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Ci
può spiegare il suo intento?
Che cosa intende allora per religione? Qualcosa che è legato essenzialmente a delle
credenze?
Perché?
Non crede che si tratti di un sentimento diffuso? Non crede che in generale si abbia
l’impressione di aver dato fondo alle possibilità filosofiche, in quanto possibilità di
rappresentazione e di interpretazione del mondo? Già Marx aveva detto che i filosofi
si sono accontentati fin qui di interpretare il mondo, ma si tratta ora di trasformarlo. Si
potrebbe dire che in realtà dopo Marx il mondo non ha cessato di trasformarsi, sempre
più in fretta e sempre più profondamente, e al tempo stesso a noi contemporanei
sembra che la trasformazione non sia andata nella direzione che Marx aveva indicato
(o almeno che egli si augurava), e ci abbia lasciati a corto di interpretazioni. Noi non
sappiamo più neanche come interpretare la trasformazione stessa. Senza contare che
abbiamo il doppio problema di una trasformazione che è trasformazione del capitale,
che trasforma in modo considerevole i modi del suo dominio, ma non è ancora
autosuperamento del capitale. Dunque da un lato la rivoluzione è in panne, dall’altro è
apparsa la dimensione che Marx aveva previsto: è veramente finito il tempo delle
interpretazioni. Il tempo della domanda di senso è a un punto zero. Bisogna
ricominciare tutto a partire di qui.
D’altra parte, si vede nascere, sotto le più diverse forme, la grande tentazione di un
ritorno alla religione, in molti paesi dell’Occidente, per non parlare che di quei paesi
dove la religione è scomparsa come agente di coesione sociale. Ma il cristianesimo
almeno non è scomparso come struttura profonda del pensiero occidentale. La
maggior parte delle questioni che vengono agitate oggi in nome dell’umanesimo (per
esempio tutti i problemi attuali della bioetica), sono questioni di ispirazione
profondamente cristiana. Allora ci si può accontentare di questo cristianesimo, come
si dice, “secolarizzato”? Evidentemente no, poiché il cristianesimo – divenuto
umanesimo – ha raggiunto anch’esso i suoi limiti e non trova più in sé la fonte di
quello che si può chiamare il senso o la verità.
Allora io credo che questa situazione esige una specie di risalita o di scavo all’interno
della nostra tradizione filosofica e al tempo stesso una penetrazione all’interno di quel
cristianesimo che la filosofia ha sempre creduto di poter lasciare da parte e di poterlo
separare da sé. Non si deve credere che io voglia reintrodurre un elemento religioso e
non razionale nel razionale. Voglio piuttosto interrogare la ragione stessa in ciò che ha
veicolato del cosiddetto “messaggio cristiano”, ma che ha veicolato sempre a prezzo
di una rimozione e di un disconoscimento.
Lei parla essenzialmente del cristianesimo. Quello che Lei ne dice si può riferire
anche ai monoteismi ebraico e musulmano, o è un elemento specifico del
cristianesimo?
Bisogna avere presente i monoteismi nel loro insieme, perché si tratta di una sequenza
storica: prima viene il giudaismo, poi il cristianesimo e in terza istanza l’islam. Questa
sequenza storica ha certamente un senso, che non è unidirezionale, ma complesso.
Non è semplicemente un progresso, né un regresso. È forse una specie di dialettica.
Ma questa dialettica, comunque sia, si risolve sempre nell’affermazione del
monoteismo. E l’affermazione del monoteismo ha in sé qualcosa di molto importante,
che troppo spesso si dimentica: l’essenza del monoteismo non sta nella sostituzione di
una pluralità di dèi con uno solo. Non è una questione di quantità. Il monoteismo è il
ritirarsi [retrait] di tutti gli dèi. Ciò che distingue il dio del monoteismo, che sia ebreo
cristiano o musulmano, dagli dèi del politeismo, è che non vive più nella presenza. Gli
dèi del politeismo sono dèi presenti, sono vere presenze. Nella concezione dell’Egitto
o dell’antica Roma ci sono dèi da per tutto. Con il monoteismo, al contrario, Dio si
definisce essenzialmente per il suo ritirarsi, per la sua assenza. Di conseguenza questa
religione si definisce anche attraverso la condanna degli idoli. Gli idoli non sono tanto
falsi dèi, quanto dèi che pretendono di essere presenti: in un albero, in una pietra, in
una statua. Di qui proviene la critica della rappresentazione, che non è tanto una
critica della figurazione, quanto una critica della presenza.
Si può dire che questa critica della presenza si accentua con il protestantesimo in
rapporto al cattolicesimo?
Sì, certo. È notevole vedere come ci sia un ritmo ternario che si ripete. Da una parte
abbiamo giudaismo-cristianesimo-islam (perché indubbiamente il Dio dell’islam è tra
i tre Iddii del monoteismo il più ritirato, il più lontano, infinitamente lontano da tutto,
e che non ha con l’uomo nessuno dei rapporti che ha nel cristianesimo e nel
giudaismo; l’unico rapporto consiste nel dare la sua parola, la legge, una volta per
tutte, al profeta). Dall’altra all’interno del cristianesimo, che è al centro di questo
dispositivo, c’è la terna cattolicesimo-ortodossia-protestantesimo. Senza entrare in
una analisi dei particolari, è evidente che nel protestantesimo Dio si ritira ancora di
più. E d’altronde questa è la posta in gioco, nell’islam come nel protestantesimo, nelle
questioni di immagine, di rappresentazione, di rapporto con l’arte.
Mi domando semplicemente se l’Occidente abbia veramente misurato questo ritirarsi
del divino, che costituisce e caratterizza il divino nel monoteismo e che fa sì che al
centro di questo dispositivo il cristianesimo, in forza della sua storia, sia quello che
realizza veramente la morte di Dio. L’affermazione nietzscheana della morte di Dio
non appare improvvisamente in Nietzsche. Era apparsa già in Hegel e in Jean Paul, e
non per caso nel loro tempo. Hegel l’aveva ripresa da Lutero. È un tipico prodotto del
protestantesimo. La morte di Dio non è affatto una affermazione atea, aggressiva,
verso il cristianesimo, è la conclusione o il logico risultato del cristianesimo stesso.
A questo punto si pone una questione che si richiama alla domanda di Nietzsche, la
domanda su cui finisce il suo aforisma sulla morte di Dio, sul folle che dice: “Noi
abbiamo ucciso Dio”. La domanda è: “Ora che Dio è morto, che gioco sacro
inventeremo?” La forma di questa domanda, con l’espressione “gioco sacro”, mi
sembra ancora esitante tra un ritorno alla religione, suggerito dalla parola “sacro”, o al
contrario un completo spostamento. Certo è che l’ateismo, inteso come
autodecostruzione del cristianesimo, ci pone la questione del nostro rapporto con
questo ritirarsi del divino.
A proposito di Nietzsche, c’è una cosa che mi ha sempre colpito. Quando Lei cita il
folle che va in giro annunciando che “Dio è morto”, il fatto interessante è che fa ridere
e scandalizza non i credenti, ma i non credenti, perché è scandaloso che annunci la
morte di Dio in un ambiente ateo. Allora sono due le forme di ateismo che qui
vengono messe a confronto: l’ateismo laico, del forum a cui parla il folle, e quello
della morte di Dio.
Non avevo pensato il problema in questi termini e la ringrazio di averlo posto, perché
mi trovo pienamente d’accordo. Penso che l’ateismo filosofico o razionalista – per
esprimersi concisamente, l’ateismo dei Lumi, l’ateismo di Voltaire, per esempio – è
un ateismo che conserva, per una semplice esigenza di razionalità, l’istanza di un
principio religioso primo o supremo. Si vede bene come questo ateismo (l’ateismo del
dio orologiaio, come diceva Voltaire, che è anche il dio di Descartes e di Leibniz, il
dio la cui esistenza Kant dirà che è impossibile provare, dimostrando l’inanità del
problema stesso di un Essere supremo o di un Essere necessario) è l’ateismo che si
blocca sulla questione del primo principio, del fondamento. È l’ateismo metafisico,
che ha creduto di essersi sbarazzato della religione, e perciò ride dell’insensato di
Nietzsche, ma in realtà si era sbarazzato non della religione, ma di qualcosa che è in
relazione con il ritirarsi del dio, di cui non ha saputo rendersi conto. Per esempio
Hegel e Schelling, mentre vogliono entrambi, sia pure in modi molto diversi,
assorbire completamente il divino in un pensiero filosofico, arrivano tuttavia a un
punto in cui si produce un eccesso sulla capacità della filosofia di circoscrivere il
problema, e di quell’eccesso non riescono a rendere conto.
Credo che qui l’apporto di Nietzsche sia qualcosa di diverso: è il tentativo di prendere
atto del vuoto aperto dal ritirarsi del dio e di chiedersi che cosa fare di questo vuoto.
C’è almeno un testo, un passaggio de L’Anticristo – sono pochi paragrafi, una decina
appena, dedicati al Cristo – in cui appunto Nietzsche tenta di riempire il vuoto della
morte di Dio con il Cristo stesso, con il Cristo che secondo lui costituisce il vero tipo
del redentore.
Lei crede che il superuomo nietzscheano possa prendere il posto lasciato vuoto dalla
morte di Dio?
In un senso più generale, nel cristianesimo c’è anche una grande ambivalenza. C’è la
dimensione del ritirarsi, ma al tempo stesso la dimensione di una superpresenza,
perché Dio si incarna, e la kenosis è anche l’incarnazione. E nell’incarnazione la
superpresenza può arrivare fino alla presenza mistica, gioiosa e gaudiosa, che si trova
in santa Teresa d’Avila o in san Giovanni della Croce. Ma tra i mistici c’è anche
Eckhart che dice: “Preghiamo Dio di liberarci e di dispensarci da Dio”. La mistica
cristiana è come le altre due – l’ebraica e l’islamica –la forma estrema, e a volte la più
ambigua, di una superpresenza idolatrica. È perciò che i mistici sono in sospetto alle
ortodossie delle rispettive confessioni. E tuttavia credo che siano loro a indicare il
punto decisivo della questione: per esempio Luria e la creazione come tzim tzum,
come contrazione di Dio, nell’ebraismo, Eckhart nel cristianesimo e Hallaj nell’islam.
Hallaj dice che dell’Unico nessuno può dire che è unico. Quella proposizione dava
scandalo e perciò Hallaj è stato perseguitato. La mistica non è che la forma estrema
degli enunciati prodotti da ciascuna confessione.
Non credo che ci sia un’altra religione, anche all’interno dei tre monoteismi, che si sia
arrischiata in quell’impresa di demitizzazione che, attraverso il protestantesimo (così
mi collego con quello che Lei diceva prima), il cristianesimo ha non soltanto avviato,
ma in un certo senso ha portato ormai molto avanti, anche all’interno del
cattolicesimo. Non parlo necessariamente di quello che dice il Vaticano, ma di quello
che è realmente pensato, praticato dai cattolici, per esempio in un paese come la
Francia. Conosco cattolici praticanti che vivono una condizione di completa
demitizzazione, cioè non credono più alla verità della persona di Cristo, o alla
verginità di Maria, o alla transustanziazione, come ci si credeva ancora ai tempi della
mia infanzia o della mia giovinezza. Quel modo di credere è rimasto appannaggio
solo di un certo numero di cattolici.
Qual è dunque la differenza tra la demitizzazione, come Lei la intende, e quella che si
chiama oggi secolarizzazione?
C’è una differenza. La demitizzazione, almeno come è stata praticata e portata avanti
specialmente da Bultmann, è un movimento di riforma e di ritorno alle fonti del
cristianesimo, già molto sviluppato, che consiste nel volersi riappropriare del puro
nucleo di senso in cui Gesù non è più tanto il personaggio misterioso, miracoloso e
incomprensibile dell’uomo-Dio, ma è il portatore di un messaggio di verità. La
demitizzazione sopprime le figure, per accedere a un puro nucleo di senso o di verità.
Resta peraltro il nucleo cristiano.
La secolarizzazione, invece – che è cominciata in realtà già da lungo tempo con il
Rinascimento, ed è in un certo senso il contraccolpo della Riforma e, forse, dei primi
abbozzi di demitizzazione che la Riforma conteneva in sé, almeno di fronte a certi
aspetti del dogma – non solo ha eliminato tutta una serie di figurazioni, ma ha
abbandonato anche ogni nucleo puramente religioso, in base all’idea che i contenuti e
le strutture cristiane si traspongono in contenuti e strutture del mondo.
È noto che la secolarizzazione ha dato luogo a un grande dibattito, in particolare in
Germania tra Carl Schmitt e Hans Blumenberg. Credo che questo dibattito sia molto
importante. Dichiaro subito che sono dalla parte di Blumenberg. Il dibattito si è
articolato in questo modo: da una parte, per Carl Schmitt, il mondo moderno nella sua
totalità è una trascrizione secolarizzata del mondo religioso in cui si ritrova l’elemento
teologico-politico, ma senza l’autorità divina che lo fondava. Ne nascono problemi
inestricabili, perché se la democrazia è essenzialmente una teologia politica
secolarizzata, non se ne può emancipare, perché non ritroverà mai il divino che le
manca e del quale sarebbe un semplice calco. Secondo un’altra lettura, invece, quella
che chiamiamo secolarizzazione è veramente un’uscita fuori dalla struttura e dal
contenuto, dell’elemento teologico-politico.
A questo punto siamo evidentemente di fronte a una questione del tipo di quella che
indicavo prima, parlando del vuoto che il cristianesimo con il ritiro del sacro ha aperto
nell’uomo. Credo veramente che oggi, per esempio, non si possa rispondere alla
domanda politica in termini di teologia, per quanto completamente secolarizzata,
perché non avrebbe senso. Questo significa che bisogna reinventare da cima a fondo il
concetto stesso del politico. Bisogna riempirlo con qualcosa di diverso da una
trascrizione dell’elemento teologico-politico.
Qual è il tratto più rilevante del cristianesimo? Lei parlava prima di composizione.
Lei non pensa che il tema dell’incarnazione vada però nel senso opposto? In questo
caso un dio diventa presente. Non è questo il tema originale del cristianesimo, sia in
rapporto alla Grecia, sia in rapporto all’ebraismo? Un dio che si fa uomo e si
incarna...
Quali sono gli altri tratti del cristianesimo secondo la sua definizione?
Vorrei concludere dicendo, alla fine delle considerazioni che ho tentato di abbozzare,
che il cristianesimo non dev’essere considerato tanto come un corpo di dottrine, come
un complesso di dogmi e di istituzioni, come il risultato della sua autodivisione in
parecchie religioni relativamente distinte. Ciò che sorprende, piuttosto, attraverso
tutto questo, è che il cristianesimo si comporta come un soggetto. In questo è
indubbiamente unico rispetto a tutte le altre religioni, perché si costituisce in un
rapporto con se stesso, che è un rapporto permanente di riforma, di ritorno a
un’origine che non può però ritrovare, perché vive anch’essa nella composizione e
dunque nello scarto che caratterizza ogni composizione.
Questa dunque è una questione specifica del cristianesimo, e non anche dell’ebraismo
e dell’islam.
Gli altri due casi sono molto diversi. Non è specifica dell’ebraismo, perché l’ebraismo
è sempre vissuto nella tensione tra l’attesa messianica e la religione costituita del
Tempio, in cui non c’è nessuna attesa. Quindi è vissuto tra l’attesa e l’osservanza.
Nell’ebraismo di oggi, successivo alla seconda distruzione del Tempio, c’è una
doppia attesa: l’attesa messianica, ripresa e secolarizzata a partire da Benjamin, ma
anche l’attesa del Tempio. Nella religione del Tempio, si dice che non si sacrifica più
da quando il Tempio è stato distrutto, ma che, quando il Tempio verrà ricostruito, si
tornerà a sacrificare. C’è l’attesa di Gerusalemme. Si dice: “L’anno venturo a
Gerusalemme”.
Quella ebraica non è dunque la stessa struttura dell’attesa cristiana, che è l’attesa di un
ritorno, che è stato interpretato tanto come fine dei tempi ultima e infinitamente
lontana, quanto come evento che ha luogo in ogni istante, o ancora come ciò che ha
luogo nel momento della morte e in prossimità della morte. Dunque sotto questo
riguardo il cristianesimo eredita qualcosa di molto profondo del giudaismo. La morte
è veramente la fine della vita, con l’accesso, se di accesso si può parlare, a qualcosa
che non è un’altra vita, qualcosa che resta da interpretare, la parousia, la quale non
vuol dire “presenza piena”, ma – curiosamente – “presenza a lato”. Quanto all’islam,
esso non si trova affatto nella stessa dimensione dell’attesa, perché, se di attesa si può
parlare, è l’attesa di qualcosa che è compiuto, di una presenza integrale, in cui
soltanto l’infinità di Dio e la sua assoluta differenza dal mondo apre una dimensione
che non è quella di una presenza compiuta e satura. Per quel che riguarda la mistica
islamica, bisogna considerare anche qui le grandi differenze che ci sono nell’islam:
l’islam shiita, in particolare nelle sue interpretazioni più mistiche, non è la stessa cosa
dell’islam sunnita, che noi conosciamo meglio.
Credo comunque che né nel giudaismo, né nell’islam ci sia la stessa combinazione di
attesa e di storia che c’è nel cristianesimo. Credo che proprio per questo il
cristianesimo è stato più strutturante per l’Occidente, nel senso che ha strutturato il
pensiero della storia e al tempo stesso l’opposizione alla storicità o allo storicismo,
che ha accompagnato il pensiero della storia e poi gli è succeduto.
L’amore, appunto. Lei pensa che si debba interpretare come caritas, come amore
abnegante, o come amor, nel senso dell’amore sensuale?
È caritas, ma la caritas non è così lontana da eros. Perché caritas è anche fascino,
favore. Ricordo un bel testo di Jean-Pierre Vernant sulla charis greca come seduzione,
fascino in senso femminile.
Lei pensa che questa distinzione netta tra credenza e fede sia stata influenzata dalla
tradizione protestante e kantiana? Kant è il filosofo che più nettamente separa fede e
credenza, allontanandosi su questo punto dalla tradizione del Medioevo cattolico.
Direi che questa tendenza fa parte del processo interno al cristianesimo, quando
diventa protestante. Non si può fare a meno di guardare al cristianesimo con occhi
protestanti. Ma a questo punto aggiungerei che con occhi protestanti si può anche
riscoprire qualcosa del cattolicesimo. E non mi si venga a obiettare che la fede del
Medioevo coincideva con la credenza, perché allora ripeterò le parole di Giovanna
d’Arco. Ai giudici che le chiedono: “Credi di avere la fede?”, Giovanna risponde: “Se
non ce l’ho, che Dio me la conceda, e se ce l’ho, che Dio me la conservi”. Questa non
è certo credenza.