allo stato di cosa.

Anche il linguaggio, un linguaggio rituale-autoritario, dell’amministrazione


ha un compito fondamentale: è un linguaggio totale, un linguaggio unificato,
funzionale, irrimediabilmente anticritico, antidialettico e antistorico.
Il linguaggio non soltanto riflette il controllo della società ma diventa
esso stesso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette
ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non
sottomissione ma libertà L’ordine si traduce in informazione.
L’obbedienza diventa scelta. La sottomissione è libertà.

Davvero grande intuizione. Perché il linguaggio è diventato anche una forma


di controllo (a maggior ragione oggi), nel momento in cui abbiamo una
riduzione delle forme linguistiche e dei simboli che usiamo, mediante la
sostituzione delle immagini ai concetti.
Marcuse delinea i tratti dell’uomo a una dimensione in maniera ineccepibile.
Eccolo dunque il borghese inquadrato, chiuso nel becero culto dell’interesse
privato, appagato dallo sciocco benessere materiale, indifferente allo stato
di cose esistenti nel mondo e immunizzato da ogni istanza di cambiamento.
E quell’uomo a una sola ed unica dimensione,(indifferente allo stato di cose
esistenti nel mondo e immunizzato da ogni istanza di cambiamento),
descritto anni fa è lo stesso individuo alienato della nostra società attuale;
colui per il quale la ragione è identificata con la realtà. Per lui non c’è più il
sacrosanto distacco tra ciò che è e ciò che deve essere. Non ci sono altri
modi di essere. C’è solo l’unico mortificante sistema entro cui questo
individuo vive. Il sistema tecnologico ha, infatti, la capacità di far apparire
razionale ciò che è irrazionale e di instupidire l’uomo a tal punto da farlo
vivere all’interno di un universo virtuale dove si identifica pienamente.
In palio vi è la possibilità di pensare e di parlare in termini diversi
da quelli dell’uso comune.

La soluzione di Marcuse: i reietti come nuovi soggetti rivoluzionari


Se le masse non si autodetermineranno e non andranno a creare individui
liberi da ogni indottrinamento e da ogni manipolazione non c’è speranza
alcuna. È necessario creare un “Soggetto storico nuovo”.
Lo sviluppo tecnico ed economico ha consentito di integrare totalmente i
lavoratori all’interno di meccanismi della società capitalistica e questi solo
all’apparenza sono democratici, quindi è necessaria un’opposizione totale,
rivolta contro questo modello unidimensionale di società che è stato
imposto. Marcuse auspica l’avvento di un pensiero che pronunci il Grande
Rifiuto verso questa società, per concepire una società ideale, decisamente
diversa. L’uomo deve essere in grado di immaginare un ordine sociale che si
sviluppi non in una sola dimensione ma in molte dimensioni. Deve erigere un
ordine sociale nel quale egli abbia una libertà autentica e nel quale egli possa
soddisfare i suoi bisogni reali non quelli indotti dal sistema di produzione.
Ma chi è il soggetto rivoluzionario in grado di operare un simile
cambiamento? Non il proletario secondo Marcuse, che ormai è ovunque
integrato e omologato. Occorre prendere in considerazione un soggetto non
ancora integrato nel sistema. Dobbiamo guardare - dice Marcuse al
sostrato dei reietti, degli stranieri, degli emarginati, degli esclusi,
sfruttati e perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi
permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia
immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro
opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il
sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole
del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato […]. Il fatto che essi incomincino a
rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l’inizio della fine di un periodo...
Sono loro, queste soggettività marginali (sebbene non abbiano ancora
chiara coscienza del proprio ruolo), gli unici che possono rappresentare un
antagonismo oggettivamente rivoluzionario, in quanto al contrario del
proletario, non sono più vincolati al sistema capitalistico.
Oggi purtroppo il Grande Rifiuto ed il Soggetto storico nuovo sono ancora
in fase di elaborazione e progettazione. Sta aumentando, è vero, la
coscienza critica, ma ancora non basta.

MARC AUGE' (1935, antropologo, etnologo, filosofo francese)


Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1992).
In questi ultimi decenni con l'involuzione della società, il concetto di luogo,
così come lo abbiamo conosciuto è radicalmente cambiato.
I rapporti tra gli individui sono sempre meno reciproci, si tende inoltre a
essere sempre più sradicati rispetto ai luoghi che abitiamo perchè si è
persa la consapevolezza della propria memoria. Siamo da tempo
drammaticamente entrati nell'epoca del non-luogo. Il processo di
spersonalizzazione avanza inesorabile verso un punto di non ritorno.
Augè definisce i non-luoghi come quegli spazi che hanno la prerogativa di
non essere identitari, relazionali e storici.
Le nuove megastrutture che Augè definisce non-luoghi sono la
rappresentazione fisica della società globale, ma anche la rappresentazione
architettonica di un mondo senza confini in cui siamo precipitati senza
alcuna speranza di ritrovarci. Augè, antropologo della contemporaneità e
della surmodernità, con il non-luogo ha fotografato tutti i drammatici
paradossi dell'esistenza. Attraverso i paradossi del non-luogo ha
fotografato la condizione umana liquefatta e in uno stato di incivile
decomposizione.
Il non-luogo quindi è un luogo privo di identità in cui ormai si collezionano
solitudini, essendo presente questa regola: totale assenza di contatto
sociale. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati
sono non-luoghi, nella misura in cui la loro principale vocazione non è
territoriale, non mira a creare identità singole, rapporti simbolici e
patrimoni comuni, ma tende piuttosto a facilitare la circolazione e quindi il
consumo in un mondo di dimensioni planetarie.

I non-luoghi sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e


frequentati da individui simili ma soli. Non-luoghi sono sia le infrastrutture
per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti), sia i mezzi stessi
di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono non-luoghi i supermercati, le
grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i
campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da
guerre e miserie.
Il non-luogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel
senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede
solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito.
Nel proporci un’antropologia della surmodernità (supermodernismo,
eccesso), Augé ci introduce anche a una etnologia della solitudine.
Nasciamo in clinica, moriamo in ospedale, viviamo in un perenne transito. Si
moltiplicano i luoghi che ci offrono solo una occupazione provvisoria: le
catene alberghiere, i club di vacanza, i residence , le abitazioni per la terza
età. Si estendono le reti di trasporto di persone o di informazioni e le
modalità di scambio a-personale: le carte di credito, i distributori
automatici, la vendita per corrispondenza.
Marc Augé, antropologo e studioso delle civiltà antiche, si chiede se la
nostra società non stia distruggendo il concetto di luogo, così come si è
configurato nelle società precedenti. Il luogo infatti ha tre
caratteristiche: è identitario e cioè tale da contrassegnare l’identità di chi
ci abita; è relazionale nel senso che individua i rapporti reciproci tra i
soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico perchè
rammenta all’ individuo le proprie radici.
I luoghi antropologici – tradizionali o moderni che siano- possono essere
ben descritti dalle nozioni di centro e monumento. La Casa Bianca e il
Cremlino sono contemporaneamente luoghi monumentali, centri di potere,
simboli di uno Stato, metafore di un’ideologia. La casa in un paese della
Sicilia individua la posizione sociale di chi la abita, gli tramanda memorie,
gli impone atteggiamenti e consuetudini.
Tutte queste caratteristiche mancano alle strutture che nella nostra
società contemporanea sono adibite al trasporto, al transito, al commercio,
al tempo libero. Entriamo in un aeroporto: si fa una fila, si passa il check in,
si mostrano i documenti, si visita il duty free shop, si paga preferibilmente
mediante carta di credito, ci si muove seguendo messaggi anonimi, si sbarca
in un altro aeroporto simile al precedente dove ci attendono formalità
identiche. Pensate non per l’uomo specifico, conosciuto ed identificato
come diverso rispetto agli altri, ma per l’uomo generico, individuato dal
numero di un documento o di una carta di credito, queste strutture
architettoniche sono configurate per ospitare un commercio muto, un
mondo lasciato ad individualità solitarie, tutte assolutamente uguali. La
società democratica, non pone pregiudiziali di appartenenza: per poter
accedere ed utilizzare le strutture della nostra contemporaneità basta che
la persona – di qualunque nazionalità, credo o colore- rispetti alcune regole.
Poche e ricorrenti, uguali per un centro commerciale, un parcheggio
interrato , una autostrada o una macchina che eroga denaro. Ci si fa
riconoscere come solvibili, si attende il proprio turno, si seguono le
istruzioni, si fruisce del prodotto, si paga. L’identificazione è resa possibile
dal passaporto, dalla carta di credito, da un riconoscimento astrattamente
sociale. Non più dalla conoscenza individuale, dal riconoscimento del gruppo.
Pensiamo infatti al senso di disperazione generato da un passaporto
scaduto o da una carta di credito divenuta inefficace.
I luoghi tradizionali presuppongono una società sostanzialmente
sedentaria, un microcosmo dotato di confini ben definiti. I non-luoghi,
individuati con acutezza da Marc Augè, sono i nodi e le reti di un mondo
senza confini.
Dal punto di vista architettonico i non-luoghi sono gli spazi dello standard.
Sono strutture dove nulla è destinato al caso: al loro interno è calcolato il
numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei
luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Sono sicuramente gli
unici spazi architettonici dove si è concretizzato il sogno della macchina
per abitare, cioé della ergonomia, della efficienza, del confort tecnologico.
La loro quasi inevitabile omogeneizzazione è il prezzo pagato in termini
figurativi. I non-luoghi sono identici a Milano, a New York, a Londra o a
Hong Hong. Monotonia, noia? Tutt’altro. Agli utenti non interessa se i centri
commerciali sono tutti uguali. Anzi apprezzano – lo dimostra il successo
della formula del franchising – la ripetizione delle infinite strutture così
simili tra di loro. L’utente sa, infatti, che troverà in qualsiasi città la catena
dei suoi ristoranti preferiti o il suo albergo, e sarà certo degli standard di
servizio a lui offerti. Similmente sa che qualunque aeroporto o autostrada
vale un’altra sia che si trovi a Palermo o a Montreal.
Simili a se stessi, eppure diversi: ecco un altro paradosso dei non-luoghi.
Entriamo in un grande centro commerciale: troveremo la cucina cinese,
italiana, francese, tunisina, il negozio danese, americano, giapponese.
Ognuno con un proprio stile.
C’è un film di Woody Allen ambientato in un grande centro commerciale. I
protagonisti passano da un ristorante giapponese a un negozio di articoli
indiani, a uno spettacolo di intrattenimento. La macchina da presa non esce
dal centro commerciale e non ce n’è bisogno: in fondo il mondo con le sue
diversità è tutto racchiuso lì. D’altra parte, i giri turistici, non offrono
molto di più. Anzi, i più grandi centri commerciali hanno la capacità di
attrazione di una località turistica di grande prestigio. Per andare al Mall
of America, il più grande degli USA, alcuni tra i suoi 40.000.000 di
visitatori annui prendono l’aereo e i giapponesi lo includono all’interno dei
loro circuiti turistici. La Northwest Airlines offre viaggi a prezzi scontati
e ogni anno arrivano circa 5.000 autobus da tutti gli Stati Uniti. Si va a
questo centro commerciale con la stessa religiosa devozione con cui i
Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori di azzardo a
Las Vegas, i bambini a Disneyland.
Dal viaggio come esperienza della conoscenza, la società contemporanea è
arrivata al viaggio come concatenamento di diapositive, ossia di immagini
frammentarie e tipiche. Ma se il mondo è ridotto al tipico, non è, in fondo,
difficile estrarre i caratteri essenziali e portarli direttamente a domicilio.
I giapponesi, per esempio, hanno ricostruito al chiuso una oasi hawaiana e
una località sciistica alpina e le hanno proposte ad un pubblico entusiasta
che così con certezza può programmare le proprie vacanze, sapendo che
non saranno rovinate da impreviste condizioni climatiche. In una società del
futuro – ipotizza un regista di film di fantascienza- non occorrerà più
viaggiare perché riusciremo a comprarci il ricordo di essere già andati nei
luoghi prescelti.
D’altronde noi europei che tanto storciamo il naso di fronte al potere
devastante del tipico che caratterizza i non luoghi non ci accorgiamo, che
nonostante le nostre Soprintendenze imbalsamatrici, abbiamo permesso
una simile omologazione di tutti i centri storici delle nostre città. A Londra,
Parigi, Milano o a Roma si passeggia nello stesso modo: identici i negozi, i
mimi, i venditori di cibaglie, le macchine per il cambio di valuta, il senso di
solitudine. Per sentirci in un contesto sociale – nota Augè- non ci rimane
che guardare lo spettacolo degli altri che camminano e, a loro volta, ci
osservano: uno spettacolo dove attori e spettatori si confondono in un
reciproco e continuo scambio delle parti.
Nello stesso tempo, le nostre città “si trasformano in musei (monumenti
intonacati, esposti, illuminati, settori riservati e isole pedonali) proprio
mentre tangenziali, autostrade, treni ad alta velocità e strade a
scorrimento veloce le aggirano”.
Il non-luogo sarà per molto tempo, forse per sempre, la nostra casa.
In questo eterno tempo presente che vive lo scompenso di ogni futuro ci
siamo persi nel non-luogo che appunto non suggerisce alcuna direzione. I
non-luoghi sono spazi di anonimato e sono diventati la nostra nuova forma
di comunicazione, in cui, paradossalmente, non abbiamo nulla da dire e
soprattutto non sappiamo dove andare.

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