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Professor Nancy, Lei sta lavorando al tema della decostruzione del cristianesimo.

Ci
può spiegare il suo intento?

Jean-Luc Nancy - Sotto il titolo di decostruzione del cristianesimo tento di avviare un


lavoro di analisi interna del cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, in un senso più
generale, del monoteismo. Si tratta di scomporre, decostruire gli elementi di cui è
costituito il cristianesimo per domandarsi se nel cuore della costruzione, nelle
giunture dei diversi elementi del cristianesimo non si possa cogliere il principio che
ha esercitato una funzione di strutturazione di tutta la civiltà occidentale, e che
tuttavia non coincide con il cristianesimo, non si confonde con esso.
Ma bisogna che io cominci col chiedermi: perché il cristianesimo? Al quale
cristianesimo applicherò, nella mia decostruzione, il metodo che Heidegger diceva di
usare con la tradizione filosofica. Perché credo che ci sia qualcosa del cristianesimo
che appartiene alla nostra tradizione filosofica, qualcosa che la filosofia – soprattutto
la filosofia contemporanea dopo Nietzsche – non vuol prendere in considerazione,
ignora o lascia in ombra. A questo proposito penso che il caso di Heidegger sia
particolarmente significativo. Benché provenga da una formazione teologica, cristiana
anzi cattolica, rifiuta di dare al cristianesimo un posto qualsiasi nella sua teoria della
filosofia o del pensiero occidentale. Gli riconosce soltanto la funzione di aver in
qualche modo amplificato, aggravato, la funzione di quella che chiama “metafisica”.
In fondo per Heidegger il cristianesimo avrebbe rafforzato la nozione di Dio come
ente e contribuito in tal modo a far dimenticare la questione dell’essere. Io penso che
nei temi heideggeriani siano reperibili derivazioni cristiane molto chiare.
In un senso più generale, c’è qualcosa del cristianesimo che il pensiero filosofico ha
lasciato sistematicamente da parte, o lo ha ripreso solo interpretandolo in termini
filosofici –in particolare ad opera dell’idealismo tedesco, con Hegel e Schelling.
Quello che io tento di ritrovare è qualcosa che continua a restare nascosto in Hegel, in
Schelling e in altri, e che si potrebbe molto rapidamente designare con due parole:
l’amore e la fede. Che cosa è questa idea dell’amore cristiano che ha avuto una parte
così importante nella costruzione dell’Occidente, passando però sempre per essere o
qualcosa di riservato alla religione, inaccessibile a un pensiero razionale, oppure un
ideale bellissimo, come Freud lo considerava, ma assolutamente irrealizzabile? E che
cosa vuol dire “fede”, se proprio nel cristianesimo la fede non si è mai confusa con la
credenza e se di conseguenza il cristianesimo non si è mai confuso troppo
profondamente con la religione, ma al contrario porta in sé la dimensione di una
uscita fuori dalla religione?

Che cosa intende allora per religione? Qualcosa che è legato essenzialmente a delle
credenze?

Sì, la religione si collega con la credenza, se si intende la credenza come differente


dalla fede. La credenza è l’adesione a contenuti di sapere, di verità e di senso che non
dipendono dalla razionalità.

Come classifica allora le religioni etiche, come le religioni orientali, che


apparentemente non includono nessuna specifica credenza? Il buddismo o il
confucianesimo – religioni del benessere spirituale – sono anch’essi credenze?

Lei ha ragione di porre questa domanda, ma è molto difficile rispondervi, anche


perché in questo campo sono assai meno competente. Direi tuttavia che nel buddismo
c’è un’assenza di Dio, ma non una totale assenza di credenze. C’è almeno la credenza
nella trasmigrazione delle anime, la credenza nel karma. Nel confucianesimo è
diverso – mi domando perfino se si possa considerare una religione. Credo che questa
denominazione non gli sia sempre riconosciuta. Comunque, vedo almeno un tratto
comune tra il buddismo, il confucianesimo, il taoismo e il giudeo-cristianesimo: la
comunanza d’epoca, certamente assai larga, che non si estende su poche decine di
anni ma su parecchi secoli. In quell’insieme di secoli in cui ha fatto la sua comparsa la
filosofia, sia in Oriente che in Occidente si è prodotto un cambiamento epocale. È da
qui che tutto è cominciato, è qui che bisogna tornare. Credo che dobbiamo tornare a
interrogare il cambiamento attraverso il quale siamo usciti fuori dal mondo dei miti.
Se si considera che la religione contiene necessariamente l’adesione a dei miti e
l’osservanza dei riti che corrispondono ai miti, che mettono in opera i miti, allora direi
che tanto il buddismo quanto il cristianesimo sono usciti fuori dalla religione. Ma
vorrei limitarmi al cristianesimo, perché è quello che conosco meglio ed è quello che
ha reso possibile la costituzione, la struttura dell’Occidente, che oggi sembra un po’
allo stremo delle sue risorse, delle sue possibilità.

Perché?
Non crede che si tratti di un sentimento diffuso? Non crede che in generale si abbia
l’impressione di aver dato fondo alle possibilità filosofiche, in quanto possibilità di
rappresentazione e di interpretazione del mondo? Già Marx aveva detto che i filosofi
si sono accontentati fin qui di interpretare il mondo, ma si tratta ora di trasformarlo. Si
potrebbe dire che in realtà dopo Marx il mondo non ha cessato di trasformarsi, sempre
più in fretta e sempre più profondamente, e al tempo stesso a noi contemporanei
sembra che la trasformazione non sia andata nella direzione che Marx aveva indicato
(o almeno che egli si augurava), e ci abbia lasciati a corto di interpretazioni. Noi non
sappiamo più neanche come interpretare la trasformazione stessa. Senza contare che
abbiamo il doppio problema di una trasformazione che è trasformazione del capitale,
che trasforma in modo considerevole i modi del suo dominio, ma non è ancora
autosuperamento del capitale. Dunque da un lato la rivoluzione è in panne, dall’altro è
apparsa la dimensione che Marx aveva previsto: è veramente finito il tempo delle
interpretazioni. Il tempo della domanda di senso è a un punto zero. Bisogna
ricominciare tutto a partire di qui.
D’altra parte, si vede nascere, sotto le più diverse forme, la grande tentazione di un
ritorno alla religione, in molti paesi dell’Occidente, per non parlare che di quei paesi
dove la religione è scomparsa come agente di coesione sociale. Ma il cristianesimo
almeno non è scomparso come struttura profonda del pensiero occidentale. La
maggior parte delle questioni che vengono agitate oggi in nome dell’umanesimo (per
esempio tutti i problemi attuali della bioetica), sono questioni di ispirazione
profondamente cristiana. Allora ci si può accontentare di questo cristianesimo, come
si dice, “secolarizzato”? Evidentemente no, poiché il cristianesimo – divenuto
umanesimo – ha raggiunto anch’esso i suoi limiti e non trova più in sé la fonte di
quello che si può chiamare il senso o la verità.
Allora io credo che questa situazione esige una specie di risalita o di scavo all’interno
della nostra tradizione filosofica e al tempo stesso una penetrazione all’interno di quel
cristianesimo che la filosofia ha sempre creduto di poter lasciare da parte e di poterlo
separare da sé. Non si deve credere che io voglia reintrodurre un elemento religioso e
non razionale nel razionale. Voglio piuttosto interrogare la ragione stessa in ciò che ha
veicolato del cosiddetto “messaggio cristiano”, ma che ha veicolato sempre a prezzo
di una rimozione e di un disconoscimento.
Lei parla essenzialmente del cristianesimo. Quello che Lei ne dice si può riferire
anche ai monoteismi ebraico e musulmano, o è un elemento specifico del
cristianesimo?

Bisogna avere presente i monoteismi nel loro insieme, perché si tratta di una sequenza
storica: prima viene il giudaismo, poi il cristianesimo e in terza istanza l’islam. Questa
sequenza storica ha certamente un senso, che non è unidirezionale, ma complesso.
Non è semplicemente un progresso, né un regresso. È forse una specie di dialettica.
Ma questa dialettica, comunque sia, si risolve sempre nell’affermazione del
monoteismo. E l’affermazione del monoteismo ha in sé qualcosa di molto importante,
che troppo spesso si dimentica: l’essenza del monoteismo non sta nella sostituzione di
una pluralità di dèi con uno solo. Non è una questione di quantità. Il monoteismo è il
ritirarsi [retrait] di tutti gli dèi. Ciò che distingue il dio del monoteismo, che sia ebreo
cristiano o musulmano, dagli dèi del politeismo, è che non vive più nella presenza. Gli
dèi del politeismo sono dèi presenti, sono vere presenze. Nella concezione dell’Egitto
o dell’antica Roma ci sono dèi da per tutto. Con il monoteismo, al contrario, Dio si
definisce essenzialmente per il suo ritirarsi, per la sua assenza. Di conseguenza questa
religione si definisce anche attraverso la condanna degli idoli. Gli idoli non sono tanto
falsi dèi, quanto dèi che pretendono di essere presenti: in un albero, in una pietra, in
una statua. Di qui proviene la critica della rappresentazione, che non è tanto una
critica della figurazione, quanto una critica della presenza.
Si può dire che questa critica della presenza si accentua con il protestantesimo in
rapporto al cattolicesimo?

Sì, certo. È notevole vedere come ci sia un ritmo ternario che si ripete. Da una parte
abbiamo giudaismo-cristianesimo-islam (perché indubbiamente il Dio dell’islam è tra
i tre Iddii del monoteismo il più ritirato, il più lontano, infinitamente lontano da tutto,
e che non ha con l’uomo nessuno dei rapporti che ha nel cristianesimo e nel
giudaismo; l’unico rapporto consiste nel dare la sua parola, la legge, una volta per
tutte, al profeta). Dall’altra all’interno del cristianesimo, che è al centro di questo
dispositivo, c’è la terna cattolicesimo-ortodossia-protestantesimo. Senza entrare in
una analisi dei particolari, è evidente che nel protestantesimo Dio si ritira ancora di
più. E d’altronde questa è la posta in gioco, nell’islam come nel protestantesimo, nelle
questioni di immagine, di rappresentazione, di rapporto con l’arte.
Mi domando semplicemente se l’Occidente abbia veramente misurato questo ritirarsi
del divino, che costituisce e caratterizza il divino nel monoteismo e che fa sì che al
centro di questo dispositivo il cristianesimo, in forza della sua storia, sia quello che
realizza veramente la morte di Dio. L’affermazione nietzscheana della morte di Dio
non appare improvvisamente in Nietzsche. Era apparsa già in Hegel e in Jean Paul, e
non per caso nel loro tempo. Hegel l’aveva ripresa da Lutero. È un tipico prodotto del
protestantesimo. La morte di Dio non è affatto una affermazione atea, aggressiva,
verso il cristianesimo, è la conclusione o il logico risultato del cristianesimo stesso.
A questo punto si pone una questione che si richiama alla domanda di Nietzsche, la
domanda su cui finisce il suo aforisma sulla morte di Dio, sul folle che dice: “Noi
abbiamo ucciso Dio”. La domanda è: “Ora che Dio è morto, che gioco sacro
inventeremo?” La forma di questa domanda, con l’espressione “gioco sacro”, mi
sembra ancora esitante tra un ritorno alla religione, suggerito dalla parola “sacro”, o al
contrario un completo spostamento. Certo è che l’ateismo, inteso come
autodecostruzione del cristianesimo, ci pone la questione del nostro rapporto con
questo ritirarsi del divino.
A proposito di Nietzsche, c’è una cosa che mi ha sempre colpito. Quando Lei cita il
folle che va in giro annunciando che “Dio è morto”, il fatto interessante è che fa ridere
e scandalizza non i credenti, ma i non credenti, perché è scandaloso che annunci la
morte di Dio in un ambiente ateo. Allora sono due le forme di ateismo che qui
vengono messe a confronto: l’ateismo laico, del forum a cui parla il folle, e quello
della morte di Dio.

Non avevo pensato il problema in questi termini e la ringrazio di averlo posto, perché
mi trovo pienamente d’accordo. Penso che l’ateismo filosofico o razionalista – per
esprimersi concisamente, l’ateismo dei Lumi, l’ateismo di Voltaire, per esempio – è
un ateismo che conserva, per una semplice esigenza di razionalità, l’istanza di un
principio religioso primo o supremo. Si vede bene come questo ateismo (l’ateismo del
dio orologiaio, come diceva Voltaire, che è anche il dio di Descartes e di Leibniz, il
dio la cui esistenza Kant dirà che è impossibile provare, dimostrando l’inanità del
problema stesso di un Essere supremo o di un Essere necessario) è l’ateismo che si
blocca sulla questione del primo principio, del fondamento. È l’ateismo metafisico,
che ha creduto di essersi sbarazzato della religione, e perciò ride dell’insensato di
Nietzsche, ma in realtà si era sbarazzato non della religione, ma di qualcosa che è in
relazione con il ritirarsi del dio, di cui non ha saputo rendersi conto. Per esempio
Hegel e Schelling, mentre vogliono entrambi, sia pure in modi molto diversi,
assorbire completamente il divino in un pensiero filosofico, arrivano tuttavia a un
punto in cui si produce un eccesso sulla capacità della filosofia di circoscrivere il
problema, e di quell’eccesso non riescono a rendere conto.
Credo che qui l’apporto di Nietzsche sia qualcosa di diverso: è il tentativo di prendere
atto del vuoto aperto dal ritirarsi del dio e di chiedersi che cosa fare di questo vuoto.
C’è almeno un testo, un passaggio de L’Anticristo – sono pochi paragrafi, una decina
appena, dedicati al Cristo – in cui appunto Nietzsche tenta di riempire il vuoto della
morte di Dio con il Cristo stesso, con il Cristo che secondo lui costituisce il vero tipo
del redentore.

Lei crede che il superuomo nietzscheano possa prendere il posto lasciato vuoto dalla
morte di Dio?

Credo che Nietzsche, per un’ambiguità o ambivalenza che non mi è possibile


esaminare adesso, abbia avuto la tentazione di riempire quel posto vuoto con il
superuomo. È questo l’aspetto per cui, anche se non si può dire che sia stato un
precursore del nazismo, c’era però la possibilità di sfruttare Nietzsche in quel senso.
Penso, tuttavia, che gli si debba rendere giustizia: evidentemente il suo pensiero è
stato alterato dall’uso che ne hanno fatto i nazisti. Ciò non toglie che in lui ci sia
l’idea di una riappropriazione umana del divino. Questo lato del superuomo è quello
che si trova in Zarathustra.
Ma c’è poi un altro lato che in Nietzsche è altrettanto presente, il lato – al contrario –
della povertà, della privazione e del denudamento, che è assai difficile mettere in
relazione con i temi del superuomo e della volontà di potenza. Credo che questo
aspetto vada piuttosto nella direzione dell’eterno ritorno, nella direzione del Cristo
come redentore, la cui fede, come dice Nietzsche, è interamente pratica, uno stato del
cuore, un modo di comportarsi nel mondo che non è assolutamente una credenza, non
è adesione a nulla, a nessun pensiero, a nessuna politica, a nessuna filosofia, a
nessun’arte. Qui c’è un elemento di ambiguità, di inquietudine da parte di Nietzsche,
che sarebbe interessante approfondire.

Per tornare al cristianesimo, quali sono i tratti che lo definiscono o lo caratterizzano?


Credo che ciò che caratterizza il cristianesimo sia proprio la sua tendenza
all’autodecostruzione. Abbordiamolo dall’esterno, chiediamoci perché l’intera storia
del cristianesimo sia contrassegnata da movimenti di ritorno a un’origine sempre più
pura. Nietzsche non fa che compiere un certo movimento riformatore, inteso a
ritrovare un Cristo più puro, più puro perfino della lettera dei Vangeli, e in ogni caso
più puro del Cristo di Paolo. Egli continua così un movimento profondamente
cristiano.
Il cristianesimo si comporta come se fosse la quintessenza del monoteismo (se si
considera, come ho detto prima, che il monoteismo è potenzialmente ateismo). Che
cosa c’è per Paolo al centro del cristianesimo? C’è la famosa kenosis del Cristo.
Kenosis vuol dire che Dio si svuota della sua divinità per venire nell’uomo. Credo che
il punto intorno a cui si è sviluppato un gran numero di discussioni teologiche, che si
sono concluse con la definizione dei dogmi cristologici, sia che non solo Dio si
incarna nell’uomo o Dio diventa uomo (mentre non c’è inversamente un diventar Dio
dell’uomo), ma che il divino prende nell’uomo la dimensione del ritirarsi,
dell’assenza e, infine, della morte. Almeno sotto questo primo aspetto, il cristianesimo
comporta molto profondamente la dimensione dell’ateismo inteso come ritirarsi di
Dio in rapporto all’uomo.

Mi lascia un po’ perplesso, francamente, la Sua insistenza sul fatto che il


cristianesimo e gli altri monoteismi celebrino il ritirarsi della divinità. C’è nondimeno
un lato mistico del cristianesimo, presente anche in altre religioni. Il misticismo, al
contrario, comporta una presenza anche fisica, gaudiosa di Dio. È una specie di
fisicità presente forse solo nei mistici, che tuttavia sono anche loro cristiani.

In un senso più generale, nel cristianesimo c’è anche una grande ambivalenza. C’è la
dimensione del ritirarsi, ma al tempo stesso la dimensione di una superpresenza,
perché Dio si incarna, e la kenosis è anche l’incarnazione. E nell’incarnazione la
superpresenza può arrivare fino alla presenza mistica, gioiosa e gaudiosa, che si trova
in santa Teresa d’Avila o in san Giovanni della Croce. Ma tra i mistici c’è anche
Eckhart che dice: “Preghiamo Dio di liberarci e di dispensarci da Dio”. La mistica
cristiana è come le altre due – l’ebraica e l’islamica –la forma estrema, e a volte la più
ambigua, di una superpresenza idolatrica. È perciò che i mistici sono in sospetto alle
ortodossie delle rispettive confessioni. E tuttavia credo che siano loro a indicare il
punto decisivo della questione: per esempio Luria e la creazione come tzim tzum,
come contrazione di Dio, nell’ebraismo, Eckhart nel cristianesimo e Hallaj nell’islam.
Hallaj dice che dell’Unico nessuno può dire che è unico. Quella proposizione dava
scandalo e perciò Hallaj è stato perseguitato. La mistica non è che la forma estrema
degli enunciati prodotti da ciascuna confessione.

Come secondo tratto del cristianesimo, lei parla di demitizzazione.

Non credo che ci sia un’altra religione, anche all’interno dei tre monoteismi, che si sia
arrischiata in quell’impresa di demitizzazione che, attraverso il protestantesimo (così
mi collego con quello che Lei diceva prima), il cristianesimo ha non soltanto avviato,
ma in un certo senso ha portato ormai molto avanti, anche all’interno del
cattolicesimo. Non parlo necessariamente di quello che dice il Vaticano, ma di quello
che è realmente pensato, praticato dai cattolici, per esempio in un paese come la
Francia. Conosco cattolici praticanti che vivono una condizione di completa
demitizzazione, cioè non credono più alla verità della persona di Cristo, o alla
verginità di Maria, o alla transustanziazione, come ci si credeva ancora ai tempi della
mia infanzia o della mia giovinezza. Quel modo di credere è rimasto appannaggio
solo di un certo numero di cattolici.

Qual è dunque la differenza tra la demitizzazione, come Lei la intende, e quella che si
chiama oggi secolarizzazione?

C’è una differenza. La demitizzazione, almeno come è stata praticata e portata avanti
specialmente da Bultmann, è un movimento di riforma e di ritorno alle fonti del
cristianesimo, già molto sviluppato, che consiste nel volersi riappropriare del puro
nucleo di senso in cui Gesù non è più tanto il personaggio misterioso, miracoloso e
incomprensibile dell’uomo-Dio, ma è il portatore di un messaggio di verità. La
demitizzazione sopprime le figure, per accedere a un puro nucleo di senso o di verità.
Resta peraltro il nucleo cristiano.
La secolarizzazione, invece – che è cominciata in realtà già da lungo tempo con il
Rinascimento, ed è in un certo senso il contraccolpo della Riforma e, forse, dei primi
abbozzi di demitizzazione che la Riforma conteneva in sé, almeno di fronte a certi
aspetti del dogma – non solo ha eliminato tutta una serie di figurazioni, ma ha
abbandonato anche ogni nucleo puramente religioso, in base all’idea che i contenuti e
le strutture cristiane si traspongono in contenuti e strutture del mondo.
È noto che la secolarizzazione ha dato luogo a un grande dibattito, in particolare in
Germania tra Carl Schmitt e Hans Blumenberg. Credo che questo dibattito sia molto
importante. Dichiaro subito che sono dalla parte di Blumenberg. Il dibattito si è
articolato in questo modo: da una parte, per Carl Schmitt, il mondo moderno nella sua
totalità è una trascrizione secolarizzata del mondo religioso in cui si ritrova l’elemento
teologico-politico, ma senza l’autorità divina che lo fondava. Ne nascono problemi
inestricabili, perché se la democrazia è essenzialmente una teologia politica
secolarizzata, non se ne può emancipare, perché non ritroverà mai il divino che le
manca e del quale sarebbe un semplice calco. Secondo un’altra lettura, invece, quella
che chiamiamo secolarizzazione è veramente un’uscita fuori dalla struttura e dal
contenuto, dell’elemento teologico-politico.
A questo punto siamo evidentemente di fronte a una questione del tipo di quella che
indicavo prima, parlando del vuoto che il cristianesimo con il ritiro del sacro ha aperto
nell’uomo. Credo veramente che oggi, per esempio, non si possa rispondere alla
domanda politica in termini di teologia, per quanto completamente secolarizzata,
perché non avrebbe senso. Questo significa che bisogna reinventare da cima a fondo il
concetto stesso del politico. Bisogna riempirlo con qualcosa di diverso da una
trascrizione dell’elemento teologico-politico.

Qual è il tratto più rilevante del cristianesimo? Lei parlava prima di composizione.

È notevole che il cristianesimo si è costituito in base a una doppia provenienza greco-


giudaica. Beninteso, esso nasce dall’ebraismo, dai movimenti messianici, che
corrispondono ai processi di decomposizione, alle inquietudini e ai fermenti del
giudaismo tardo e ossificato degli ultimi secoli prima dell’era cristiana. Ma è noto, al
tempo stesso, che il cristianesimo non si è sviluppato senza l’apporto della filosofia.
Si cita sempre il fatto che Paolo, parlando agli ateniesi, fa una citazione dagli stoici e
che Giovanni traduce logos ciò che era in ebraico la parola, il soffio divino. Senza
contare il gran numero di nozioni filosofiche investite nell’elaborazione dei dogmi
cristiani – come le nozioni di sostanza, di ipostasi, di pleroma, tanto per restare ai
dogmi relativi all’incarnazione – che permettono di elaborare, per esempio, il pensiero
della Trinità.
Tutto ciò significa che un elemento greco e un elemento ebraico sono entrati nella
composizione del cristianesimo. Ma vi sono entrati in modo tale che resta appunto una
composizione, un assemblaggio, che comporta una possibilità di scomposizione.
Questo non significa affatto che non regga. Regge e si vede bene con che forza ha
retto per venti secoli! Ma la composizione è a sua volta una sorta di ricomposizione,
perché i greci e gli ebrei sono ciascuno a suo modo il risultato della fine del mondo
politeista.
La filosofia si è rappresentata a lungo le cose come se da un lato ci fossero i greci e
dall’altro qualcosa di eterogeneo, di contingente che arriva dall’Oriente, e che sarebbe
l’ebraismo, che non si saprebbe bene come valutare. Io vedo le cose in modo del tutto
diverso e in maniera molto più simmetrica. Vediamo la situazione nel VII secolo a.C.
Troviamo dalla parte dei greci e da quella degli ebrei due movimenti paralleli che
delineano due modi di raffigurare la fuga degli dèi, sia nella filosofia che nel
monoteismo, sia nel monoteismo che nella filosofia. Si può guardare in tutti e due i
sensi. Nello stesso periodo in cui il monoteismo ebraico formula la sua storia, la sua
scrittura eccetera, o poco dopo, Platone è capace di dire ho theós, di dire dio al
singolare, cosa che non avrebbe avuto alcun senso per Omero o per Esiodo. Dunque
avviene così il passaggio del divino al singolare, con cui la filosofia apporta, in un
modo per me ancora enigmatico, qualcosa che renderà possibile, mediante la sua
combinazione con l’ebraismo, il cristianesimo. Ma al tempo stesso dico, per limitarsi
a questo punto, che questo dio al singolare che si combina con il Dio cristiano, è una
composizione, una combinazione che lascia aperta e scava la non presenza degli dèi,
al posto dei quali questo Dio è venuto.

Lei non pensa che il tema dell’incarnazione vada però nel senso opposto? In questo
caso un dio diventa presente. Non è questo il tema originale del cristianesimo, sia in
rapporto alla Grecia, sia in rapporto all’ebraismo? Un dio che si fa uomo e si
incarna...

La presenza del Cristo è una presenza estremamente ambigua. È la presenza di una


persona storica, ma che muore e resuscita e che, dopo essere resuscitata, si allontana,
si ritira di nuovo, ritorna nell’assenza del Padre. E al tempo stesso apre una storia. Ma
non l’apre subito. All’inizio si attendeva il ritorno prossimo del Signore. Ma, poiché
ci deve essere un ritorno, c’è già il principio di una storia. E poi, a poco a poco, si
costruisce una storia umana in cui l’uomo potrà anche divinizzarsi, assumendo tutti
gli attributi di Dio. È quello che farà Feuerbach, reinterpretando il cristianesimo
attraverso il suo inveramento nell’umanismo. Ma a quel punto la parousia, verso cui
la storia dovrebbe dirigersi, riprende la dimensione dell’assenza.
Il grande scacco del pensiero della storia, che è stato il grande pensiero
dell’Ottocento, è che questa storia non arriva mai al suo termine. E che la storia non
arrivi al suo termine è l’effetto del fondamentale ritirarsi del dio, e dunque di
quell’assentarsi che costituisce la presenza stessa di Cristo. Non è un caso che oggi il
ritorno dei temi del messianismo – ritorno cominciato attraverso Benjamin con una
riflessione sulla storia che si voleva appunto non hegeliana, non marxista, almeno nel
senso dell’hegelismo di Marx a questo proposito – è il ritorno di un pensiero della
storia non più pensato sullo sfondo di un evento finale che non accade mai.In questi
termini vedo il valore del messianismo benjaminiano, ripreso poi da Derrida, e oggi,
per esempio, da Agamben. Salvo che io muoverei loro l’obiezione che l’uso della
parola “messianico” è a sua volta molto problematico.

Quali sono gli altri tratti del cristianesimo secondo la sua definizione?

Vorrei concludere dicendo, alla fine delle considerazioni che ho tentato di abbozzare,
che il cristianesimo non dev’essere considerato tanto come un corpo di dottrine, come
un complesso di dogmi e di istituzioni, come il risultato della sua autodivisione in
parecchie religioni relativamente distinte. Ciò che sorprende, piuttosto, attraverso
tutto questo, è che il cristianesimo si comporta come un soggetto. In questo è
indubbiamente unico rispetto a tutte le altre religioni, perché si costituisce in un
rapporto con se stesso, che è un rapporto permanente di riforma, di ritorno a
un’origine che non può però ritrovare, perché vive anch’essa nella composizione e
dunque nello scarto che caratterizza ogni composizione.

Questa dunque è una questione specifica del cristianesimo, e non anche dell’ebraismo
e dell’islam.
Gli altri due casi sono molto diversi. Non è specifica dell’ebraismo, perché l’ebraismo
è sempre vissuto nella tensione tra l’attesa messianica e la religione costituita del
Tempio, in cui non c’è nessuna attesa. Quindi è vissuto tra l’attesa e l’osservanza.
Nell’ebraismo di oggi, successivo alla seconda distruzione del Tempio, c’è una
doppia attesa: l’attesa messianica, ripresa e secolarizzata a partire da Benjamin, ma
anche l’attesa del Tempio. Nella religione del Tempio, si dice che non si sacrifica più
da quando il Tempio è stato distrutto, ma che, quando il Tempio verrà ricostruito, si
tornerà a sacrificare. C’è l’attesa di Gerusalemme. Si dice: “L’anno venturo a
Gerusalemme”.
Quella ebraica non è dunque la stessa struttura dell’attesa cristiana, che è l’attesa di un
ritorno, che è stato interpretato tanto come fine dei tempi ultima e infinitamente
lontana, quanto come evento che ha luogo in ogni istante, o ancora come ciò che ha
luogo nel momento della morte e in prossimità della morte. Dunque sotto questo
riguardo il cristianesimo eredita qualcosa di molto profondo del giudaismo. La morte
è veramente la fine della vita, con l’accesso, se di accesso si può parlare, a qualcosa
che non è un’altra vita, qualcosa che resta da interpretare, la parousia, la quale non
vuol dire “presenza piena”, ma – curiosamente – “presenza a lato”. Quanto all’islam,
esso non si trova affatto nella stessa dimensione dell’attesa, perché, se di attesa si può
parlare, è l’attesa di qualcosa che è compiuto, di una presenza integrale, in cui
soltanto l’infinità di Dio e la sua assoluta differenza dal mondo apre una dimensione
che non è quella di una presenza compiuta e satura. Per quel che riguarda la mistica
islamica, bisogna considerare anche qui le grandi differenze che ci sono nell’islam:
l’islam shiita, in particolare nelle sue interpretazioni più mistiche, non è la stessa cosa
dell’islam sunnita, che noi conosciamo meglio.
Credo comunque che né nel giudaismo, né nell’islam ci sia la stessa combinazione di
attesa e di storia che c’è nel cristianesimo. Credo che proprio per questo il
cristianesimo è stato più strutturante per l’Occidente, nel senso che ha strutturato il
pensiero della storia e al tempo stesso l’opposizione alla storicità o allo storicismo,
che ha accompagnato il pensiero della storia e poi gli è succeduto.

Lei ha parlato anche di autorettificazione e di autosuperamento come tratti


caratteristici del cristianesimo. È un giudizio che colpisce, perché sono tratti tipici
anche della scienza moderna.
Bisogna che ci pensi, perché sul momento non sono in grado di rispondere in merito a
questo parallelo con la scienza. Ma intanto vorrei dire che autorettificazione e
autosuperamento di nuovo si possono intendere in due modi. Da una parte c’è la
tendenza a riattingere continuamente alle fonti per ritrovare la propria origine, che è
forse ciò che dà al cristianesimo la sua formidabile brama di potenza, la sua pretesa di
imporsi con l’universalismo, che è proprio della cattolicità. D’altra parte, il nocciolo
di tutta la questione sta forse proprio qui, nella tendenza del cristianesimo a rimettersi
in gioco, preoccupato e inquieto per il suo destino, perseverando però nell’arroganza e
in una enorme sicurezza di sé.
A questo punto non si tratta più di Dio, né di religione: restano solo certi elementi
propri della costituzione del cristianesimo, quelli che, come dicevo all’inizio, mi
vengono in mente per primi: l’amore e la fede. Restano l’amore cristiano – una cosa
che andrebbe benissimo per guarire i mali della civilizzazione, solo che fosse
possibile (come diceva Freud con un sorriso ironico in Il disagio della civiltà) – e la
fede in quanto completamente diversa dalla credenza: la fede, dunque, che non è né
sapere né credenza.

L’amore, appunto. Lei pensa che si debba interpretare come caritas, come amore
abnegante, o come amor, nel senso dell’amore sensuale?

È caritas, ma la caritas non è così lontana da eros. Perché caritas è anche fascino,
favore. Ricordo un bel testo di Jean-Pierre Vernant sulla charis greca come seduzione,
fascino in senso femminile.

C’è, malgrado tutto, un resto al di là dell’ateismo, al quale il cristianesimo sembra


portare da sé quasi automaticamente, secondo la Sua valutazione?

Sì, ma il resto è quello che bisognerebbe trarre dall’ateismo cristiano di Nietzsche, in


rapporto all’ateismo dei Lumi, come ha suggerito Lei prima. Un resto che – come si
può vedere benissimo in Nietzsche, ancora una volta nei paragrafi de L’Anticristo,
quando indica Cristo come il tipo del redentore – è fatto di amore e di fede. Nietzsche
vede – ed è un fatto notevole – che la fede è assolutamente diversa dalla credenza. E
quando Nietzsche dice che questa fede è soltanto una pratica, una maniera di essere
nel mondo, benché non citi Paolo, anche se non ne è consapevole, su questo punto è
molto paolino.

Lei pensa che questa distinzione netta tra credenza e fede sia stata influenzata dalla
tradizione protestante e kantiana? Kant è il filosofo che più nettamente separa fede e
credenza, allontanandosi su questo punto dalla tradizione del Medioevo cattolico.

Direi che questa tendenza fa parte del processo interno al cristianesimo, quando
diventa protestante. Non si può fare a meno di guardare al cristianesimo con occhi
protestanti. Ma a questo punto aggiungerei che con occhi protestanti si può anche
riscoprire qualcosa del cattolicesimo. E non mi si venga a obiettare che la fede del
Medioevo coincideva con la credenza, perché allora ripeterò le parole di Giovanna
d’Arco. Ai giudici che le chiedono: “Credi di avere la fede?”, Giovanna risponde: “Se
non ce l’ho, che Dio me la conceda, e se ce l’ho, che Dio me la conservi”. Questa non
è certo credenza.

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