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Formazione: dal romanzo ai corsi.

La necessità di un diverso orizzonte


Omar Battisti

Non c’è parola che attualmente è più sbandierata da tutti come panacea di tutti i mali, soprattutto nel
campo lavorativo.
È curioso come si sia passati dal romanzo di formazione ai corsi di formazione.
Vorrei tracciare un breve e sommario percorso di questo passaggio.
I dolori del giovane Werther potrebbe essere un emblema di quel genere conosciuto come romanzo
di formazione. Senza essere un esperto di letteratura, ricordo come in questo romanzo si tratti del
modo in cui un giovane uomo affronti il passaggio all’età adulta, segnato dall’incontro con una
donna che scardina la sua vita, ma al tempo stesso fissa il suo destino.
L’epoca, se non ricordo male, era quella di fine romanticismo e dell’ingresso nell’era moderna,
segnata da sconvolgimenti sociali di massa, dove la terza rivoluzione industriale aveva fatto la sua
parte. In questo contesto lo scenario della formazione umana è preso da un genere letterario, il
romanzo. Ciò che forse può meglio rappresentare come linguaggio e destino siano intrecciati nella
vita di un uomo. Nel mondo ormai contaminato dalla fascinazione per le macchine (le avanguardie
italiane ne faranno un tema portante del loro manifesto) l’umano trova spazio in una forma
letteraria, una formazione che si struttura con e nel linguaggio. Un piano diverso, e a volte
contrapposto, a quello della realtà. Forse permettendo di dar luogo all’interrogazione che la
letteratura e il teatro portano con se: che differenza c’è tra letteratura e realtà? In questa iato poteva
albergare l’umano e la sua formazione come problema che s’i(m)pone.
Gli anni ’80 con Reagan e la Tatcher hanno sdoganato in politica un idea portata oggi alle estreme
conseguenze: il mercato non si tocca, è l’economia a dare il passo. Che tutti si accodino, se
vogliono stare al mondo, altrimenti sei fuori! Ricordo le giornate di sciopero dei minatori e la loro
repressione. Piccola parantesi (si è passati con Gaber dalla Libertà obbligatoria degli anni ’70 agli
Anni affollati dei primi anni ’80).
La fascinazione del potere non viene più racchiusa nell’idea di macchina ma nel dominio che
l’economia di mercato (che sconfiggerà il comunismo, o forse si è sconfitto da solo?) esercita nella
vita di ogni persona.
È l’economia di mercato a diventare imperante con la sua logica composita basata sui principi
domanda-offerta, costi-benefici e produttività-efficacia. Sono gli anni del boom della moda e dei
fenomeni culturali che si aggrappano all’immagine esaltando l’effimero, una versione dell’uomo
illusoriamente libero da ogni vincolo, da ogni formazione. C’è ne per tutti i gusti: dal punk agli
yippi passando per i paninari ecc… (Drive In in Italia è stato un catalogo di queste opere).
Lo slogan: “il cliente ha sempre ragione”, “soddisfatti o rimborsati” e la ricerca della soddisfazione
del consumatore racchiudono una logica oggi esasperata ed esasperante.
Il lavoro diventa questione di mercato.
Attualmente il lavoro non è merce, ma scarto dell’economia di mercato. Il lavoro non in quanto
esclusiva degli operati o di una classe sociale sfruttata, ma il lavoro come ciò in cui un essere
umano è impegnato. Dall’imbianchino al Presidente del Consiglio passando per il calciatore, il
medico e l’attore…
Il lavoro non è considerato come un campo in cui un uomo può trovare di che vivere, ma qualcosa
che serve al mercato. In questa logica la formazione è diventata qualcosa che segue le stesse logiche
dell’economia di mercato: c’è una domanda di formazione, un offerta, un consumatore da
soddisfare, un cliente.
L’umano è scacciato fuori dal processo, ridotto a questione di costi-benefici ed efficacia valutata sul
metro di quanto produce quello che è usato per formare e quanto il cliente ne sia soddisfatto. Chi
lavora diventa a questo punto cliente e consumatore di un corso da cui ci si aspetta che sia
soddisfatto per risolvere le sue richieste.
Al di là dunque del profitto (non solo economico) di chi gli organizza e produce questi corsi, trovo
sia da puntare i riflettori sulla richiesta o necessità di quelli che lavorano. La tecnica è tecnica. Se un
macchinario funziona in un certo modo secondo certe procedure occorre conoscerle. Ma nelle
relazioni umani implicate nel lavoro non è solo questione di tecnica.
“[…] il potere messo nelle mani di quelli che lavorano”1 è qualcosa di cui parla Jacques Lacan in un
testo dove dispone una procedura per la passe, una sua invenzione per affrontare il problema del
fine analisi. Potere che considera una forma di organizzazione per quella che lui chiama Scuola di
psicoanalisi e non Società.
Il potere nelle mani di quelli che lavorano produce una rottura della gerarchia fondata sulle
posizioni acquisite e promuove una gerarchia di altro ordine.
Quale formazione può essere consona a quest’altro ordine di potere?
Un orizzonte è segnato da questi passaggi di un testo formidabile di Jacques Lacan, di un’attualità
sorprendente: Allocuizone sulle psicosi infantili, pronunciato il 22 ottobre 1967.
Dunque due passaggi che possono tracciare un orizzonte da situare:
Gli uomini si muovono in direzione di un’epoca chiamata planetaria, in cui si interrogheranno su quel
qualcosa che sorge dalla distruzione di un antico ordine sociale che simbolizzerei con l’Impero – la cui
ombra si è ancora a lungo stagliata su gran parte della civiltà – per sostituire a esso qualcosa di ben
diverso e che non ha per nulla lo stesso senso, ovvero gli imperialismi, la cui questione è: come fare
perché delle masse umane, destinate allo stesso spazio, non solo geografico ma talvolta anche familiare,
restino separate?
[…]
A quanto pare rischiavamo infatti di dimenticare, nell’ambito della nostra funzione, che a suo
fondamento c’è un etica, e che di conseguenza, checché possa dirsi sul fine dell’uomo, anche senza il
mio consenso, il nostro principale tormento riguarda una formazione che possa qualificarsi come umana.
Ogni formazione umana ha per essenza e non per accidente porre un freno al godimento. La cosa ci
appare nuda, e non più attraverso quei prismi o quelle lenti che si chiamano religione, filosofia o
addirittura edonismo, perché il principio del piacere è il freno del godimento.
[…]2

1
Jacques Lacan, Una procedura per la passe, in La psicoanalisi, n. 17, Astrolabio, Roma 1995, pag. 18.
2
Jacques Lacan, Allocuzione sulle psicosi infantili, in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, pp. 358-360.

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