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Francesco Lamendola

Il trucco modernista c’è, e si chiama Karl Rahner


Kant, Hegel e Heidegger sono stati pensatori i cui sistemi filosofici sono incompatibili con il
cristianesimo. Eppure c’è stato un teologo cattolico, Karl Rahner, il quale, nei decenni centrali del
XX secolo, ha inserito e coonestato le loro filosofie nel corpus della teologia cattolica, quasi come
una nuova scolastica. Tale operazione parte assai da lontano, addirittura dagli anni della Seconda
guerra mondiale, ma è nell’evento del Concilio Vaticano II che ha trovato le condizioni favorevoli
per essere attuata felicemente (si fa per dire) e portare, così, in maniera inavvertita e pressoché
indolore, a ciò cui oggi stiamo assistendo in forme sempre più evidenti: al travisamento della
dottrina cattolica e all’avanzare di una apostasia generalizzata da parte del clero e dei fedeli, a
partire dagli stessi cardinali e vescovi.
Questa analisi, lucida e precisa, è stata condotta, fra gli altri, dal professor Stefano Fontana, un
autore cattolico molto onesto e coraggioso e perciò, oggi, non molto ben visto nelle alte sfere della
neochiesa, e nemmeno in quelle più basse. La sua “colpa” è quella di riallacciarsi alla critica di
certe tendenze post-conciliari, già condotta da un grande pensatore come padre Cornelio Fabro, nel
riconoscere e denunciare in Rahner il distruttore del tomismo e l’autore di una pretesa “rivoluzione
copernicana” della teologia (la famigerata svolta antropologica), rivoluzione che ha condotto a una
situazione paradossale, cioè alla conquista dei vertici della Chiesa da parte dei seguaci di un teologo
modernista, la cui autorità viene oggi presentata come indiscutibile. Situazione paradossale anche
perché essa ha condotto la teologia cattolica a rinchiudersi da se stessa in una sorta di prigione,
dopo di che – l’immagine è di un altro grande pensatore cristiano del XX secolo, Etienne Gilson –
essa si accanisce a voler aprire la porta della prigione in cui si trova, ma dall’interno, cosa
evidentemente contraddittoria e impossibile.
In una conferenza tenuta ad Ancona un mese fa, il 5 maggio 2018, su invito dell’associazione
Oriente Occidente, per presentare il suo libro La nuova Chiesa di Karl Rahner (Verona, Fede &
Cultura, 2017), il professor Fontana, fra le altre cose, ha detto (il video completo è disponibile in
rete, ad esempio sul sito Il fumo di Satana – Anticattocomunismo):

La mia domanda è la seguente: questa situazione di incertezza, di dubbi, possiamo dire anche di
confusione, perché una situazione di incertezza è una situazione confusa, dove uno non sa come
orientarsi – è semplicemente una situazione di incertezza, di confusione, o è un nuovo ordine che
emerge, un nuovo paradigma, un nuovo assestamento che si va configurando? L’impressione,
abbastanza forte, osservando quel che capita intorno a noi, è che sta forse nascendo un nuovo
paradigma della fede cattolica; per cui è una confusione, ma che ha una sua coerenza, all’interno
dell’incertezza: e in questo senso, però, la valutazione si aggrava ancora, perché se si tratta solo di
incertezza, basta mettere in atto degli interventi per chiarire, e l’incertezza è superata; ma se
questa incertezza è in qualche modo voluta, perché attraverso l’incertezza si vuole far emergere
qualche nuova visione della fede cattolica, allora la cosa lascia perplessi e fa sorgere qualche
domanda in più. Ora, il mio parere è che questa situazione di confusione, nei termini che ho detto,
di oggi, non sia occasionale o dovuta a degli inconvenienti di percorso o contingenti; diciamo che
non avviene per accidens, come direbbero i filosofi, ma per essentiam; cioè c’è qualcosa di nuovo
che si sta configurando, che sta emergendo gradualmente e incidentalmente – perché non è sempre
facile intravedere un piano, un progetto – però abbastanza coerentemente. E allora, se questa mia
analisi – da fedele, che legge i fatti, mica da studioso – perché le situazioni di dubbio che ho
denunciato sono davanti a tutti – io mi son chiesto da dove derivi; e mi sono dato questa risposta,
risposta che ha messo in moto alcune condizioni di cui vi parlavo. La mia risposta è questa: la fede
ha bisogno della teologia, perché la fede va compresa, se pure compresa nella fede della Chiesa;

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ma la teologia ha bisogno della filosofia, come dello strumento di cui si avvale. Senza concettualità
filosofica, il teologo non può fare teologia; come, senza lo strumento della matematica, il fisico non
può fare fisica. La fede ha bisogno della teologia; la teologia ha bisogno della filosofia, perché la
fede è conoscenza; una forma di conoscenza, come ci spiega il professor Livi. Non è esperienza,
come si tende a dire oggi, ma è una forma di conoscenza. Cioè, la fede ha un contenuto conoscitivo
- il professor Livi direbbe: noetico - cioè la fede è un atto dell’intelletto, anche se mosso dalla
volontà e, da ultimo, dalla grazia divina. La fede implica una logica. Ora, se la fede, invece, non
fosse conoscenza, ma esperienza, allora potrebbe andar d’accordo cin tutte le filosofie. Ma siccome
la fede è conoscenza, ha un contenuto conoscitivo, rivelato, che non è irrazionale, ma risponde
anche alle esigenze della ragione, allora la fede non può andar d’accordo con tutte le filosofie, ma
solo con la filosofia vera. Ciò con la filosofia naturale cristiana. Per questo motivo, allora, ecco il
punto, se alla fede vengono applicate filosofie incompatibili con la fede, perché non vere, il
contenuto della fede ne risulta modificato, trasformato. Allora, cosa c’è all’origine di questi
cambiamenti in atto, che noi vediamo nella vita della Chiesa di oggi? Cosa c’è all’origine? C’è
l’applicazione alla teologia, e quindi poi alla fede, di filosofie sbagliate, che hanno messo ai teologi
degli occhiali nuovi con cui guardare le verità, i contenuti della fede. Non hanno cambiato i
contenuti della fede; la dottrina rimane: ma hanno cambiato il modo di vere i contenuto dottrinali,
per cui, cambiando gli occhiali filosofici, quei contenuti dottrinali ne risultano trasformati. Quindi:
volte cambiare la teologia e la fede della Chiesa? Fate così inoculate, inserite nella teologia, nelle
istituzioni d’insegnamento nei seminari, una nuova filosofia, o nuove filosofie; non attaccate
direttamente i contenuti della fede, se volete cambiarli; ma lasciate che a intaccare i contenuti
della fede siamo gli stessi teologi, gli stessi sacerdoti, magari gli stessi vescovi. Quando, con gli
occhiali nuovi di una filosofia diversa che voi avete inserito nella formazione, nei testi, nei maestri
di riferimento, dei teologi di riferimento, cambieranno anche i contenuti della fede stessa. E sarà
una mutazione do fede graduale, inavvertita, indolore. I fedeli saranno contenti e inconsapevoli,
ma, nello stesso momento, non crederanno più in ciò in cui si credeva ieri, o l’altro ieri. Così
facendo, i fedeli dimenticheranno e poi, pian piano, dimenticheranno di aver dimenticato; e si
troveranno a pensare di credere ancora nella fede degli Apostoli, e invece, magari, credono in una
fede diversa da quella degli Apostoli. La prassi del modernismo è sempre stata questa - questa
ambigua, sfaccettata, sfuggente eresia, condannata da san Pio X con l’enciclica “Pascendi”, nel
1907, aveva questo obiettivo -: non attaccare dall’esterno la Chiesa per demolirla, ma penetrare
all’intermo, affinché fossero gli stessi uomini di Chiesa a cambiare la fede. Attraverso che cosa?
Principalmente, attraverso la filosofia. Perché il modernismo ha mille aspetti, ma è e rimane
principalmente un fatto soprattutto filosofico. Un anno fa avete forse letto l’ultimo esempio di
questa tattica, a proposito di un grande teologo, Gregory Bauman. È morto circa un anno fa, a
novantadue anni. È stato uno dei grandi teologi del post-concilio, celebrato e onorato. In punto di
morte, lui ha dichiarato di essere stato sempre omosessuale; di aver perso la fede da giovanissimo;
ma dio essere rimasto, ciò nonostante, dentro la Chiesa, per cambiarla dall’interno.

Procedendo nella sua analisi, il professor Fontana ha individuato in Karl Rahner colui che, più di
ogni altro, ha svolto, nella teologia del XX secolo, la funzione di operare uno stravolgimento della
fede mediante l’applicazione di filosofie sbagliate alla teologia cattolica: il criticismo, l’idealismo e
la filosofia di Heidegger. Ora, Karl Rhaner era un gesuita, come lo era, prima di lui, Pierre Teilhard
de Chardin. È difficile non vedere come siano stati proprio i gesuiti - i quali, ancora negli anni ’30
del Novecento, sposavano il compromesso storico col fascismo e si lanciavano in un’ultima, grande
crociata contro la modernità - coloro i quali, a partire dal secondo dopoguerra, hanno operato una
vera e propria inversione di rotta, dapprima isolatamente, poi in forma sempre più massiccia e
consapevole. Se la modernità non poteva essere combattuta e vinta e se l’ultimo grande strumento
politico-sociale per ritardarne l’avvento, il fascismo, era miseramente caduto, non restava altra
strategia che quella di spalancare le braccia, accoglierla festosamente e arrivare con essa a un
ragionevole compromesso, sulla base di una lettura immanentistica, realistica e naturalistica dei dati

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della Rivelazione. In altre parole: via lo spiritualismo, via il tomismo, via anche la razionalità
scolastica, perché inseparabile da un atteggiamento di umiltà verso la fede; e avanti tutta con le
tendenze più recenti, e, appunto, più moderne: avanti con la logica della soggettività, con la
conoscenza che non è mai conoscenza oggettiva di qualcosa, di una verità a sé stante, ma sempre
conoscenza condizionata dal soggetto conoscente (un’idea tipicamente kantiana). E si arriva così,
per questa via, alla “scoperta” che la fede non è una forma di conoscenza oggettiva, e quindi
razionale, di contenuti oggettivi, ma è un contenuto personale, intimo della coscienza, una
”esperienza”, e perciò un fatto eminentemente sentimentale, dell’io soggettivo, con la fede stessa
(non con Dio, si badi, ma con la fede: con la fede in Dio). E ci si dimentica, in tal modo, che la fede
viene da Dio: e che, se non viene da Dio, nessuno ci può arrivare in altro modo, perché essa non è
una costruzione umana. Una vera e propria perversione teologica, già individuata e denunciata, a
suo tempo, da Cornelio Fabro: non è più la fede che garantisce la verità della dottrina, ma è la verità
della dottrina che viene adattata e in qualche modo modellata secondo le esigenze della fede; ma di
una fede del soggetto, una fede soggettiva, una fede insomma umana, e non la fede cristiana, che
viene da Dio e che è garantita da Gesù, cioè da Dio stesso.
Si rifletta sulla confessione finale (a oltre novant’anni di età!) di Gregory Baum (1923-2017), il
teologo canadese di origine tedesca, figlio di madre ebrea e padre protestante, tanto applaudito e
osannato negli ambienti post-conciliari: sono sempre stato omosessuale, e ho perso la fede fin da
giovanissimo; ciò nonostante ho voluto restare nella Chiesa per cambiarla dall’interno. Cambiarla,
ma in che senso? Evidentemente, in senso relativista, soggettivista, omosessualista e naturalista.
Che altro poteva desiderare un teologo che aveva perso la fede in Dio, ma che non ha avuto la
decenza e l’onestà di dirlo apertamente, né quella di lasciare la Chiesa, ma che ha deciso di restarci
al preciso scopo di sovvertirne la dottrina, mediante una trasformazione degli strumenti concettuali
e filosofici con i quali ”leggere” i dati della fede? In altre parole: i nemici della Chiesa, gli eretici –
una parola che, guarda caso, è sparita dal vocabolario della Chiesa post-conciliare – hanno deciso di
stravolgere la dottrina e di sovvertire la Chiesa stessa, semplicemente uniformandola ai loro gusti,
alle loro tendenze e anche ai loro peccati. Un teologo perde la fede? nessun problema: si fa in modo
che la fede, intesa come dono soprannaturale della Grazia, non sia più l’elemento essenziale della
vita cristiana; si sposta tutto il peso del discorso sulla soggettività del “credente”, da un lato (già: ma
credente in che cosa, alla fin fine?), e sul mondo “concreto” dall’altro: e via con la retorica della
giustizia sociale, con il buonismo immigrazionista, con il panegirico degli “ultimi”, intesi sempre e
solo in senso economico, come se il fatto di essere poveri, non per scelta di vita cristiana, ma per le
circostanze storiche, conferisse una speciale patente di verità dottrinale. Un altro teologo, o magari
lo stesso, sa di essere, e di essere sempre stato, omosessuale? Nessun problema neanche in questo
caso: si fa in modo di far penetrare nella teologia cattolica, e poi nella pastorale, e poi in entrambe,
l’idea che siamo tutti figli di Dio, che non si deve discriminare nessuno, che siamo tutti meritevoli
di amore (idea giusta) e che, quindi (idea sbagliata) tutto quel che facciamo va bene, ogni nostra
tendenza è buona, non c’è più il peccato ma solo il diritto a essere se stessi, a “realizzarsi”, a vivere
apertamente la propria vita, senza finzioni e senza ipocrisie (come se quella di rivelarsi solo in
punto di morte fosse una condotta sincera e leale nei confronti della Chiesa e al cospetto di Dio). E
così, un po’ alla volta, un passetto dopo l’altro, si sposta tutta la dottrina della Chiesa su posizioni
nuove e inusitate, ma che non vengono percepite come tali dalla maggior parte dei fedeli, perché il
veleno è stato inoculato dall’interno, cioè da teologi e da membri del clero, è stato insegnato nei
seminari e nelle facoltà teologiche, è stato scritto nei libri degli autori di riferimento del post
Concilio, e quindi chi mai andrebbe a sospettare un inganno, una colossale mistificazione? Sì,è vero
che san Pio X aveva perfettamente visto e compreso la tecnica dei modernisti, quella d’insinuarsi a
poco a poco, da dentro, per sovvertire le verità della fede cattolica; ma san Pio X appartiene a un
altro mondo, dopo di lui ne è passata di acqua sotto i ponti. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ha
fatto la sua rivoluzione copernicana, e che ha abbracciato il mondo moderno così festosamente e
con tanta buona volontà. Come si può essere tanto maliziosi da sospettare un inganno, addirittura un
tradimento? Ed eccoci arrivati al capolinea di tale strisciante apostasia: al trionfo del modernismo…

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