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Questo

saggio è la prima traduzione mondiale di un testo di Pavel Florenskij risalente al 1922 e


fortunosamente riemerso in Russia in anni recentissimi. Nato nel 1882, fucilato nel 1937 dopo essere stato
deportato nell’estremo Nord della Russia, Florenskij è una soggiogante figura di mistico, filosofo,
matematico e teologo, quale poteva apparire soltanto in quella prodiga fioritura di genialità che si ebbe in
Russia nei primi anni di questo secolo. Chi poté conoscerlo ha testimoniato dell’immenso potere che aveva
la sua persona. Per decenni i suoi scritti furono, per molti russi, una leggenda - e inappagato il desiderio di
ritrovarli. Oggi, a poco a poco, e per vie traverse, essi ricominciano a filtrare, in Russia e in Occidente.
Il mondo della pittura di icone, che Florenskij ci svela in queste pagine, rimarrebbe per sempre
incomprensibile se lo si avvicinasse con i consueti strumenti della critica d’arte. Esente dalla prospettiva,
incompatibile con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, l’icona
presuppone una metafisica delle immagini e della luce. Ed è a questa metafisica che Florenskij ci introduce,
scendendo poi in analisi storiche acutissime, che svariano dalla pittura fiamminga alle tecniche della
preparazione dei colori, dalle forme dei panneggi al significato dell’oro e al nesso fra le icone e la liturgia
della Chiesa orientale. Accompagnati da questa guida incomparabile, possiamo così finalmente varcare le
«porte regali» dell’iconòstasi, «confine fra il mondo visibile e il mondo invisibile», luogo dove si manifesta
una pittura sublime, in cui le cose sono «prodotti della luce».
Pavel Florenskij

Le porte regali
Saggio sull’icona

A cura di Elémire Zolla

Adelphi eBook
PREFAZIONE
Mi lasciò impacciato, trasognato, l’incontro con l’arciprete Pavel Florenskij; in
lui, vissuto in Russia fra il 9 gennaio 1882 e quel 15 dicembre 1943, le stesse
idee erano apparse, riunendosi, svolgendosi in steli e foglie di pensieri, come in
me oggigiorno. Va da sé, su di lui aveva sfolgorato ciò che su di me barlumava,
dentro di lui s’era incastonato ciò che in me aveva lasciato una tenuissima
impronta, ma tanto più l’essenziale identità mi sbalordiva, ritornandomi
costante nel cuore; specie nel semibuio davanti a certe iconostasi lambite da
vaghi riflessi d’oro e attenuate da celesti cortine d’incenso, mentre i noti corali
mi staccavano dall’anima, gettandola in lacrime, come un cencio, lontano.
Quando poté uscire la versione italiana (la prima nel mondo!) del suo primo
capolavoro, stampato a Mosca nel 1914, La colonna e il fondamento della verità
(Rusconi, Milano, 1974), raccolsi nella prefazione tutto ciò che ero riuscito a
racimolare, a sapere di lui.
Intanto avevo trovato un numero del «Messaggero dell’Esarcato patriarcale
dell’Europa Occidentale» (Parigi, marzo 1969) dove era presentato un suo
saggio col titolo L’icona, un caotico brogliaccio della sua seconda fase,
posteriore al 1914; ne pubblicai una versione su «Conoscenza religiosa», nel
1974.
Per parte sua Konstantin Andronikov aveva presentato in francese La
colonna e il fondamento della verità (L’Age d’Homme, Lausanne, 1915), e John
Lindsay Opie curava, con focose e giuste parole introduttive, una versione
inglese dell’Icona («Eastern Churches Review», Oxford University Press, 1,
1976).
Venivo intanto a scoprire che molti giovani Russi conoscono a menadito e
venerano Florenskij - potei discorrere di lui con loro come di Klopstock si parla
nel Werther. Conversazioni così incantate rapiscono nel mondo degli archetipi,
fanno d’ogni cosa tangibile un riflesso sull’acqua. Nell’esangue Occidente
conversazioni tali sono ignote; ancora se ne possono avere in qualche
giardinetto, in qualche stanzuccia persiani con i poetici eruditi della scuola di
Sohrawardi o di Molla Sadra, e mi sovviene appunto che soltanto Florenskij in
tutta la filosofia europea sa formulare la natura del «mondo intermedio» ovvero
dell’immagine con la precisione dei metafisici d’Iran. Roberto Calasso mi
suggerisce che Henry Corbin per tutta la vita, nei testi più reconditi della
filosofia nostrana, è venuto cercando invano qualcosa di pallidamente analogo
all’imaginale dei Persiani illuminati e visionari appena appena ricuperando la
tenue idea di spissitudo spiritualis nei platonisti di Cambridge ma è qui, nelle
pagine di Florenskij, che il fatal incontro con quei Persiani avviene davvero.
Le informazioni, rispetto a quelle raggranellate per la prefazione a La
colonna e il fondamento della verità, si sono infoltite.
Che l’atmosfera del simposio Vechi fosse stata la premessa grazie alla quale
nel 1914 taluno aveva potuto capire il libro di Florenskij, mi confermò il «nuovo
Vechi» raccolto da Solženitzin: Sotto la gleba (Ίz-pod glyb, YMCA, 1974),
specie, in esso, il saggio di Solženitzin sulla ‘classe istruita’ (Obrazovanščina),
che è un riesame di Vechi, e l’adiacente saggio di Korsakov dedicato a
Florenskij. Nel Gulag II poche, densissime parole vanno al martire Florenskij,
informando che pagine sue anonime figurano tra i rendiconti della spedizione
siberiana dell’Accademia delle scienze moscovita, che i suoi scritti sulla rivista
«Sozialističeskaja rekonstruktzja i nauka» precorrono Norbert Wiener.
È giusto che venga in primo piano l’interesse per Florenskij filosofo della
scienza e in genere per quello posteriore al 1914, quando, bruciate tutte le
scorie ‘panslaviste’, raggiunse il piano - come in Ikonostas (qui intitolato Le
porte regali, che sono l’adito centrale dell’iconostasi) - dell’unità trascendente
dei culti. Ikonostas cancelli quell’icona uscita, come s’è detto, nel 1969 a Parigi,
che si svela, al confronto, un brogliaccio di Ikonostas stessa oppure un rappezzo
di suoi brani resi sibillini. Il curatore di Ikonostas, padre Prosvirnii, riscontrò il
dattiloscritto corretto da Florenskij sul testo scritto a mano da chi ne raccolse la
dettatura, e il saggio così collazionato uscì a Mosca su «Bogoslovski Trudi»
(«Lavori teologici»), IX, 1972.
Fa parte d’un opera assai vasta e lasciata incompiuta (se ne conosce il
titolo: Filosofia del culto), e risale al 1922. Si conoscono altri lavori preparatori
a quella grande opera, come i saggi stampati da Lotman (Trudi po znakovym
sistemam, V, Tartu, 1971, «Semeiotiki») e lo studio, apparso nel 1927, per me
introvabile, menzionato dal Prosvirnii: Analiz prostranstvennosti v
chudožestvennych proizvedenjach (L’analisi della spazialità nelle opere d’arte).

L’opera incompiuta, Filosofia del culto, avrebbe dovuto esplorare e definire
il «mondo intermedio», in base a una metafisica rifondata. Florenskij ripristina
l’intellezione metafisica, ma scoprendo che la scienza moderna sta adeguandosi
a premesse metafisiche. Infatti all’inizio di questo secolo essa ha dovuto
scrollarsi di dosso i due dogmi post-rinascimentali: la legge della continuità,
per cui ogni cosa trapasserebbe in altra a grado a grado, quantitativamente, e
la conseguenza necessaria di quella pseudolegge: la negazione delle forme, che
implicano discontinuità. È a dispetto della scienza postquantistica che
sopravvivono l’evoluzionismo (basato sulla lex continuitatis) e il conseguente
‘regno della quantità’; questi, dice Florenskij, furono implicitamente confutati
da chi venne elaborando la teoria della funzione reale di una variabile reale e
da chi poi la applicò, da chi studiò le curve dei movimenti browniani, certe
oscillazioni ondulatorie, le epilàmine di talune emulsioni di colloidi.
Torna cioè l’idea di forma, che non è soltanto un’esigenza d’ogni
interpretazione dei fenomeni della vita (e Florenskij non poteva conoscere il
DNA, che ne è la trascrizione), se la meccanica stessa è costretta ad invocarla
studiando i movimenti indotti, le polarità, le istéresi, l’elasticità, per i quali deve
supporre una totalità anteriore delle parti, una forma, appunto.
Ma di tutte le forme, qual è l’archetipica? Dopo Cantor, può tornare a
essere il numero intero, insegna Florenskij, poiché ogni numero intero ha una
sua unicità significativa, è un archetipo. Da questa ricostruzione del
pitagorismo, Florenskij innalza l’edificio della metafisica, distinguendo
l’archetipo dai tipi, le idee viventi dalla materia vissuta, con in mezzo l’istmo,
l’adito: l’iconostasi del mundus imaginalis con le sue «porte regali».
Egli lasciò anche il programma di un dizionario dei simboli o symbolarium
(che uscirà tradotto su «Conoscenza religiosa»). È basato sulle 91 forme
geometriche piane e solide fondamentali, dal punto (1) alla sfera (16), all’uovo
(17), alla voluta (18), alla spirale (19). In queste 19 sezioni avrebbe trovato il
suo ordine perfetto, la sua spirale, la congerie vertiginosa delle immagini
possibili. Coincidenza a lui ignota: anche nel sufismo iranico le forme
geometriche sono i punti di riferimento del simbolario.

ELÉMIRE ZOLLA

LE PORTE REGALI
SAGGIO SULL’ICONA

Secondo le prime parole del Genesi, Dio «creò il cielo e la terra» (Gen. I, 1)
e questa divisione di tutto il creato in due parti è sempre stata considerata
fondamentale. Così nella confessione di fede chiamiamo Dio «Creatore delle
cose visibili e delle invisibili», Creatore così delle visibili come anche delle
invisibili. Questi due mondi - il visibile e l’invisibile - sono in contatto. Tuttavia
la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del
confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì unisce. Come si può
intenderlo?
Qui come nelle altre questioni metafisiche il punto di partenza è ciò che noi
già sappiamo dentro di noi. Sì, la vita della nostra anima ci dà il punto
d’appoggio per conoscere questo confine che mette in contatto i due mondi,
infatti anche in noi la vita nel visibile si alterna alla vita nell’invisibile, sicché c’è
un tempo, sia pure breve, sia pure concentrato al massimo, talvolta fino
all’atomo di tempo - quando i due mondi si toccano e ci diventa contemplabile
perfino questo congiungimento. In noi il velo del visibile per un istante si
squarcia e attraverso ad esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco,
invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono
l’uno all’altro, e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la
temperatura fa salire in alto l’aria calda.
Il sogno - ecco il primo e più comune passo della vita (nel senso che
abbiamo con esso una piena dimestichezza) verso l’invisibile. Benché questo
gradino sia il più basso, o almeno quasi sempre sia il più basso, tuttavia il sogno,
anche quand’è assurdo, un sogno selvaggio, eleva l’anima all’invisibile e dà
perfino ai più rozzi fra noi l’indizio dell’esistenza di qualcosa di diverso da ciò
che della vita si è portati unicamente a considerare. E ben sappiamo: al valico
del sonno e della veglia, prima che si varchi l’intervallo fra i due territori, al
confine dove si toccano, la nostra anima è circondata di visioni.
Non è il caso di dimostrare ciò che già è stato dimostrato; il sonno profondo,
quello vero, in quanto tale, non si accompagna a visioni e soltanto lo stato metà
sonno e metà veglia, appunto il confine tra sonno e veglia, è il tempo, o meglio,
il tempo-ambiente della scaturigine delle immagini oniriche. Come già non fosse
vera questa interpretazione delle visioni oniriche, per cui esse appartengono in
senso stretto all’istantaneo trapasso dall’una all’altra sfera della vita psichica, e
subito dopo, nel ricordo, cioè nel nostro trasferirci alla coscienza diurna, si
sviluppano in noi il mondo visibile, la successione temporale - le visioni oniriche
in se stesse hanno un carattere che non si può accostare alla misura diurna,
«trascendentale» del tempo. Rammentiamo in breve la prova di tutto ciò.
«Poco dormire, molto sognare» - è la formula concisa di questa
compressione delle visioni oniriche. È noto: in un intervallo che è brevissimo
secondo la misura esterna, il tempo del sogno può durare ore, mesi, perfino anni
e in certi casi particolari, secoli e millenni. In questo senso nessuno dubita che il
dormiente, isolato dal mondo visibile esterno e passando con la coscienza nel
secondo sistema, acquista anche una nuova misura del tempo in forza del quale il
suo tempo, rispetto al tempo del sistema da lui abbandonato, trascorre con
incredibile velocità. Ma se tutti sono d’accordo, anche senza conoscere il
principio di relatività, che nei singoli sistemi, come nel caso osservato, il tempo
trascorre secondo una sua velocità e una sua misura, non tutti, però, e nemmeno
molti, hanno meditato sulla possibilità che il tempo trascorra a una velocità
infinita e perfino rovesciandosi su se stesso, che, col passaggio alla velocità
infinita, il suo corso prenda il senso inverso. Ma intanto il tempo davvero può
essere istantaneo e fluire dal futuro al passato, dagli effetti alle cause,
teleologicamente, e ciò avviene appunto quando la nostra vita passa dal visibile
all’invisibile, dal reale all’immaginario. Il primo passo in questa direzione, verso
questa scoperta, del tempo istantaneo fu fatto dal barone Karl Duprel quando era
ancora un giovanotto, e il passo fu l’essenziale fra tutti quelli che sarebbero
seguiti. Ma l’incomprensione che egli incontrò lo rese timido di fronte alla
ulteriore e ancor più essenziale scoperta che senza dubbio lo attendeva su quella
strada - il tempo capovolto.
Il ragionamento schematico si può esporre a un dipresso così. I più noti e
nella vita di ciascuno i più indubbiamente numerosi, benché non studiati nel
senso che c’interessa, sono i sogni provocati da qualche causa esterna o, per
essere più precisi, in occasione o nel caso di un qualche incidente esterno.
Questo potrà essere un rumore o una voce qualsiasi, una parola detta ad alta
voce, una coperta scivolata giù, un odore giunto all’improvviso, la luce del
giorno che colpisce gli occhi, ecc. - difficile dire che cosa non possa provocare
l’urto suscitatore dell’attività della fantasia creatrice. Può darsi che non sia
possibile accertare subito tutti i sogni così rapidamente generati, ma ciò non
scalfisce il loro oggettivo significato.
Rarissimamente questo banale accertamento, questa conferma quale causa
del sogno di qualche incidente esterno si mette in rapporto con la composizione
stessa del sogno così generato. Questa disattenzione al contenuto del sogno è
dovuta all’abitudine di guardare ai sogni come a qualcosa di vacuo, indegno, di
considerazione e di riflessione. Ma sia o no così, la composizione «secondo la
causa» e oserei dire quella in genere di tutti i sogni - o almeno della loro
maggioranza - si svolge secondo questo schema.
La fantasia onirica ci mostra una serie di volti, ambienti ed eventi, combinati
fra loro secondo convenienza, non certo in virtù d’una profonda intelligenza
degli eventi che diriga l’azione del dramma onirico, bensì pragmaticamente: noi
evidentemente creiamo un nesso fra certe cause, fra certi eventi-cause e certe
conseguenze, eventi-conseguenze, del sogno; i singoli eventi, come se non
sembrassero per niente assurdi, vengono posti in rapporto, nel sogno, con dei
nessi causali e il sogno si sviluppa, aspirando a un certo esito e a una fatale -
secondo il punto di vista del sognatore - immagine, porta a un evento terminale
che segna il compimento e la conclusione di tutto il sistema di successive cause e
conseguenze. La visione onirica termina con l’evento x, che è accaduto perché
prima di esso si svolse l’evento t, e t si svolse perché prima di esso si svolse
l’evento s, ed s ebbe prima di sé la causa r ecc., andando dalle conseguenze alle
cause, dal successivo al precedente, dall’attuale al trascorso fino a un iniziale e
ordinario, del tutto insignificante, nient’affatto memorabile evento a - causa di
tutto ciò che da esso s’è sviluppato nel sogno. Ma noi sappiamo che, rispetto alla
causa esterna, osservata con la coscienza diurna, è tutto il sogno, come totalità,
come composizione complessiva, che è stato un evento o un fatto esteriore -
chiuso nel sistema del sogno. Lo chiameremo Ω.
Ora il dormiente si desta, non soltanto per la spinta che questa causa Ω dà al
suo sogno, ma perché è essa stessa a ridestarlo, tuttavia la conclusione del sogno
x coincide o quasi, per il suo contenuto, con l’esperienza di veglia causa del
sogno: con Ω. Questa coincidenza di solito si produce e neanche viene in mente
di dubitare che ci sia un rapporto diretto fra l’evento x e la causa Ω: la
conclusione del sogno indubbiamente è la perifrasi onirica dell’evento del
mondo esterno Ω, intrufolatosi nel dormiente isolato da tutto il mondo esterno.
Se vedo un sogno nel quale si produce uno sparo, e nella stanza accanto c’è stato
uno sparo o si è sbattuta una porta, ci può essere un dubbio circa la fortuità della
visione onirica: ma sicuramente lo sparo nel sogno è l’eco psichica dello sparo
nel mondo esterno. Se si vuole, questo e l’altro sparo sono la duplice percezione
- con l’orecchio onirico e con l’orecchio di veglia - di un unico e uguale
processo fisico. Se nel sogno vedo una quantità di fiori fragranti, allorché mi
vien messo sotto il naso un flacone di profumi, sarebbe difficile pensare che sia
casuale il prodursi dei due profumi - quello dei fiori nel sogno e quello di
essenze fiutato esternamente. Se nel sogno qualcosa mi ha premuto sul petto e
mi si è arrestato il respiro quando mi sono svegliato per la paura, è capitato che,
poniamo, un soldino, mi sia venuto a rotolare sul petto; o se nel sogno mi ha
morso un cane, svegliandomi per il dolore del morso, mi accorgo che mi
sgomenta un insetto entrato attraverso la finestra spalancata - qui e
nell’innumerevole maggioranza degli esempi la coincidenza che capita fra la
conclusione x e la causa del sogno Ω non è casuale.
Ripetiamo: un solo e uguale evento attuale è concepito in due coscienze:
nella coscienza diurna, come Ω; in quella notturna, come x. Mi pare che in tutto
ciò che s’è detto non c’è niente di particolare; certo, non sussisterebbe tutto ciò
se l’evento x, che diventerà la conseguenza Ω, passando alla trafila diurna, alla
causalità esterna, non partecipasse, insieme a questa e all’altra trafila di cause,
alla causalità della coscienza notturna e non sussisterebbe la stessa conseguenza,
e non soltanto di quella causa, ma piuttosto di tutta la trafila di cause ed effetti,
generata come un tutto compatto dalla causa iniziale a. Intanto a di certo non ha,
quanto al contenuto, niente in comune con la causa Ω e di conseguenza non ha
potuto esserne l’origine. Ma se a non ci fosse, con tutte le conseguenze che ne
sono scaturite, neanche l’intero sogno ci sarebbe, cioè non avrebbe potuto
esserci la conclusione x, cioè noi non ci saremmo svegliati e pertanto la causa
esterna Ω non sarebbe pervenuta alla nostra coscienza. Sicché indubbiamente x è
il riflesso onirico fantastico del fenomeno Ω, ma x è un deus ex machina privo di
ogni significato, contrastante con la logica e col corso degli eventi nel sogno,
intrufolatosi nelle immagini interiori a interromperle insensatamente, ma
effettivamente rappresenta la conclusione di una certa realtà drammatica.
L’azione nei sogni non avviene come in una vita concepita da una
Provvidenza insensibile - quando il disastro ferroviario o lo sparo da dietro
l’angolo spezza una promettente attività in pieno svolgimento, tutto procede
come in un dramma impeccabile, nel quale la fine avviene perché si sono
prodotti tutti gli avvenimenti preparatori, e il dramma intero perderebbe senso e
valore se quella conclusione non seguisse. Considerando la stretta connessione
pragmatica fra tutti gli avvenimenti del sogno, non possiamo in nessun modo
ravvisare nella conclusione x un avvenimento autonomo, appiccicato dal di fuori
alla successione degli avvenimenti anteriori, il quale per un inconcepibile caso
non contraddice alla logica interna e alla verità artistica del sogno in tutti i suoi
particolari. Non c’è dubbio, un sogno del tipo analizzato, è un’esistenza
completa, un’unità in sé conchiusa, nella quale la fine - la conclusione - è
prevista nell’inizio e anzi, essa insieme a se stessa manifesta anche l’inizio,
l’intreccio e la totalità complessiva. Considerando lo scarso significato
dell’intreccio in sé, privo di un seguito che lo concluda, come vorrebbe un
dramma costruito rigorosamente, siamo autorizzati a ribadire la teleologicità di
tutta la composizione del sogno: ogni suo avvenimento si svolge in vista della
conclusione, perché la conclusione non era campata per aria, non era un caso
sfortunato, ma aveva una sua motivazione pragmatica profonda.
Offriamo qualche trascrizione di sogni del genere. Eccone tre nati dalla
reazione al suono d’una sveglia - l’osservazione è di Hildebrandt. «Un mattino
di primavera ero andato a passeggio e vagabondando per i campi verdi giungo a
un vicino villaggio. Qui vedo gli abitanti vestiti a festa con il libro di preghiere
in mano avviarsi in folla alla chiesa. Oggi è infatti domenica, la messa
incomincia presto. Decido di assistervi, ma di riposarmi prima un poco nel
camposanto che circonda la chiesa, essendo accaldato per la passeggiata. A
questo punto, mentre leggo le varie iscrizioni tombali, m’accorgo che il
sacrestano è salito sul campanile, sulla cui cima noto la campanina rustica che
dovrebbe annunciare l’inizio della funzione. Per un certo tempo essa pende
immobile, poi prende a oscillare e di colpo rintronano i suoi forti, penetranti
rimbombi, così forti, penetranti che mi sveglio. Risulta che i suoni provengono
dallo scampanellio della sveglia».
Seconda combinazione. «Una chiara giornata d’inverno, le strade sono
ancora coperte di neve. Mi riprometto di prender parte a una gita in slitta, e ci
sarebbe ancora parecchio da aspettare, quando mi si annuncia che le slitte sono
al cancello. Allora incominciano i preparativi: infilarsi la pelliccia, tirar fuori i
bagagli - finalmente sono seduto al mio posto. Tuttavia si indugia ancora, non
vien dato il segnale di partenza con le redini ai cavalli scalpitanti. Questi
segnano il passo e fanno una tal musica, agitando le sonagliere così forte, che
l’illusorio tessuto del sogno a questo punto si spezza. Ancora una volta, non era
che l’acuto suono della sveglia».
Un terzo esempio. «Vedo una sguattera che percorre il corridoio del
ristorante tenendo una dozzina di piatti messi l’uno sopra l’altro. Mi sembra che
questa colonna di porcellana che s’innalza sulle sue mani, minacci di crollare.
“Fa’ attenzione,” dico, per metterla sull’avviso “tutto il carico sta per volare per
terra”. Segue l’inevitabile risposta, naturalmente: “Non è la prima volta, ci sono
abituata”, ecc. e intanto io non l’abbandono con lo sguardo. E infatti, alla soglia,
ecco che incespica e il fragile vasellame si sparge fragorosamente in frantumi
per terra tutt’attorno. Ma presto m’accorgo che il fragore continua e non
proviene dal vasellame fracassato, ma è un rumore insistente, la cui origine, mi
rendo conto, ormai desto, è la suoneria della sveglia». Analizziamo adesso questi
sogni.
Prendiamo l’esempio di un sogno in cui il dormiente vivesse un anno o più
della rivoluzione francese, fosse presente al suo inizio, vi partecipasse in seguito
e che, dopo lunghe, complicate avventure, a mano a mano che si succedono le
persecuzioni, le fughe, il terrore, l’esecuzione del re eccetera, si venisse a trovare
in mezzo ai tumulti girondini, finendo in galera, e si trovasse infine dinanzi al
tribunale rivoluzionario, ricevendo una condanna a morte, dopo di che verrebbe
portato sulla carretta al luogo dell’esecuzione, fatto salire sul patibolo, gli
sarebbe messa la testa sul ceppo e la fredda lama della ghigliottina sarebbe lì lì
per piombargli sul collo, quando ecco per lo sgomento egli si sveglia - ma non
gli salta in mente di morire dopo l’ultimo evento, la caduta della ghigliottina sul
collo, che non è affatto indipendente da tutta la sequela degli avvenimenti
anteriori. È mai possibile che tutta la realtà che si è sviluppata - dalla primavera
della rivoluzione fino alla salita al patibolo - non incalzi la compatta corrente
degli eventi appunto verso questo conclusivo contatto del ferro col collo - verso
quello che chiamiamo evento x? Certo, una tale pianificazione è ovvia. Tanto più
constatando che tutta l’esperienza è nata dal fatto che lo schienale di ferro del
letto preme contro il collo nudo. Se non ci sorge nessun dubbio sulla coerenza
interna e sulla completezza del sogno dall’inizio della rivoluzione (a) al contatto
della lama (x), ancor meno si può mettere in dubbio che la sensazione onirica
della lama fredda (x) e la pressione del ferro freddo del letto quando la testa
poggiava sul guanciale (Ω) formino un unico fenomeno, ma percepito da due
coscienze distinte. Ripeto, non ci sarebbe niente di speciale nel fatto che la
pressione del ferro (Ω) ha scosso il dormiente e insieme, nello stesso lasso di
tempo nient’affatto lungo del sonno, ha assunto l’immagine simbolica, pur
restando sempre di ferro, di una lama di ghigliottina, e che l’immagine,
amplificata da associazioni, pur sempre sul medesimo tema della rivoluzione
francese, si è sviluppata in un sogno più o meno esteso. Senonché questo sogno,
come innumerevoli altri dello stesso genere, si svolge come rovesciato rispetto a
ciò che ci aspetteremmo stando al tempo kantiano. Domandiamo: la causa
esterna (Ω) del sogno, il quale costituisce un tutto unico, è la pressione del ferro
sul collo, e questa pressione è subito simboleggiata dall’immagine d’una lama di
ghigliottina in procinto di cadere (x). Pertanto la causa psichica di tutto il sogno
è questo evento x, sicché nella coscienza diurna, nello schema della causalità
diurna, esso anche temporalmente deve precedere l’evento a, psichicamente
derivante dall’evento x. In altre parole, l’evento x nel tempo del mondo visibile
dev’essere l’avvio del dramma onirico, e l’evento a il suo termine. Ma nel tempo
del mondo invisibile, avviene il rovescio, e la causa x non si manifesta prima
della conseguenza a, e in genere non prima di tutta la serie delle sue
conseguenze b, c, d... r, s, t, ma dopo di esse, coronando tutta la serie e
determinandola non come causa efficiente bensì come causa finale - τέλος.
Sicché nel sogno il tempo scorre, e scorre celermente, incontro al presente,
all’inverso del movimento della coscienza di veglia. Il primo si capovolge su se
stesso e con esso si capovolgono tutte le sue immagini concrete. Ma ciò significa
che noi siamo portati sul piano di uno spazio immaginario, per cui lo stesso
evento che scaturisce dall’esterno, dal piano dello spazio reale, è visto anch’esso
immaginariamente, cioè innanzitutto come se si svolgesse in un tempo
teleologico, quale scopo, oggetto di una tensione.
Uno scopo, visto dal versante della veglia, non ci appare più che una forza
ideale, anche se lo vagheggiamo, mentre da quest’altro versante, per quest’altra
coscienza, è una forza vitale, una realtà plasmatrice, una forma creatrice di vita.
Questo tempo più intimo della vita organica procede dalle conseguenze alla
causa-scopo, ma è un tempo che perviene oscuramente alla coscienza.
Una persona a noi prossima, addolorata per la morte d’una persona a lei
prossima, sognò di camminare nel cimitero. L’altro mondo pareva tenebroso e
tetro, ma i morti spiegarono - può darsi però che il dormiente stesso se ne
avvedesse, non ricordo con precisione - che quell’idea era stolta, ed ecco cresce
da terra, ma in direzione contraria, con le radici in alto e il fogliame in basso, la
stessa erba verde e densa del cimitero, anzi più verde e più fitta: gli alberi sono
gli stessi ma con in basso le chiome e in alto le radici, gli stessi uccelli
becchettano, lo stesso azzurro si stende e sfolgora lo stesso sole, ma è più lucente
e bello del nostro, su quest’altro versante.
Forse che in questo mondo capovolto, in questo mondo ontologicamente
riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è
piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su
se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è
più autenticamente reale di loro stessi. Sì, questo è reale nella sua essenza - non
è un qualcosa di completamente diverso rispetto alla realtà del nostro mondo,
perché unica è la misericordiosa creazione di Dio, ma è il medesimo essere che
può essere contemplato dall’altro versante da coloro che all’altro versante sono
passati. Cioè il volto e gli aspetti spirituali delle cose sono visibili a coloro che
hanno manifestato in se stessi il loro volto primigenio, l’immagine di Dio,
ovvero, in greco, l’idea: l’idea stessa, illuminandosi, vede l’idea dell’Essere, se
stessa e, attraverso a se stessa che rivela il mondo, questo nostro mondo come
idea del mondo superiore.
Così quelle immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo
visibile dal mondo invisibile, e in tal modo congiungono i due mondi.
In questo luogo di frontiera delle immagini oniriche si stabilisce il loro
rapporto sia con questo mondo sia con quell’altro. In rapporto alle immagini
comuni del mondo visibile, in rapporto a ciò che noi chiamiamo ‘realtà’, il sogno
è ‘soltanto sogno’, un nulla, nihil visibile - nihil però visibile, un nulla visibile,
contemplabile e confezionato con le immagini di questa ‘realtà’. Ma il suo
tempo, cioè il suo carattere fondamentale, procede capovolto rispetto a quello
che costituisce il mondo visibile. Perciò, benché anch’esso visibile, il sogno è
del tutto teleologico ovvero simbolico. Esso ridonda del significato dell’altro
mondo - è quasi soltanto significativo dell’altro mondo, che è invisibile,
immateriale, non transeunte, benché sia manifestabile visibilmente, come se
fosse materiale. Esso è quasi pura significatività racchiusa nell’involucro più
sottile e pertanto è quasi esclusivamente una manifestazione dell’altro mondo, di
quell’altro mondo. Il sogno è il limite comune alla serie delle situazioni terrene e
alla serie delle esperienze celesti, la debole frontiera di quaggiù e il baluardo di
lassù.
Con lo sprofondare nel sonno, nel sogno attraverso al sogno si
simboleggiano le emozioni inferiori del mondo superiore e quelle superiori
dell’inferiore: le ultime tracce delle emozioni dell’altro mondo quando già si
profilano le impressioni delle realtà di quaggiù. Ecco perché i sogni serali, dopo
che ci si è assopiti, hanno tendenzialmente un significato psicofisiologico, come
manifestazioni di ciò che si è accumulato nell’anima con le impressioni della
giornata, mentre il sogno alla soglia del mattino ha in prevalenza una tendenza
mistica, perché l’anima impregnata dalla coscienza notturna e dalle esperienze
della notte è più pura e lavata da ogni empiricità, in quanto essa, quest’anima
individuale, genericamente libera, in questa particolare condizione diventa più
libera dalle passioni del mondo dei sensi.
Il sogno è un segno del trapasso dall’una all’altra sfera e un simbolo. Di che
cosa? Visto dall’alto - simbolo di quaggiù; e visto di quaggiù - simbolo dell’alto.
Ora si comprende che il sogno può emergere quando sono contemporaneamente
tributarie della coscienza entrambe le sponde della vita, anche se a diverso grado
di chiarezza. Generalmente parlando questo avviene al transito da una sponda
all’altra e forse anche quando la coscienza indugia vicino al limite del trapasso e
non è del tutto libera dalla percezione della realtà, cioè nella condizione di sonno
superficiale o di veglia assonnata. Tutto ciò che è significativo avviene, nella
maggior parte dei casi, o attraverso un sogno o ‘in un sonno leggero’ o infine in
coloro che subitaneamente si trovano staccati dalla coscienza della realtà esterna.
È vero, sono possibili anche altre manifestazioni del mondo invisibile, ma esse
presuppongono un urto potente alla nostra persona, che ci strappi a noi stessi di
colpo, o il vacillare, la ‘crepuscolarità’ d’una coscienza sempre errante al confine
dei mondi, che però non è dominata dalla mente e non ha la forza di concentrarsi
su questo o su quello.
Quanto s’è detto del sonno andrebbe ripetuto, con scarse modifiche, di ogni
trapasso da sfera a sfera. Così nella creazione artistica l’anima è sollevata dal
mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì senza immagini si nutre della
contemplazione dell’esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni noumeni delle
cose e, impregnata, carica di conoscenza ritorna al mondo terreno. E tornando
giù per la stessa strada arriva alla frontiera della terrestrità, dove il suo acquisto
spirituale è investito in immagini simboliche - le stesse che, fissandosi, formano
l’opera d’arte. Sicché l’arte è un sogno sostenuto.
Ma qui, nella perdita di contatto artistica con la coscienza diurna, ci sono due
momenti, come ci sono due generi di immagini: il transito attraverso la frontiera
dei mondi è dovuto o alla salita dal basso o alla discesa dall’alto che è un ritorno
in basso. Le immagini della salita rappresentano lo spogliarsi degli abiti
dell’esistenza diurna, delle scaglie dell’anima, per le quali non c’è posto
nell’altro mondo, insomma: degli elementi spiritualmente disordinati del nostro
essere, laddove le immagini della discesa sono il cristallizzarsi sul confine dei
mondi delle esperienze della vita mistica. Sbaglia e induce in errore l’artista che
col pretesto dell’arte ci offre tutto ciò che in lui affiora quando è preso dalla sua
ispirazione - perché non si tratta che di immagini della salita: a noi occorrono i
suoi sogni antelucani, portati dal refrigerio dell’azzurro eterno, perché quell’altro
è psicologismo e materiale grezzo e le corrispettive immagini è come
mancassero di forza e non fossero elaborate abilmente e squisitamente.
Riflettendo, non è difficile distinguere le une e le altre dal rispettivo tipo di
tempo: l’arte della discesa, è come non fosse incoerentemente motivata, e tempo
assai teleologico - un cristallo di tempo nello spazio immaginario; viceversa, pur
con una grande coesione dei motivi, l’arte della salita è costruita
meccanicamente, conforme al tempo dal quale ha preso le mosse. Andando dalla
realtà all’immaginario, il naturalismo offre un’immagine fantastica del reale, un
superfluo esemplare della vita quotidiana; l’arte opposta viceversa, il
simbolismo, incarna in immagini reali una diversa esperienza, e offrendocele
crea una realtà più alta.
Lo stesso avviene nella mistica. La legge generale è sempre una: l’anima si
inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile -
questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto,
nell’invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono
incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile - i volti delle cose,
le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale. C’è però la tentazione
di prendere per spiritualità, per immagini spirituali, invece delle idee, le
fantasticherie che circondano, confondono e seducono l’anima al momento in
cui le si apre davanti la via verso l’altro mondo. Sono gli spiriti di questo secolo
che così procurano di trattenere la coscienza nel loro mondo. Essi, essendo
limitrofi al mondo dell’altro versante, benché di natura terrena, hanno assimilato
la sostanza e realtà del mondo spirituale; per parlare geometricamente-
fisicamente, al limite e alla soglia di questo mondo accediamo a una condizione
di vita anche se costantemente nuova, radicalmente diversa dalle condizioni
comuni della vita quotidiana. E in essa è la massima insidia spirituale per chi si
accosti alla soglia del mondo ed è vulnerabile a causa degli attaccamenti
mondani o inetto in assenza di un’intelligenza spirituale propria o altrui che lo
guidi - o infine impotente, avendo un organismo spirituale non abbastanza
maturo per il transito. L’insidia sta negli inganni e autoinganni che sull’orlo del
mondo circondano il viandante. Il mondo si aggrappa al suo servo, gli si attacca,
tende reti e quasi seduce coloro che sono arrivati alla soglia del piano spirituale;
vigilano su questi varchi spiriti e forze che non sono certo «guardiani della
soglia», cioè non sono dei santi difensori dei sacri territori, non sono esseri del
mondo spirituale, bensì satelliti «del principe del reame dell’aria», sono i suoi
tentatori e seduttori che trattengono l’anima al confine dei mondi. Il sobrio
giorno in cui egli ha in suo potere la nostra anima, fin troppo chiara appare la
differenza dal mondo spirituale, dall’altro versante, perché ci si possa ingannare
- e la sua materialità si rivela un giogo duro, ma utile, come la benefica trazione
della terra che limita il nostro movimento ma ci dà nel contempo un punto
d’appoggio, che opportunamente frena l’impeto del nostro atto di
autodeterminazione sia nel bene che nel male, che sempre estende un unico
istante all’etemità cioè a tutta la vita -, l’angelica autodeterminazione in un senso
o nell’altro, al tempo della nostra vita e crea la vita, la nostra vita terrestre, non
vegetativamente, passivamente dispiegando tutte le possibilità latenti, ma con un
atto eroico di vera e propria autocostruzione, artisticamente modellando e
coniando la nostra esistenza. Questo nostro destino ovvero nostra parte -
ειμαρμένη, μοĩρα - ovvero ciò che su di noi è stato proferito in alto, il giudizio
ovvero il pronunciamento - fatum da fari -, il destino delle nostre infermità e
della nostra superiorità, dono della divina creatività è il tempo-spazio. Il quale
non inganna. Altresì non inganna la spiritualità, il mondo angelico, allorché
l’anima venga faccia a faccia con esso. Ma a metà fra il tempo-spazio e il mondo
angelico, alla soglia di questo mondo, è il massimo dell’inganno e della
seduzione: qui stanno gli spettri che il Tasso raffigura nella descrizione della
foresta incantata. Chi possiede la fermezza spirituale avanzerà in mezzo a loro,
senza impaurirsi e senza cedere alle loro tentazioni; essi si rivelano impotenti di
fronte all’anima, sono le ombre del mondo sensibile, le sue brame oniriche, ma
nella realtà sono insignificanti. Ciò vale però soltanto quando manca una robusta
fede in Dio, quando l’uomo è vittima delle sue passioni e predilezioni, vale
soltanto se ci si volta a guardare questi spettri, i quali dall’anima che si guarda
indietro ricevono un flusso di realtà, e se ne fanno forti, si appiccicano all’anima,
e tanto più s’incarnano quanto più l’anima s’indebolisce attraendoseli addosso; è
difficile, ben difficile, pressoché impossibile allora, senza il particolare
intervento d’una potenza spirituale dall’aldilà, strapparsi a queste forze
elementari delle paludi e degli acquitrini che si stendono all’uscita dal mondo.
Questa trappola nella lingua degli asceti si chiama abbaglio [prelest’] spirituale e
sempre fu nota come veramente terribile fra le condizioni nelle quali l’uomo può
cadere. Ogni peccato presuppone un certo rapporto del peccatore con resistenza
esterna, con le sue caratteristiche oggettive e le sue leggi, e che, pur turbando
con le sue aspirazioni l’ordine della creazione divina nella natura e nell’umanità,
il peccatore abituale tuttavia abbia un punto d’appoggio per ravvedersi e far
penitenza; pentirsi - μετανοεĩν - significa anche cambiare il modo di pensare, il
pensiero profondo del nostro essere. Il contrario avviene quando si cade
nell’abbaglio: allora l’autoinganno, nutrendosi di questa o quella passione, e
soprattutto della più pericolosa - la superbia - non mira a una soddisfazione
esteriore, ma cerca o meglio s’immagina di innalzarsi in perpendicolare sul
mondo sensibile. Non provando nessuna soddisfazione, appunto perché questa
uscita fuori del sensibile le è vietata dai guardiani delle frontiere di questo
mondo, con l’aiuto delle sue particolari passioni, sempre senza pace e già in vita
cominciando a bruciare del fuoco della geenna, l’anima chiusa su se stessa non
ha occasione di imbattersi, sia pure dolorosamente, in ciò che unicamente
potrebbe riportarla alla consapevolezza - il mondo oggettivo. Le immagini
abbagliatrici sono suscitate dalla passione, ma il pericolo non è nella passione
come tale, ma nella valutazione di essa, nel suo scambiarsi per qualcosa di
direttamente opposto a ciò che di fatto è. E mentre di solito la passione riconosce
l’infermità, il pericolo e il peccato, e perciò si sottomette, la passione abbagliata
si ritiene arrivata alla spiritualità, dunque una forza, una redenzione e una
santità, talché, mentre nel caso comune c’è uno sforzo per liberarsi dalla servitù
della passione, anche se fievole e senza risultato, quando c’è l’abbaglio, ogni
sforzo, spronato dalla vanagloria, dalla sensualità e da altre passioni alimentate
dalla superbia, è diretto con furia precipitosa a stringere i nodi che mai si fossero
allentati. Quando pecca il peccatore abituale, egli sa che si distacca da Dio e Lo
offende; l’anima abbagliata viceversa si allontana da Dio immaginando di
accostarsi a Lui e Lo caccia via pensando di compiacerlo. Tutto ciò proviene
dalla mescolanza delle immagini della salita e di quelle della discesa. Si tratta di
ciò, che la visione sorta sul confine del mondo visibile e del mondo invisibile,
può essere un’assenza della realtà del mondo terreno, cioè un segno incompreso
della nostra personale vuotezza, poiché la passione è un’assenza nell’anima
dell’essere oggettivo; allora nella stanza vuota e ordinata si insediano, ormai del
tutto avulse dalla realtà, le maschere della realtà. Viceversa la visione può essere
la presenza d’una realtà, la superiore realtà del mondo spirituale. E l’atto eroico
dello svuotamento può avere un duplice senso e perciò è duplice per noi il suo
significato: quando l’interiorità ordinata si crede qualcosa per se stessa, cioè nel
caso dell’autocoscienza farisea, inevitabilmente è anche autocompiaciuta;
quando infatti l’anima è non solo vuota ma è altresì liberata dal peso delle cure
terrene, diventa ancor più vuota di prima, e non tollerando la natura il vuoto
spirituale, essa popola questa stanza dell’anima con quegli esseri che più sono
affini alle forze che spingono a questa autopurificazione, forze che potrebbero
non essere plausibili, bensì interessate e impure nel fondo. Appunto di questa
ascesi farisaica, che non lavora in Dio, parla il Salvatore nella parabola della
dimora spazzata (Mt. 12, 43-45; Lc. 11, 24-26). Viceversa atti del genere
possono scaturire anche da una autocoscienza nettamente opposta: nel primo
caso l’uomo convince sé e gli altri che lui stesso, nel fondo, è buono e che la
caduta e il peccato nacquero e nascono come per caso, come fenomeni, a
dispetto dell’essenza dell’atto, come qualcosa che ci sarebbe soltanto da ripulire
e da ornare spiritualmente; allora data questa insussistenza della sua
peccaminosità, di una sua volontà radicalmente peccaminosa, inevitabilmente
l’atto si pone fuor di Dio, è basato sulle proprie forze, ed è pertanto
autocompiaciuto. Ma se ha coscienza della sua peccaminosità, neanche gli viene
il pensiero di come possa apparire, anche se si è spiritualmente messo in ordine:
l’anima ha fame e sete, rabbrividisce all’idea della spaventosa rovina se mai
restasse senza Dio, e oggetto di preoccupazione per lei non è lei stessa, ma
l’oggettività massimamente oggettiva - Dio; e non desidera pulita la sua
stanzuccia per essere lei stessa lodata, ma implora piangendo la visita a questa
stanzuccia, anche se affrettatamente riordinata, di Colui che può con una parola
sola cacciare tutti i demoni dalla dimora. Ed ecco, così orientando la vita
interiore, la visione si manifesta, non allorché ci sforziamo con le nostre forze di
superare la statura a noi assegnata e di varcare soglie a noi inaccessibili, ma
quando misteriosamente e incomprensibilmente la nostra anima è giunta sul
piano dell’altro mondo, invisibile, sollevata fin lassù dalle forze celesti stesse;
come il «segno dell’alleanza», l’arcobaleno si mostra dopo che si è sparsa la
benefica pioggia, la manifestazione celeste, l’immagine dall’alto, è data per
annunciare e ribadire il dono invisibile concesso nella coscienza diurna, in tutta
la vita, come messaggio e rivelazione dell’eternità. Questa visione è più
oggettiva delle oggettività terrestri, più sostanziale e reale di esse; è il punto
d’appoggio dell’opera terrestre, il cristallo attorno al quale e secondo le cui leggi
di cristallizzazione, sul cui modello, si verrà cristallizzando l’esperienza terrena,
che diventa tutta, nella sua stessa struttura, un simbolo del mondo spirituale.
L’opposizione ontologica di queste visioni e delle altre - le visioni da
ricchezza e le visioni da difetto - può essere meglio che da qualunque altra cosa
caratterizzata dall’opposizione delle parole maschera e sguardo [lik]. Esiste
anche la parola volto [litzò]. Cominciamo da questa.
Il volto è ciò che vediamo nell’esperienza diurna, ciò che ci svela la realtà
del mondo terreno; e la parola «volto», senza sforzature di lingua, può applicarsi
non soltanto all’uomo, ma anche agli altri esseri e realtà, quando è chiaro il
rapporto con essi, e così parliamo per esempio del volto della natura ecc. Si può
dire che volto è quasi sinonimo della parola manifestazione, è la manifestazione
appunto della coscienza diurna. Il volto non è privo di realtà e di oggettività, ma
il confine della soggettività e dell’oggettività nel volto non è chiara alla nostra
coscienza e pertanto per questa sua evanescenza, anche se pienamente convinti
della realtà di ciò che abbiamo percepito, non sappiamo o comunque non
sappiamo chiaramente ciò che appunto nel percepito è reale. In altre parole, la
realtà è presente nella percezione del volto, ma in modo vitale, organicamente
impregnando la conoscenza e formando la base inconscia dei successivi processi
conoscitivi. Si può inoltre dire che il volto è il modello grezzo su cui lavora il
ritrattista, che ancora non è stato artisticamente elaborato. Con l’elaborazione
artistica in senso letterale sorge l’opera d’arte, il ritratto come schema decorativo
tipizzante, non ideale, della percezione: questo è il ritocco di certe linee
fondamentali della percezione, uno schema fra i possibili in cui inquadrare il
volto, ma sul volto stesso questo schema, come schema, è segnato non più di
tanti altri, e in questo senso è qualcosa di esteriore in rapporto al volto,
mostrando non soltanto, o meglio non tanto l’ontologia di ciò che l’artista ha
ritratto, quanto l’organizzazione conoscitiva dell’artista stesso, il mezzo
dell’artista. Viceversa lo sguardo è appunto la manifestazione dell’ontologia.
Nella Bibbia si distingue l’immagine di Dio dalla somiglianza a Dio; e la
tradizione ecclesiastica spiegò che la prima si doveva intendere come qualcosa
di attuale - un dono ontologico di Dio, come il fondamento spirituale di ogni
uomo in quanto tale, mentre la seconda come potenza, possibilità di perfezione
spirituale, forza di conformare tutta la personalità empirica, nella totalità del suo
fondamento, in immagine di Dio, cioè la possibilità che l’immagine di Dio,
nostro intimo patrimonio, s’incarni nella vita, nella personalità e in tal modo si
mostri in volto. Allora il volto assume la dignità della sua struttura spirituale a
differenza di un mero volto e anche a differenza del ritratto artistico, perché non
lo fa in forza di motivi esteriori a se medesimo, come quelli compositivi,
architettonici, caratteriologici ecc., e non in una raffigurazione, ma nella propria
realtà sostanziale e secondo le leggi profonde del suo essere particolare. Ogni
cosa casuale, condizionata da cause esteriori al proprio essere, in genere tutto ciò
che nel volto non è il volto stesso, ora è scartato, respinto dalla sorgiva,
erompente attraverso la spessa scorza materiale, dell’energia dell’immagine di
Dio: il volto è diventato sguardo. Lo sguardo è la somiglianza a Dio resa
presente sul volto. Allorché vicino a noi c’è una somiglianza a Dio, ci è dato di
dire: ecco l’immagine di Dio, ma immagine di Dio significa che c’è il
Raffigurato da quell’immagine, il suo Archetipo. Lo sguardo di per sé, in quanto
contemplato, essendo testimonianza di questo Archetipo e trasfigurando il suo
volto in sguardo annuncia i misteri del mondo invisibile senza parole, con il suo
stesso aspetto. Se pensiamo che in greco sguardo si dice idea - εĩδος, ιδέα - che
appunto in questa accezione di sguardo, di esistenza spirituale rivelata, di
significato eterno contemplato, di celeste bellezza d’una realtà, suo Archetipo
celeste, raggio della Fonte di tutte le immagini, fu usata la parola idea da Platone
e che da lui essa si estese alla filosofia, alla teologia e perfino alla lingua
corrente, allora, rifacendo il cammino all’inverso, dall’idea allo sguardo,
rendiamo il significato di quest’ultimo del tutto trasparente.
La piena contrapposizione a sguardo è rappresentata dalla parola maschera.
La maschera, o larva, è qualcosa che ha un certa somiglianza col volto, che
si presenta come volto, che si spaccia per volto, ed è preso per tale, ma che
dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia quanto a sostanza metafisica. Il
volto è la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come
mediatore fra conoscitore e conosciuto, come l’aprirsi alla nostra vista e alla
nostra intelligenza della realtà conosciuta. A parte questa sua funzione, cioè a
parte il suo rivelarci una realtà esterna, il volto non avrebbe significato. Ma il
suo significato diventa negativo quando in luogo di svelarci l’immagine di Dio,
non solo non offre niente per questo verso, ma altresì c’inganna, indicandoci con
frode delle cose inesistenti. In questo caso è una maschera. Nell’uso della parola
non dobbiamo badare per niente all’antica destinazione sacra delle maschere e
all’accezione corrispettiva della parola stessa - larva, persona, πρόσωποv ecc.,
perché allora le maschere non erano quali noi le concepiamo, bensì un genere
d’icone. Quando la sacralità si esaurì e decompose e il sacerdozio addetto al
culto si estinse, allora da questo sacrilegio dell’antica religione nacque la
maschera nel senso odierno, cioè come inganno intorno a ciò che di fatto non è,
mistica soperchieria, che perfino nelle circostanze più frivole ha un certo sapore
di terribilità.
È caratteristico che la parola larva assumesse già per i Romani il senso di
corpo astrale, di «vuoto» inanis, di impronta insostanziale lasciata dal morto,
cioè di forza oscura, impersonale, vampiresca, che si mantiene grazie alla forza
rianimante del sangue e d’un volto vivo, a cui questa maschera astrale possa
attaccarsi, risucchiando e presentando questo volto come il proprio essere. È
notevole che nelle più svariate dottrine si esprime perfino nella terminologia una
completa uniformità quanto al principio fondamentale - della pseudorealtà di
questi resti astrali: in particolare nella Cabbala si chiamano klippoth - gusci -
come anche nella teosofia. Degno d’attenzione è anche il fatto che questo guscio
senza nocciolo, questo vuoto pseudoreale ha sempre avuto per la saggezza
popolare la caratteristica dell’impurità e del male. Ecco perché la tradizione
tedesca come anche i racconti russi considerano come una forza impura gli
interni vuoti, come il truogolo o l’albero cavo, privi di spina dorsale - questa
base della forza del corpo, come pseudo-corpi e quindi pseudorealtà; viceversa il
dio del principio della realtà e perciò del bene, il dio Osiride era raffigurato in
Egitto dal simbolo del djed, nel quale si ravvisa, come significato fondamentale,
una rappresentazione schematica della spina dorsale di Osiride: ciò che è
maligno impuro è senza spina dorsale, cioè privo di sostanzialità, mentre il bene
è reale e la spina dorsale è il fondamento della sua esistenza. Ma affinché questa
interpretazione non sembri arbitraria, ricordiamo E. Mach: egli nega un nucleo
reale alla persona, una sua sostanzialità; ma ne sussiste la concezione
nell’umanità e pertanto il ricercatore onesto deve riscontrarne la base
psicologica. Mach la trova appunto in quella parte del corpo umano che non è
accessibile all’esperienza esteriore che esso ha di se stesso: questa parte che
trascende la vista, egli suppone non sia altro che la schiena e in particolare - la
spina dorsale. Come si vede l’onesto positivismo portò questo arcipositivista al
punto di partenza della psicologia tedesca - ai racconti fantastici di Cesario
Geisterbach.
La malignità e l’impurità sono di norma prive di realtà autentica perché il
reale è soltanto buono e tutto in esso è verace. Se il diavolo fu chiamato dal
pensiero medievale «scimmia di Dio» e tentando di sedurre la prima gente diede
il consiglio di «diventare come dèi», cioè non dèi nella sostanza, ma soltanto
ingannevolmente, nell’apparenza, sarà in genere possibile parlare del peccato
come scimmia, maschera, realtà apparente cui manca la forza e l’essere. L’essere
dell’uomo è l’immagine di Dio e poiché il peccato ha compenetrato tutto il
«tempio» del creato, secondo l’Apostolo la persona non soltanto non è
l’epressione esterna dell’essere della persona, ma anzi cela quest’essere. La
manifestazione fenomenica della persona ne estirpa il nucleo essenziale e così
svuotandola ne fa un guscio. La manifestazione fenomenica, che è la luce con
cui penetra nel percipiente il percepito, allora diventa tenebra, che separa, isola il
percepito dal percipiente, e nel contempo da se stessa come percipiente: il
«fenomeno» nel senso popolare-comune, platonico, ecclesiale di apparizione o
rivelazione della realtà, divenne il «fenomeno» come fenomenicità kantiana,
positivistica, illusionistica. Sarebbe un grosso errore dire che la manifestazione
fenomenica kantiana non esiste e che questo termine è privo di senso come
sarebbe un errore ancor più grande negare l’esistenza della manifestazione
fenomenica platonici e il senso del termine corrispondente. Ma l’un e l’altro
appartengono a diverse fasi spirituali dell’esistenza, e il platonismo, specie nella
concezione ecclesiale del mondo, mira alla bontà e alla santità, mentre la fase
kantiana al male e al peccato; ma né a quella né a questa tendenza del pensiero
manca un suo oggetto d’indagine.
È staccando la manifestazione fenomenica dalla sostanza che il peccato
s’introduce nello sguardo, nella più pura rivelazione dell’immagine di Dio -
estraneo, avulso da questo principio spirituale, il demonio con esso eclissa la
luce di Dio: il volto è questa luce mescolata alla tenebra, è questo corpo esposto
a situazioni che ne deturpano con piaghe la bella forma. Come il peccato
s’impadronisce della persona, il volto cessa d’essere finestra da cui si effonde la
luce di Dio: essa mostra semmai ancor più nitidamente le macchia di sporco sul
cristallo; il volto si stacca dalla persona, dal suo principio creatore, perde vita e
s’irrigidisce in una maschera dominata dalla passione. Bene attribuì Dostoevskij
a Stavroghin una maschera, una maschera di pietra invece d’un volto - a un certo
grado di disintegrazione della persona. Inoltre quando il volto è diventato
maschera noi kantianamente non possiamo più conoscere il noumeno e coi
positivisti non abbiamo nessuna base per affermarne l’esistenza. È il tempo,
secondo l’Apostolo, della «coscienza bruciante» e niente, neanche un solo raggio
dall’immagine di Dio scende fino alla superficie fenomenica, manifestata della
persona - questa ci è occultata, come non fosse ancora avvenuto il giudizio di
Dio e non fosse stata ritirata da Colui che l’aveva data in pegno l’immagine della
Sua somiglianza. Può darsi di no, che ancora sia custodito il talento sotto il velo
di scura polvere, ma può anche darsi di sì, che la personalità da tempo ormai sia
assimilata a ciò che non ha schiena. Viceversa la sublime ascesa spirituale
accende nel volto uno sguardo luminoso, cancellando tutta la tenebra: tutto ciò
che nel volto non è giunto a espressione, non è coniato, e allora il volto diventa il
proprio ritratto artistico, ritratto ideale, elaborato dal vivo materiale a opera della
suprema fra le arti, «l’arte delle arti». - L’ascesi eroica è quest’arte e l’asceta non
con le parole, ma con se medesimo, non già con le parole come tali, non
astrattamente, ma con argomentazioni astratte, testimonia e argomenta a favore
della verità - della verità del reale, della realtà autentica. Questa circostanza è
dipinta sul volto dell’asceta. «Affinché splenda la luce vostra agli uomini e
vediate i vostri atti buoni e sia lodato il Padre vostro nei cieli» (Mt. 5, 16). «I
vostri atti buoni» non vuole affatto dire «atti buoni» in senso filantropico e
moralistico, υμῶν τα καλά έ vuol dire «atti belli», rivelazioni luminose
armoniose della personalità spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello,
d’una bellezza per cui si espande all’esterno «l’interna luce» dell’uomo, e allora,
vinti dall’irresistibilità di questa luce, «gli uomini» lodano il Padre celeste, la
Cui immagine sulla terra così ha sfolgorato. Perciò tanto s’illuminava il primo
testimone dell’opera del Cristo, il primo martire: «e fissando gli occhi su di lui
tutti quanti sedevano nel consiglio, videro il suo volto come il volto d’un
angelo» (Atti 6, 15); da lui, primo dei testimoni, a colui che taluno ha dichiarato
«l’ultimo», san Serafino di Sarov, abbiamo avuto innumerevoli testimoni della
divina luce mercé i loro sguardi ascetici come irraggiati dal disco del sole; a
chiunque incontri dei portatori di vita nella grazia è dato di vedere coi propri
occhi almeno il germe della trasfigurazione del volto in questo sguardo. Non è il
caso di insistere sul concetto della trasformazione e trasfigurazione nella Chiesa
di tutto l’uomo, del corpo dell’uomo, poiché il nucleo dell’essere umano,
l’immagine di Dio non ha bisogno di trasfigurazione anzi è essa, luce e purezza,
che trasforma, in quanto forma formante, tutta la persona empirica, tutta la
costituzione dell’uomo, il suo corpo. Ecco il passo della parola divina dove,
come in altri, si definisce il compito dell’asceta: «Vi prego perciò o fratelli...
offrite i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, gradito a Dio, vostro culto
razionale. E non conformatevi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la
mente vostra, affinché distinguiate la volontà di Dio buona, gradita, perfetta. Per
la grazia che mi è concessa, raccomando a ciascuno di voi di non stimarsi più di
quanto si deve ma di ispirarsi a una giusta stima secondo la misura della fede che
a ciascuno Dio ha elargito» (Romani 12, 1-3). Così l’Apostolo ammonisce i
cristiani romani di prestare, offrire il corpo in sacrificio a Dio in questo senso.
L’Apostolo spiega ciò che vuol dire con queste parole: «non conformatevi a
questo secolo», cioè non abbiate lo schema comune al secolo, la legge generale
dell’esistenza propria del mondo presente nella sua attuale condizione:
«trasformatevi» ovvero rinnovatevi, modificate l’immagine dell’esistenza, la
legge, la forma operante. Come avviene il passaggio della forma, della struttura
spirituale del corpo dallo schema del secolo a qualcosa di trasfigurato? Dice
l’Apostolo: «trasformatevi rinnovando la mente», ma secondo certe redazioni va
aggiunto «vostra»; la trasformazione del corpo si ottiene col rinnovamento della
mente che è l’apice di tutto l’essere. Sintomo dell’avvenuto rinnovamento sarà il
senso della volontà di Dio. In altre parole: offrire il proprio corpo in sacrificio
significa raggiungere la sensibilità spirituale per percepire la volontà di Dio,
buona e perfetta. A questa tesi della santità si oppone l’antitesi, perché chi aspira
a raggiungere la volontà di Dio è naturale che cominci a filosofare sui propri
sforzi, sostituendo all’autentico contatto col cielo ragionamenti astratti. A
ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè «una convinzione di
cose invisibili». Il pensiero può essere sano soltanto entro i limiti di questa fede,
fuor dei quali diventa deforme. L’Apostolo esprime aforisticamente il suo
pensiero con parole quasi intraducibili: μη υπερφρονεĩν παρ’ ο δεĩ φρονεĩν, αλλά
φρονεĩν εις το σωφρονεĩν, prospettando come concetti opposti all’idea generale
di φρονεĩν - υπερφρονεĩν e σωφρονεĩν.
I due poli corrispondono rispettivamente al corpo conformato a questo secolo
perché se ne è staccata la maschera; e al corpo trasfigurato, e si può aggiungere:
«conforme al secolo venturo», per cui dal corpo riluce lo sguardo.
La chiesa è la via dell’ascesa al cielo. Così nel tempo: la liturgia, questo
interiore movimento, questa interiore articolazione della chiesa, mostra nella
quarta dimensione della profondità - il cielo. Così nello spazio la struttura della
chiesa, procedendo dal guscio esterno al nucleo centrale, ha lo stesso significato.
Per essere più precisi, non è lo stesso nel senso di tal quale, ma alla lettera, lo
stesso come identità numerica, anche se considerato dal punto di vista di
dimensioni differenti. Il nucleo spaziale della chiesa è coperto da involucri
esterni: il cortile, l’atrio, la chiesa stessa, il santuario, l’altare, il corporale, le
reliquie [antimins], il calice, i Sacri Misteri, il Cristo, il Padre. La Chiesa, come
s’è spiegato, è la scala di Giacobbe, e dal visibile essa eleva all’invisibile; ma
tutto il santuario, come complesso, è il luogo dell’invisibile, il terreno separato
dal mondo, lo spazio non di questo mondo. Tutto il santuario è cielo: luogo
intellettuale, intelligibile, τόπος νοερός, e anche τόπος νοητός per «i sacrifici
celesti e intellettuali». Conforme ai diversi significati simbolici della Chiesa, il
santuario rappresenta ed è ciò che è distinto, e che sempre si trova in rapporto
con l’inaccessibile, trascendente rispetto alla chiesa stessa. Mentre la chiesa,
secondo Simeone di Tessalonica, nell’interpretazione cristologica, significa
Cristo Dio-Uomo, il santuario ha il significato della Divinità invisibile, della sua
identità divina. Se il più comune commento antropologico è quello secondo cui
il santuario indica l’anima umana, la chiesa stessa è il corpo, per
l’interpretazione teologica della chiesa, come insegna Simeone il Pio, nell’altare
va ravvisato il mistero, inaccessibile nella sua essenza, della Trinità e nella
Chiesa le opere e le energie percepibili di Essa. Infine cosmologicamente la
spiegazione dello stesso Simeone ravvisa nell’altare il simbolo del cielo, e nella
chiesa stessa, quello del cielo. S’intende, dalla varietà di queste interpretazioni, il
significato ontologico dell’altare come mondo invisibile risulta confermato.
L’invisibile appunto perché invisibile è inaccessibile in sé alla sensibilità
esterna e il santuario come noumeno sarebbe inesistente per occhi spiritualmente
ciechi, come sono inaccessibili al tatto le colonne fluenti e le cortine
dell’incenso, se non fosse stato veduto in secoli nei quali era accessibile
all’esperienza sensibile, quando il mondo invisibile si vedeva. L’isolamento del
santuario è necessario, affinché esso non ci sembri inesistente; questo isolamento
è però possibile soltanto per le realtà che si possano vedere in due modi. Se
fossero soltanto spirituali, rimarrebbero inaccessibili alla nostra impotenza,
rimarrebbero un fatto che la nostra coscienza non saprebbe afferrare. E se
fossero del mondo visibile soltanto, non potrebbero valicare il confine
dell’invisibile che nemmeno saprebbero dove sia.
Può essere distinto il cielo dalla terra, l’alto dal basso, il santuario dalla
chiesa soltanto dai visibili testimoni del mondo invisibile, dai vivi simboli
dell’unione dell’uno e dell’altro, ovvero da creature sante. Queste si possono
scorgere nel visibile, libere dalla conformità a questo secolo, avendo trasfigurato
il corpo e rinnovato la mente, rimangono, «superata la mondana mescolanza»,
nell’invisibile. Perciò esse sono anche testimoni dell’invisibile, testimoni mercé
se stesse, mercé il loro aspetto, mercé il loro sguardo. Vivono inaccessibili alla
nostra conversazione, e noi siamo perfino più inaccessibili a loro; esse non sono
fantasmi della terra, ma stanno carnalmente sulla terra, tutt’altro che astratte,
tutt’altro che esangui. Ma esse, e non esse soltanto, non si esauriscono
interamente qui su questa terra; esse sono idee, vive idee del mondo invisibile.
Esse sono testimoni, si può dire, sul confine del visibile e dell’invisibile, come
immagini simboliche della visione al trapasso da una coscienza all’altra. Esse
sono la vivente anima dell’umanità, con cui essa è salita al mondo celeste;
avendo scartato i fantasmi della fantasticheria al momento del trapasso verso
l’alto ed avendo configurato l’altro mondo al momento della discesa in terra,
hanno trasfigurato se stesse in figure angeliche del mondo angelico. Non a caso
questi testimoni ci fanno prossimi, ci fanno accedere all’invisibile con i loro
angelici sguardi, e sono chiamati da sempre dalla voce popolare angeli fatti
carne. Le nuvole ondeggianti si formano sul confine fra correnti d’aria di diversa
altitudine e di varia direzione, alla superficie dove s’incontrano fra loro le
correnti che scorrono per l’oceano d’aria, e i venti che li formano non possono
trascinarli via, le giogaie aeree restano ferme mentre impetuosamente volano gli
aerei torrenti, come le nebbie che si avvolgono alla vetta d’un monte: infuria sul
monte una bufera di vento, e la coltre di nebbia non è smossa. Una tal nebbia si
forma anche sul confine fra visibile e invisibile. Esso si rannuvola inaccessibile
alla vista impotente, ma così altresì accenna la presenza di ciò che supera il
mondo. Avendo gli occhi spirituali aperti e alzandoli al Trono di Dio,
contempliamo la visione celeste - la nube che avvolge il Sinai - il mistero della
presenza di Dio e avvolgendola la annuncia e proclama. «La nuvola della
testimonianza» (Ebrei 12, 1) sono i santi. Essi circondano il santuario, di essi,
«vive pietre», è costruito il vivo muro dell’iconostasi, perché essi sono nel
contempo nei due mondi e combinano in se stessi la vita di quaggiù e la vita di
lassù. Così, rivelandosi alla vista intellettuale, i santi testimoniano di Dio con
un’azione misteriosa, testimoniano con i loro sguardi: la visione spirituale è
simboleggiata, e la crosta empirica è trapassata da parte a parte in essi da una
luce dall’alto.
Lo schermo del santuario, che distingue i due mondi, è l’iconostasi. Ma
l’iconostasi si può chiamare mattoni, pietre, tavole. L’iconostasi è il confine tra
il mondo visibile e il mondo invisibile e costituisce questo schermo del
santuario, rende accessibile alla coscienza la schiera dei santi, la nuvola della
testimonianza, coloro che circondano il Trono di Dio, la sfera della gloria
celeste, e annunciano il mistero. L’iconostasi è la visione. L’iconostasi è la
manifestazione dei santi e degli angeli - un’angelofania, una manifestazione di
celesti testimoni, e soprattutto della Madre di Dio e del Cristo nella carne,
testimoni i quali proclamano ciò che, visto da quel versante, è carnale.
L’iconostasi è i santi. E se tutti gli oranti nella chiesa fossero abbastanza ispirati,
se gli oranti fossero tutti veggenti, non ci sarebbe altra iconostasi all’infuori
degli astanti testimoni di Dio a Dio, mercé i loro sguardi e le loro parole
annuncianti la Sua terribile e gloriosa presenza; neanche la Chiesa ci sarebbe.
Data l’impotenza della vista spirituale degli oranti, la Chiesa, avendo cura di
loro, è costretta a soccorrerne la debolezza spirituale: queste visioni celesti,
chiare, serene, splendenti, essa segna, trascrive materialmente, ne coglie le tracce
col colore. Questa gruccia della spiritualità, l’iconostasi materiale, non è che celi
qualcosa ai fedeli - un qualche mistero interessante e arguto, come per ignoranza
e amor proprio taluni hanno sostenuto, ma anzi addita ad essi, mezzi ciechi, il
mistero del santuario, dischiude ad essi, storpi e sciancati, l’ingresso nell’altro
mondo, a loro, chiusi nella loro indolenza, grida nelle sorde orecchie l’annuncio
del Regno dei cieli, dopo che essi hanno mostrato d’essere inaccessibili ai
discorsi fatti con voce normale. Certo, questo grido è superfluo a tutti i sensibili
e ricchi di mezzi espressivi, ai quali si fa un discorso pacato; ma chi ha colpa se
altri non solo non hanno apprezzato, ma neanche hanno notato il discorso, e che
cosa rimane da fare, se non lanciare un grido? Rimuovete l’iconostasi materiale,
e allora il santuario come tale svanisce del tutto dalla coscienza della
moltitudine, si riassorbe nel muro maestro. L’iconostasi materiale non sostituisce
l’iconostasi di vivi testimoni e non ne fa le veci, ma è soltanto un’allusione a
loro, affinché l’attenzione degli oranti sia concentrata su di loro. L’orientamento
dell’attenzione è l’indispensabile condizione dello sviluppo della vista spirituale.
Parlando in modo figurato, la chiesa senza l’iconostasi materiale è separata dal
santuario da un muro cieco; l’iconostasi in questo apre delle finestre, e attraverso
ad esse vediamo, o almeno possiamo vedere, attraverso i vetri calare i vivi
testimoni di Dio. Distruggere le icone significa murare le finestre; invece
togliere i vetri che filtrano la luce spirituale, per colui che è capace di vederla
direttamente, per parlar figurato, nello spazio trasparente senz’aria - significa
imparare a respirare l’eterico e a vivere nella luce della gloria di Dio; allorché
questo avviene, l’iconostasi materiale si abolisce da sola con l’abolizione di ogni
immagine di questo mondo, con l’abolizione anche della fede e della speranza e
con la contemplazione della pura, amabile, eterna gloria di Dio.
Così lo studente inesperto deve iniettare nei vasi sanguigni del colore
affinché a tutta prima la sua attenzione si fissi sui loro percorsi e sulle loro
direzioni; così il principiante in geometria deve visibilmente rilevare con un
tratteggio marcato, che colpisca l’occhio, e perfino col colore, le linee e le
superfici sulle quali poggia il peso dell’argomentazione; così ai primi passi
dell’educazione morale con vividi esempi di malattia, sventura e di sofferenze
materiali il mentore dipinge le conseguenze dei vizi. Ma quando l’attenzione è
diventata elastica e non ha bisogno di impressioni esterne per concentrarsi su un
oggetto noto e in se stessa trova la forza di estrarre dalla congerie delle
impressioni sensibili l’oggetto o il segno, anche se è disperso tra altri che
possono colpire ma non sono utili alla comprensione, allora il bisogno di
appoggi sensibili scompare. Così nel campo della contemplazione
sovrasensibile: il mondo spirituale, invisibile non è in un qualche luogo lontano,
ma ci circonda; e noi siamo come sul fondo dell’oceano, siamo sommersi
nell’oceano di luce, eppure per la scarsa abitudine, per l’immaturità dell’occhio
spirituale, non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la
presenza e soltanto col cuore indistintamente percepiamo il carattere generale
delle correnti spirituali che si muovono attorno a noi. Quando il Cristo sanò il
cieco dalla nascita, questi dapprima vide la gente intorno come alberi - tale è il
primo delinearsi della visione delle cose celesti. Anzi noi non vediamo gli angeli
trascorrenti come alberi e nemmeno come ombre di ali lontane interposte fra noi
ed il sole, anche se i più sensitivi talvolta pure colgono i battiti possenti di ali
angeliche, ma questi battiti si percepiscono appena, come il più delicato dei
soffi. L’icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la
visione. La visione non è l’icona: essa è reale in se stessa; l’icona, che coincide
nel contorno con l’immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa
immagine, e fuori dell’immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa, astratta
da essa non è né immagine, né icona, bensì una tavola. Così una finestra è una
finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce, e allora la
stessa finestra che ci dà luce è luce, non è ‘somigliante’ alla luce, non è collegata
per un’associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata,
ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in
sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio. Ma in se stessa, fuor
del rapporto con la luce, fuor della sua funzione, la finestra è come non esistente,
morta, e non è una finestra: astratta dalla luce non è che legno e vetro. L’idea è
semplice: ma quasi sempre ci si ferma a un qualche punto a metà strada, laddove
sarebbe meglio o non arrivare a metà o proseguire oltre: la comune idea che ci si
fa del simbolo, come qualcosa di autosufficiente, anche se in parte condizionato,
di vero, è radicalmente falsa, perché il simbolo o è più o è meno di ciò. Se il
simbolo, in quanto conforme allo scopo, raggiunge lo scopo, esso è realmente
indivisibile dallo scopo - dalla realtà superiore che esso rivela; se esso invece
non rivela una realtà, ciò significa che non ha raggiunto lo scopo e pertanto in
esso non è possibile ravvisare un’organizzazione conforme a uno scopo, una
forma, e significa che, mancando questa, non è un simbolo, non è uno strumento
dello spirito, bensì mero materiale sensibile. Ripetiamo, non c’è finestra in sé e
per sé perché nell’idea di finestra, come in ogni strumento della cultura, è
compresa strutturalmente la sua conformità allo scopo: ciò che non è conforme
allo scopo non è neanche un fenomeno della cultura. Perciò o la finestra è luce o
è legno e vetro, ma non sarà mai semplicemente una finestra. Così anche le icone
- «visibili rappresentazioni di spettacoli misteriosi e soprannaturali» secondo la
formula di san Dionigi l’Areopagita. E l’icona è sempre o più grande di se
stessa, quando è una visione celeste, o è meno di se stessa, se essa non apre a una
coscienza il mondo soprannaturale, e non si può chiamare altro che una tavola
dipinta. È una profonda falsità l’opinione corrente secondo cui nell’icona si deve
ravvisare un’arte più antica, la pittura; è falsa soprattutto perché alla pittura si
verrebbe a negare la sua forza particolare: anche la pittura in genere o è più o è
meno di se stessa. Ogni pittura ha lo scopo di spingere lo spettatore, oltre al
limite dei colori e della tela percepibili coi sensi, a una realtà, e allora l’opera
pittorica condivide con tutti i simboli in genere la loro caratteristica ontologica
fondamentale - di essere ciò che essi simboleggiano. Ma se il pittore non
raggiunge lo scopo - in genere o rispetto a un dato spettatore - e l’opera non
porta attraverso a se stessa da nessuna parte, non se ne parla nemmeno come di
un’opera d’arte; allora parliamo di scarabocchio, di fallimento ecc. Ora l’icona
ha lo scopo di sollevare la coscienza al mondo spirituale, di mostrare «spettacoli
misteriosi e soprannaturali». Se nella valutazione o meglio nella sensibilità di chi
lo considera, questo fine non è affatto raggiunto, se non è attuato nonostante una
remota sensazione dell’altro mondo, è come le alghe ancora odorose di iodio,
che testimoniano del mare; e dell’icona si può dire - non già che essa non rientri
nel novero dei prodotti culturali, ma che il suo valore è soltanto materiale o, nel
caso migliore, archeologico. «E come allora si rivelò,» scrisse il beato Giuseppe
Volotzky dell’icona della Santissima Trinità del beato Andrej Rublev «così
adesso ci dà modo di raffigurarla e dipingerla. È mercé quella figurazione che
l’inno tre volte santo della tre volte santa e Unica nella sostanza e vivificante
Trinità è recato sulla terra; con un desiderio sconfinato, con un amore
incorruttibile, con uno spirito penetrante fino al nome archetipico e alla
inattingibile somiglianza, si stacca da ogni spettacolo esteriore, la mente e il
pensiero volano verso il desiderio e l’amore di Dio; qui non sussiste più una cosa
ma una visione di bellezza; il culto dell’icona giunge all’archetipo e ora non
soltanto siamo illuminati e illuminanti a opera dello Spirito Santo, ma ci
troviamo nel secolo venturo in modo sublime ed ineffabile, realmente splendono
del fulgore del sole i corpi dei santi, i quali risanano con l’amore rappresentato
dall’icona e adorano l’unica sostanza di Dio in tre persone pregando il purissimo
nome di Dio in figura della Santissima e Vivificante Trinità col Padre il Figlio e
io Spirito Santo, Dio nostro misericordioso e onnipotente». Ecco qui espressa
l’idea della pittura d’icone come strumento di conoscenza soprannaturale, per
cui chi ha guidato la pittura delle icone le ha altresì dipinte, quanto al fine.
Secondo una delle dichiarazioni del Settimo Concilio Ecumenico: «al pittore
spetta soltanto l’aspetto tecnico dell’opera, ma tutto il suo ordinamento
(διάταξις, cioè disposizione, composizione, anzi, ancor più: la forma artistica in
genere) chiaramente dipese dai Santi Padri». Questa essenziale decisione è prova
non già d’una dottrina antiartistica che detti le norme dell’opera del pittore
d’icone con riflessioni e regole esteriori rispetto ad essa, non già d’una censura
delle icone, ma testimonia che la Chiesa considerava e considera come veri
pittori delle icone i Santi Padri. Essi creano quest’arte perché contemplano ciò
che va raffigurato sull’icona. Come può dipingere un’icona colui che non solo
non ha in se stesso, ma nemmeno ha mai visto l’archetipo ovvero, per esprimerci
nel linguaggio della pittura, il modello? Se perfino nell’ambito sensibile,
incessantemente presente all’artista fin dalla sua infanzia, egli si attiene al
modello, benché abbia visto oggetti analoghi in quantità innumerevole, sarebbe
un’impudenza che un essere non glorificato osasse la raffigurazione del mondo
sovrasensibile, il quale con piena intelligenza è contemplato, sul versante
dell’invisibile, perfino dai santi, soltanto a tratti rapidi e isolati.
La pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una
radicale falsità artistica e pur predicando a parole la prossimità e fedeltà alla
realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente da fare con quella realtà che
pretendevano e ardivano di rappresentare; non ritenevano nemmeno opportuno
osservare le norme della pittura d’icone tradizionale, cioè a conoscenza del
mondo spirituale, quale era trasmessa dalla Chiesa cattolica. Viceversa la pittura
d’icone è la rocca delle figure celesti, il baluardo di tavole affumicate che
circonda il santuario d’un vivo stuolo di testimoni. Le icone materialmente
segnano questi penetranti e memorabili sguardi, queste idee sovrasensibili e
rendono quasi pubbliche le visioni inaccessibili. I testimoni, mediante questi
testimoni che sono i pittori d’icone, ci offrono le immagini - είδη, εικόνες - delle
loro visioni. Le icone testimoniano con la loro forma artistica immediatamente e
graficamente della realtà di queste forme: esse pronunciano in linee e colori -
trascritto coi colori - il Nome di Dio, perché che cos’è l’immagine di Dio, la
Luce spirituale del santo sguardo, se non il Nome di Dio tracciato sul volto
santo? Sua somiglianza in quanto testimone è il mistico, il santo, che
quand’anche parli lui, tuttavia testimonia non di sé ma di Dio, e attraverso se
stesso rivela non se stesso ma Lui, come questi testimoni dei testimoni, i pittori
d’icone, testimoniano non della loro arte dell’icona, cioè non di sé, ma dei santi
testimoni del Signore, e con loro del Signore stesso.
Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio suona la più
persuasiva quella di cui non è fatta menzione nei manuali: si può formulare col
sillogismo: «Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è».
Nelle rappresentazioni delle icone noi, perfino noi, vediamo gli sguardi
benedetti e sfolgoranti dei santi, e in essi, in questi sguardi è svelata l’immagine
di Dio e Dio stesso. E noi, come la Samaritana, diciamo ai pittori d’icone: «Non
crediamo alla santità dei santi perché voi ne testimoniate con le icone che avete
dipinto, ma sentiamo emanare da loro stessi attraverso l’opera del vostro
pennello l’autotestimonianza dei santi e non con parole ma con le loro
sembianze. Noi stessi sentiamo la soave voce del Verbo di Dio, del verace
Testimone, il soprannaturale suono della cui voce compenetra tutto l’essere dei
santi generandone la perfetta armonia. Ma non siete stati voi a creare queste
immagini, non siete stati voi a rivelare queste vive idee ai nostri occhi festanti -
loro stessi si sono rivelati alla nostra coscienza; voi vi siete limitati a rimuovere
ciò che ce ne velava la luce. Voi ci avete aiutato a liberarci delle scaglie che
coprivano gli occhi dello spirito. E adesso noi, grazie a voi, vediamo, ma non già
la vostra maestria vediamo, bensì la vita realissima degli sguardi stessi. Ecco,
osservo l’icona e dico dentro di me: - È Lei stessa - non la sua raffigurazione, ma
Lei stessa, contemplata attraverso la mediazione, con l’aiuto dell’arte dell’icona.
Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona,
e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione. Sì, è nella mia coscienza e
non è una raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del
Signore. La finestra è una finestra e la tavola dell’icona - una tavola, dei colori,
della vernice. Ma alla finestra si contempla la stessa Madre di Dio; alla finestra
appare la visione della Purissima. Il pittore d’icone me l’ha indicata, sì, però non
l’ha creata; egli ha tirato la cortina, ma Colei che sta dietro la cortina è una realtà
oggettiva non soltanto per me, ma così per me come per colui che ha tirato la
cortina e l’ha rivelata, e non è stata composta da lui, sia pure nell’empito della
sua alta ispirazione. L’icona va o sottovalutata, di fronte alle correnti
mezzevalutazioni positivistiche, o sopravalutata, ma non deve incagliarsi nelle
interpretazioni psicologiche, associative che la riducano a rappresentazione.
Ogni rappresentazione, secondo la sua necessaria simbolicità, svela il suo
contenuto spirituale non diversamente da come accade nella nostra ascesa
“dall’immagine all’archetipo” cioè nel nostro contatto ontologico con
l’archetipo; allora e soltanto allora il segno sensibile trabocca di linfa vitale e
proprio perciò, essendo inscindibile dal suo archetipo, diventa non una
“rappresentazione”, bensì un’onda propagatrice o una delle onde propagatrici
della realtà stessa che l’ha suscitata. Tutti gli altri modi di manifestazione della
stessa realtà al nostro spirito sono del pari onde, emanazioni, inclusa la nostra
associazione vitale con essa: sempre noi ci associamo all’energia dell’essenza e
attraverso l’energia all’essenza stessa, mai a quest’ultima direttamente. Anche
l’icona, essendo manifestazione, energia, luce di un’essenza spirituale, e per
essere precisi, della misericordia di Dio, è più grande di come la vuole
considerare il pensiero che si attribuisce l’attestato di “sobrio”, ovvero, se quel
contatto con l’essenza spirituale non si è prodotto, essa non ha nessun
significato».
Così inevitabilmente arriviamo al termine e al concetto che sempre riaffiora
nei dibattiti con gl’iconoclasti: evocazione.
I difensori delle icone tornano innumerevoli volte sul significato evocatorio
delle icone: le icone, dicono i Santi Padri e, con le loro parole, il Settimo
Concilio Ecumenico - evocano per coloro che pregano i propri archetipi e,
guardando le icone, il fedele «solleva la mente dalle immagini agli archetipi».
Tale è la terminologia teologica solidamente impiantata. A queste espressioni
ora non di rado ci si riferisce, ma le si riduce, in genere, a un pensiero
soggettivo-psicologico e radicalmente falso, fino a deformare il fondamento del
pensiero dei Santi Padri che con le proprie mani, con l’aria di difendere le icone,
ripristinerebbero, per giunta grossolanamente e incondizionatamente,
l’iconoclastia; e addirittura in modo tale che l’iconoclastia, sulla quale in antico
trionfò la dottrina ecclesiale, era più ponderata, sottile e critica, più complessa
come pensiero, della ripetizione contemporanea dei suoi stessi temi nelle
repliche ai protestanti e al razionalismo. Invero gl’iconoclasti non negavano
affatto la possibilità e l’efficacia della pittura religiosa, alla quale ora si
equiparano le icone; gl’iconoclasti, parlando alla moderna, insistevano proprio
sul significato soggettivo-associativo delle icone, ma negavano ad esse un nesso
ontologico con gli archetipi, e allora ogni venerazione, ogni bacio alle icone,
ogni preghiera ad esse, a qualsiasi di esse, l’accensione di lampade e candele
ecc., cioè ogni culto alle ‘rappresentazioni’ contrapposte come cose esterne e
aliene agli archetipi, questa venerazione dei sosia di questi, non poteva che
essere equiparata a una superstiziosa idolatria. Se la sostanza dell’icona è la
‘rappresentazione’, è assurdo e peccaminoso tributare a questi strumenti
pedagogici ‘l’onore’ che andrebbe soltanto all’unico Dio ed è assolutamente
incomprensibile che addirittura proprio l’antica fede della Chiesa nell’ascesa
all’archetipo - renda onore all’immagine. Ma nel periodo delle dispute
iconoclastiche, la gente sapeva di che cosa stava disputando e in che cosa
differiva; c’erano cultori d’icone e iconoclasti. Oggi anche i cultori d’icone
insegnano iconoclasticamente, non sanno neanche loro se le stanno difendendo
davvero o viceversa non le stiano negando. Si dimentica che le dispute sulle
icone si svolsero a Bisanzio nel secolo IX e non già dieci secoli dopo in
Inghilterra, sul terreno della filosofia platonico-aristotelica e non già di quello
humiano-milliano-baconiano. Trasponendo alla terminologia patristica conciliare
un contenuto sensista inglese e una psicologia sensista invece del significato
ontologico che quella sottintendeva in base all’idealismo antico, i difensori
odierni delle icone hanno cantato vittoria senza che gl’iconoclasti siano stati mai
sconfitti.
Così, che cosa significano nelle decisioni conciliari i termini: archetipo e
immagine, evocazione, intelletto ecc.?
L’icona evoca un archetipo, cioè desta nella coscienza una visione spirituale:
per chi ha contemplato nitidamente e coscientemente questa visione, questa
nuova, secondaria visione per mezzo dell’icona è anch’essa nitida e cosciente.
Ma per un altro l’icona risponderà a una percezione spirituale profondamente
assopita al disotto della consapevolezza, comunque essa non afferma
semplicemente che esiste questa percezione ma ne fa sentire o avvicina alla
coscienza l’esperienza. Col fiorire della preghiera degli asceti più eccelsi non è
strano che le icone diventino non soltanto una finestra attraverso la quale
appaiono i volti su esse raffigurati, ma anche una porta da cui questi entrano nel
mondo sensibile. Certamente dall’icona più facilmente scendono i santi quando
li preghiamo di apparire.
Ma su un piano inferiore, e tuttavia affine per natura a questi casi,
manifestazioni simili sono arrise a molti, che erano lungi dall’essere degli asceti:
intendo parlare della sensazione acuta, penetrante nell’anima della realtà del
mondo spirituale, la quale, come un urto, un’ustione rende di colpo sgomenti -
sia pure non tutti - coloro che scorgono per la prima volta una delle più sacre
opere dell’arte dell’icona. Qui non si può concedere il minimo spazio all’idea
che sarebbe la soggettività di chi la osserva che si manifesterebbe attraverso
l’icona - tanto questa si mostra viva, indubitabilmente oggettiva e autonoma allo
sguardo sia dello spirito sia del corpo. Come una visione sfolgorante, straripante
di luce si mostra l’icona. È come se essa non fosse circoscritta, non puoi parlare
di questa visione altrimenti che con la parola: soverchia. Si riconosce che è
superiore a tutto ciò che la circonda, situata in uno spazio tutto suo e
nell’eternità. Dinanzi ad essa si placa la passione ardente e la vanità del mondo,
essa si situa aldilà del mondo, è un mondo qualitativamente superiore che agisce
dal suo piano in mezzo a noi. Indubbiamente essa è quest’opera del pennello; ma
non si capisce come lo possa essere e non credi ai tuoi occhi testimonianti di
questa vittoriosa trionfale bellezza. Tale l’effetto della Trinità di Rublev, e tale
quello della Vergine di Vladimir, anche se l’impressione che se ne riceve non è
affine. Questa e altre icone uniche, che colpiscono in modo singolare anche
l’osservatore insensibile, non si devono tuttavia considerare separatamente dalle
altre. Ogni icona che conservi fondamentalmente la forma iconica delle icone di
ordine superiore - diciamo come quelle menzionate - racchiude in sé la virtualità
di questa rivelazione spirituale, sia pure sotto un velo più o meno trasparente.
Ma arriva l’ora in cui la condizione spirituale di chi contempla l’icona dà la
forza di coglierne la sostanza spirituale anche attraverso il velo, attraverso la sua
forma offuscata, e l’icona rivive e compie la sua opera: la testimonianza intorno
al mondo superiore.

Io, o Madre di Dio, adesso con la preghiera
Al chiaro splendore della tua immagine
Non prego per la salvezza, non alla vigilia d’una battaglia,
Non per resa di grazie e penitenza,
Non prego per l’anima desolata,
Per l’anima del pellegrino solo al mondo,
Ma voglio affidare alla fanciulla intatta
Alla calda Protettrice il mondo gelido…

- nacque nell’inquieta e ondeggiante anima di Lermontov come una
rivelazione dell’icona della Madre di Dio. E non soltanto la poesia attesta
l’insegnamento ecclesiale, che tutte le icone sono miracolose, cioè possono
essere delle finestre sull’eternità, benché non ogni singola icona sia già stata tale.
La fenomenalità delle icone nel senso proprio della parola, il fenomeno
scaturente dall’icona mostra il segno della bontà divina che si è manifestata per
suo tramite. Il risanamento dell’anima grazie al contatto, tramite l’icona, col
mondo spirituale è innanzitutto la rivelazione del potere miracoloso.
Così l’icona sempre si riconosce come un fatto di natura divina. L’icona può
essere di somma o scarsa maestria, ma alla sua base sta la percezione autentica
d’un’esperienza spirituale sovramondana autentica. Questa esperienza può essere
fissata per la prima volta nella particolare icona, sicché questa è il primo schietto
annuncio dell’esperienza precedente. Si considera tale icona, per così dire
protorivelata o prototipica, come la prima fonte: essa corrisponde al manoscritto
autentico che confida la Rivelazione avvenuta. Ci possono anche essere copie di
questa icona più o meno aderenti alla sua forma. Ma il loro contenuto spirituale
non è qualcosa di nuovo rispetto all’originale e non è simile all’originale, ma è
l’originale stesso, benché manifestato attraverso un fitto velo e un tramite
torbido. Tuttavia, anzi appunto perché non si tratta di qualcosa di simile ma dello
stesso originale, sono possibili riproduzioni dell’icona con modificazioni,
varianti nella traslazione del fondamento.
Se il pittore d’icone non ha saputo rivivere ciò che ha rappresentato, se pur
avendo rispettato l’originale non ha attinto la realtà rappresentata, pur essendo
coscienzioso e sforzandosi al massimo di riprodurre sulla sua copia i caratteri
esterni dell’originale, come spesso avviene, non è giunto a possedere l’icona nel
suo complesso, smarrendosi fra i trattini e le pennellate, confusamente riproduce
il fondamento. Viceversa se attraverso l’originale gli si è rivelata la realtà
spirituale rappresentata ed egli, benché di riporto, l’ha vista con sufficiente
chiarezza, allora veramente grazie alla viva realtà dell’uomo vivente emergono
dei punti di vista personali e si evita la calligrafica fedeltà all’originale. In un
manoscritto che descrive un paese già descritto prima, non si rileva soltanto la
particolare grafia ma anche l’espressione personale, benché fondamentalmente si
tratti della stessa descrizione dello stesso paese. E questa diversità delle varie
riproduzioni d’un’unica icona protorivelata mostra non la soggettività di ciò che
è rappresentato, non l’arbitrarietà della pittura d’icone, ma ogni volta proprio il
contrario - la vivente realtà che rimane sempre se stessa e può peraltro mostrarsi
diversamente a seconda delle circostanze della vita spirituale che il pittore
d’icone interpreta. Se si abbandona il piano della servile ricopiatura, il genere di
riproduzione meccanica, la differenza tra l’icona protorivelata e la sua copia è
più o meno la stessa che corre fra la descrizione d’un paese appena scoperto e la
descrizione d’un viaggiatore che lo visita in base alle indicazioni che gli sono
date: se storicamente non fosse importante il primo, il successivo potrebbe essere
anche più completo e più chiaro. Così anche per le icone, dove talvolta le
riproduzioni si sono mostrate particolarmente preziose e hanno celebrato dei
valori speciali, a testimonianza della loro veridicità metafisica e della suprema
conformità a ciò che rappresentano.
Ma comunque a fondamento d’un’icona sta un’esperienza spirituale. Perciò
la fonte delle icone può essere quadruplice, vale a dire: 1. biblica, poggiante
sulla realtà di una data parola di Dio; 2. ritrattistica, poggiante sull’esperienza
personale e sul ricordo del pittore d’icone, contemporaneo dei volti e degli
eventi che raffigura e che gli fu dato di vedere non soltanto come fatti esterni ma
anche come spirituali illuminazioni; 3. figurativa tradizionale, poggiante sulla
comunicazione orale o scritta d’un’esperienza spirituale altrui, avvenuta nel
tempo passato; 4. infine, le icone rivelate, dipinte secondo una personale
esperienza spirituale del pittore d’icone, una visione o un sogno misterioso. Si è
detto che la fonte delle icone potrebbe essere quadruplice; ma di fronte
all’astratta chiarezza di questa suddivisione, quando si passa all’applicazione
pratica almeno dell’ultima categoria, certe icone certamente appaiono rivelate,
ma si può ritenere che lo siano anche altre, perfino le bibliche, in certa misura:
l’effettiva storicità di certi eventi, e delle persone stesse, non esclude la loro
permanenza nell’eternità e perciò anche la possibilità di contemplarli in
un’ascensione della coscienza al di là del tempo. Ogni icona è una rivelazione. E
quando si parla dell’icona ritrattistica, anche un’opera del genere, per essere
un’icona, deve poggiare su una qualche visione, ad esempio, sulla visione della
luce, anche se d’un vivente - sicché non costituisce qualcosa di opposto alle
icone rivelate. Quanto all’icona secondo tradizione, l’astratta descrizione non
basta alla figurazione iconica artistica e perciò anche qui è necessario vedere
qualcosa coi propri occhi spirituali.
Non soltanto nella Chiesa orientale al tempo della sua più profonda stabilità,
quest’idea delle icone come dipinte in base a visioni era essenziale, ma perfino
nell’Occidente, che allora non era molto lontano dalla contemplazione dei
mistici, e segretamente viveva la fede nella natura rivelata delle icone, come
norma della pittura d’icone; si riconosceva e si riconosce d’origine celeste e non
terrena ciò che è veramente degno di devozione e di venerazione. Un esempio
capitale è Raffaello. In una lettera all’amico Baldesar Castiglione egli lasciò
cadere certe parole enigmatiche, la cui soluzione è conservata nei manoscritti
d’un altro suo amico - Donato D’Angelo Bramante.
Nel mondo esistono, scriveva Raffaello, così poche rappresentazioni
dell’incanto femminile che «io mi servo di una certa Idea che mi viene nella
mente». Che significa «mi viene nella mente»? La parallela comunicazione del
1

Bramante dice che per proprio diletto egli vuole serbare memoria d’un miracolo
confidatogli dal caro amico Raffaello sotto il sigillo del silenzio, un giorno che
col cuore colmo e aperto gli esprimeva lo stupore dinanzi alle incantevoli figure
delle Madonne e della Sacra Famiglia e gli chiedeva insistentemente di
spiegargli dove, in qual mondo, avesse veduto una tale bellezza, il commovente
sguardo e l’espressione inimitabile della figura della Santissima Vergine. Con il
giovanile rossore, con la modestia, a lui connaturate, Raffaello rimase in silenzio
per un certo tratto; poi, fortemente commosso, lacrimando gli si buttò al collo e
gli svelò il suo segreto. Narrò che dalla tenera età sempre gli aveva acceso
l’anima una particolare devozione alla Madre di Dio; qualche volta,
pronunciandone il Nome ad alta voce, provava perfino un intimo dolore. Fin dal
suo primo impulso verso la pittura aveva desiderato di dipingere la Vergine
Maria nella sua celeste perfezione, ma non osava fidarsi delle sue forze. Notte e
dì senza tregua il suo spirito si affaticava pensando all’immagine della Vergine,
però mai si era fidato delle sue forze; gli pareva che un’ombra celasse
l’immagine agli occhi della fantasia. Talvolta una scintilla divina gli brillava
nell’anima e così l’immagine nei suoi contorni luminosi gli si svelava sì da
invogliarlo a dipingerla, tuttavia era un attimo fuggevole, non gli riusciva di
trattenere nell’anima queste fantasie. Incessantemente, senza pace, tumultuava
l’anima di Raffaello; soltanto a tratti egli sorprendeva le fattezze del suo ideale, e
l’oscura sensazione dell’anima mai non volle tramutarsi in una luminosa
apparizione; finalmente non poté più trattenersi, con mano trepida cominciò a
dipingere la Madonna, e via via che lavorava, sempre più lo spirito gli
s’infiammava. Una volta, la notte, mentre nel sonno pregava la Vergine
Santissima, come spesso gli accadeva, si destò di colpo, preso da una forte
agitazione. Nella tenebra notturna lo sguardo di Raffaello fu attratto da una
luminosa visione sulla parete, davanti al suo giaciglio; la fissò e vide che, ecco,
sul muro un’immagine della Madonna splendeva d’un mite fulgore e somigliava
in tutto a una figura viva; manifestava la sua divinità in modo tale che gli occhi
dell’esterrefatto Raffaello furono inondati di lacrime. Con irresistibile
commozione, con umido ciglio egli la scrutava e a ogni istante gli pareva che la
figura dovesse muoversi; immaginò perfino che si muovesse. La cosa più
straordinaria fu che Raffaello in essa scorse proprio ciò che aveva cercato tutta la
vita e di cui aveva avuto un oscuro e vago presentimento. Egli non ricordava
come si fosse di nuovo addormentato; però la mattina, alzandosi, era come
rigenerato. La visione gli si era impressa nell’anima e nella sensibilità, ed ecco
perché gli riuscì di dipingere la Madre di Dio nella sembianza che portava
nell’anima, e sempre guardò con trepida riverenza alla figura delle sue Madonne.
Ecco che cosa aveva raccontato l’amico Raffaello a Bramante, che trascrisse il
miracolo così mirabile e importante, per conservarlo per il proprio diletto. Così 2

si spiegano le parole di Raffaello sulla misteriosa immagine che talvolta gli


visitava l’anima. L’icona quale conferma e proclama, annuncio per mezzo di
colori del mondo spirituale, per sua natura è opera di chi vede questo mondo
come un santo e perciò l’arte dell’icona, in conformità a ciò che in linguaggio
mondano si chiama arte, non può che spettare ai Santi Padri. La coscienza
ecclesiale esprimendosi nella nota definizione del Settimo Concilio Ecumenico,
non ritiene di dover distinguere i pittori d’icone in questo senso proprio e
supremo della parola dal novero dei Santi Padri, ma contrappone ad essi i pittori
d’icone nel senso inferiore - i copisti, coloro che sono prevalentemente dei
semplici mestieranti, artigiani dell’opera iconica, gl’ikonniki come li si chiama
da noi in Russia, che sono trascurati nel loro mestiere di impiastricciatori
d’icone; ma certo elencando tutti questi termini stiamo chiarendo la decisione
conciliare in base alla vita ecclesiale russa, e non stiamo traendo delle deduzioni
da essa stessa. Negli atti conciliari si dice che le icone sono basate sulla
concezione - εφεύρεσις - sulla personale invenzione del pittore, ma in forza della
norma inviolabile e della Tradizione - θεσμοθεσία καί παράδοσις - della Chiesa
Universale, che comporre e prescrivere è affare non del pittore bensì dei Santi
Padri; a loro spetta la normativa intera della composizione - διάταξις - e al
pittore soltanto l’esecuzione, la tecnica - τέχνη.
Nei remoti tempi dell’antichità cristiana fu fissato il punto di vista sull’icona
non suscettibile di arbitrarie innovazioni, e confermato nel corso della storia,
questo punto di vista fu espresso con particolare irremovibilità da noi in Russia
nelle risoluzioni ecclesiastiche dei secoli XVI e XVII. Fu ribadito da
innumerevoli pitture d’icone originali, tanto verbali come effettive, le quali con
la loro esistenza mostrano la fermezza della tradizione iconica, e nei loro tratti
più notevoli e nelle forme fondamentali risalgono ai tempi della più venerabile
antichità, ai primi secoli della Chiesa, e per certe parti ed elementi non di rado
sono radicate nell’oscurità impenetrabile della storia precristiana. Si capiscono
gli avvertimenti espliciti dei manuali al maestro d’icone, che chi si accinga a
dipingere un’icona non secondo la Tradizione ma secondo la propria intenzione,
merita l’eterno tormento.
In queste norme della coscienza ecclesiale gli storici profani e i teologi
positivisti ravvisano la solita consuetudine conservatrice della Chiesa,
l’attaccamento senile alle forme e ai metodi abituali, dopo che si è esaurita la
creatività ecclesiale, e giudicano le norme quali ostacoli alla nascita d’un’arte
ecclesiale nuova. Ma questa incomprensione del conservatorismo ecclesiastico è
altresì un’incomprensione dell’opera d’arte. A questa non ha mai fatto ostacolo il
canone e le più ardue forme iconiche in tutti i settori dell’arte sono state sempre
soltanto la pietra di paragone sulla quale la nullità si è spezzata e si sono
temprati i talenti veri. Innalzandosi all’altezza raggiunta dall’umanità, la forma
canonica libera le energie creative dell’artista verso nuove mete, verso voli
creativi, e affranca dalla necessità di ripetere il già fatto: l’esigenza della forma
canonica, o più precisamente il dono che l’umanità fa all’artista di una forma
canonica, è una liberazione e non una limitazione. L’artista il quale per
ignoranza si immagina che senza una forma canonica creerebbe qualcosa di
grande, somiglia al viandante cui sembri d’ostacolo il terreno e s’immagini che
appeso per aria andrebbe più lontano che per terra. Un artista che abbia ripudiato
l’integra forma, inconsapevolmente si afferra ai residui e ai lembi di quella
forma, casuali e incompleti e per queste inconsapevoli reminiscenze pretende
l’epiteto di ‘creazione’. Viceversa, l’autentico artista non vuole la cosa sua a
ogni costo, ma vuole il bello, l’oggettivamente bello, cioè l’artistica
configurazione della verità delle cose e in genere non si cura della questione
meschina e vanitosa, se è il primo o il centesimo a parlare della verità. Basta che
essa sia la verità, e il valore dell’opera è garantito. Chi vive si preoccupa di
vivere veracemente e non se la sua vita è simile a quella del vicino, vive per
conto suo per la verità ed è convinto che una vita sincera per la verità è
comunque individuale e nella sua essenza del tutto irripetibile, e può essere vera
soltanto nel flusso della storia universale dell’umanità e non come deliberata
invenzione - così la vita artistica: anche l’artista, appoggiandosi ai canoni
artistici universalmente umani, che si ritrovano tali e quali qui e altrove, per
mezzo di essi e in essi trova la forza di configurare la realtà autenticamente
contemplata e sa con certezza che la sua opera, se è libera, non risulta un
duplicato dell’altrui, benché l’oggetto della sua preoccupazione non sia questo
confronto con qualcun altro, ma la verità di ciò che raffigura. L’adozione del
canone è l’acquisizione d’un rapporto con l’umanità e la coscienza che essa non
invano è vissuta e non è stata priva della verità, che la sua concezione della
verità fu esaminata e chiarita dal consesso dei popoli e delle generazioni e che
essa fu fissata nel canone.
Il primo dovere è di capire il senso del canone, di penetrarlo in profondità
quale intelligenza condensata dell’umanità ed essendo spiritualmente proteso
verso il più alto livello raggiunto, voglio determinare come, a questo livello, a
me, artista individuale, la verità delle cose si manifesti; è ben noto che questo
sforzo di fondere la nostra intelligenza individuale nella forma umana comune
dischiude la sorgiva della creatività. Viceversa il malato e ambizioso ripudio
delle forme umane comuni lascia l’artista a un livello inferiore a quello già
raggiunto, che è pertanto nient’affatto personale ma soltanto fortuito e
inconsapevole; per parlare figurato, intingere nel calamaio il dito invece della
penna non è segno né di indipendenza individuale né di ispirazione particolare,
anche se a questo modo si possono perfino scrivere alcuni versi. Quanto più
difficile e distante dalla quotidianità è l’oggetto dell’arte, tanto più esso esige
che ci si attenga al canone artistico correlativo - sia per la responsabilità di
un’arte del genere, sia per la minore accessibilità dell’esperienza che è qui
richiesta. Nel suo rapporto col mondo spirituale la Chiesa, sempre viva e
creativa, non prende le difese delle vecchie forme come tali, e non le antepone
alle nuove come tali. La concezione ecclesiale dell’arte fu ed è e sarà una sola -
il realismo. Ciò significa: la Chiesa, «colonna e fondamento della Verità», esige
una cosa sola - la verità. La Chiesa non pone la questione di forme vecchie o
nuove della verità, bensì sempre chiede soltanto la certificazione del vero e se la
certificazione è data, benedice e include nel suo tesoro di verità - e se non è data,
respinge.
Quando, come nel caso esaminato, è già trovato ed è osservato il canone
conciliare universalmente umano, c’è la garanzia formale che l’icona in
questione o semplicemente riproduce la verità già concepita o dischiude anche
qualcos’altro di ugualmente vero; quando non è osservato il canone, si tratta di
qualcosa o di non raggiunto o che in ogni modo ha bisogno, come rivelazione
nuova, di una verifica. E allora l’artista deve sapere che cosa fa ed essere pronto
a risponderne. Così l’intelligenza conciliare della Chiesa non può non
domandare a Vrubel, Vasnetzov, Nesterov e agli altri nuovi pittori d’icone, se si
rendono conto che non stanno rappresentando qualcosa di immaginato e
composto da loro, bensì una realtà effettiva, sostanziale e che su di essa o hanno
detto la verità, e allora hanno prodotto una serie d’icone protorivelate, delle quali
si può dire che numericamente prevalgono su tutto ciò che i santi pittori d’icone
in tutta la precedente storia della Chiesa mai videro - o dicono il falso. Non si
tratta di discutere se una donna è stata raffigurata bene o male, o se questo ‘bene’
o ‘male’ in misura significativa dipenda dall’intenzione dell’artista, bensì se
effettivamente si tratti della Madre di Dio. Se questi artisti, neanche
interiormente, per se medesimi, non possono certificare l’identità della persona
raffigurata, se si tratta di un’altra qualsiasi, non si sta qui consumando forse il
massimo inganno spirituale, provocando una confusione, e non si dirà forse che
l’artista ha dipinto il falso intorno alla Madre di Dio? La ricerca di modelli da
parte degli artisti contemporanei per dipingere le figure sacre già di per sé è la
prova che essi non hanno distintamente veduto la figura da loro rappresentata, e
se ne avessero veduta una, chiaramente si tratterebbe di un’immagine del tutto
estranea, ancorché di un altro ordine, d’un altro mondo, sarebbe un’immagine
d’ostacolo, e non d’aiuto alla contemplazione spirituale. Si pensa che la
maggioranza degli artisti non ha veduto né chiaramente né poco chiaramente, ma
semplicemente non ha mai veduto niente, invero essi superficialmente
trasformano un’immagine esteriore adattandola a reminiscenze semiconsapevoli
delle icone della Madre di Dio, mescolando alla verità sicura le loro
manipolazioni personali, e ben sapendo ciò che fanno, osano iscriverci il nome
della Madre di Dio. Ma se essi non possono certificare la verità di ciò che hanno
raffigurato, non essendone neanche nell’intimo convinti, pretenderanno dunque
di testimoniare essendo nel dubbio, si assumeranno la responsabilità di Padri
della Chiesa e non essendo tali inganneranno e spergiureranno perfino?
Se un teologo-scrittore volesse descrivere la vita della Madre di Dio, non
parlando secondo la Tradizione della Chiesa, forse che il lettore non avrebbe
diritto di chiedergli le fonti? E se non ottenesse una risposta soddisfacente, non
avrebbe diritto di accusare il teologo di falso? E il teologo-pittore che dipinga la
Madre di Dio darà per scontato un suo privilegio del falso? E mentre il romanzo
di Renan, quale che sia la sua qualità e il suo valore come romanzo, mai ci si è
sognati di leggerlo in chiesa con i Vangeli, i dipinti equivalenti alla Vie de Jésus
non soltanto stanno nelle chiese, ma se ne dà per scontata la funzione cultuale
venerandoli come icone. Viceversa proprio le icone sono gli annunci della verità
a chiunque, perfino all’analfabeta, mentre gli scritti teologici sono accessibili a
pochi e perciò meno responsabili; l’icona contemporanea ‘diversa’ è una falsa
testimonianza gridata in chiesa davanti a tutto il popolo.
Gli artisti del Rinascimento che non erano legati in alcun modo a dei canoni,
si attenevano a un giro ristretto di temi iconici fondamentali, benché nessuno li
obbligasse a ciò, e osservavano perfino, in certi momenti, la Tradizione della
Chiesa; questo mostri quanto l’artista senta la necessità delle norme. Che la
norma ecclesiastica non coarti, perfino nella sua più stretta osservanza, l’artista,
ci dimostra assai bene il paragone delle icone antiche di ugual tema e perfino
conformi a un’unica versione: non se ne trovano due di identiche e fin da un
primo esame la somiglianza fra esse non fa che rafforzare l’assoluta individualità
del trattamento di ciascuna. Inoltre, una creazione nuova per contatto con una
nuova esperienza dei misteri celesti si colloca perfettamente entro le forme
canoniche già rivelate, inserendosi in esse come in un nido già pronto, e lo
dimostra la Trinità di Rublev. Il soggetto dei tre angeli a tavola esisteva da
tempo ed aveva ricevuto un riconoscimento canonico. In questo senso il beato
Andrej Rublev non concepì niente di nuovo e la sua icona della Trinità, valutata
dall’esterno, archeologicamente, sta nella lunga trafila dei suoi precedenti,
iniziata nei secoli IV-VI e proseguita con le successive raffigurazioni
dell’ospitalità del patriarca. Queste raffigurazioni erano, nel loro significato
archeologico, icone-illustrazioni della vita d’un giusto, cioè del patriarca
Abramo e come tali già prefiguravano il significato della futura rivelazione della
Santissima Trinità. Ma il particolare senso trinitario di queste icone era
prefigurato al modo del significato battesimale nella traversata del Mar Rosso o
di quello mariano nel roveto ardente: guardando una figurazione di quest’ultimo,
anche la più perfetta, in essa non si ravvisa nessuna allusione alla Vergine
Purissima. Ugualmente l’apparizione dei pellegrini ad Abramo soltanto
astrattamente poteva suggerire l’idea del dogma della Trinità, però la
contemplazione stessa della Santissima Trinità non era dipinta.
Nel secolo XIV questo dogma per varie cause diventò oggetto di particolare
attenzione nella Chiesa universale e ricevette una formulazione verbale.
Compimento di questa opera, corona del Medioevo, fu «l’adoratore della
Santissima Trinità» - il beato Sergio di Radonezh. Egli colse l’azzurro dei cieli,
la pace impassibile, sovramondana, emanante dal seno dell’amore eterno
perfetto, come oggetto di contemplazione e precetto da attuare in ogni vita, base
dell’edificazione sia della Chiesa sia della persona, dello Stato e della società.
Egli vide l’immagine di questo amore incarnata nella forma canonica
dell’Apparizione a Mamré. Questa sua esperienza - nuova esperienza, nuova
visione del mondo spirituale - mutuò da lui il beato Andrej Rublev, guidato dal
beato Nikon: e così dipinse «in onore di padre Sergio» l’icona della Trinità. Ora
essa aveva cessato di essere una delle raffigurazioni della vita del giusto, e il
rapporto con Mamré era ormai soltanto la sua premessa. Quest’icona mostra la
straordinaria visione della Santissima Trinità stessa: una nuova rivelazione sia
pure sotto veli antichi e forme indubbiamente non clamorose. Ma queste antiche
forme non sono d’ostacolo alla nuova rivelazione proprio perché neanch’esse
erano delle composizioni, ma esprimevano una realtà autentica, non erano
escogitazioni soggettive. Che meraviglia, che nel contorno della visione,
anticamente intravista come ombra della verità futura, ma non capita
anticamente con la profonda coscienza successiva, confluisse integralmente,
compenetrandola intimamente, la visione stessa o meglio la visione della stessa
realtà, ma quale fu vista dopo un lavoro spirituale millenario dell’umanità, dopo
che s’erano sviluppati nell’intelletto illuminato dalla grazia gli organi necessari
alla comprensione. E allora le particolarità storiche caddero via da sole dalla
composizione, e l’icona di Rublev o più precisamente del beato Sergio, antica e
nuova insieme, protorivelata e ripetuta, divenne un canone nuovo, un nuovo
modello, confermato dalla coscienza ecclesiale e ribadito come norma dal
Concilio dei Cento Capitoli [Stoglav] e dagli altri Concili russi.
Quanto più è ontologica una concezione spirituale, tanto più essa è accolta
senza dubbi come qualcosa di già scontato, già inserito nella coscienza umana
universale. Infatti è un lieto messaggio, dalle profondità originarie della vita, del
dimenticato, ma segretamente covato ricordo della patria spirituale. Infatti,
avendo ricevuto da colui che è penetrato in questa patria la rivelazione, noi non
la apprendiamo come qualcosa di esterno, ma la rammentiamo dentro di noi:
l’icona è la reminiscenza d’un archetipo celeste. Ecco perché una penetrazione
nel mondo spirituale non profonda e per vie stravaganti si veste di una forma
insolita, atteggiata a enigma, come un genere di rebus del mondo spirituale;
l’arte figurativa sta al confine della narrazione discorsiva, ma senza chiarezza
discorsiva allora al limite il simbolo si trasforma in allegoria. Ciò non vuol dire
che questo simbolo allegorizzante sia irrimediabilmente astratto anche nella
coscienza di chi l’ha escogitato, ma la sua evidenza contemplativa e l’immediato
accesso attraverso ad essa al suo significato sono concessi soltanto ai pochi, e in
questo senso, come manifestazione di una certa esclusione dall’universalmente
umano, questi simboli, essendo opposti ai simboli genuini e ai segni conciliari
collettivi, e tanto più se esaltati al di sopra di essi, diventano facilmente fonti
d’eresia, cioè d’isolamento e, per dirla latinamente, di settarismo.
A partire dall’inizio del secolo XVI, nella pittura d’icone russa, insieme a un
abbassamento generale della vita ecclesiale, questo spirito allegorizzante
s’insinua, come corrispettivo della decadenza e dell’appesantimento ontologico,
che faticava perfino a staccarsi dal terreno sensibile. Incapace di vedere
nitidamente l’aldilà, il pittore d’icone vuole rimediare con la complicazione delle
costruzioni teologiche; così il razionalismo teologico si congiunge nell’icona alla
caratteristica di immagini stravaganti e quindi prima degenera in schemi astratti
e, condizionato da ciò che esprime, scade in secondo luogo nella frivolezza
sensibile e mondana. La penosa conclusione, si ha nel secolo XVIII, tanto più
triste perché da nessuna parte come in Russia l’arte figurativa aveva toccato un
apice tale in tutta la storia del mondo.
La pittura d’icone russa dei secoli XIV XIV è la raggiunta perfezione della
figurazione, di cui la storia universale dell’arte non conosce l’equivalente e
neanche il simile e al quale in senso proprio si può soltanto accostare la scultura
greca - con la stessa attuazione di immagini spirituali e la stessa decadenza
razionalistica e sensibile dopo la splendida ascesa. Ed ecco, al suo apice, la
pittura d’icone, senza nemmeno l’ombra dell’allegorismo, rivela allo spirito la
sua splendida visione della purezza primordiale in forme così direttamente
intuite, che in esse si incarnano i canoni universalmente umani ed essendo esse
rivelazioni uniche della vita in Cristo, essendo una purissima manifestazione
della autentica creatività ecclesiale, rivelano altresì le forme sacre primordiali
dell’umanità intera. Riconosciamo in esse, in certe parti anche apertamente, le
antiche culture: i tratti di Zeus nel Cristo Pantokrator, Atene e Iside nella Madre
di Dio ecc., così «la Sapienza è giustificata nella sua progenie». Sì, le visioni
spirituali, questa progenie preparata da tutta la storia dell’antica sapienza,
provarono con la loro sostanziale verità che verace era stata la sapienza coi suoi
precorrimenti e le sue allusioni alla verità. Si può dire che più la visione è
ontologica, più è universalmente umana la forma in cui si esprime e così le
parole sacre intorno al medesimo mistero sono le stesse, semplicissime: il padre
e il figlio, la generazione, il grano che cresce, lo sposo e la sposa, il pane e il
vino, lo spirare del vento, il sole e il suo splendore, ecc. La forma canonica è ben
questo, una forma della massima naturalezza, di cui non si può pensare niente di
più semplice, mentre le deviazioni dalle forme canoniche sono goffe e artefatte -
ed esse rovinerebbero gli artisti inquieti se le forme figurative arbitrarie di
chiunque di loro fossero riconosciute come norma!
Viceversa si respira distesamente all’interno delle forme canoniche: esse
guariscono dall’accidentalità, che impedisce il progresso nell’opera. Quanto più
il canone è fermo e reiterato, tanto più profondamente e puramente esprime un
bisogno spirituale universalmente umano: la canonicità è ecclesialità,
l’ecclesialità è conciliare-collettiva, il conciliare-collettivo è universalmente
umano. E poiché la purificazione dell’anima mediante l’ascesi, la spoliazione da
tutto ciò che è soggettivo e accidentale, svela all’asceta la verità eterna e
primordiale della natura umana, l’umanità, la creatura secondo il Cristo, cioè
secondo i suoi fondamenti assoluti, l’asceta perviene nella profondità del suo
spirito a ciò che nel corso della storia è già stato espresso e non poteva non
essere espresso. Dal profondo di sé l’asceta, anche nel tumulto del giorno, vede
la bellezza del cielo stellato.
Perciò mi sovviene qui dello staretz Ambrogio di Optina con la sua icona,
quel dipinto, sia pure non abbastanza fine, d’un artista, dalle pennellate
ridondanti alla maniera naturalistica - l’icona di «Colei che fa crescere le messi».
Fra i conversi del monastero del governatorato di Kaluga, al vecchietto semplice,
malato, è dato l’impulso insolito, del tutto contrario a tutta la corrente
dell’intellettualità ecclesiastica contemporanea, in opposizione al Sinodo, a
dipingere la Buona Dea: Colei che fa crescere le messi, la visione della Madre di
Dio nell’immagine, nella forma canonica della Madre delle messi, di Demetra.
Attraverso l’impulso spirituale che non padroneggiava i mezzi pittorici a 80
anni, affiora tuttavia il senso di una misteriosa visione, d’un ‘sì’ ecclesiale
all’antica immagine della santa Demetra, in cui si raccolsero i precorrimenti
ellenici della Madre di Dio.
Nel senso proprio e preciso della parola gli artisti dell’icona non possono che
essere santi e può darsi che la massima parte dei santi in questo senso
praticarono l’arte, dirigendo con le loro esperienze spirituali le mani dei pittori
d’icone tecnicamente abbastanza esperti da saper incarnare la visione celeste e
abbastanza istruiti da essere sensibili ai santi suggerimenti. Non stupisca che
questa collaborazione sia possibile: nei tempi andati il lavoro culturale si
svolgeva in genere collettivamente, in grandi radunanze e collegialmente, e ne
davano l’esempio le scuole artigianali e le associazioni riunite intorno a un
grande artista, ancora in tempo di raffinata individualità. Nella medievale
fusione delle coscienze e sotto la guida di maestri spirituali riconosciuti,
l’organizzazione collettiva della pittura d’icone era perfetta. Se già i Vangeli e
gli altri libri sacri furono trascritti sotto una guida - il Vangelo di Marco quella
dell’apostolo Pietro, e il Vangelo di Luca e Giovanni sotto quella dell’apostolo
Paolo non è strano che del pari i tecnici della pennellata, ubbidienti alla
rivelazione della bellezza eterna fatta loro dai santi, la raffigurassero nelle icone
sotto la sorveglianza e il costante controllo di essi.
Tuttavia non sempre la tecnica del pennello era esclusa in colui che
contemplava le idee supreme, e tutta la storia della Chiesa cristiana è attraversata
dal filo d’oro della tradizione di santi pittori d’icone in senso stretto.
Incominciando dai primi testimoni del Verbo incarnato, per tutti i secoli ci sono
santi che sono pittori d’icone e pittori d’icone che sono santi. Sappiamo che non
è possibile elencare integralmente i nomi di questi santi pittori d’icone, a
principiare dall’evangelista Luca.
A loro e ai loro simili spetta la creazione iconica di nuove icone,
protorivelate. Ma a parte ciò, la riproduzione ha bisogno di una testimonianza
nuovamente rivelata intorno al mondo spirituale. E come la parola intorno alla
spiritualità è necessaria ai copisti, così del sembiante della spiritualità hanno
bisogno i pittori d’icone ripetitori, i copisti. A loro non si chiede uno sguardo
d’aquile al cielo, ma essi non debbono essere tanto lontani dalla spiritualità da
non sentire la maestà e responsabilità della loro opera, quale testimonianza o più
precisamente collaborazione alla testimonianza. Questi copisti non sono
mestieranti che dipingano icone per guadagno, e che potrebbero anche dipingere
qualcosa d’opposto, non sono dei tecnici della loro opera che fra l’altro
appartengono ma che potrebbero anche non appartenere alla Chiesa, ma sono i
portatori di una particolare missione ecclesiale. Essi per la coscienza ecclesiale
hanno un determinato grado nel l’organizzazione sacerdotale del Culto,
occupano un posto determinato nella teocrazia e alla docenza della Chiesa
partecipano appunto nella loro qualità di pittori d’icone. Il loro posto è a metà fra
i servitori del santuario e i semplici laici. Si prescrive loro una vita particolare,
una condotta semimonastica e sono sottoposti al controllo particolare del
metropolita, all’ordinario locale ed ai superiori espressamente deputati alle
icone. La Chiesa esalta i pittori d’icone curando che, dato il talento correlativo, a
questo grado ecclesiastico spettino vari privilegi, e in certi casi anche distinzioni
straordinarie come ad esempio la nobiltà concessa senza precedenti a Simone
Ushakov nel secolo XVIII. La Chiesa riconosce d’altro canto la necessità non
solo di distinguerli secondo il loro lavoro come tale ma anche di distinguerli fra
loro.
I pittori d’icone non sono gente ordinaria: essi si pongono più in alto degli
altri laici. Debbono essere umili e mansueti, mantenere la purezza sia dell’anima
sia del corpo, osservare il digiuno e la preghiera e confessarsi spesso al padre
spirituale. Tali pittori i vescovi distinguono e onorano «tanto più degli uomini
ordinari». Viceversa se il pittore d’icone non ottempera ai doveri prescritti, è
allontanato dalla sua attività e nella vita futura è consegnato all’eterno tormento.
Ma tutto ciò costituisce i doveri elementari; di fatto i pittori d’icone debbono per
conto loro sottostare a doveri ben più alti, diventando in senso proprio degli
asceti.
Non «per dovere d’ufficio», per così dire, la Chiesa considera necessario
instillare nel pittore d’icone il senso della sua opera come compito sacro
supremo: essa procura di garantire la continuità del filo delle deposizioni
testimoniali che incomincia dal Cristo Prototestimone, fino dal nucleo stesso
dell’incarnazione ecclesiale. L’arteria che alimenta il corpo della Chiesa con la
grazia celeste, non dev’essere in nessun punto ostruita e le norme ecclesiastiche
si prefiggono infatti di tenere sgombri i canali della grazia dal Capo della Chiesa
al minimo dei suoi organi. In verità, quanto più diramandosi si diffonde il fiume
del sangue testimoniale, tanto minor pericolo per la vita di tutto il corpo
ecclesiale rappresenta l’ostruzione d’un singolo capillare. Anche l’icona come
copia, tuttavia, è uno di questi; milioni ne sono prodotte dai pittori d’icone, ma
ciascuna deve testimoniare quant’è possibile vivamente dell’autentica realtà
dell’altro mondo e una sua incertezza o addirittura confusione nella
certificazione o addirittura falsità è responsabile della deviazione di una o più
anime cristiane, mentre la sua veracità spirituale taluni aiuta, talaltri rafforza.
Le icone debbono essere dipinte conformemente ai fedeli modelli della vita
spirituale «secondo immagine, somiglianza e sostanza». In caso diverso la
Chiesa non può restare indifferente, mentre progredisce la necrosi di alcuni suoi
organi. In questo senso si deve capire la sorveglianza sulle icone, con
l’approvazione e il rifiuto di quelle intenzionalmente non conformi da parte degli
anziani preposti a questo ufficio. L’icona si costituisce tale soltanto quando la
Chiesa ha riconosciuto la conformità dell’immagine raffigurata alla
Protoimmagine di ciò che è raffigurato o in altre parole l’ha dichiarata icona.
Questa dichiarazione o ratifica dell’identità della persona rappresentata
sull’icona, spetta soltanto alla Chiesa, e se il pittore d’icone si permette di
tracciare la sovrascritta senza la quale, secondo l’insegnamento della Chiesa, la
raffigurazione non è ancora un’icona, questo in sostanza è come nella vita dello
Stato firmare un documento ufficiale in luogo d’un altra persona. Per come lo
interpreto io, l’ufficio del superiore dei pittori d’icone si è esaurito con la
soprascritta, secondo l’incarico del vescovo, del nome dei santi sulle icone, che
per trascuratezza in molte icone resta stipato sulle targhe metalliche, l’iscrizione
del nome del santo essendo stata tracciata con un impasto di fuliggine e grasso,
in fretta, chiaramente non a opera del pittore d’icone, come sulle carte d’affari la
sigla del principale è tracciata dal segretario o dal copista. È naturale pensare che
anche in questo caso esiste una certificazione o autentica delle icone da parte del
sovrintendente alle icone.
Ma non basta esaminare retrospettivamente le icone: se bisogna davvero
vedere in esse una chiara testimonianza dell’eternità, come può questa passare
per il tramite di un uomo sostanzialmente privo di spiritualità? Ecco il motivo
per cui, con l’inosservanza da parte del pittore d’icone di certe norme di vita
ecclesiale, l’intero culto cade in rovina. Così nascono certe esigenze circa la vita
personale dei pittori d’icone. Esse si imposero e si particolareggiarono quando la
pittura d’icone aveva già raggiunto il suo apice. Ciò avvenne nel XLIII capitolo
della deliberazione del Concilio dei Cento Capitoli [Stoglav].
Così suona la decisione conciliare: «Nell’imperiale città di Mosca e in tutte
le città per volere imperiale al Metropolita, all’arcivescovo e al vescovo spetta di
vigilare sulle svariate funzioni ecclesiastiche. Specie sulle sacre icone e sui
pittori d’icone e sulle altre funzioni secondo le norme canoniche. E su come
debbano vivere i pittori d’icone e aver cura della pittura della sembianza carnale
del Signore Iddio e Salvatore nostro, Gesù Cristo e della sua Madre Purissima e
delle potenze celesti e di tutti i santi che nei secoli furono diletti a Dio. Il pittore
d’icone dev’essere umile, mite, pio, non ciarliero, non ridanciano, non litigioso,
non invidioso, non beone, non ladro, non rapinatore, soprattutto deve serbare la
purezza spirituale e corporea con ogni cura, e se non può mantenersi così fino
alla fine, prenda secondo la legge una donna e si unisca in matrimonio, e si
rivolga al padre spirituale di frequente informandolo di tutto e viva secondo le
prescrizioni e gli insegnamenti di lui in digiuno e preghiera e astinenza con
mente umile senza nessuno scandalo né mancanza di decoro e con somma cura
dipinga l’immagine di nostro Signore Gesù Cristo e della sua Madre Purissima e
dei santi profeti e apostoli e martiri e delle donne venerabili e delle guide della
Chiesa e dei beati Padri secondo immagine e secondo somiglianza e secondo
sostanza osservando il modello degli antichi pittori espresso nelle buone icone, e
se questi odierni maestri di pittura vivranno secondo tali precetti e con zelo
prodigheranno la loro cura nell’opera grata a Dio, anche dall’imperatore questi
pittori d’icone saranno compensati e le guide della Chiesa li proteggeranno e
onoreranno più che gli uomini ordinari, e questi pittori dovranno prendersi dei
discepoli e sorvegliarli in tutto e insegnar loro in tutta pietà e purezza e condurli
al loro padre spirituale. I padri insegneranno loro secondo le prescrizioni fornite
loro dalle guide della Chiesa come è doveroso che viva il cristiano senza
nessuno scandalo né impurità, e a seguire con attenzione l’insegnamento dei loro
maestri. E se a uno Dio concede talento, il suo maestro lo conduce all’ordinario,
l’ordinario esamina se il dipinto del discepolo è secondo l’immagine e secondo
la somiglianza e fa un’indagine sulla sua vita, specie se viva in purezza e in tutta
pietà secondo le prescrizioni senza nessuna impurità, dopo di che lo benedice
esortandolo anche per l’avvenire a vivere secondo pietà, prodigandosi con zelo
nella sua sacra opera e largisce al discepolo la dignità del suo maestro, che lo
distingue dagli uomini ordinari. Quindi l’ordinario avverte il maestro che a
costui non dovrà preferire né il fratello, né il figlio, né i congiunti, ma se Dio a
costui non concede un tale talento, ed egli dipinge male o non vive secondo le
regole accettate e il maestro tuttavia dice che è capace e degno in tutto ed
esibisce un dipinto di qualcun altro e non di lui, all’ordinario spetta dopo aver
indagato di punire quel maestro secondo le norme previste affinché anche gli
altri temano e non osino fare altrettanto, e al discepolo non sia assolutamente
permesso nessun lavoro di icone, e se Dio dà a un qualche discepolo la capacità
di dipingere icone e costui vive secondo le norme adottate, e il maestro lo
biasima per invidia non volendogli concedere l’onore di cui lui stesso gode,
l’ordinario dopo aver indagato punisce il maestro secondo le norme previste e al
discepolo conferisce onori più grandi, e se uno di questi pittori cela il talento che
Dio gli ha largito e in realtà non ne fa partecipi i discepoli, egli sarà condannato
da Dio per aver celato il talento con l’eterno tormento; se uno di questi maestri
pittori o dei loro discepoli cessa di vivere secondo le norme che ha adottato, si dà
al bere e all’impurità e a ogni vituperio, agli ordinari spetta di sospenderlo e di
vietargli del tutto la pittura d’icone ricordando con timore le parole del profeta:
maledetto chi compie l’opera del Signore con negligenza. Ma coloro che fino ad
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ora hanno dipinto icone senza istruzione, secondo il loro capriccio e arbitrio e
non secondo il modello, tali icone vanno tolte via e svendute a gente villereccia
ed essi vanno costretti a istruirsi presso buoni maestri e colui cui Dio concede di
imparare a dipingere secondo immagine e somiglianza, dipinga, ma a colui cui
Dio non lo conceda occorre infine proibire questa attività affinché il nome di Dio
non sia in tal modo afflitto e se costoro non cessano da tale attività saranno
puniti dall’imperatore e giudicati... E se osassero replicare: noi viviamo di ciò e
così mangiamo, non fate attenzione a questo loro discorso, non sanno di
commettere peccato ma non si deve permettere a questa gente di fare i pittori
d’icone, molte e diverse attività manuali furono date da Dio agli uomini per
mangiare e vivere all’infuori della pittura d’icone e l’immagine di Dio non va
lasciata al biasimo e all’oltraggio. Sicché gli arcivescovi e i vescovi in tutte le
città e i villaggi e nei monasteri delle loro diocesi debbono sorvegliare i maestri
d’icone e controllare i loro dipinti. E avendo trascelto ciascuno di loro nella sua
diocesi i più importanti pittori, daranno ad essi l’incarico di sorvegliare tutti i
pittori d’icone, affinché non ce ne siano di inetti e indegni, e gli arcivescovi e
vescovi dovranno sorvegliare i pittori prescelti e attenderanno con assiduità a
questo, e questi pittori andranno considerati e onorati in tutto dai grandi e dai
semplici e considerati puri in considerazione della purezza dell’icona. E intorno
a ciò gli ordinari avranno una gran cura e baderanno a che nel loro territorio i
buoni pittori d’icone e i loro discepoli dipingano secondo gli antichi modelli, si
astengano da ogni escogitazione propria e non raffigurino Iddio secondo
congetture loro. Cristo nostro Dio si dipinge carnalmente, ma la Divinità no...».
Ma questa concezione del supremo servizio del pittore d’icone non era
proprio soltanto dell’epoca particolare e patrimonio della Chiesa. In parte la
tradizione iconica della Chiesa Orientale, confermata nelle istruzioni speciali per
la pittura d’icone, guida chi dipinge icone perfino nei lavori che possono
sembrare esteriori, come il lavaggio delle vecchie icone, considerati nel loro
fine: «ma non compiere la tua opera così come capita, ma con amor di Dio e
devozione: affinché l’opera tua sia gradita a Dio», ecc.
È nota l’Ermeneia o Istruzione sull’arte pittorica, composta dallo
hieromonaco e pittore Dionigi di Fuma, che raccolse ed espose la tradizione
della scuola di Panselinos; essa incomincia con un’introduzione in cui l’autore
dichiara il senso di responsabilità spirituale che lo spinge a redigere il manuale.
Manuale che dà una precisa istruzione intorno a tutto il processo della pittura
d’icone, a cominciare dalla riproduzione dei contorni, la preparazione dei
carboncini, delle colle e dei gessi, la stuccatura dell’icona, lo sbalzo delle corone
sull’icona, la stuccatura dell’iconostasi, la confezione dei pennelli, la doratura
dell’icona e dell’iconostasi, la preparazione dei pigmenti, le rifiniture, via via
fino alla stesura dei vari colori, l’insegnamento delle proporzioni del corpo
umano, le particolari regole tecniche della pittura murale e quelle dell’icona e
così via; quindi, passando alla guida per soggetti, si espone nei particolari come
si compongano le rappresentazioni di storia antica, incluse quelle dei filosofi
greci; inoltre si tratta lo stesso argomento relativamente al Nuovo Testamento
incluse le parabole, specie le rivelazioni dell’Apocalisse su ciò che segue il
Secondo Avvento; inoltre gli anni acàtisti, le feste in onore della Madre di Dio,
degli apostoli e dei santi, le feste della storia della Chiesa, dei martiri e i racconti
edificanti e infine le istruzioni per la composizione di affreschi nella chiesa come
complesso, cioè dove e che cosa occorra rappresentare in una chiesa di questa o
di quella architettura. L’Istruzione si conclude con spiegazioni dogmatiche della
pittura d’icone, con l’esposizione delle tradizioni antiche sull’aspetto del
Salvatore e della Madre di Dio, istruzioni su come vada rappresentata la mano
benedicente e che cosa vada scritto su questa o quella rappresentazione sacra. Il
libro finisce con questa breve orazione dell’autore:
«Arrida ai buoni la grazia di Dio! Terminato questo libro, ho detto: Gloria a
Te, Signore! e ancora ho detto: Gloria a Te, mio Signore! e per la terza volta ho
detto: Gloria a Dio in ogni cosa!».
Tale è la struttura di questa Ermeneia supremamente autorevole.
Ma come non sentire che complessivamente qualcosa manca al libro, che
tutta l’istruzione sulla pittura d’icone è campata per aria, che non si chiude su se
stessa e non si fonde concretamente con l’organizzazione del Culto, se nella
tecnica della pittura d’icone non è introdotta, come condizione indispensabile, la
preghiera? E in realtà, così sarebbe se proprio per spiegare questo concetto non
figurasse all’inizio dell Ermeneia una sezione con cui incomincia appunto

l’allenamento. Ecco: «Colui che desideri imparare l’arte della pittura, vi si inizi
allenandosi preliminarmente per un certo periodo, limitandosi a disegnare senza
prendere misure, in modo da mostrare il suo valore, e poi si preghi per lui il
Signore Gesù Cristo e si supplichi l’icona della Madonna del buon cammino
[Hodighitria]. Il sacerdote, dopo “Benedetto Iddio nostro”, “Signore del regno
celeste” e quel che segue e dopo il megalynation alla Madre di Dio, le “mute
labbra” e il tropario della Trasfigurazione, deve segnarsi dicendo: “Ti
supplichiamo, o Signore” e prosegue con la lettura seguente: Signore Gesù
Cristo nostro Dio, nella tua natura non circoscritto, per la salvezza dell’uomo dai
novissimi essendoti incarnato mercé la Vergine Madre di Dio e avendo impresso
il sacro carattere del tuo Volto immacolato sul santo velo e con questo guarendo
re Abgar della sua malattia e illuminandone l’anima con la piena conoscenza del
nostro vero Dio, avendo col tuo santo Spirito infuso sapienza nel santo apostolo
ed evangelista Luca, affinché dipingesse la forma della tua Madre Purissima che
nella tua infanzia ti portava in braccio e disse: “La grazia di Colui che nacque da
me sia trasmessa a loro per mio tramite”; tu, Dio Signore di tutte le cose,
illumina e infondi sapienza all’anima, al cuore e alla mente del tuo servo (segue
il nome) e dirigine le mani nel dipingere, esente da biasimo ed eccellente, la
forma della tua persona e della tua Madre Purissima e di tutti i tuoi santi a tua
gloria e per lo splendore e la glorificazione della tua santa Chiesa, per la
remissione dei peccati di coloro che a Lei rendono omaggio e devotamente La
baciano, così onorando il prototipo, redimilo da tutti i danni inflitti dal diavolo
così come egli con zelo esegue tutte le prescrizioni dei ministri, della tua Madre
Purissima, del santo ed illustre apostolo ed evangelista Luca e di tutti i santi.
Amen».
Prostrazione speciale e congedo. Dopo la supplica, egli può cominciare a
tracciare con misure esatte le fattezze dei santi sembianti e se ne occupa a lungo
e particolareggiatamente, «allora con l’aiuto di Dio la sua opera sarà detta ottima
come ho accertato dall’esperienza dei miei allievi». Inoltre, spiegando il suo
desiderio di recare profitto «a tutti i colleghi fratelli in Cristo» ai quali chiede di
pregare per lui, «rivolge la parola con grande amore» al discepolo: «Sappi o
zelante alunno che volendo incominciare questa disciplina, devi cercarti e
trovarti un dotto maestro, che supererai presto se egli ti insegnerà con chiarezza
come ho detto dianzi». Ma egli ha parlato «dianzi» quasi soltanto della preghiera
perciò il pegno del successo dell’istruzione, Dionigi, voce generale e pubblica
dei pittori d’icone, lo vede nella preghiera devota. Tale era l’atmosfera della
maestranza dei pittori d’icone ancora nella prima metà del secolo XVIII, quando
la decadenza di tutta la vita, anche ecclesiastica, era arrivata a una particolare
esasperazione. Lo spirito di devozione e la particolare disposizione d’animo
sopravvive fino a ora fra i pittori d’icone russi, che formano interi villaggi e di
generazione in generazione nei secoli si trasmettono l’uno all’altro, di padre in
figlio, sia una consapevolezza spirituale di lavoratori di un’opera sacra, sia i
metodi semisegreti della pittura d’icone e i procedimenti operativi ad essa
connessi. Questo, riservato, speciale, è il mondo dei testimoni. E se è stato tale
finora, è difficile perfino immaginarsi l’ambiente ispirato dal quale si enucleò
entro il corpo ecclesiale questa testimonianza della bellezza celeste,
nell’antichità, allorquando tutta la vita era fondata sui princìpi spirituali, ruotava
sull’asse che non vacilla - i Sacri Misteri Cristiani. 4

«Né le forme della pittura d’icone, né gli stessi pittori d’icone sono
accidentali nell’organizzazione del Culto. Non si può dire che il Culto usi di
quelle e di questi esteriormente, anziché come di proprie forze. Il Culto infatti
svela sguardi sacri, ed educa e dirige l’esecuzione dell’icona. Ma pertanto è
naturale pensare che queste immagini sacre s’incarnino grazie a questi servitori
della Chiesa non con mezzi casuali, estranei alla metafisica del Culto e non per
dei fini qualsiasi, ma per raggiungere dei fini sacri con dei mezzi concreti. Né la
tecnica della pittura d’icone né i materiali adoprati possono essere casuali
rispetto al Culto, casualmente inseriti nella Chiesa nel corso del suo cammino
storico e in grado di sostituire in modo indolore, e per di più con successo, mezzi
diversi e diversi materiali. Questo e altro nell’arte è sostanzialmente legato
all’intenzione artistica e non può in nessun modo considerarsi relativo e
arbitrario, immesso nella produzione dall’esterno rispetto alla ragione della sua
essenza artistica. Tanto più, tanto più sicuramente ciò si deve pensare e dire di
questa arte, nella quale, essendo essa una rivelazione della natura spirituale
dell’umanità, non può esserci niente di casuale, di soggettivo, di arbitrario e di
capriccioso. La sfera di quest’arte è chiusa in se stessa incomparabilmente più
che qualsiasi altra, e niente di estraneo, nessuna "fiamma aliena" può stare su
questo sacro altare. È difficile immaginarsi, perfino in una ricerca estetica-
formale, che un’icona si possa dipingere come capita, su quel che capita e coi
mezzi che capitano. Ma tanto più questa impossibilità emerge se si fa attenzione
all’essenza spirituale delle icone. Nei mezzi stessi della pittura d’icone, nella sua
tecnica, nelle materie adoprate, nella fattura dell’icona si esprime la metafisica,
di cui vive e grazie a cui esiste l’icona. La stessa materia, le stesse materie usate
in questo o quel tipo o aspetto dell’arte, sono simboliche e ciascuna ha un suo
carattere concretamente metafisico attraverso il quale si accorda a questa o altra
esistenza spirituale. Ma accantoniamo adesso il carattere simbolico, come tale, e
affrontiamo la questione della concretezza esteriore, della sua esperienza non
intima, sia pure nella convinzione che non ci sia niente di esteriore che non sia la
rivelazione di un’interiorità.
«Così, nella consistenza dei colori, nella maniera di stenderli sulla superficie
corrispettiva, nella natura chimica e fisica della materia che compone i colori,
nella composizione e consistenza dei loro solventi, come anche nei colori stessi,
nelle lacche o negli altri fissatori della pittura e nelle altre “cause materiali” già
si esprime direttamente anche questa metafisica, questa profonda concezione del
mondo, a esprimere la quale si sforza con tale prodotto, come al suo fine, la
volontà creatrice dell’artista. E benché questa volontà con il suo uso istintivo
appunto di queste “cause materiali” operi subconsciamente, come altresì l’artista
è subconsciamente attratto verso questa o quella forma, ciò non depone a sfavore
della metafisicità della creazione artistica, anzi induce a vedere in essa qualcosa
di ben lontano dall’arbitrio razionalistico, qualcosa che prosegue queste plastiche
attività delle forze fondamentali dell’organismo dalle quali è artisticamente
tessuto il corpo stesso. Questa selezione delle materie, questa “scelta delle cause
materiali” della produzione non è opera dell’arbitrio individuale, e nemmeno di
ragionamenti interiori e dell’istinto particolare dell’artista, ma della sapienza
della storia, di questa collettiva sapienza dei popoli e dei tempi, che determina
anche tutto lo stile di produzione d’un’epoca. Può darsi che sia giusto dire che
questa causa materiale della produzione da un lato e lo stile dall’altro vadano
concepiti come due cerchi concentrici onde in un certo rapporto la causa
materiale dell’opera esprime la concezione del mondo dell’epoca ancor più che
lo stile come carattere esterno delle forme trascelte.
«In realtà, non è forse immediatamente ovvio che i suoni della musica
strumentale, anche quelli dell’organo, come tali, cioè a prescindere dalla
composizione dell’opera musicale, non possono inserirsi nella liturgia
ortodossa? Questo dato immediato del gusto, immediato a parte le
considerazioni teoriche, non collima in coscienza con lo stile liturgico stesso,
turba la circolare unità della liturgia, perfino se considerata come semplice
manifestazione artistica o sintesi delle arti. In realtà, non è forse immediatamente
ovvio che questi suoni come tali, ripeto, sono troppo lontani dalla limpidezza,
dalla ‘intellettualità’, dalla filologia della meditativa liturgia della Chiesa
Ortodossa, perché la loro materia sia utilizzata nella sua arte sonora? In realtà
immediatamente non si avverte forse che il suono dell’organo è troppo
indugiante, troppo vischioso, troppo lontano dalla trasparenza, dalla cristallinità,
troppo legato al non luminoso fondo dell’umanità qual è nella sua presente
condizione, nella sua naturalità, perché si possa usare nelle chiese ortodosse? E
adesso non valuto in generale, ma considero soltanto l’unità stilistica, se essa lo
accetti o lo respinga, ma certo, che essa nel complesso lo accetti o lo respinga,
non è affar mio».
«Ma stai parlando del suono, mentre hai cominciato parlando della materia
delle arti figurative. La nostra conversazione, come ricordi, riguardava
particolarmente la pittura d’icone».
«È perfettamente giusto; ma non ho trattato a caso del suono. Permettimi di
concludere, anche tu ora comprendi perché il mio pensiero ha fatto questa
divagazione. Sicché, parliamo dell’organo.
«È uno strumento musicale essenzialmente legato a un periodo storico,
sviluppatosi a partire da ciò che chiamiamo Rinascimento culturale. Parlando
della cattolicità, comunemente si dimentica che è tutt’altro la Chiesa d’Occidente
prima e dopo il Rinascimento, che nel Rinascimento la Chiesa d’Occidente subì
una grave malattia, dalla quale uscì dopo avere parecchio perduto e benché
acquistasse una certa immunità, tuttavia rimase deformata la struttura stessa
della vita spirituale, e rimane una grossa questione come avrebbero valutato la
cattolicità postrinascimentale i rappresentanti medievali dell’idea cattolica.
Sicché la cultura occidentale procede da un cattolicesimo restaurato ed è essa
che si è espressa nel campo dei suoni per mezzo dell’organo; non a caso la
fioritura della costruzione d’organi ebbe luogo nella seconda metà del XVII e
nella prima metà del secolo XVIII - un tempo che espresse soprattutto,
soprattutto svelò l’essenza intima della cultura rinascimentale. Perciò voglio non
suggerire un’analogia, no, voglio stabilire un nesso ben più profondo e
impegnativo...».
«Un nesso fra il suono dell’organo e i colori a olio?».
«Hai indovinato. La stessa consistenza dei colori a olio ha un rapporto intimo
con il suono oleoso-vischioso dell’organo, e il tocco grasso... e la succulenza dei
colori della pittura a olio sono strettamente affini alla succulenza della musica
organistica. E questi colori e suoni sono terreni, carnali. Storicamente la pittura a
olio si sviluppa infatti quando nella musica fiorisce l’arte della costruzione degli
organi e il loro uso. Indubbiamente la scaturigine dei due generi di cause
materiali si trova in un’unica radice metafisica, perché entrambe si fondano sulla
stessa concezione del mondo, pure in sfere diverse».
«Tuttavia faccio un nuovo tentativo di volgere la conversazione nel solco più
preciso, quello delle arti figurative. Tu hai espresso il pensiero che ogni
materiale ha un significato, anche la natura della superficie, della superficie in
genere, sulla quale si stendono i colori. Ritengo che qui l’esempio sia un po’
difficile. Sembra che almeno questa superficie sulla rappresentazione non
appaia, che non abbia nemmeno un rapporto con lo spirito dell’arte d’un dato
periodo, e perciò possa essere più o meno arbitrariamente sostituita da una
superficie del tutto diversa, qualora i colori vi siano stesi e non disseminati a
spaglio o sfregati dentro. Apparentemente il suo significato è soltanto tecnico e
non stilistico».
«No, non è così... assolutamente. Il tipo di superficie predetermina il modo di
stendere i colori e perfino la scelta dei colori stessi. Non qualsiasi colore deponi
su qualunque superficie: non dipingerai a olio sulla carta, all’acquarello sul
metallo, ecc. C’è di più. Il carattere del tocco è determinato sostanzialmente
dalla natura della superficie ed in funzione di questa risulta di una o di altra
fattura. Così la fattura del tocco fa trasparire dalla struttura della superficie
cromatica la superficie che fa da base materiale all’opera; e non soltanto ne
traspare, ma si mostra perfino più di quanto sarebbe stato possibile prima che vi
fossero stesi sopra i colori. L’essenza della superficie è assopita finché è allo
scoperto; una volta stesi sopra i colori, essi la destano: così l’abito, coprendo,
rivela la struttura del corpo e con le sue pieghe rende evidenti anomalie della
superficie del corpo che resterebbero inavvertite a un’osservazione diretta della
sua superficie. Dura o molle, elastica o rigida, liscia o scabra, con rigatura
accidentate secondo un tipo o l’altro di regolarità, tale che assorba o viceversa
non prenda i colori, ecc., ecc. - tutti questi e simili caratteri della superficie del
l’opera, come l’estensione, la fermezza, si comunicano alla fattura dell’opera e
creano i loro equivalenti dinamici, cioè da latenti, passivi, immobili, si
trasformano in sorgenti di forza e penetrano nell’ambiente circostante. Come il
polo di forza invisibile del magnete diventa visibile per mezzo della limatura di
ferro, così la struttura statica della superficie si manifesta dinamicamente
mediante il colore sparso sulla superficie stessa, e quanto più perfetta è l’opera
d’arte figurativa, tanto più è evidente questo manifestarsi. Acuta è la mente che
risiede nelle dita e nella mano dell’artista, questa mente acuta capisce, senza
bisogno dell’intelligenza di testa, l’essenza metafisica di tutti questi rapporti di
forza della superficie della rappresentazione, e penetra a fondo queste essenze,
riconoscendo, se il materiale fu scelto come si deve, in esse e nel loro
corrispettivo problema stilistico, una particolare struttura spirituale, un
particolare stile metafisico. Avendo penetrato la struttura della superficie,
l’intelligenza manuale la manifesta nella fattura del suo tocco. Perciò tutta la
concezione dell’artista è stilisticamente conforme al materiale; e se non è
conforme, è predestinata a esserlo dalla natura delle cose, quando con
l’intelligenza delle dita l’artista identifica la superficie, viene escludendo come
sconveniente tutto ciò che ad esso è estraneo.
«La metafisica della superficie della rappresentazione...».
«Di grazia, una domanda. Vuoi dire che tu vedi nella tela tesa su telaio
dell’arte rinascimentale qualcosa di rispondente allo spirito di quell’arte? Anche
la tela si diffonde storicamente insieme alla musica d’organo e ai colori a olio».
«Ma forse che si può... non dico pensare, ma, per dirla con più forza, sentire
diversamente? Il tipo di movimento con cui si sono stesi i colori, questo tipo di
movimento ripetutamente replicato ha un nesso con la vita interiore e se non
concorda con la vita interiore, o anzi è in contraddizione con essa, deve mutare -
magari non nel singolo artista, ma nell’arte del popolo, dei popoli, della storia.
Può accadere che per decine e centinaia d’anni migliaia e decine di migliaia di
artisti per tutta la vita eseguano i loro movimenti con un ritmo che non segue
quello della loro anima? È ovvio: la superficie della rappresentazione è capace di
esasperare soltanto dei ritmi di un certo tipo, che ne manifestano la dinamica, e
allora sopraffà l’artista individualmente o storicamente, ed egli non attua se
stesso quale è nella sua complessiva struttura spirituale; oppure viceversa
l’artista, ancora una volta, o individualmente o storicamente, sta al suo ritmo
particolare e allora egli dovrà procurarsi una nuova superficie, con nuove
caratteristiche, dai ritmi consoni al proprio. L’artista o si sottomette o si trova nel
mondo una superficie adatta: non è in suo potere cambiare la metafisica
essenziale d’una superficie.
«E adesso esaminiamo la tela. Elastica o compiacente, elasticamente
compiacente, ondulante, non reggendo il tocco umano, la superficie della tela
tesa crea una base della rappresentazione che ha dinamicamente gli stessi diritti
della mano dell’artista. Questi lotta con essa come “con suo fratello”,
consapevolmente la si avverte al di là della fenomenicità in cui si muta e si
trasforma a volontà, essa non ha un’illuminazione indipendente dall’arbitrio
dell’artista né un rapporto con la realtà circostante. Immobile, dura, non
compiacente è la superficie d’un muro o d’una tavola, troppo severa, troppo
cogente, troppo ontologica per l’intelligenza manuale dell’uomo rinascimentale.
Egli vuole sentirsi fra cose terrestri, tra fenomeni soltanto terrestri, senza
interferenze dall’altro mondo, e con le dita della mano vuole sentire che la sua
indipendenza, autonomia non sono insidiate dall’irruzione di ciò che si sottrae al
suo arbitrio. La superficie dura lo fronteggerebbe, come un’evocazione di altre
durezze che viceversa gli piacerebbe scordare. Per le immagini naturalistiche,
per una figurazione che si è liberata da Dio e dal mondo ecclesiale, che vuole
essere legge a se stessa, per un tale mondo è necessaria la massima succulenza
sensibile, una auto testimonianza la più chiassosa possibile di queste immagini
su se stesse come realtà sensibile, di queste immagini che non sono fondate sulla
pietra invisibile, ma galleggiano alla superficie, espressione del galleggiare di
tutto ciò che è terreno. L’artista del Rinascimento, con tutta la cultura che ne
proviene, forse non pensa ciò che si è enunciato. Non lo pensa; ma le sue dita e
la sua mano - con l’intelligenza collettiva, con l’intelligenza della cultura stessa -
già concepiscono la condizionalità di ogni essere, la necessità di porre in
evidenza che l’intelligibilità ontologica delle cose si è tramutata, per la visione
del mondo dell’epoca, nella loro fenomenologia sensibile e che di conseguenza
all’uomo che ha coscienza di essere non ontologico, bensì condizionato e
fenomenico, naturalmente spetti di disporre e di legiferare in questo mondo di
illusioni metafisiche.
«La prospettiva è la manifestazione fatale di tale autocoscienza; ma questo
non è il luogo per parlarne. Tipico di questa visione del mondo è che la
combinazione della vivacità sensibile e della instabilità ontologica dell’esistenza
si manifesta nell’aspirazione dell’artista a una succulenta ondosità. Premessa
tecnica di questa aspirazione furono i colori a olio e la tela tesa».
«Perciò anche nello sviluppo dell’arte dell’incisione ritieni di ravvisare un
qualche nesso con lo spirito dei tempi? Certo, l’incisione si sviluppa nell’ambito
protestante. E si nota tanto più che gl’incisori creativi furono rappresentativi del
protestantesimo nei suoi vari mutevoli aspetti. La Germania, l’Inghilterra - in
questi paesi la creatività è legata prevalentemente al campo dell’incisione,
dell’acquaforte e a simili branche dell’arte. Ma fu diversa l’incisione nell’ambito
cattolico? Pongo la domanda non soltanto a te, quanto a me stesso: nella
sostanza sono d’accordo con te».
«Certo. Ma è evidente, nella cattolicità l’incisione non vuole essere grafica, e
perciò non ha propriamente il fine dell’incisione bensì dei colori a olio.
L’incisione cattolica, dai tratti grassi che imitano la pennellata del colore a olio,
la quale si sforza di applicare l’inchiostro tipografico non linearmente, ma a
striscia, a striscioni, è in sostanza un genere di pittura a olio e non un’autentica
incisione: in questa l’inchiostratura tipografica segna soltanto la distinzione delle
superfici, ma non ha colore, mentre la striscia, se non il colore, ha qualcosa di
analogo. L’autentica linea dell’incisione è una linea più astratta, non ha
grassezza come non ha colore. In contrasto con la pennellata del colore a olio,
che si sforza di diventare sensibilmente affine, se non all’oggetto rappresentato,
almeno a una fetta della sua superficie, la linea dell’incisione vuole affrancarsi
dall’impressione della presenza sensibile. Se la pittura a olio è una
manifestazione della sensibilità, l’incisione si basa sulla razionalità, essa
costruisce l’immagine degli oggetti a partire dagli elementi senza avere con gli
elementi dell’oggetto nulla in comune - a partire dalla combinazione di razionali
‘sì’ o ‘no’. L’incisione è lo schema dell’immagine costruito in base alle sole
leggi della logica; l’identità, la contraddizione, il terzo escluso ed in questo senso
ha un nesso profondo con la filosofia tedesca: nei due casi il fine è di trarre
ovvero dedurre schemi dalla realtà grazie ad alcune affermazioni e negazioni
prive di realtà sia spirituale sia sensibile, cioè di creare tutto da nulla. Questa
incisione genuina, quanto più puramente, cioè senza psicologismi, senza
sensibilità, raggiunge lo scopo, tanto più diventa precisa e perfetta come
incisione. Viceversa nell’incisione sorta in atmosfera cattolica c’è sempre il
tentativo di insinuare fra il ‘sì’ e il ‘no’, furtivamente, gli elementi della
sensibilità. Così sono pronto ad ammettere un nesso intimo dell’autentica
incisione con l’essenza intima del protestantesimo. Ripeto, c’è un parallelismo
intimo fra la ragione, prevalente nel protestantesimo, e i mezzi di
rappresentazione lineari dell’incisione, come ugualmente c’è un intimo
parallelismo fra la ‘fantasia’, secondo la terminologia ascetica, coltivata nel
cattolicesimo, e la grassa grumosità della pittura a olio. La prima vuole
schematizzare il suo oggetto, ricostruendone i settori con atti distinti, che non
hanno nulla non solo di cromatico ma neanche di ambiguo. L’incisione è, ripeto,
una creazione ex novo dell’immagine, da princìpi del tutto diversi da ciò che
essa è nella percezione sensibile, in modo che l’immagine sia intesa del tutto
razionalmente in ciascuna delle sue parti, in modo che tutta la sua struttura,
incluse le ombre, vale a dire ciò che non nasce soltanto da una qualità
dell’immagine, ma anche dal suo rapporto con le cose circostanti - in una parola,
che essa sia tutta smembrata nella serie delle suddivisioni, nella serie delle
circoscrizioni dello spazio, e in modo che al di sopra di questi atti razionali e dei
loro rapporti reciproci, nell’immagine non ci sia niente.
«Nella filosofia idealista tedesca, specie nel kantismo, già da tempo è stato
osservato dagli storici del pensiero l’assoluta scomparsa dello spazio. Ma forse
che Kant, Fichte, Hegel, Cohen, Rickert, Husserl e gli altri, si sono trovati
davanti a un compito diverso da quello dell’incisione düreriana? Viceversa,
tornando alla contrapposizione dell’incisione allo striscione e alla pennellata del
colore a olio, questa pennellata si sforza non di ricostruire l’immagine bensì di
imitarla, di sostituirsi ad essa - non di razionalizzarla, bensì di sensualizzarla, di
renderla ancor più sensibilmente impressionante di quanto non sia nella realtà.
«Il colore a olio vuole varcare i limiti della materia raffigurata per giungere
alla sensazione immediata, presente, di fette di colore, al rilievo cromatico, alla
statua colorata, insomma - imitare l’immagine, sostituirsi ad essa, inserirsi nella
vita come fattore non simbolico ma empirico. Alle statue cattoliche di Madonne
abbigliate di vestiti alla moda e colorati tende per natura come al suo limite la
pittura a olio. Quanto all’incisione, se il pensiero si tende fino alla caricatura,
non c’è motivo di non chiamarla, quanto alla sua qualità-limite, un disegno
geometrico o addirittura un’equazione differenziale».
«Ma non mi pare evidente che si possa, nello spirito di questi ragionamenti,
parlare della materialità della rappresentazione nell’arte dell’incisione, si tratterà
eventualmente d’un risultato accidentale, non legato necessariamente ai
procedimenti dei maestri. È vero che col colore a olio non dipingi come capita
capita e la specificità meccanica della superficie del quadro si comunica al
carattere dell’opera, ma nell’arte dell’incisione le cose stanno diversamente.
L’incisione si può imprimere, per parlare approssimativamente, su qualsiasi
superficie e il carattere impresso varia grandemente: che si usi carta di una delle
innumerevoli specie, seta, tela, legno, pergamena, una pietra o perfino del
metallo, non è indifferente alla struttura artistica dell’incisione. C’è di più, anche
l’inchiostratura può essere sostituita più o meno indifferentemente: anche se non
sono possibili consistenze diverse, esistono diverse tinte. Ecco: questa situazione
delle due principali cause materiali dell’incisione - la superficie e gl’inchiostri -
mi rende incerto se consentire a tutto ciò che hai detto dianzi, anche se, come
puoi vedere, ho accettato la tua maniera di ragionare...».
«Ma io sono convinto proprio del contrario; soltanto tu non porti a termine a
dovere i pensieri incominciati, dico i tuoi personali. In queste arbitrarie tinte e
superfici dell’incisione è implicito lo stesso equivoco, lo stesso inganno
presupposto dalla proclamazione protestante della libertà di coscienza e dalla
negazione protestante dell’ecclesialità - ma che dico ecclesialità? -
dell’universalmente umano, della tradizione umana.
«Che cosa ci offre la stampa? Un pezzo di carta. La cosa più precaria che si
possa concepire: si altera, si strappa, s’intride, vicino al fuoco s’incendia,
ammuffisce, non può essere ricamata, è il simbolo della deperibilità. E su di
essa, così labile, ci sono i segni dell’incisione! Ci si domanda: come sono
possibili questi segni come tali, sulla carta? Suvvia, ragioniamo: non lo sono; le
linee con il loro aspetto mostrano di essere state tracciate su una superficie
estremamente dura, che tuttavia una punta sottile o un ago scalfisce, gratta,
intaglia. Sulla stampa il genere del tratto contraddice al carattere della superficie
sulla quale è tracciato; questa contradditorietà ci porta a dimenticare i caratteri
propri della carta e fa supporre in essa qualcosa di estremamente duro.
Esteticamente attribuiamo alla carta una sicurezza, una garanzia di saldezza assai
maggiore del reale. Ma la circostanza che questi tratti non affondino, fa
immaginare una capacità dell’incisore incommensurabilmente maggiore di
quanto non sia nella realtà, vediamo infatti che la sua mano, perfino su una
materia così dura da non cederle, è stata ferma, non ha tremato. Si ha
l’impressione inoltre che l’incisore non introduca nessuna mutazione materiale,
ma riveli la “purezza”, nel senso kantiano, ricostruendo l’attività costitutiva
formale, la quale si appercepisce come esente da ogni superficie - sempre nello
spirito di Kant. Si ha inoltre l’impressione che questa attività costitutiva formale
sia assolutamente generale e che sia perciò del tutto libera di adattarsi a qualsiasi
superficie. Pare che questa attività costitutiva-formale stia al di sopra dei limiti
condizionanti dell’ambiente nel quale la forma si concreta, cioè sia pura e ciò le
dà la piena libertà, anzi il pieno arbitrio nella scelta del tipo di superfici
individuanti. Ma questo è un inganno. A cominciare dal fatto che chiamiamo
opera di quest’arte, incisione, ciò che non è affatto un’incisione, un intaglio.
Propriamente l’incisione, l’incisione stessa sta sullo stampo di metallo o di
legno; noi abbiamo sostituito verbalmente questo stampo con la sua impressione
e parliamo d’incisione intendendo lo stampato. Ma questa confusione non è
casuale. Soltanto sullo stampo la fattura dell’opera si intende, non come un
arbitrio dell’incisore, ma come risultato necessario della qualità della superficie
della rappresentazione e nello stampo non esistono i menzionati inganni della
percezione estetica.
«Così è stato storicamente. L’arte dell’incisione all’inizio fu appunto l’arte di
intagliare sul metallo e sul legno e in parte sulla pietra, e non l’arte della stampa;
il fine dell’arte era allora infatti l’oggetto su cui era intagliata la
rappresentazione, però mai il pezzo di carta. La nascita dell’incisione nostra è
tecnica: spalmando d’inchiostro l’intaglio, si impresse la rappresentazione su
carta - se ne ricavò una stampa. Ma questo stampato non era la conclusione di
una creazione artistica, come lo è per noi, essendo ora tutto compendiato nella
stampa e lo stampo essendo soltanto una preparazione eseguita esclusivamente
per conservare una copia esatta del disegno, per avere la possibilità di riprodurlo
mediante l’oggetto inciso. Ancora oggi gli intagliatori sul legno, ad esempio, i
famosi Chrustaĉev di Serghii Posad, padre e figli, fotografano i loro lavori più
importanti prima di consegnarli al cliente.
«Sì, il rapporto fra incisione e stampa è stato alterato: all’inizio l’opera
d’arte, sia pure riprodotta, tuttavia pur sempre creativa, era l’intaglio, per noi è lo
stampo, da quando il prodotto della matrice è diventato la stampa. Ma da allora
la stampa è diventata un prodotto moltiplicato meccanicamente e nell’incisione
si è cominciato a vedere esclusivamente una matrice per riproduzioni con la
quale nessuno ha niente a che fare salvo lo stampatore e che nessuno nemmeno
vede.
«La spiegazione che ti ho esposto si può compendiare in questa tavola della
genesi dell’incisione:
«Le tesserae hospitales dell’antichità, ovvero ciò che allora si chiamava
“simboli”, cioè un oggetto da spezzare, le cui metà servivano a documentare la
conclusione d’un patto.
«La moneta spezzata degl’innamorati (come per esempio nella Lucia di
Lammermoor di Walter Scott).
«Un oggetto intagliato come ricevuta o quietanza (si usano nella vita di
villaggio da noi dei bastoncini di questo genere, ad esempio a Jaroslav, nel
governatorato di Tambov - ce n’è al museo del governatorato a Tambov; sono
simili a quelli di bambù usati dai Cinesi).
«Il sigillo del Khan (l’impronta del piede sulla cera), la registrazione delle
impronte digitali nella pratica criminale, ecc.
«Lo stampo e la sua impronta - sulla cera, sulla ceralacca, sul piombo, in
rilievo.
«Lo stampo e la sua impronta di fuliggine o inchiostro.
«L’intaglio su metallo o su legno come ornamento.
«Le prove di impressione a colore per ricavare il contorno dell’incisione.
«Le stampe fine a se stesse e l’incisione su metallo o su legno come branca
dell’arte della stampa, della grafica.
«Così stanno le cose. E se tornassimo alla nostra indagine, al ben più
determinante nesso fra l’incisione e il protestantesimo? Al fatto che questa
arbitrarietà della scelta della superficie della rappresentazione, cioè della carta, e
della materia della rappresentazione, delle tinte, si accorda all’individualismo
protestante, alla libertà o meglio all’arbitrio protestante; al fatto che il materiale è
arbitrariamente usato, come per decreto della pura ragione, in modo
esclusivamente razionalistico, come se neanche esistesse un aspetto sensibile,
una struttura della realtà - religiosa o naturale, in questo caso poco importa. A
qualsiasi materiale si scelga si applica uno schema che non ha con esso niente in
comune, e manifestando la propria libertà come autodeterminazione, la ragione
asservisce la libertà di tutto ciò che è esterno ad essa, autodeterminandosi
calpesta l’autodeterminazione del mondo e, proclamando la propria legge, non
ritiene necessario lare ascolto alla legge della creazione di cui essa, in quanto
genuinamente reale, vive. L’individualismo protestante è l’impressione
meccanica su tutto l’essere del proprio stampino, fatto insulsamente di semplici
‘sì’ e ‘no’. Ma questa libera scelta è di fatto una libertà illusoria: non perché
applichi a ogni cosa individuale l’attività intellettiva razionale e scientifica (in
questa versatilità dell’applicazione, del suo impiego sui dati della realtà, ci
sarebbe perfino una genuina, cioè creativa libertà) - ma perché per potersi così
applicare, lasciando da canto ogni aspetto individuale, ha preparato lo stampino
che si applica a tutte le anime senza una sfumatura di differenza. La libertà
protestante è il tentativo di far violenza mediante parole intorno alla libertà
reiterate su un rullo di fonografo...».
«E gli strumenti?».
«Vuoi dire: quale facoltà interiore dell’anima protestante appare proiettata,
leggibile nel cesello o nell’ago del bulino?».
«Certo».
«Il raziocinio è la facoltà specifica adottata dal protestantesimo o meglio che
proclama d’essere stata adottata. Per gli altri è il raziocinio in veste di ragione.
Per se stessi è l’immaginazione, ancor più scatenata che nel cattolicesimo,
spiritualmente incandescente e abbagliante, la quale lotta con una carnalità ben
più ontologica di quanto si mostri agli altri e in genere più ontologica che nel
cattolicesimo».
«Ma in che cosa consiste questa, come tu esprimi, “incandescenza spirituale”
dell’immaginazione?».
«Come, in che cosa? È mai possibile che tu non t’accorga dell’irruenza del
volo fantastico che è il contenuto dei sistemi filosofici in ambito protestante?
Böhme o Husserl sono ben lontani dall’equilibrio spirituale, e in genere i filosofi
protestanti creano dal nulla le loro fantasticherie per poi forgiarle in acciaio e
applicarle come ceppi a tutta la carne del mondo. Perfino l’arido Hegel scrive
con ferocia intellettuale, ebbramente, e non è uno scherzo l’affermazione di
James che nell’ebbrezza da protossido d’azoto il mondo si percepisce e si
giudica hegelianamente. Il pensiero protestante è l’ubriachezza per se stessi,
mentre si predica ferocemente la sobrietà».
«Ma è ora di tornare al nostro punto di partenza. Si è parlato della pittura a
olio e dell’incisione non per amore di esse. Sicché qual è il nesso intimo della
pittura d’icone, dal lato tecnico, con i suoi compiti spirituali?».
«A dirla in breve, la pittura d’icone è una metafisica dell’essere - non una
metafisica astratta ma concreta. Mentre la pittura a olio è più adatta a riprodurre
la presenza sensibile del mondo, e l’incisione il suo schema razionalistico, la
pittura d’icone sente ciò che raffigura come manifestazione sensibile
dell’essenza metafisica. E se i mezzi grafici della pittura e dell’incisione si
svilupparono infatti in funzione di particolari esigenze della cultura e
rappresentano le cristallizzazioni di ricerche corrispettive, generate dallo spirito
della cultura del loro tempo, i mezzi tecnici della pittura d’icone sono
determinati dal bisogno di esprimere in concreto la metafisicità del mondo.
«Sulla pittura d’icone non incide niente di casuale, non soltanto di
empiricamente casuale, ma neanche di metafisicamente casuale, se una tale
espressione si usa sostanzialmente, del tutto veridicamente e non orecchiandola.
«Così la peccaminosità e la carnalità del mondo non vanno giudicate come
empiricamente accidentali, perché sempre corrompono il mondo. Ma
metafisicamente, cioè rispetto all’essenza spirituale del mondo edificato da Dio,
la peccaminosità e la carnalità non sono necessarie, possono esistere e non
esistere, e in esse non si coglie l’essenza del mondo, ma la sua condizione
attuale. Non spetta alla pittura d’icone esprimere questa condizione di eclissi
della natura autentica delle cose: il suo oggetto è la natura stessa, il mondo
edificato da Dio e la sua sovraterrena bellezza. Sull’icona tutto ciò che non è
accidentale è rappresentato in tutti i particolari, ed è un’immagine o il riflesso -
έκτιπος - del mondo degli archetipi, delle essenze supreme, sovracelesti».
«Ma se questa idea è in fondo anche accettabile, non si finisce forse col
limitarla dicendo: “in principio”, “in essenza”, e così via? Anche a Platone
s’impose la domanda, se esista “l’idea del capello”, e in genere dell’inane e
meschino. E se l’icona manifesta l’idea contemplata, questa andrà limitata al
significato generale dell’icona, mentre i particolari anatomici, architettonici, dei
personaggi e dei paesaggi andranno considerati come esteriori e casuali - in
rapporto all’idea - come mezzi della rappresentazione? Per esempio, è forse
possibile che i vestiti sulle icone abbiano anch’essi qualcosa di metafisico, e non
si dipingano per leggiadria e bellezza, per le svariate e forti macchie di colore
che offrono? Per me nell’icona è importante anche il momento puramente
decorativo e certi particolari e mezzi dell’icona non hanno un significato soltanto
metafisico, ma anche naturalistico: il nimbo, il contorno, cioè il tratteggio dorato
sui vestiti, specialmente del Salvatore. Quest’oro per te corrisponde a qualcosa
in ciò che è rappresentato? A me sembra che sia semplicemente - e lo è - bello, e
che la chiesa, decorata di tali icone, rallegri la vista, come con le lampade accese
e le tante candele».
«Secondo Leibniz, hai ragione nelle affermazioni e torto nelle negazioni. Ma
adesso non parlerò della ragione - ma dell’opposto. Intanto e innanzitutto una
questione generale di significato delle parole. Credo che in fondo anche tu, come
me, consideri la metafisica come concretezza e che nelle idee ravvisi gli stessi
sguardi [liki] eterni che tutti noi si contempla come vive manifestazioni del
mondo spirituale; ma temo che quando si tratta delle applicazioni di questi
pensieri a determinati casi particolari, sia preso da una certa esitazione e ti tiri
indietro timoroso di osare il passo successivo, d’altra parte non credi lecito
tornare indietro, a una metafisica astratta e all’idea come concetto non
suscettibile di evidenza visibile. Invece non si deve cercare di interrompere il
processo del pensiero, nel quale non possono esserci fratture.
«Un organismo vivente è una totalità e in esso non ci può essere niente che
non sia organizzato dalle energie vitali; e se ci fosse qualcosa di non vivo, fosse
pur minimo, ne sarebbe distrutto il complesso dell’organismo. Questo esiste in
quanto energia vitale che si esteriorizza visibilmente, ovvero come idea
formatrice; e se così non fosse, la parola stessa, organismo, dovrebbe essere
radiata dal vocabolario. Del pari l’organismo dell’opera d’arte, se ci fosse in esso
qualcosa di casuale, proverebbe che l’opera non è attuata in tutte le sue parti, che
non è stata covata dal suolo, che era stata cosparsa di zolle di terra morta,
l’esistenza metafisica che si manifesta concretamente dev’essere tutta
chiaramente manifestata, la sua manifestazione, che l’icona presuppone,
comprende tutti i suoi particolari, formando un tutto unico, e dev’essere
evidente: se nell’icona qualcosa fosse un mero particolare esteriore naturalistico
o decorativo, andrebbe distrutta la manifestazione complessiva e l’icona non
sarebbe un’icona. A proposito, mi ricordo il discorso d’un teologo sulla
resurrezione dei corpi, in cui egli tenta di distinguere gli organi necessari al
secolo venturo e i superflui; dovendo risorgere soltanto i primi, gli altri
rimarranno irrisorti, in particolare non risorgeranno gli organi della digestione.
Simili asserzioni distruggono la viva totalità, l’intimamente contessuta unità del
corpo. Perfino da un punto di vista esteriore, se parliamo col dovuto scrupolo del
corpo risorto, dell’aspetto che avrà dopo che ne sarà stato rimosso tutto il
“superfluo”, non si finisce col considerare il corpo futuro come un ascesso della
pelle, gonfio d’etere? Se si pensa al corpo naturalisticamente, questo non può
rivelare in nessun modo e in nulla la sua struttura metafisica di organismo
spirituale, e allora nel secolo venturo la sua totalità - complessivamente e nelle
sue parti - è superflua; allora tutti gli organi meritano di essere amputati e in
quanto “carne e sangue” non entrano nel Regno dei Cieli. Viceversa se al corpo
si pensa simbolicamente, esso rivela, nella sua totalità e nelle sue parti, l’idea
spirituale della personalità umana e allora tutti gli organi, misteriosamente
trasmutati, risorgono come testimoni dello spirito, dato che ciascun d’essi,
necessario al fondamento complessivo dell’organisino, non è in grado di vivere e
di funzionare senza gli altri, ognuno a volta a volta avendo bisogno di ogni altro,
nell’ordine della concezione spirituale, per la manifestazione dell’idea che senza
ciascuno di essi rimarrebbe sminuita. L’icona è un’immagine del mondo
venturo; essa (e del come, non ci occuperemo) consente di saltare sopra il tempo
e di vedere, sia pure vacillanti, le immagini - “come in enigmi nello specchio” -
del mondo venturo. Queste immagini sono del tutto concrete e parlare
dell’accidentalità di alcune delle loro parti significa assolutamente fraintenderne
la natura simbolica. E perfino se si ammette che è accidentale questo o quel tipo
di particolari, ciò non porta affatto a fare altrettanto con altri tipi di particolari,
come nelle discussioni cui accennavo sui corpi risorti».
«Ma non ci sarà mai niente di accidentale neanche in una sola icona?».
«Questo non l’ho detto. Anzi, assai spesso c’è anche parecchio di
accidentale. Ma ci può essere del superfluo e perfino una prevalenza di cose
irrilevanti e vacue quanto il “capello” platonico, come tu dici (io dirò la mia alla
fine), ma il primo rango e il primato non spetta ad esempio ai vestiti, bensì al
viso, anzi agli occhi. Un’icona accidentale si produce soltanto accidentalmente,
per un caso storico dovuto all’imperizia, ignoranza o presunzione del pittore
d’icone, che ha osato allontanarsi dalla tradizione dell’icona per la simbologia di
una terrena “saggezza carnale”. L’accidentale nell’icona non è l’accidentale
dell’icona, bensì del suo ricopiatore e ripetitore. E va da sé, quanto più è
importante una parte della rappresentazione iconica e quanta più attenzione
esige, tanto maggiore è la possibilità che vi si introduca un’alterazione - linee
accidentali e macchie di colore metafisicamente ingiustificabili, le quali in
rapporto all’essenza spirituale dell’icona sono come spruzzi di fango schizzati da
un veicolo di passaggio sui vetri d’una finestra, cioè impediscono di vedere fuori
e non lasciano entrare la luce nella stanza. Se non ingannassero lo sguardo, tali
alterazioni dell’icona non sarebbero più di uno spruzzo di fango; ma può
essercene un accumulo tale che l’essenza spirituale dell’icona diventa invisibile,
anche se non ne consegue che questo o quel genere di particolari, non per la loro
esecuzione - “per la pittura” - ma in se stessi come tali, in quanto inaccessibili,
diventino accidentali, non esprimendo niente di spirituale».
«E i vestiti?».
«I vestiti? Soltanto Rozanov da qualche parte vuol dare a credere che nel
secolo venturo tutti saranno nudi, e per fare un gesto ostile alla Chiesa e all’idea
stessa della resurrezione, all’improvviso scopre l’offesa alla decenza, in nome
della quale nega il dogma della Resurrezione. Ma come sai la Chiesa insegna
proprio il contrario, e l’apostolo Paolo esprime soltanto il timore che l’opera
nostra sia manifestata dal fuoco purificatore, non già che si sia mostrati nudi (I
Cor. 3, 13). Se Rozanov ha motivo di pensare che i suoi vestiti personali saranno
incendiati, è certo affar suo preoccuparsi di trovarne di più resistenti, ma non è
una ragione per indignarsi della “conflagrazione universale”. Ora sulle icone
sono rappresentati coloro le cui opere si conservano illese nella prova del fuoco,
abbellite, sfrondate delle ultime tracce di accidenti terreni. Essi invero non
appaiono nudi. Rivestono una certa fioritura, o più precisamente si può chiamare
vestito il tessuto delle loro ascesi; questa non è una metafora ma l’espressione
del pensiero che con gli eroismi spirituali i santi hanno emanato sul loro corpo
un nuovo tessuto di organi luminosi, come per lo sfioramento del piano corporeo
da parte delle energie spirituali, e nella percezione visibile questa estensione del
corpo è simboleggiata dai vestiti. “La carne e il sangue non ereditano il Regno di
Dio”, ma il vestito eredita. Il vestito è parte del corpo. Nella vita comune è una
estensione esteriore del corpo, analoga al vello delle bestie e al piumaggio degli
uccelli; è un’appendice semimeccanica del corpo, e dico “semi” perché fra il
vestito e il corpo c’è un rapporto assai più stretto del mero contatto;
compenetrato ai più sottili strati dell’organizzazione corporea il vestito in parte
entra nell’organismo. Nell’ordine artistico-visivo il vestito è una manifestazione
del corpo, e con se stesso, con le sue linee e superfici, esso rivela la struttura del
corpo. Pertanto si capisce che se viene riconosciuta al corpo la facoltà di rivelare
col ritratto l’essenza metafisica dell’uomo, questa facoltà non è possibile non
attribuirla al vestito, che, come un megafono, proclama e amplifica la parola
della testimonianza, pronunciata intorno alla propria idea dal corpo. Non che la
figura spogliata sarebbe indecente o brutta, ma sarebbe metafisicamente meno
distinta, sarebbe più arduo vedervi chiarita l’essenza dell’umano. Ma ripeto,
questo non in vista di considerazioni d’ordine morale, di costume o altro, ma in
base all’essenza dell’opera d’arte, cioè in forza della simbolicità artistico-visiva
dell’icona. E perciò sul vestito risalta in misura così cospicua lo stile del tempo.
Considera per esempio le pieghe. La storia della pittura d’icone russa mostra con
meravigliosa regolarità tutto lo sviluppo della situazione spirituale della società
ecclesiale attraverso il successivo modificarsi del carattere delle pieghe dei
vestiti e basta guardare in un’icona le pieghe per determinare la data dell’icona e
capire lo spirito del tempo che in essa si riflette. Le arcaiche pieghe dei secoli
XIII-XIV con il loro carattere naturalistico-simbolico indicano l’ontologia
possente ma ancora non cosciente, ancora fusa nella sensibilità: sono rettilinee,
però morbide, ancora sostanziali, molteplici e minute - testimonianze delle forti
esperienze spirituali ancora non unificate, della forza con cui ciascuna
separatamente tentava di manifestarsi attraverso una sensibilità greve. Nel secolo
XV e fino alla metà del XVI le pieghe s’allungano, s’allargano, sacrificando la
loro naturale morbidezza. Nella prima metà del secolo XV per la prima volta
avviene che, diritte e non molto lunghe, si congiungano a spigolo. Il loro
carattere è minerale, come a sfaccettature e costolature di masse cristallizzate,
ma quindi la durezza, la solidità cristallina si trasforma nell’elasticità vegetale di
steli e fibre. Questo fino all’inizio del secolo XV - ancora le linee sono lunghe e
rade, quasi diritte, ma non del tutto, come un poco compresse alla fine
d’un’elastica retta, perciò tutto il vestito mostra l’elasticità dell’energia
spirituale, la pienezza di forze che si sviluppano e si coordinano. È chiaro che
dal secolo XIV al XVI avviene un processo di autocoscienza spirituale e di
autocoscienza della Russia, di organizzazione di tutta la vita secondo lo spirito,
di collettiva ascesi del giovane popolo, che porta le esperienze spirituali a
concludersi con una interpretazione integrale della vita. E ancor più le pieghe
assumono un carattere di deliberata rettilinearità, diventano razionali-astratte,
mentre emerge un’aspirazione al naturalismo. Se non ci fosse noto niente della
storia dell’epoca dei torbidi, sulla base di una sola icona e anche soltanto delle
pieghe, sarebbe possibile capire il movimento spirituale in corso nella Russia
medievale sfociante nell’Impero rinascimentale della Moscovia: nella pittura
d’icone della seconda metà del secolo XVI il periodo dei torbidi sovrasta come
una malattia spirituale della società russa. Ma la convalescenza nel secolo XVII
fu soltanto una restaurazione, e un rattoppo alla russa; la nuova vita della gente
russa incominciò col barocco...».
«Certo, è ben naturale pensare che le pieghe siano inscindibili dal significato
spirituale dell’icona. Ma resta inspiegabile tutta la serie dei metodi naturalistici
nella pittura d’icone. Le pieghe con tale carattere, come che sia, non possono
esprimere nulla di spirituale, e restano in genere nient’altro che delle pieghe. Ma
le sottolineature d’oro [razdelka] ad esempio, le linee dorate parallele o i tocchi
dorati sul vestito, non corrispondono a niente; è difficile ravvisare in essi altro
che una semplice decorazione, che non esprime niente, salvo lo zelo soggettivo
del pittore d’icone».
«Invece l’ombreggiatura d’oro [assistka] di cui parli, cioè la pellicola d’oro
applicata su certe composizioni con serie di linee parallele o talvolta con dei
tocchi, è una delle prove più convincenti del significato concretamente
metafisico della pittura d’icone. Ecco perché il suo carattere, monotono a uno
sguardo superficiale, in realtà, sia pure nella struttura sottile, quasi
istologicamente cambia da stile a stile: questa sottile rete d’oro corona le pieghe
dell’icona particolarmente proclamandone l’ontologicità».
«Ma rispetto a ciò che è rappresentato, l’oro - a parte quello delle
decorazioni auree - non è forse incongruo? Non è ovvio che per la natura del suo
riflesso esso è incommensurabile (non coordinato), e senza rapporto coi colori?
Non senza motivo quasi tutta la pittura ha rifiutato l’uso dell’oro, perfino nella
specie assai meno estranea agli altri colori, dell’oro in polvere. Rifletti,
nemmeno gli ori, e in genere gli oggetti metallici, si raffigurano con l’oro, e nei
rari casi nei quali li si rende con l’oro, questo diventa abominevole e la pittura
aurea sta sul quadro come un pezzo dorato casualmente appiccicato alla
superficie, che quasi la voglia cancellare».
«Proprio così, ma con le tue considerazioni lo si spiega soltanto, non si
esclude necessariamente nella tradizione iconica i metodi che comportano l’uso
dell’oro, come l’assistka e altri (nella pittura d’icone in quanto pittura d’icone e
non in genere nella pittura). Comunque, quando ho accettato le tue osservazioni,
sarebbe stato necessario premettere una piccola rettifica a tutto ciò che precede;
a parte l’oro, nella pittura d’icone fu usato, in verità assai di rado, nelle
sottolineature [razdelka] e in pochi altri casi, l’argento. Però l’argento non
attecchì. È bene incominciare da questo fatto della storia della tecnica della
pittura d’icone. Osserva, l’argento fu applicato all’icona andando contro la
tradizione della pittura d’icone; è degno d’attenzione che l’icona vistosa, fine,
datata, indubbiamente prodotto di corte, a volte introduce a fianco dell’oro
l’argento, ma l’impressione che se ne ricava è piuttosto di un’eccessiva
ostentazione, tanto più che la sottolineatura [razdelka] d’argento sull’omoforion
della Madre di Dio, dove non ci può essere l’assistka, è anche in contrasto col
suo significato simbolico. Non è possibile non vedervi uno zelo eccessivo o del
committente o dell’esecutore nella confezione d’un’icona da regalo, specie per
nozze.
I manuali di pittura d’icone e le icone prototipiche comunque non prevedono,
neanche come eccezione, l’argento sull’icona, mentre l’oro sull’icona è per così
dire canonico e si mostra indispensabile. Viceversa l’argento (a differenza
dell’oro, come notavi) non è così incommensurabile e inaccostabile ai colori ed
ha un certo rapporto con il grigiazzurro e in parte col bianco.
«E c’è dell’altro: nella pittura d’icone al tempo della sua fioritura, nelle icone
perfette, l’oro è steso soltanto a foglie, cioè emana tutto il suo riflesso metallico
ed è del tutto diverso per natura dal colore: ma nella misura in cui penetrano
nella pittura d’icone degli elementi naturalistici, degli elementi di questo mondo,
l’oro in foglie è sostituito da quello preparato, cioè finemente polverizzato e
perciò - spento, meno lontano dai colori.
«E adesso dici: gli ori e in genere gli oggetti metallici non si dipingono sui
quadri con l’oro. Ti è forse noto nella pittura d’icone un solo esempio di
rappresentazione dell’oro con l’oro o in genere di metalli con metalli?
Sembrerebbe che quando l’oro in genere è ammesso, non sia per coprire una
superficie, per rappresentare un oggetto che in natura abbia un riflesso metallico,
bensì per smorzarlo con un preparato aureo».
«Così tu confermi la mia idea, che il metallo non è applicato dove potrebbe
rappresentare qualcosa, e non è applicato in modo che grazie al suo aspetto sia
facilitata una fusione coi colori. Cioè in realtà l’oro sull’icona non rappresenta
niente, e il pittore d’icone si sforza di impedire che l’osservatore non abbastanza
fine dell’icona abbia l’impressione opposta e l’idea contraria. È come se il
pittore d’icone ovvero più precisamente la tradizione stessa della pittura d’icone
scrivesse a lettere cubitali su ogni icona la mia affermazione iniziale: “chi guarda
non vede ciò che è raffigurato con l’oro: l’oro è senza oggetto”».
«È quasi così; ma “quasi così” in queste questioni equivale a “nient’affatto
così”. Il compito della pittura d’icone è di tenere l’oro alla giusta distanza dai
colori, sottolineando con la piena manifestazione del suo riflesso metallico
l’inconfrontabilità dell’oro e del colore nel modo più convincente. Un’icona
riuscita ci riesce; nel suo oro non c’è traccia di opacità, di consistenza, di
torbidezza. Quest’oro è pura luce senza mescolanza e non rientra fra i colori che
si percepiscono come luce riflessa: i colori e l’oro appartengono otticamente a
distinte sfere dell’essere. L’oro non ha colore anche se ha un tono. Esso è
astratto, in certo senso esso è analogo alla striscia dell’incisione, essendone il
polo opposto. Una striscia bianca nell’incisione è infatti bianca, non è astratta e
fa parte della serie dei colori; perciò non si può vedere come positiva in rapporto
a un negativo che è in realtà astratto: la striscia nera. Il positivo di questa è
l’assistka d’oro, pura luce, in contrapposto alla sua semplice assenza - la rete di
strisce dell’incisione. L’uno e l’altra sono astratte, cioè non sensibili, del tutto
scevre di psicologismo e perciò rientrano nella sfera della razionalità. Ma c’è
una corrispondenza profonda delle due reti di strisce - quella nera dell’incisione
e quella aurea dell’icona, le divide il baratro che sta fra ‘no’ e ‘sì’: la striscia
d’oro è presenza della realtà e quella dell’incisione assenza».
«Tuttavia, di quale realtà? Non della realtà autonoma bensì di quella
figurativa, l’assistka può essere la presenza, dato che l’oro (e tu lo riconosci) non
corrisponde a niente».
«Ma non ho detto affatto che l’oro non corrisponda a niente. Il discorso
verteva, a quel che ricordo, sull’incommensurabilità dell’oro e dei colori; perciò
la sfera di ciò che non corrisponde all’oro si limita a ciò che corrisponde al
colore. Ma ciò che non corrisponde al colore dovrebbe, mi sembra ovvio,
cercarsi un mezzo espressivo diverso dal colore. Se l’interpretazione
naturalistica del mondo e il contenuto totale dell’esperienza si riconoscono come
omogenei e sensibili, la diversità dei mezzi di rappresentazione si condanna e si
esclude come falsità flagrante; se il mondo è soltanto il mondo visibile, anche il
mezzo della rappresentazione dev’essere analogo, e sensibile anch’esso. Tale è
la pittura occidentale, che esclude sostanzialmente dalla propria esperienza il
soprannaturale e perciò non soltanto esclude l’oro come mezzo di
rappresentazione, ma ne aborre, perché l’oro distrugge l’unità stilistica del
quadro. Quando esso si introduce, è come una greve materiale imitazione del
metallo in natura e allora somiglia ai collages di ritagli di giornale, di
illustrazioni fotografiche o di coperchi di scatole di sardine sui quadri delle
correnti più recenti e sinistre. In tali casi l'oro non può essere considerato un
mezzo figurativo e nella struttura del quadro rappresenta semplicemente un
oggetto nella sua naturalità».
«Perciò supponi che l’oro dell’assistka, analogamente alle strisce
dell’incisione abbia il compito di ricostruire ciò che è raffigurato al di là della
sua attualità visibile, e voglia conferire alla realtà raffigurata la sua forma
essenziale».
«Noi non tolleriamo la superbia protestantico-kantiana che non vuole
accettare da Dio la pienezza della vita del mondo soltanto perché ci è data in
dono, è creata per noi e non per opera nostra. E a qual fine strutturarci
razionalmente il mondo imponendoci questo limite (posto che sia possibile),
dato che per grazia di Dio lo contempliamo coi nostri organi corporei, cioè lo
percepiamo con la pienezza del nostro essere? A questo riguardo noi non
neghiamo la verità dei colori, la verità cattolica, tuttavia grazie alla sobrietà
spirituale i colori stessi diventano elevati, diafani, puri, compenetrati di luce e,
dimessa la loro terrestrità, si avvicinano alle pietre dalla luce propria, a queste
concrezioni dei raggi planetari.
«Ma non esiste soltanto il mondo visibile, anche se elevato verso l’alto, ma
anche il mondo invisibile - la grazia di Dio che, simile a un metallo fuso, cola
nella realtà deificata. Questo mondo inaccessibile ai sensi, si raggiunge con
l’intelletto, naturalmente usando questa parola nel suo significato antico ed
ecclesiastico. In questo senso è forse possibile parlare della costruzione o
ricostruzione intellettuale della realtà. Ma c’è una profonda contrapposizione fra
questa ricostruzione e quella del protestantesimo. Sull’icona, come in genere
nella cultura ecclesiale, si costruisce ciò che non è dato dall’esperienza sensibile
e di cui perciò sia pure schematicamente abbiamo bisogno di fornire una
rappresentazione visibile, mentre la cultura protestante, che rinuncia perfino alla
menzione del mondo invisibile, coarta in uno schema ciò che all’uomo è dato
nell’esperienza diretta; noi per forza utilizziamo il mondo visibile, per unirci in
parte con la conoscenza al mondo invisibile, mentre nella cultura protestante
l’uomo si sforza di conoscere a partire da se stesso ciò che, a parte tutto, esiste
da prima di lui. Poiché questa costruzione ecclesiale non si percepisce senza una
realtà spirituale - nella costruzione si sparge la luce stessa, che è la realtà
spirituale nella natura. Oro, metallo, sole non hanno colore perché quasi identici
alla luce solare. Ecco perché è di una profonda verità l’opinione che ho sentito
ripetutamente da V.M. Vasnetzov, che il cielo non si può rappresentare con
nessun colore, ma soltanto con l’oro. Quanto più scrutiamo il cielo, specie
intorno al sole, tanto più si insinua in noi il pensiero che non è l’azzurro il suo
segno caratteristico, bensì la lucentezza della luce diffusa nello spazio e che
questa profondità luminosa si può rendere soltanto con l’oro; il colore sembra
torbido, piatto, opaco. Ecco che con purissima luce il pittore d’icone costruisce,
non costruisce però quel che capita, ma soltanto l’invisibile, attingibile con
l’intelletto, sussistente sul piano della nostra esperienza, ma non sensibilmente e
che perciò nella rappresentazione si è obbligati a tener distinto sostanzialmente
dalle rappresentazioni del sensibile. Analogamente avviene anche negli altri rami
della cultura ecclesiale, specie nella concezione filosofica del mondo, dove il
dogma, come aurea formulazione del mondo invisibile, si congiunge ma non si
mescola alle colorite formulazioni mondo visibile, che spettano alla scienza e
alla filosofia. Viceversa, come il pensiero protestante, anche la grafica
protestante non costruisce a partire dalla luce della vera realtà, ma a partire
dall’assenza di realtà, dalla tenebra, dal nulla (basti ricordare il Cohen)».
«Di conseguenza, tu ammetti che con le sottolineature d’oro [razdelka], con
le strisce dorate dell’assistka si evidenzia la metafisica della sezionatura della
rappresentazione? La struttura del panneggio è ontologica se sono sezionati i
vestiti, i libri, il trono, le predelle, ecc., come che sia? Io ti interpreto nel senso
che nelle linee delle sezionature d’oro tu ravvisi le invisibili, da noi tuttavia in
qualche modo percepite e sviluppate in un’immagine sensibile, forze
primordiali, che formano con le loro azioni reciproche lo scheletro ontologico
delle cose. Effettivamente si potrebbe parlare delle sottolineature d’oro
[razdelka] come di linee di forza d’un campo, che formano l’oggetto. Così
potrebbe trattarsi di linee di tensione e di compressione concepite dall’intelletto,
ma non sensibilmente presenti alla vista; in parte, sui vestiti le linee delle
sottolineature d’oro [razdelka] possono allora indicare il sistema di pieghe
potenziali, cioè le linee lungo le quali il tessuto si piegherebbe se ci fosse
l’ambiente generale per la formazione delle pieghe».
«Linee di forza, campi di forza - è detto a puntino e in certo senso
correttamente. In effetti se l’artista avesse bisogno di rappresentare un magnete e
si accontentasse della riproduzione del visibile (e certo, adesso parlo del visibile
e dell’invisibile non nel senso alto e dogmatico, ma in quello quotidiano e
grossolano), rappresenterebbe non un magnete ma un pezzo d’acciaio; resterebbe
come invisibile il magnete nella sua essenza di campo di forza, esso non sarebbe
raffigurato e neanche indicato, benché per la nostra concezione del magnete esso
è senza dubbio reale. Ancor più, parlando del magnete, abbiamo in mente un
campo di forza, che si pensa e si presume prima del pezzo d’acciaio, e non
viceversa - prima il pezzo d’acciaio e poi le forze che gli sono intrinseche. Ma
d’altro canto se l’artista disegnasse, valendosi per esempio d’un manuale di
fisica, anche il campo di forze come un oggetto qualunque visibile quanto il
magnete stesso - mescolando nella cosa rappresentata all’acciaio anche la forza,
al visibile l’invisibile - innanzitutto egli direbbe il falso intorno all’oggetto, e in
secondo luogo negherebbe la forza reale nella sua natura di potenzialità d’azione
invisibile: nella rappresentazione ci sarebbero due oggetti e non l’unico magnete.
È chiaro che nella rappresentazione del magnete devono essere riprodotti e il
campo di forza e l’acciaio, ma in modo che le riproduzioni dell’uno e dell’altro
siano incommensurabili e siano chiaramente riferite a piani distinti. L’acciaio
dev’essere cioè rappresentato col colore e il campo di forza astrattamente, in
modo che non ci sia bisogno di una motivazione sostanzialmente impossibile per
rappresentare il campo di forza con un colore piuttosto che con un altro. Non mi
impegno a indicare all’artista come di fatto procedere a questa congiunzione
inaudita di due piani distinti, ma non posso non ribadire la certezza che l’arte
figurativa possa arrivarci.
«Al limite tale inaudita congiunzione diventa la rappresentazione del lato
invisibile del visibile, dell’invisibile - nel senso alto e ultimo della parola, cioè
dell’energia divina che compenetra ciò che è visibile all’occhio. Questo
invisibile, questa energia è la più potente forza, se vuoi è un campo di forza in
azione, ma l’invisibilità della forza magnetica è superata infinitamente
dall’invisibilità della forza divina, nella misura in cui ontologicamente questa
precede quella, nella misura cioè in cui supera tutte le forze terrene e la loro
azione. A modo di paragone si può dire che la forma del visibile si raffigura con
tali invisibili linee e percorsi della luce divina».
«Ma mi sembra che tu intendendo parlare del mio “non così”, parli del
“così”».
«Ma certo, perché tu pensavi senz’altro al campo di forza, quasi
naturalisticamente, quasi fisicamente, mentre io mi servivo del campo di forza
soltanto come immagine e non parlo delle forze formatrici effettive della realtà,
sia pure profondamente inserite nella natura della realtà corrispettiva, bensì di
forze divine...».
«Ma non è divina ogni forza, in quanto posta da Dio?».
«In certo senso sì; ma in certo senso distinguiamo tuttavia le forze
particolarmente divine, direttamente divine. Comunque non è qui il caso di
discutere della sostanza delle distinzioni, poiché la questione stessa del Culto
presuppone questa distinzione, senza di cui la questione stessa non può sorgere.
Come esiste una rivelazione della natura o una rivelazione della natura di Dio, e
c’è anche una rivelazione di Dio nel senso più diretto, così anche tra le forze
divine, benché ogni forza provenga da Dio, una lo può essere in senso speciale.
Volevo opporti che la sottolineatura d’oro [razdelka] sulle icone non esprime la
struttura metafisica nell’ordine naturale, anche se esso pure è divino, ma si
riferisce alla diretta rivelazione delle energie divine. Fa’ attenzione: con l’oro
sulle icone non si segna qualsiasi cosa, ma soltanto ciò che ha un rapporto diretto
con la potenza divina - con la realtà non metafisica e neanche sacrale-metafisica,
ma con la diretta manifestazione della grazia divina.
«Se si tralasciano le rare deviazioni dalla tradizione ecclesiastica, accidentali
e arbitrarie, l’ombreggiatura aurea, l’assistka si applicava specialmente sui
vestiti del Salvatore - bambino o adulto - e anche sulla raffigurazione del
Vangelo e sulla mano del Salvatore, come dei santi, sul trono del Salvatore, sui
seggi degli angeli e sulla rappresentazione della Santissima Trinità, sulle
predelle del Salvatore e degli angeli, quando su di esse è raffigurata la
Santissima Trinità, e raramente anche altrove nelle icone antiche, specie nelle
più spiritualmente significative, e anche di rado per esempio sul tabernacolo. In
ogni caso evidentemente l’oro si riferisce all’oro spirituale - alla luce
sovraceleste di Dio.
«Sulle icone successive l’oro, ma già in polvere e con carattere di colore, si è
introdotto negl’interstizi dei vestiti dei santi e di altri oggetti; ma anche qui esso
significa il riflesso della grazia celeste, anche se dogmaticamente e secondo la
tradizione della pittura d’icone appare dubbio che il segno particolare di Dio
possa trasferirsi, sia pure mitigato, ai santi. Così l’assistka, questa più
determinata applicazione dell’oro, è l’espressione non delle forze ontologiche in
genere, bensì delle forze divine - delle forme sovrasensibili che compenetrano il
visibile. Il tessuto d’oro, nel suo significato spirituale, specie quello antico,
tramato di sparsi fili d’oro, è l’immagine materiale di questa penetrazione da
parte della luce divina nella carne purificata del mondo...».
«Ho tuttavia deviato con le mie domande la nostra conversazione e perciò,
come colpevole di una certa confusione, mi accollo la spiacevole incombenza di
richiamarci all’ordine. Ciò che si è detto or ora, si riferisce a uno dei particolari
della tecnica della pittura d’icone, mentre il proposito era di capire il corso
generale della pittura d’icone come espressione della cultura ecclesiale. Dopo le
spiegazioni intorno alla pittura cattolica e all’incisione protestante, è naturale
prevedere una costituzione spirituale anche per la pittura d’icone, in certo modo
legata alla cultura ecclesiale; ma sarebbe più convincente ravvisare questo nesso
nel processo stesso della pittura d’icone. Ritieni che sia possibile?».
«Sicuro. A prova della non accidentalità dei metodi di pittura delle icone mi
permetto di rammentare che li incontriamo in tutto il corso della storia della
Chiesa e che l’arte ecclesiastica fedelmente ha serbato la tradizione della tecnica
della pittura d’icone, proveniente dal fondo dell’antichità. In questi metodi di
rappresentazione mi pare ovvio ravvisare il fondamento di una metafisica
universalmente umana e di una gnoseologia generalmente umana, una modalità
naturale di percepire e capire il mondo, contrapposta a quella artificiale,
occidentale che si è manifestata nei metodi dell’arte occidentale. Ecco, ascolta la
testimonianza dei secoli IV-V che chiaramente indicano l’identità dei metodi di
rappresentazione di allora e di quelli successivi nella pittura d’icone. Trattando
del significato prefigurale della traversata del Mar Rosso da parte degli Ebrei,
san Giovanni Crisostomo è condotto dal suo ragionamento a confrontare i
concetti di immagine - τύπος - e di verità – αλήθεια -, cioè della realtà adombrata
e della realtà stessa. “Ma come mai dici che questo (cioè la traversata del Mar
Rosso) poté essere un adombramento del vero (cioè del battesimo)? Quando
distinguerai quale è l’immagine e quale la verità, allora ti spiegherò”. Che cosa è
ombra e che cosa verità? Parliamo delle raffigurazioni che dipingono i pittori
(notiamo che i buoni pittori d’icone in Grecia e da noi si chiamano “zógraphi” e
“zhivopìszi” ovvero “coloro che descrivono la vita’’). Spesso vedi, nella
rappresentazione dell’imperatore, un fondo di color scuro (κυανῶ -
propriamente blu scuro, il colore del cielo notturno), il pittore quindi traccia
delle linee bianche (γράμμας) e raffigura l’imperatore e il trono imperiale e i
cavalli e il seguito e i lancieri, e i nemici in ceppi e prostrati. Ma vedendo
insieme questi tracciati non riconosci tutto, non capisci tutto, che è dipinto un
uomo e un cavallo non è chiaro...». 5

«Sì, veramente, questa è una descrizione dei metodi della pittura d’icone del
secolo XV e dei secoli successivi. Ma che cosa rivela in questi metodi la
specificità della concezione ecclesiale del mondo?».
«Innanzitutto la scelta della superficie della figurazione: all’ontologia
ecclesiale non si adatta la superficie tremolante della tela che equiparerebbe, nel
processo di esecuzione, l’icona a una spiacente manifestazione d’una realtà
condizionata; ancor meno le si adatta l’effimera carta, che all’incisione dà l’aria
di superare scherzando le difficoltà. Nella pittura la superficie della
rappresentazione scade a qualcosa di condizionato, nell’incisione l’intelligenza e
le mani dell’artista pretendono di salire all’incondizionato. L’arte ecclesiale si
cerca una superficie assolutamente stabile, non ‘come se lo fosse’, ma veramente
salda e immobile. La rappresentazione deve includere il momento di forza e
saldezza equivalente a questa superficie, che le sia equivalente come forza e che
quindi possa spettare direttamente alla coscienza ecclesiale e non a singole
persone, e il momento della morbida creatività individuale, della femminile
sensitività».
«Da quel che capisco, tu vedi nell’arte occidentale una fissione della pittura
d’icone, per cui la pittura d’icone diventa unidimensionale per un verso nella
pittura cattolica e per l’altro verso nell’incisione protestante. Per ciò che riguarda
la superficie della rappresentazione la pittura d’icone sembra avere le pretese
d’un’incisione: in rapporto alla superficie la pittura d’icone è, vuoi dire, ciò per
cui l’incisione si spaccia, e lo è in grado superlativo. Una superficie davvero
salda e immobile la offre il muro, il muro di pietra - simbolo di incrollabilità
ontologica. Per questo verso l’affresco certo corrisponde all’esigenza enunciata,
ma l’icona non sempre, anzi non di frequente, si dipinge su una parete...».
«E su che cosa, allora?».
«È ovvio, su una tavola».
«No, perché è prima cura del pittore d’icone mutare la tavola in parete.
Rammenta: la prima serie di gesti per dipingere un’icona è la cosiddetta
preparazione della tavola, che include la stuccatura. La tavola stessa, scelta con
cura, ben prosciugata e avente nella parte anteriore un incavo, a cucchiaio e
circondato da una cornice, si rafforza sul rovescio, dai margini verso il centro,
per scongiurare un possibile incurvamento, con sbarre trasversali. La stuccano
sette volte con i seguenti movimenti: per prima cosa grattano nel cavo della sua
superficie anteriore con una punta, un punteruolo o un chiodo, quindi passano
uno straccio ben zuppo d’olio, quindi, quando questo si assorbe, incollano una
federa, cioè una tela, o un tessuto di canapa rada attraverso cui la tavola si
lubrica con uno straccio ancor più zuppo, e sopra la federa, bene ammorbidita, si
passa nuovamente lo straccio. Dopo un giorno e una notte alla tavola si dà lo
stucco, una poltiglia ben rimescolata di calce e di colla. Quando lo stucco si
asciuga, per la durata di tre o quattro giorni la tavola si intonaca: la prima mano
si passa sei o sette volte e l'intonaco si fa con dello stucco cui si aggiunge 2/5
d’acqua bollente, un po’ di olifa cioè di olio bollito e di calce; l’intonaco si
stende sulla tavola con la spatola e dopo ogni passata si lascia ben asciugare.
Inoltre si dà una patina superficiale, cioè una passata di pomice bagnata in
varie fasi, durante le quali l’intonaco dev’essere asciutto, e infine una lucidatura
a secco, con un pezzo di pomice secca e una rifinitura definitiva alla superficie
con una coda di cavallo o, ai tempi attuali, con pezzi di cuoio o carta vetrata.
Soltanto adesso la superficie per la figurazione dell’icona è pronta. Chiaramente
questa non è diversa da una parete o meglio da una nicchia nella parete, ma
soltanto nella tavola d’icona si attua e si condensa la qualità perfetta della parete:
questa parete, nella sua bianchezza, finezza di struttura e uniformità e via
dicendo, è l’essenza della parete e perciò offre la più perfetta possibilità di
dipingere includendo gli stessi vantaggi dell’affresco. La pittura d’icone
storicamente nacque dalla tecnica dell’affresco e sostanzialmente è la vita stessa
di questo, liberata dai condizionamenti materiali dell’affresco, dalle condizioni
architettoniche e dagli altri limiti».
«In tal caso il comune metodo degli affrescatori di tracciare il disegno sulla
superficie muraria con una punta, in sostanza di graffiarla, tu penseresti di
interpretarlo come il momento incisorio dell’arte ecclesiale. Certo questo
graffiare i contorni nell’affresco è un’incisione, ma che cosa gli è corrispettivo
nella pienezza metafisica dell’affresco?».
«Si, la pittura d’icone incomincia proprio come l’incisione; per prima cosa il
pittore d’icone traccia a carboncino o a matita il contorno della rappresentazione,
cioè i contorni tradizionali-ecclesiali, e quindi incide graficamente il disegno con
un ago inserito in cima ad un bastoncino; la parola stessa γράφω vuol dire
“intaglio”, “graffio” e φραφή è l’ago che incide, lo strumento antico,
antichissimo, usato nei secoli, il primo mezzo dell’arte figurativa. Ma tracciare
così il contorno significa per il pittore d’icone la parte di maggior responsabilità
del lavoro, specie rispetto alle pieghe: egli trasmette cioè comunica alla
moltitudine che prega la testimonianza della Chiesa intorno all’altro mondo, e
un’alterazione minima non soltanto delle linee ma anche più sottile dà uno stile
diverso a questo schema astratto, una diversa struttura spirituale. Il disegnatore si
sente responsabile verso l’intera tradizione della pittura d’icone, cioè verso la
veracità della testimonianza ontologica nella sua forma pubblica. Il contorno è
un memento, ma questo è tuttora la pura astrazione, quasi ancora invisibile, di
un’opera tangibile. In seguito questo schema dovrà rendersi manifesto, diventare
visivo, e la tavola disegnata dal disegnatore va a finire nelle mani dei diversi
artigiani...».
«Sono “diversi” nel caso delle esecuzioni fatte per mestiere, nella produzione
di massa. La loro diversità non appartiene all’essenza dell’icona come opera
d’arte».
«Stai proponendo una questione sostanziale ed è il caso di spendere qualche
parola sul tuo dubbio. Innanzitutto l’icona non è un’opera d’arte, un’opera d’arte
autosufficiente, bensì un’opera testimoniale, a cui è necessaria anche l’arte,
insieme a parecchio d’altro. Ecco che ciò che chiamavi con spregio produzione
di massa, si mostra essenziale all’icona, cui come testimonianza spetta di
insinuarsi in ogni casa, in ogni famiglia, diventando genuinamente popolare,
proclamando il Regno dei cieli nel nucleo stesso della vita quotidiana. Alla
tecnica della pittura d’icone compete essenzialmente anche la possibilità di una
lavorazione celere, l’icona non comporta un’esecuzione troppo raffinata, per
esempio, alla Stroganov, che è infatti caratteristica del secolo che ha convertito
le reliquie in oggetto di lusso, di vanità e di collezionismo.
«Adesso insistiamo sulle specialità degli artigiani dell’icona. Neanche ciò è
determinato soltanto da motivi esteriori; l’icona, perfino la prototipica, non fu
mai concepita come il prodotto di una creazione solitaria, essa spetta
essenzialmente all’opera collegiale della Chiesa e perfino se per un motivo o per
l’altro l’icona fosse dipinta dal principio alla fine da un solo artista, presuppone
una collaborazione ideale di altri artisti: come la Messa risulta collettiva anche se
celebrata da un solo sacerdote, essendo la partecipazione del vescovo, degli altri
sacerdoti, diaconi e altri idealmente implicita. Il pittore talvolta si trova a
prestare una parte della sua opera ad altri, ma è implicito che egli dipinge
individualmente; il pittore d’icone viceversa talvolta deve lavorare isolato, ma è
implicita la collegialità nel lavoro. L’assenza di partecipanti è richiesta per
l’unicità della maniera individuale, ma nell’icona il compito capitale è di
rimanere inflessibilmente ligi collegialmente alla verità trasmessa; e se si sono
insinuati dei tratti collettivi nell’icona saranno attenuati l’uno dall’altro, se gli
artigiani si freneranno a vicenda nelle involontarie deviazioni dall’oggettività,
come è necessario. L’assegnazione del disegno all’artista celebre, e della
coloritura agli altri artigiani, permette a questi ultimi di sviluppare la propria
sensibilità, senza danneggiare da questo lato l’icona, che deve restare fedele in
particolare alla Tradizione. Ma anche nella parte cromatica della pittura d’icona
si distingue la parte dei volti da ciò che è, rispetto ad essa, secondario. Questa è
una suddivisione assai profonda, di principio, fra interno ed esterno, ‘io’ e ‘non
io’: il volto umano come espressione della vita interiore e tutto ciò che non è
volto, cioè le condizioni di manifestazione e di vita dell’uomo, tutto il mondo in
quanto creato per l’uomo. Nel linguaggio della pittura d’icone il volto si chiama
sguardo, sembianza [lik], e tutto il resto, cioè il corpo stesso, i vestiti, i palazzi e
gli elementi architettonici, gli alberi, le rocce, ecc., si chiama riempitivo;
particolare significativo: nella concezione della sembianza appaiono secondari
gli organi dell’eloquenza, i volti minori del nostro essere - le mani e le gambe. In
questa divisione del contenuto complessivo dell’icona in sembianza [lik] e parti
accessorie non si può non ravvisare l’antica, greca antica e patristica concezione
dell’essere come composto dell’uomo e della natura, non fusi fra loro ma
neanche separati: questa è la primordiale, paradisiaca armonia dell’interno e
dell’esterno. Viceversa la peccaminosa lacerazione del creato, la
contrapposizione dell’uomo alla natura nell’arte nuova fu consumata con la
divisione della pittura in paesaggio e ritratto, nel primo infatti l’uomo per la
prima volta è accantonato, quindi diventa accessorio e infine è del tutto escluso
dalla campagna, mentre nel secondo tutto l’ambiente trae vita dalla sua vita,
diventa mera ambientazione e alla fine con esso dal ritratto scompare anche il
corpo, e rimane soltanto il volto astratto da tutto il mondo, mera espressività.
Viceversa l’icona rispetta ugualmente i due princìpi, ma serba il primo posto
all’imperatore e sposo della natura - al volto, e all’intera natura, come impero e
sposa, il secondo posto. Ovviamente questa distinzione nel lavoro della pittura
d’icone fra il volto e tutto il resto non si può ridurre soltanto a un’organizzazione
esteriore del lavoro, dimenticando che attraverso questa suddivisione si può
esprimere il principio corale con una pluralità di voci. Non parlerò ora delle altre
parti che talvolta si distinguono come lavori specialistici, come l’intonacatura, la
coloritura rossa, l’applicazione dell’olifa, la doratura, ecc., anche se queste
specializzazioni non sono prive d’un significato intimo».
«A quel che sembra, fondamentalmente - dal punto di vista sia filosofico sia
tecnico - bisogna ammettere la distinzione fra l’opera del disegnatore e quella
del coloritore. Ma a chi spetta lo sfondo dell’icona?».
«Esso è luce, per parlare iconicamente. Attiro la tua attenzione su questo
termine importante: l’icona si dipinge sulla luce e di qui, come mi sto sforzando
di chiarire, emerge tutta l’ontologia della pittura d’icone. La luce, come vuole la
migliore tradizione dell’icona, si dipinge con l’oro, cioè si manifesta appunto
come luce, pura luce, non come colore. Più precisamente, ogni rappresentazione
emerge in un mare di dorata beatitudine, lavata dai flutti della luce divina. Nel
suo grembo “viviamo e ci muoviamo ed esistiamo”, questo è lo spazio della
realtà autentica. E perciò si capisce che sia normativa per l’icona la luce dorata:
qualunque colore tirerebbe verso terra l’icona e attenuerebbe la visione che essa
manifesta. E se la grazia creatrice è il fondamento e principio di ogni creatura, si
capisce che anche sull’icona, quando è stato astrattamente delineato o più
precisamente definito lo schema, il processo di incarnazione incominci con la
crisografia della luce. Con l’oro della grazia creatrice incomincia l’icona e con
l’oro della grazia santificante, cioè con la sottolineatura aurea [razdelka], si
conclude. La pittura di un’icona - di questa ontologia visibile - ripercorre i gradi
fondamentali della creazione divina, dal nulla, dall’assoluto nulla fino alla
Nuova Gerusalemme, al creato santificato».
«È venuta in mente anche a me una riflessione del genere. Ma... capovolta:
mi è sembrato che l’ontologia della Chiesa e di Platone sia vicina al
procedimento di pittura dell’icona e in parte dell’antica pittura, che questa
vicinanza vada in qualche modo spiegata. Sapendo che in genere il platonismo è
imperniato sul culto, che la sua terminologia è soprattutto quella dei misteri, che
le sue immagini hanno un carattere sacrale e che l’Accademia era in qualche
modo connessa ai misteri eleusini, ho pensato che si possa ravvisare nelle
strutture ontologiche fondamentali dell’idealismo antico una trasposizione in
cielo della creazione artistica degli artieri terreni. Forse che l’ontologia stessa,
vorrei dire, non è che una formulazione teoretica della pittura d’icone?».
«Se si parla di un nesso profondo interiore delle due cose; così è; ma come
ben sai, sono contrario in sostanza all’idea di una derivazione reciproca di realtà
distinte, infatti non sarebbe il caso di considerarle distinte se non lo fossero
davvero, cioè non già provenienti l’una dall’altra bensì, entrambe, da un’unica
radice comune. Ritengo che una uguale sostanza spirituale si manifesti tanto
nella formulazione teoretica della pittura d’icone mediante questi concetti quanto
nella pittura mediante i colori - in questa speculazione per mezzo di immagini
visive. Comunque esiste un parallelismo di questo genere. Quando sulla futura
icona si è annunciata la prima concretezza, cioè in primo luogo, sia per dignità
sia per cronologia, la luce dorata, allora anche i profili bianchi della figurazione
iconica attingono un primo grado di concretezza; erano soltanto delle astratte
possibilità dell’essere, non potenze in senso aristotelico, ma soltanto schemi
logici, un non essere nel senso preciso della parola (το μή εĩναι).
«Il razionalismo occidentale ritiene che da questo nulla provenga - nulla e
tutto; ma non pensa così l’ontologia dell’Oriente: ex nihil nihil, un qualcosa è
creato soltanto dall’Esistente. L’aurea luce dell'essere soprasostanziale,
circondando i profili futuri, li manifesta e dà la possibilità al nulla astratto di
passare a un nulla concreto, di diventare potenza. Queste potenze non sono più
astrazioni, ma non hanno ancora una qualità determinata, benché l’essenza -
ogni essenza - non sia possibilità di checchessia, bensì di una certa qualità
determinata. Τό ούκ όν è diventato το μή όν. Per parlare tecnicamente, si tratta di
riempire internamente i contorni dello spazio col colore, sicché la campitura
astrattamente bianca risulti ora concreta o più precisamente incominci a essere
concreto il profilo colorato. Tuttavia questo non è ancora il colore nel senso
proprio della parola, soltanto non è tenebra, è giusto non tenebra, è il primo
riflesso di luce nella tenebra, la prima manifestazione dell’essere
dall’inesistenza. Questa prima manifestazione della qualità, il colore, è appena
appena illuminato dalla luce. In rapporto al riempitivo questo colore tenebroso -
ombra del colore futuro - si chiama abbozzo [raskryška]: il “riempitore” abbozza
i vestiti e gli altri spazi del riempitivo con macchie uniformi a spruzzo. Questo è
un particolare tipico: nella pittura d’icone non è possibile la pennellata, non
essendoci mezzi toni e ombre: la realtà emerge, a gradi, con la rivelazione
dell’essere, ma non si compone di parti, non è formata dalla giustapposizione
d’un pezzo all’altro o di una qualità all’altra; qui sta il profondo contrasto con la
pittura a olio, in cui la rappresentazione è formata ed elaborata dalle sue parti.
«All’abbozzo segue la pittura, cioè l’approfondimento delle pieghe dei vestiti
e degli altri particolari con il colore stesso dell’abbozzo, in una tonalità, però, più
satura di luce; ora la campitura, uscendo dall’astrazione, diventa concreta: la
parola creatrice ne ha palesato l’astratta possibilità. Si continua a dare dello
stucco al riempitivo, cioè si danno delle progressive ripassate alle superfici
illuminate: si stendono tre strati successivi di colori mescolati a stucco in modo
che ciascuno sia più luminoso del precedente; il terzo, compatto e luminoso, si
chiama talvolta animatore [oĝivki]. Con altra terminologia, i primi due strati si
chiamano ribaditure e il terzo, in senso stretto, ripassata. Infine, come ultima
rifinitura ai panneggi e a certe altre parti del riempitivo si usa la sottolineatura
d’oro [razdelka], nella pittura d’icone più regolamentare, monastica, sull’assist,
parola con cui si designa propriamente la speciale colla fatta coi fondigli della
birra e, nella pittura d’icone più tarda, la ripassata con l’oro in polvere fatta a
matita. La ripassata precisa dei palazzi, dei monti e delle rocce, delle nuvole
ricciolute, degli alberi, ecc., si fa in due o tre strati con “l’animatore”: i colori ora
vengono stesi fusi, più liquidi che sui panneggi, che sui volti, per i quali si usano
colori più densi. Così si stabilisce un intervallo fra il mondo interiore - il volto -
e quello esteriore - la natura -, il grado di realtà dei panneggi essendo come il
nesso e la mediazione fra i due poli del creato, l’umano e il naturale».
«Tuttavia descrivendo la pittura dell’icona dovevi parlare della parte
capitale, dei volti e in genere delle persone. Fra l’altro la pittura incomincia da
essi».
«Certo, la pittura. Ma la pittura d’icone qui viceversa termina. Prima di
concludere, per maggior precisione, rammentiamo gli stadi della pittura delle
persone. In sostanza essi procedono nell’ordine che si è visto nella pittura del
riempitivo. Il primo stadio, corrispettivo all’abbozzo [raskryška], è la stesura del
colore di base [sankir]: questa azione determina in gran parte il carattere
fondamentale dell’icona e il suo stile. La base [sankir] è il fondo cromatico per
la pittura del volto. Non è un colore di questa o quella tinta determinata, bensì la
potenza della futura tinta del volto, e in quanto la tinta del volto è d’una
illimitata ricchezza cromatica e può essere interpretata in vari modi, la base nei
vari stili di pittura d’icone ebbe sfumature svariate e composizioni diversissime.
La base [sankir] bizantina era grigiazzurra sfumante nell’indaco, l’italo-cretese-
marrone, nella pittura d’icone russa dei secoli XIV-XV fu verde, quindi diventò
scura e bruna, fino alla seconda metà del secolo XVI quando diventò color
tabacco, ecc. La sua composizione venne corrispettivamente cambiando: così la
base degli Stroganov era composta di terre e biacche, e in parte di ocre; secondo
la ricetta di Panselinos la composizione constava di una dramma di biacca,
altrettanto di ocra e altrettanto di verde da affresco e quattro dramme di nero. La
base di oggidì si compone di ombra, ocra brillante, di una piccola quantità di
fuliggine olandese, ecc. Il volto cui si è data la base è il suo nulla concreto.
Quando la base è asciugata, il contorno del volto, dentro e fuori, si rifà col
colore, passa cioè dall’astratto al primo grado di visibilità, come se il volto
ricevesse un primo grado di animazione. Queste linee colorate si chiamano
“specificazioni” [opis’]. Il loro colore varia con lo stile delle icone. Via via che
l’icona si colora nelle specificazioni e parallelamente nel riempitivo, essa si
differenzia dalla grafica, meno spicca il suo momento incisorio, ed essa si
allontana insomma dal razionalismo.
«Nel secolo XIV la “specificazione” si fa soltanto in certi luoghi e con una
tinta rossa viva, il che sottolinea per contrasto il verde della base. In seguito essa
si scurisce, diventa più densa e bruna, prende un aspetto morbido, un carattere
pittorico, ma al razionalismo del secolo XVI corrisponderà un aspetto rigoroso,
come tracciato a penna, da incisione, e la “specificazione” sarà fatta in nero. Nel
secolo XVII è meno marcata, più raffinata (la cosa si nota ancor prima in
Grecia), cioè le strisce bianche lungo il contorno somigliano alle ombre
dell’incisione. Bisogna aggiungere che occhi, sopracciglia, capelli e barba si
dipingono con un impasto simile al colore di base [sankir], ma più scuro, detto
rephta. Procede a grado a grado la fusione dei colori dei volti, come le ribaditure
si succedono sul riempitivo. Gli spazi luminosi del volto: fronte, gote, naso, si
dipingono con una misura diluita color carne, nella cui composizione entra
l’ocra, per cui si chiama ocracea [vochrenia]. Il colore della mistura varia però
con l’epoca e lo stile: rosa sfumato caldo nel secolo XIV, nel XV splende su un
marrone aranciato, per diventare fulva, gialla nel XVI e nel XVII ridiventa
rosata, arcaicizzante; nel XVIII è bianca come cipria. Andrebbe chiamata, per
essere esatti, non ocracea, ma con altre denominazioni, che però non sono
entrate nel vocabolario della pittura d’icone, come per esempio “incarnatina” (in
inglese e francese carnation è il rosso-garofano, donde il russo inkarnat,
inkarnatzja). Su questo primo strato “ocraceo” si stende una mescolanza diluita
dell’ocraceo con la base [sankir] e questa velatura mitiga la violenza del trapasso
da un colore all’altro; ora con una mescolanza di ocra e perossido di ferro o
cinabro si dà il rosso al volto. Quindi si stende di nuovo l’ocraceo, anche stavolta
diluito; è più luminoso e copre la prima velatura diluita, rossa. Quindi si applica
un terzo strato nei medesimi luoghi luminosi. Infine si ripete la specificazione
[opis’] dei tratti del volto, si disegnano i capelli e nei luoghi di maggior rilievo,
sia per luminosità sia per struttura, si disegnano delle linee sottili con la biacca e
delle macchioline minute, le une dette “movimenti” e le altre “marchi”, talvolta
si chiamano tutt’e due “tacche”.
«Nelle icone odierne una maggiore attenuazione dei trapassi cromatici si
ottiene con sottili pennellate di biacca, raffinatamente, ma questo mezzo è alieno
nello spirito alla tecnica della pittura d’icone, e la necessità di usarne mostra
l’incapacità dell’artigiano di ottenere la fusione cromatica secondo le norme».
«E così sembrerebbe terminata la pittura dell’icona?».
«Sì, se non si legge ciò che nell’icona è l’anima: la sovrascritta. Ma appunto
è una iscrizione, e non riguarda l’opera nel suo complesso, la quale prevede che
l’icona sia verniciata con l’olifa cioè velata con un olio vegetale il cui processo
di bollitura e il cui metodo di applicazione all’icona sono atti di grande
importanza e non senza segreti professionali. L’olifa, a seconda di come si
prepara e applica, nel corso del tempo prende un aspetto del tutto diverso. I
restauratori moderni commettono il grave errore di considerare l’olifa soltanto
un mezzo tecnico per preservare i colori, senza riconoscere in essa un fattore
artistico, che conferisce ai colori l’unità del tono comune e la profondità. Credo
che esistano varie olifa corrispettive ai diversi caratteri stilistici. In particolare
spesso capita di notare che l’alto significato artistico di un’icona, dopo la
rimozione della vecchia olifa dal colore dorato, e dopo la sua ricopertura con
un’olifa nuova e incolore, è andato chiaramente perduto, e l’icona ha preso l’aria
di uno strato preliminare per un’opera futura».
«Forse che anche la parte del fabbro nell’icona, cioè la cornice, la rizà, il
nimbo, la collana, la rifinitura, si deve intendere come un contributo al
complesso dell’icona?».
«In certi casi, specie con le rifiniture metalliche delle icone contemporanee,
senza dubbio esse sono state previste dal pittore d’icone e non aggiunte
dall’esterno per arricchire l’icona; le pietre preziose senza dubbio possono
rientrare nel complesso autentico. Ma in molti casi la cornice, la rizà eccetera,
sono decorazioni soltanto esteriori; sono oggetti, cose. L’oro e i preziosi sono
strumenti troppo potenti di simbolismo artistico, perché il loro uso sia accessibile
ad artigiani di second’ordine...».
«Abbiamo completato l’icona fino all’ultima cornice, sembrerebbe che si
fosse parlato di tutti i gesti essenziali. Ma...».
«Ti sembra che resti fuori qualcosa?». «Giudica tu: uno dei punti capitali
nell’istruzione pittorica sono le ombre; i teorici della pittura fanno la massima
attenzione appunto all’arte e al metodo di dipingere l’ombra e per gli artisti
questo o quel tipo di ombre definisce in sostanza lo stile. Così naturalmente
nasce lo stupore: come mai, discutendo della pittura d’icone, non abbiamo fatto
parola neanche una volta delle ombre?».
«Non è che si sia dimenticata la parola, ma nella pittura d’icone essa non ha
ragion d’essere: il pittore d’icone non si occupa di faccende tenebrose e non
dipinge ombre».
«Ma come? Le immagini della pittura d’icone hanno chiaramente un
rapporto con gli oggetti della realtà e perciò non dovrà il pittore d’icone
riprodurre anche le ombre su questi oggetti?».
«Nient’affatto, dato che il pittore d’icone raffigura gli esseri, anzi esseri
gloriosi, e l’ombra non è essere bensì sua semplice assenza, e rappresentare
l’assenza, cioè caratterizzarla come qualcosa di affermativo, di presente, di
veramente esistente sarebbe una sua essenziale promozione ontologica. Se il
mondo è l’opera d’arte del Creatore e la creazione artistica una manifestazione
analoga dell’umanità, è naturale supporre un parallelismo fra la creazione
sostanziale e la creazione analogica. È naturale supporre che le varie fasi
dell’arte più universalmente umana e più sacra ripetano gli stadi fondamentali
dell’ontogenesi metafisica delle cose e della realtà. Anche nell’ordine
psicologico sarebbe strano rappresentare ciò in cui non si può che vedere un
parziale indebolimento o addirittura una completa assenza di certe percezioni».
«Ma non puoi negare che nella pittura si rappresenta l’ombra; è evidente,
specie nell’acquarello, dove i luoghi luminosi restano privi di colore, mentre si
concentrano i colori sulle ombre. Questo è fra l’altro inevitabile, perché l’artista
procede dalla luce all’ombra, ovvero dall’illuminato al tenebroso. Anche
metafisicamente le cose non possono essere diversamente: nell’ontologia come
nella percezione omnis determinatio est negatio; per elaborare una forma, per
conferire individualità, determinatio a un oggetto, bisogna negare una
determinata pienezza. La conoscenza è analisi, spezzettamento, separazione;
conosciamo una cosa come ritagliandone i contorni dallo spazio circostante. Non
agisce diversamente il pittore. Secondo me, così facendo egli rimane del tutto
fedele alla filosofia...».
«Rinascimentale. Tutto ciò che hai detto forse ripeterei anch’io. Ma tu
dimentichi che c’è anche una filosofia inversa e perciò ci dev’essere un’arte
corrispondente. Certo, se la pittura d’icone non ci fosse il faudrait l’inventer. Ma
essa esiste e vecchia come l’umanità. Il pittore d’icone procede dal tenebroso al
luminoso, dall’oscurità alla luce. La nostra discussione della tecnica della pittura
d’icone ne ha posto in rilievo queste particolarità; lo schema astratto, la luce-
ambiente, il profilo che ne risulta, la potenzialità della rappresentazione e del suo
colore, quindi la graduale rivelazione dell’immagine, la sua modellatura, la sua
articolazione, la definizione del suo volume attraverso l’illuminazione. Gli strati
dei colori che perciò vengono stesi via via sempre più luminosi, poi rifiniti con
sottili linee di biacca, con i “movimenti” e le “tacche”, creano nella tenebra del
non essere l’immagine, e questa immagine a partire dalla luce. Il pittore vuole
capire l’oggetto come qualcosa di reale in se stesso e di contrapposto alla luce;
mediante la cui lotta contro la luce, cioè mediante le ombre, grazie alle ombre, si
presenta allo spettatore come realtà. La luce secondo la concezione del pittore è
soltanto l’occasione dell’autopresentarsi delle cose. Viceversa per il pittore
d’icone la luce e ciò che essa produce non sono la stessa realtà.
«Per individuarsi, le cose non debbono negare qualcosa, anzi non debbono
affatto negare, perché finché esse non sono create dalla luce, ancora non
esistono; non si concretano grazie a una negazione, ma al contrario, mediante un
atto creativo, attraverso una manifestazione della luce. Non c’era niente; per un
atto creativo è venuto in essere un nulla, un nulla positivo, embrione, inizio
d’una cosa e, penetrato dalla luce, esso incomincia a formarsi, a modellarsi,
finché non si manifesta come una figura luminosa. Ciò che più sostanzialmente
determina la forma, più la illumina; il meno significante è il meno illuminato.
L’essere, la concretezza, l’individuazione sono affermativi, sono dei ‘sì’ di Dio
al mondo, la parola creatrice attuata, perché la voce di Dio li suscita come luce e
armonia celeste - come movimento di lumi. Non senza un profondo motivo i
poeti colsero nella luce un suono. E in ciò che da Dio non è compiutamente
proferito, che è detto a mezza voce, vediamo meno luce; ma anche se è minore, è
tutta luce e non tenebra: la tenebra completa, l’ombra totale è assolutamente
inconcepibile, perché non sussiste, è un’astrazione. E non senza motivi un
famoso incisore del nostro tempo rende le ombre profonde come se fossero
qualcosa di invisibile, ma di presente alla coscienza - non le rappresenta, ma di
fatto le rifà - con l’assenza dei colori, con i tratti di carta astratti, bianchi. Alla fin
fine tutto si riduce a credere al primato e all’autosufficienza ontologici del
mondo, alla sua autocreazione e autoformazione, oppure invece a Dio,
considerando il mondo una Sua creazione. La pittura rinascimentale, anche se
non sempre coerentemente, aderiva alla prima concezione del mondo, ma la
pittura d’icone prese a fondamento la seconda. Di qui la differenza dei loro
metodi».
«Questo emerge da tutto ciò che precede, ma vorrei arrivare a una
spiegazione conclusiva: che cosa bisogna pensare della luce nelle opere
occidentali, perché in esse la luce sicuramente c’è, addirittura colpi, spruzzi di
luce.
«Certo, è una questione essenziale. Ma per rispondere adeguatamente
bisogna sempre ricordare che l’arte occidentale non è stata mai, neanche nelle
sue correnti estreme, coerente fino in fondo.
«La pittura d’icone è un tipo d’arte che si esprime in purezza, nella quale
tutto è uno e unificato: la materia, la superficie, il disegnò, l’oggetto e il
significato del tutto, condizioni di contemplazione; questo collegamento di tutti
gli aspetti dell’icona è conforme all’integralità organica della cultura ecclesiale.
Viceversa la cultura rinascimentale nella sua essenza profonda è eclettica e
contraddittoria, è analiticamente frammentata, composta di elementi fra loro
ostili e tesi ciascuno all’autoaffermazione. Le cose non stanno diversamente
nella sua arte, la quale è alimentata - nonostante neghi l’integralità teocratica
della vita - da succhi che provengono dalle sue radici medievali, e se si fosse mai
staccata del tutto dalla tradizione che la nutriva, sarebbe caduta nella semplice
autodistruzione».
«Vuoi dire che nella pittura occidentale l’oggetto è fine a se stesso e la luce
fine a se stessa e che il loro rapporto è accidentale: l’oggetto è soltanto
illuminato dalla luce, e perciò gli spazi luminosi, gli sprazzi di luce possono
trovarsi dovechessia - sono accidentali rispetto all’oggetto, ma non è accidentale
il loro rapporto reciproco, ed esso determina un altro oggetto, sì, un oggetto fra
gli oggetti - la fonte di luce.
«Con l’unità della prospettiva l’artista vuole esprimere l’unicità dello
spettatore come oggetto, e con l’unità del chiaroscuro l’oggettualità della fonte
di luce. Mi appare ben chiaro il proposito positivistico-livellatore di questa
pittura, per essa non esiste una gerarchia dell’essere e tanto ciò che la luce
illumina quanto ciò che lo spirito contempla, essa vuole identificare con gli
oggetti esteriori, mettendoli sull’unico piano della materialità. Ma come
formulare il proposito inverso?».
«Innanzitutto la stessa pittura occidentale vien meno al suo proposito, essa è
migliore del suo spirito-guida. Infatti benché esalti la prospettiva, nelle sue opere
più alte vien meno consapevolmente alle norme prospettiche. Lo stesso vale per
l’unità dell’illuminazione. Se essa considerasse esclusivamente accidentale
l’illuminazione, se non concepisse affatto come ontologica la luce, e se la forma
illuminata fosse una forma illuminata e basta e nient’affatto un prodotto della
luce - ci sarebbe perfettamente incomprensibile; l’artista considera il rapporto
della luce con la forma come arbitrario, in realtà però non accetta
un’illuminazione qualsiasi, ma una che ha deliberatamente trascelto, perché
sente che soltanto questa modella le forme come si deve. Una sola illuminazione
rivela la forma, un’altra qualsiasi la deformerebbe e ciò significa, per la
sensibiltà segreta dell’artista, che la forma, come fenomeno visivo, gli è data
dalla luce, e che può essere data bene o infelicemente. Ma adesso, che cosa vuol
dire questo “bene”, se non un “ontologicamente” detto semincoscientemente?
Perciò si esige che almeno l’artista profondo violi, consapevolmente violi l’unità
del chiaroscuro, che almeno la modellatura delle forme sia quant’è possibile
sostanziale».
«È come se questa modellatura delle forme fosse opera della luce».
«E provenisse dalla luce. Molti sentivano più o meno questa metafisica della
Chiesa, ma per alcuni, sinceramente artisti e abbastanza incuranti della
precisione scientifica rinascimentale, questa modellatura a partire dalla luce
veniva del tutto spontanea, e allora la questione dell’unità chiaroscurale era
completamente accantonata. Rembrandt, che cos’è se non dell’altorilievo di una
materia luminosa? Porre ancora la questione dell’unità prospettica e dell’unità
chiaroscurale qui sarebbe assurdo. Lo spazio qui è chiuso e non esiste una fonte
di luce; tutte le cose sono viluppi di luminescenze, di materia fosforescente».
«E l’icona tenderebbe per caso a questa fosforescente luminescenza?».
«Certamente no, poiché in Rembrandt si esprime in modo particolarmente
velenoso l’autoilluminazione rinascimentale del mondo e Rembrandt sta alla
sobrietà olandese come Böhme a Kirchhof e Herz. La pittura d’icone raffigura le
cose come prodotti della luce, e non come illuminate da una fonte di luce,
mentre in Rembrandt la luce non è l’oggettiva causa delle cose, né le cose sono
prodotte dalla luce, ma l’essenza è la prima luce, l’autoilluminazione della
tenebra primordiale, dell’Abisso, l’Abgrund böhmiano. Questo panteismo è
l’altro polo dell’ateismo rinascimentale».
«Ma è notevole, che in contrapposizione all’illuminazione razionalistica
italiana (escludendo in parte il magismo di Leonardo), il Nord in genere tenda
alle fosforescenze panteiste.
«È caratteristico altresì che questa autoilluminazione del mondo si unisca qui
alla negazione dell’ascesi e che per l’illuminazione non ritenga necessaria la
santità, come in genere nella mistica tedesca l’altezza e il valore dell’intelletto
non è in rapporto con l’altezza spirituale, ma piuttosto con un affinarsi della
carne. Rubens è un limpido esempio di quest’autoilluminazione della carne
greve e densa. Credo che non metterai in discussione questa autoilluminazione in
Rubens; ma mi sembra che tu non abbia fatto attenzione al profondo rapporto sia
di Rubens sia di Rembrandt con la struttura spirituale della scuola olandese:
l’enigmatico Rembrandt ha innumerevoli compagni fra i pittori olandesi di
nature morte.
«Mi sono suonate strane le tue parole sulla sobrietà olandese; oh grappoli
deliziosi, pesche e mele, verdure e pesci - anche se si chiamano naturalistici, non
sono forse una metafisica? Certo, certo che lo sono - ecco l’idea del grappolo,
l’idea della mela, ecc. E tutto in maniera perfettamente rembrandtiana si illumina
da sé...».
«Il momento dell’autoilluminazione non lo nego in queste nature morte; ma
in contrasto con Rembrandt, questa frutta e verdura mi sembra che abbia un
giusto rapporto col mondo: in essa c’è qualcosa della pittura d’icona, qualcosa
che è opera della luce. Come che sia, l’unità chiaroscurale e il rapporto esteriore
della luce con la forma qui è assente; come ricordi, noi si poneva il problema
della tendenza della pittura occidentale e si contrapponeva ad essa, e non alla
pittura stessa, la pittura d’icone ossia la sua tendenza - nel caso presente le due
sono uguali.
«La pittura d’icone vede nella luce non qualcosa di esteriore rispetto alle
cose, ma neanche l'identità esistenziale intima della loro sostanza: per la pittura
d’icone la luce regge e crea le cose, ne è la causa oggettiva, che perciò non può
considerarsi soltanto esterna, ne è il principio creativo trascendentale, che in esse
si manifesta ma non si esaurisce».
«Davvero, la tecnica e i mezzi della pittura d’icone sono tali che ciò che
rappresentano non si può concepire se non come prodotto della luce, e la radice
della realtà spirituale rappresentata non può che apparire come l’immagine
portatrice della luce sovra terrena, lo sguardo luminoso, l’idea. Ma questa è forse
soltanto un’impressione contingente, un genere di illusione metafisica, una
sovrastruttura della tecnica della pittura d’icone, infine, qualcosa che il pittore
d’icone non si propone, oppure è una vera metafisica, consapevolmente espressa
per mezzo dell’icona?».
«Ma davvero sussiste questo tuo dilemma? Domandi se la metafisica
dell’icona sia un’illusione e di conseguenza non meriti una discussione teoretica
in quanto priva di un valore razionale, ovvero se davvero fu seguita nell’icona
una teoria astratta e se di conseguenza l’icona sia da considerare una specie di
allegoria. Tu mi metti a un bivio di dove, che io vada a destra o a sinistra, non
posso che arrivare ad un unico esito».
«Quale?».
«Alla negazione dell’icona come attestazione visiva dell’altro mondo. Se
affermo che la metafisica dell’icona è illusoria - tolgo l’anima all’icona e la
rendo meramente sensibile; e se parlo della deliberata intenzione della sua
tecnica - il risultato è lo stesso. Sicché, comunque, l’icona stessa diventa priva di
maestà, tutta sensibile, materiale, mentre il suo contenuto spirituale diventa
astratto, astratto dalla sua esistenza visiva, nell’un caso per la sua incorporeità,
nell’altro per la sua deliberatezza. Viceversa, il significato dell’icona - nella sua
intellettualità visibile o intellettuale visibilità - è l’incarnazione. Non so se ti è
chiara la rinuncia a cui mi costringi con i tuoi quesiti disgiuntivi; ma a me appare
ben chiara e piuttosto che l’icona, preferisco negare i tuoi problemi».
«Non mi è passato per la testa di dare un significato così catastrofico al
problema, e resta da capire da che cosa precisamente nasca un tale pericolo».
«Silenziosamente si è insinuata l’idea che la metafisica sia astratta, l’idea
della metafisica come pensiero astratto. La causa è il radicale rifiuto del pensiero
religioso o più precisamente dell’intelletto ecclesiale e delle strutture astratte
come tali. La Chiesa nega il significato spirituale d’un pensiero che non poggi su
una concreta esperienza che fondi la metafisicità della vita e la vitalità della
metafisica. Quando il discorso verte in modo speciale sul contenuto metafisico di
questo o di quel fenomeno visivo, lo si interpreta come il parallelismo e la
connessione di due manifestazioni d’un’unica e identica esperienza concreta. Tu
hai parlato di metafisica e di pittura d’icone; ma nell’esperienza concreta che è il
punto d’appoggio dell’una e dell’altra non c’è né un pensiero astratto intorno alla
natura delle cose né l’identità sensibile di colori e linee come tali, bensì
un’esperienza spirituale...».
«Stai parlando dell’apparizione del sacro?».
«Sì, parlo di apparizione. Ma per evitare un’interpretazione ambigua che
confonda apparizione e apparenza, diciamo rivelazione, rivelazione del sacro.
Sia la metafisica sia la pittura d’icone poggiano su questo fatto intellettuale o
intelletto effettuale: nella rivelazione dall’alto non c’è niente di semplicemente
dato, di non compenetrato di un significato, come non c’è neanche nulla di
astrattamente edificante, ma tutto è significato incarnato e visibilità intelligibile.
Fondata su questa rivelazione, la metafisica cristiana non perde mai concretezza
e perciò sempre la accompagnerà la pittura d’icone, e il pittore d’icone,
fondandosi sulla stessa rivelazione, non usa di una mera tecnica priva di
significato metafisico. Per il fatto che il filosofo cristiano coscientemente
paragona l’ontologia alla pittura d’icone, non è detto che userà i termini e le
immagini di questa; e il pittore d’icone esprime l’ontologia cristiana senza
conoscerne preventivamente la dottrina, ma filosofando con il suo pennello. Non
a caso le antiche testimonianze chiamano i sommi maestri della pittura d’icone
filosofi, benché nel senso della teoria astratta essi non abbiano scritto una sola
parola. Ma con le luminose visioni celesti, questi pittori d’icone testimoniarono
del Verbo incarnato con le dita delle mani e veracemente filosofarono coi colori.
Soltanto così si comprende l’affermazione ripetuta innumerevoli volte dai Padri,
risolutamente autenticata come vera nelle decisioni del Concilio ecumenico,
intorno all’equivalenza dell’icona e della predicazione: la pittura d’icone per gli
occhi è come la parola per le orecchie. Così non perché l’icona ripete
fondamentalmente il contenuto di un discorso, ma perché sia l’icona sia il
discorso come loro oggetto immediato da cui sono inscindibili, nella cui
enunciazione è tutta la loro essenza, hanno un’unica e identica realtà spirituale.
La testimonianza sul mondo spirituale è, secondo la concezione di tutta
l’antichità, la filosofia. Ecco perché i veri teologi e i veri pittori d’icone si
chiamano ugualmente filosofi».
«Sicché vuoi dire che la pittura d’icone è una metafisica, come la metafisica
è per sua natura pittura d’icone della parola».
«Sì, e perciò si può constatare un parallelismo costante delle due realtà anche
se esso non è consapevole o per meglio dire intenzionale. Così nello stile: è
sintomatica l’equivalenza del barocco linguistico alla teologia del secolo XVII, e
ancor più del secolo XVIII e mi sembra evidente l’inturgidirsi dei trattati
teologici e dei sermoni del tempo, che fa pensare alle pieghe complicate di
drappeggi e al movimento d’una danza cerimoniale; c’è una corrispondenza del
genere in ogni epoca e il tema delle intime corrispondenze fra teologia e pittura
d’icone - nel contenuto come nello stile - attende il suo ricercatore. Ma ora
vorrei segnalare la cosa capitale - la metafisica della luce, perché essa è la
caratteristica fondamentale della pittura d’icone».
«Mi consta che nell’antichità anche precristiana si consideravano supreme e
del massimo valore conoscitivo le percezioni visive e auditive. Quando Eraclito
afferma: “Occhi e orecchie - testimoni malsicuri”, vuol dire “perfino gli occhi e
le orecchie”: ogni percezione sensibile. Mi consta altresì la maggior
considerazione di cui godeva per lo più nella filosofia greca la vista rispetto
all’udito. È una nota caratteristica del pensiero greco il basarsi infatti sulla vista,
per cui anche nella concezione spirituale platonica le cose sono determinate
come visione, εĩδος, e non come audizione, fiuto, ecc. Infine, la suprema
intellezione metafisica dei princìpi dell’essere nella filosofia antica è
caratterizzata come illuminazione. Tutta l’ontologia platonica era costruita sullo
schema visivo, mentre tutta la realtà che ci circonda era considerata mescolata,
congiunta, amalgamata alla tenebra - al non essere -, viceversa l’essere era della
specie ovvero idea, la cui causa metafisica era considerata il sole del mondo
intelligibile, l’idea del bene o il bene, cioè la fonte della luce. Per chiunque si sia
accostato a Platone non può non essere evidente la concretezza della concezione
di questa luce intellettuale per lui e il carattere non accidentale di questa
concretezza, dato che egli si fonda sull’esperienza misterica.
Su questi temi ci si può dilungare parecchio, ma vorrei fare una premessa: tu
accetti la dottrina ecclesiale, legata alla tradizione platonica, vicina a questa
cerchia d’idee?».
«Sì, e qui è importante l’uso delle parole: nel linguaggio ecclesiastico quello
delle parole composte con “luce”, come “portatore di luce”, “figura di luce”,
“affermazione luminosa”, “datore di luce”, “principio luminoso”, “rivelazione di
luce”, ecc., ecc.; ce ne sono per lo meno diverse centinaia, per non parlare poi
degl’innumerevoli casi di altri usi della parola “luce”. È abbastanza significativo
che in un’opera letteraria primeggi questa o quella immagine, questa o quella
parola, che l’opera sia scritta per amore di questa o quella parola e immagine o
gruppo di parole e immagini, nelle quali si deve ravvisare il germe dell’opera...».
«E questo posto di parola-germe nelle opere ecclesiali, specie teologiche,
spetta certo a “luce”. Non c’è dubbio su questa preminenza della tonalità
luminosa nelle creazioni liturgiche. Ma ci terrei ad approfondire meglio e
quant’è possibile in breve la dottrina metafisica che così si esprime».
«Non rammenti la sintesi che ne fa l’Apostolo». «E precisamente?».
«Πᾶν γάρ τό φανεροῦμενον φῶς έστιν: “Tutto ciò che è manifestato è luce”
(Ef. 5, 13). Cioè tutto ciò che viene manifestato è luce, o per dirla in altro modo,
il contenuto di ogni esperienza, cioè, ogni essere è luce. Ciò che non è luce non è
manifestato, cioè non è realtà. La tenebra è sterile e perciò “le opere di tenebra”
sono chiamate dall’Apostolo “sterili” - τοĩς έργοις τοĩς ακάρποις τοῦ σκότους
(Ef. 5,.1.1). La tenebra è privazione, priva, cioè fuori di Dio, posta fuori.
«Ma in Dio tutto è essere, tutto è pienezza di realtà, mentre ciò che si situa
fuori di Dio è la tenebra dell’Ade, è nulla, non essere. Sì, certo, Ade o Aide
(άδης, άϊδης) perfino etimologicamente significa senza (α-) specie, visibilità: ciò
che è privo di visibilità, che sostanzialmente è invisibilità, tenebra. La realtà è
specie, idea, sembianza, mentre l’irrealtà è senza specie, senza visibilità: Ade,
tenebra.
«Tutto l’esistente ha anche un’energia attiva con cui autoattesta la Sua realtà;
ma ciò che non si può muovere, non è nemmeno reale, come dicono i Santi
Padri: “soltanto il non essere non ha energia”. La tenebra, secondo l’Apostolo
compie atti sterili, non reca frutto, quindi la tenebra è priva di energia. Essa è,
nel senso proprio della parola, nulla, morte; la luce suscitata in essa crea qui o
estrae dalla morte “il figlio della luce” ed egli dà frutti “in ogni benedizione e
verità e giustizia; cercate ciò che è grato a Dio” (Ef. 5, 9, 10).
«Sicché il frutto delle opere della luce è la ricerca o indagine (δοκιμάζοντες)
della volontà divina, cioè delle norme ontologiche dell’essere. Questo è la
denuncia di tutto, cioè la conoscenza della discrepanza tra il mondo inferiore e il
suo fondamento spirituale - la sua idea, la sua sembianza divina - e questa
denuncia è fatta dalla luce (Ef. 5, 13)».
«Parlando in generale, certo, non c’è dubbio che “tutto ciò che è manifestato
è luce”, secondo la dottrina della Chiesa. Ma è forse possibile prendere alla
lettera queste parole, interpretarle nel senso ontologico e della pittura d’icone,
estraendole dal loro contesto nell’Epistola agli Efesini? Mi sembra che ci
possano essere almeno due opinioni intorno al giusto significato dottrinale, ma
non sull’ontologicità. Fa’ attenzione al contesto di questo quinto capitolo
dell’Epistola: l’Apostolo ammonisce gli Efesini a “procedere nell’amore”, a
evitare con cura la fornicazione e ogni impurità, i discorsi disonesti, stolti, il
ludibrio, a non ubriacarsi di vino ma a sottomettersi l’uno all’altro nel timore di
Dio; inoltre comanda alle donne di sottomettersi ai mariti; nel sesto capitolo
insegna i doveri tra figli e genitori, signori e servi. Perciò anche la massima
“tutto ciò che è manifestato è luce”, diventa per l’Apostolo una spiegazione del
perché i figli della luce hanno la forza e il dovere di smascherare le opere della
tenebra, ed ha anche il significato di una moralità edificante».
«Il tuo avvertimento è giusto ma non esauriente. Tu rinvii al contesto, ma
allora mi viene da fare altrettanto, riferendomi al posto che questo capitolo, il
quinto, occupa nel complesso dell’Epistola. Preliminarmente però un
avvertimento: non voglio discutere, indicherò soltanto quel che sento.
«L’Epistola è rivolta agli abitanti di Efeso, famosa per la sua arte e il culto di
Artemide; questa città era centro di magia e di produzione di idoli, perfino dagli
Atti si apprende d’un caso di rivolta popolare istigata da Demetrio Argentario e
sicuramente da altri artigiani, quando la propaganda cristiana cominciò a
danneggiare lo smercio delle loro produzioni. Nell’Epistola agli Efesini sento
una nascosta polemica contro questa dissennata azione della paganità efesina, a
cui l’Apostolo allude con l’immagine della scultura; all’ispirata arte di Dio
allude viceversa con l’immagine della pittura antica, tecnicamente identica a
quella che divenne la successiva pittura d’icone. Nell’apostolo Paolo, come
ebreo, e per giunta con un’istruzione superiore, gl’idoli non potevano non
suscitare un orrore fisico, mentre la pittura, specie quella dell’antichità,
incomparabilmente più simbolica e per essenza lontana dalla somiglianza
naturalistica, era più accettabile, e la sua tecnica del modellato luminoso si
accordava con la dottrina biblica della creazione del mondo e con l’ideologia
platonica, vicina alla teologia ebraica e per l’essenza del suo contenuto e
storicamente, secondo la tradizione di Filone.
«All’arte visiva fa da antitesi ideale l’arte tattile, e pertanto all’arte della luce
l’arte della tenebra. È ben noto il significato predominante del tatto nell’arte
precristiana e quindi il particolare nesso di questa facoltà con il paganesimo.
D’altro lato dagli scritti patristici emerge ancora meglio il rapporto particolare
del tatto, rispetto alle altre facoltà, con l’àmbito in cui si viola la purezza.
Queste e altre considerazioni del genere non potevano non essere presenti in
qualche modo sia alla memoria dell’autore dell’Epistola sia a quella dei suoi
lettori. A tal punto che dove l’Apostolo vuole edificarli, propone ad essi la
contrapposizione da un lato dell’opera pittorica, come fruttuosa arte della luce,
dall’altro della scultura, opera infruttuosa della tenebra...».
«Dovevi indicare il posto di questi sermoni nel complesso dell’Epistola...».
«Di questo appunto sto parlando... E, in secondo luogo, c’è l’immagine del
sommo Artista, che con la luce mantiene “nella lode della gloria della Sua
misericordia” (Ef. 1, 6) la figura del mondo - tutta l’economia divina. E quando
l’Apostolo parla della nostra scelta nel Cristo all’inizio, prima della edificazione
del mondo (Ef. 1, 4) e conclude ammonendo di diventare prole della luce, di
rivelare concretamente l’immagine di questa prole, non fa che procedere in
grande con noi come in piccolo fa il pittore - incominciando dal profilo
preliminare - segnando in oro le future immagini e finendo di rivelarle con la
luce e con l’oro delle sottolineature [razdelka] illuminando le raffigurazioni di
questi figli della luce.
«Obiettavi all’ontologicità della dichiarazione apostolica. Rispondo: la
Chiesa in genere, nei suoi gradi supremi è fuori della morale, e se si parla
ecclesialmente di condotta è soltanto in senso ontologico, di ontologia della vita
e non moralisticamente e ancor meno giuridicamente. Questa estraneità alla
morale è tipica specie dell’apostolo Paolo, particolarmente in questa epistola,
dato il suo argomento. Chi più dell’apostolo Paolo senti la vanità e il pericolo
spirituale delle “opere della legge”, degli sforzi di salvezza morale? Poteva
proprio lui, dopo ciò che gli era accaduto, porre delle norme di condotta esteriore
e al di fuori della fede in Cristo, cioè dell’alimento ontologico della Sua
pienezza?
«Nell’Epistola agli Efesini risaltano tre particolarità che la distinguono
nettamente da tutte le altre.
«La prima di queste particolarità è l’altezza del contenuto, cui sono
corrispettivi il discorso rapito e il pensiero molteplice. Scrive san Giovanni
Crisostomo: “Si dice che san Paolo, quando ancora a viva voce catechizzava gli
Efesini, già confidava loro le verità più abissali della fede. Certamente la
pienezza delle supreme e inesplicate contemplazioni, delle quali egli spiega ciò
di cui non ha scritto quasi da nessuna parte”... La visione delle beatitudini
infinite di cui fummo fatti partecipi in Gesù Cristo esalta l’Apostolo e in lui gli
splendori del pensiero e del sentimento sono a tal punto traboccanti, che non
riesce a fissarli nella parola. I pensieri fluiscono sui pensieri irrefrenabilmente, in
sul momento non esauriscono tutto il tema dell’ispirato Apostolo, sicché la
parola si moltiplica, perché all’Apostolo preme soltanto di profilare tutto
l’argomento speculativo, senza indugiare, tuttavia, su di esso in particolare, ma
incanalandolo nell’alveo generale delle visioni intellettuali che scorrono
attraverso la coscienza. Valutando in base a tale carattere il contenuto
dell’Epistola e in base a tale tono il suo discorso, l’Epistola fra le altre
dell’apostolo Paolo è ciò che il Vangelo di Giovanni è fra gli altri Vangeli.
«La seconda particolarità di questa Epistola - conseguenza diretta della
precedente - è la comunitarietà. L’Apostolo dipinge l’essenza generale del
Cristianesimo: come nei secoli Dio dispose di salvarci nel Suo figliolo, come il
figlio di Dio venne sulla terra e attuò questa salvezza, come noi tutti diventiamo
partecipi di questa salvezza e come di conseguenza dobbiamo vivere e
comportarci. Ma egli non dà disposizioni per dei casi storici. Tutto ciò che egli
dice può applicarsi a ogni società cristiana. C’è una sola distinzione di persone
visibile dalle parole “noi” e “voi”. “Noi” sono gli ebrei e “voi” i pagani, la
confluenza dei quali nell’unico corpo della Chiesa intorno al Signore è anche il
punto di partenza dei rapimenti dell’Apostolo in contemplazione. Essendo
fondato su questa comunità il contenuto dell’Epistola, taluni l’hanno chiamata il
catechismo comunitario cristiano.
«Terza particolarità dell’Epistola è che in essa non c’è un riferimento a
circostanze storiche quali che siano, né relative all’Apostolo né agli Efesini...
“All’Apostolo non premeva di arrivare a una qualche norma comune, fra tali non
comuni, universali contemplazioni, con le quali restava certamente in contatto
mentre le esponeva in parole...” (Vescovo Teofan, Esposizione dell’Epistola del
santo apostolo Paolo agli Efesini, 2 ed., Mosca, 1893, pp. 19-20). Tutta
a

l’Epistola è un’implorazione per gli Efesini “che Dio dia loro l’illuminazione
degli occhi del cuore” (ibid., p. 109).
«L’Apostolo desidera che essi siano elevati a una chiara visione spirituale,
all’ordine divino delle cose (all’economia della salute), quant’è possibile per noi
sulla terra; perciò egli desidera “che essi vedano ciò che egli vede, e visione
maggiore di quella dell’Apostolo non ci fu né ci sarà” (ibid., p. 109).
«In vista di questo fine l’Apostolo nella prima parte spiega il mistero della
salvezza e nella seconda descrive la crescita del corpo di Cristo e la sua vita, e
questa parte dottrinale - nel complesso e nelle parti - è esposta come concreta
manifestazione dell’ontologia della salvezza, tutta l’estensione del tempo come
un fondo oro si apre alla contemplazione spirituale, e i particolari della vita
appaiono dinanzi alla coscienza del lettore come applicazioni e disvelamenti
dell’ontologia. E nel nostro caso: non le parole “tutto ciò che manifestato è luce”
vanno intese nello spirito delle regole di condotta, moralmente, ma, anzi, il senso
di queste ultime è determinato totalmente dal significato ontologico, secondo
l’Apostolo, della luce.
«Con esattezza assoluta l’Apostolo testimonia dell’ontologica realtà
dell’altro mondo, visto da lui coi suoi stessi occhi, ed egli vuole che la sua
testimonianza diventi seme di tali contemplazioni presso i fedeli. È del tutto
naturale che la frammentariamente espressa testimonianza intorno alla visione
spirituale si ritrovi nella più precisa formulazione della seconda testimonianza
sul mondo spirituale - la pittura d’icone».

La maschera aveva perduto il suo ruolo, e nel suo cadavere continuavano ad
abitare potenze religiose aliene, impartecipi. Il contatto con la maschera diventò
contaminante; di qui le severe disposizioni ecclesiastiche contro le mascherate e
i travestimenti. Ma la sostanza spirituale d’un fenomeno culturale, e tanto più
cultuale, non muore, si trasforma, riprende in nuove forme la sua creatività
culturale e attraverso ad esse spesso si manifesta più perfettamente di prima. In
questo caso l’essenza sacra della maschera non soltanto non sparì con la
decomposizione della sua forma anteriore, ma, liberatasi di quel cadavere, si
creò un corpo artistico: l’icona. L’icona culturalmente e storicamente ereditò la
funzione della maschera rituale, elevando al massimo grado questa funzione - di
mostrare passato nell’eterno riposo e deificato lo spirito del defunto. E avendo
ereditato questa funzione, l’icona insieme ad essa adottò la tecnica particolare
caratteristica della preparazione della maschera sacra e i fenomeni culturali
connessi, e perciò anche il patrimonio di una millenaria elaborazione dei metodi
artistici. Storicamente c’è una connessione assai stretta fra l’icona e l’Egitto, e
qui difatti l’icona origina, come qui sorgono le forme fondamentali della pittura
d’icone. S’intende, questo complesso problema della genesi storica della pittura
d’icone, su cui influirono i massimi risultati dell’arte di tutto il mondo,
prospettato così, è soltanto uno schema; ma pur nella sua succinta formulazione
forse questo schema è il più esatto. Di conseguenza, proprio la maschera egizia -
la decorazione interna del sarcofago di legno dell’antico Egitto, questo involucro
attorno alla mummia, che doveva rappresentare il corpo fasciato col volto
scoperto -, è la prima primordiale pittura d’icone, e così la pittura della mummia
stessa, stretta nelle fasce incollate, sulle quali si applicava un’ingessatura. Ecco
la più antica intonacatura o stuccatura, sulla quale inoltre si dipingeva con colori
all’acquarello. La composizione della materia collosa non mi è nota, ma se vi
rientrava l’uovo, ciò non solo spiegherebbe la tradizione della pittura d’icone, di
cui non è facile dar conto in base a motivi utilitari, ma rientrerebbe nella
simbologia teurgica dell’arte egizia, poiché nello spirito di quella religione della
resurrezione corporea sarebbe stato del tutto naturale verniciare il defunto con
dell’uovo - l’originale simbolo della resurrezione e della vita eterna.
Si capisce che sulle pitture della mummia o del sarcofago non occorreva e
non si dovevano dipingere le ombre, tanto per un principio artistico - dato che la
mummia o il sarcofago erano oggetti corposi - quanto per un principio
simbologico, poiché il morto entrava nel regno della luce e diventava immagine
del dio («Io sono Osiride» - tale la formula sacra della vita eterna, iscritta sul
volto del defunto), e di conseguenza non si doveva dipingere niente di infausto,
di debole, di ottenebrante. Il morto era assopito, aveva accolto in sé il dio,
tuttavia serbava la sua individualità, diventava immagine divina, nimbo ideale
della propria umanità, idea di se stesso, della sua personale essenza spirituale.
Era compito della pittura di mummie configurare appunto questa essenza ideale
del defunto, il quale diventava da allora in poi un dio e un oggetto di venerazione
cultuale.
In altre parole questa pittura doveva accentuare i tratti ideali del defunto,
elaborare il volto empirico fino alla pura rivelazione, in esso, dell’umanità.
Pertanto quest’arte non era concepita come una ritrattistica, che si adeguasse al
volto, ma come la pittura appunto del volto stesso - col minio o col cinabro - che
aveva nell’antichità il significato fausto di un’idealizzazione. La tecnica della
pittura d’icone ugualmente crea a successive, stratificate accentuazioni - con le
mani di biacca ai panneggi e con l’ocra (vochrenia) ai volti - estendendo
ampiamente l’accezione di questi termini, con la specificazione (opis’) o la
pittura.
Mi vien da pensare che i metodi della pittura d’icone originarono dalla
necessità or ora esaminata per la pittura della mummia, e cioè di dare un rilievo
luminoso possente al volto, che con la sua potenza contrasti con la casualità di
un’illuminazione mutevole e che perciò al di sopra del fondamento empirico,
riveli visivamente qualcosa di metafisico: la forma del volto data dalla luce, ma
non dal chiaroscuro; la luce - non l’illuminazione da sorgenti terrene, ma
l’oceano dell’energia raggiante che tutto compenetra e che pone le forme.
Questo per lo meno ricercava l’arte egizia. Ma il passo successivo verso questa
costruzione fu il passaggio dalla superficie di legno intonacato del sarcofago alla
consimile materia della superficie d’una tavola, e non senza un significato
simbolico era usato il legno di cipresso - antico simbolo di vita eterna e di
immarcescibilità.
In altre parole, per liberarsi anche dei resti di chiaroscuro sulla mummia o sul
sarcofago dipinti, era necessario staccarsi ancora di più dalla forma materiale del
sarcofago come oggetto, e installarsi saldamente sul terreno del simbolismo.
Questo diede modo all’artista di sollevarsi al di sopra della mutevolezza e della
contingenza della luce terrena. Come è noto, a parte l’icona, ma limitatamente
anche prima dell’icona, questo passo fu fatto col ritratto dell’epoca ellenistica,
che in parte deviò dalla via diritta che doveva portare all’icona, con l’uso dei
colori di cera e dei mezzi illusionistici, benché l’illusionismo di questi ritratti si
unisse all’idealizzazione, e in parte preparasse la strada alla pura pittura d’icone.
È possibile che lo stesso illusionismo di questi ritratti vada interpretato non come
loro scopo diretto, ma come sopravvivenza della precedente superficie scolpita
del sarcofago. Pur aspirando al simbolismo e all’abbandono della carne non
trasfigurata, il ritratto ellenistico non si decise subito a strapparsi alla superficie
materiale del sarcofago e si convinse che fosse necessario darne un equivalente
pittorico, benché l’ulteriore compito dell’arte sacra fosse la liberazione anche da
ciò. Allorché si sviluppò la pittura d’icone, a tutta prima, per quanto si sa, non fu
priva di affinità con la ritrattistica ellenistica. Ma d’altro canto non si deve
dimenticare che neanche il ritratto era tale nel senso nostro: era, benché
avanzasse sulla strada del simbolismo, del tutto uguale alla maschera mortuaria.
Come è noto, questo tipo di ritratto per pietà si faceva dipingere già durante la
vita, ma in vista del futuro sepolcro, e dopo il decesso si metteva in
corrispondenza del volto nel sarcofago, ed era dipinto artigianalmente, in modo
approssimativamente somigliante all’aspetto del defunto (sesso, età, posizione,
fortuna, ecc., ecc.). In tal modo il ritratto ellenistico fu un genere d’icona del
defunto, e a questa icona senza dubbio fu dedicata una venerazione cultuale.
Senza dubbio mantennero l’uso di questi riti funebri anche gli Egiziani cristiani,
nella cui coscienza l’idea e il significato del rituale funebre egizio non solo non
furono sovvertiti, ma anzi ricevettero una conferma dalla “buona novella”,
risultandone rafforzati e approfonditi. E se tutti i trapassati cristiani, “santi”,
secondo l’Apostolo, erano oggetto di culto, questo spettava tanto più agli
eccezionali testimoni della vita eterna, accanto ai cui resti si passava la notte in
veglia e sopra i quali si celebrava il mistero del Corpo e del Sangue, che nutre
nella vita eterna. I ritratti funebri di questi ultimi naturalmente avevano la qualità
di icone, nel senso più stretto. Interroghiamoci adesso sulla metafisica delle
icone - che essa sia una metafisica egizia, precristiana o cristiana è indifferente.
Se la pittura della mummia copriva il corpo del defunto tramutato in
mummia, ma il corpo si giudicava legato al principio della vita, era forse
possibile giudicare questa pittura del volto come un fine in sé e non in rapporto
al volto? Era forse possibile nell’espressione «pittura del volto» far cadere
l’accento logico non sull’infinitamente maestoso, buono e santo «volto», ma
sulla secondaria, stesa sul primo, sulla fisicamente e metafisicamente vuota
«pittura»? Sicuramente no, sicuramente indicando questa pittura, questa
maschera sepolcrale, il familiare o l’amico diceva (e diceva bene): «Ecco mio
padre, fratello, amico» e non: «Ecco i colori sul volto di mio padre» o «Ecco la
maschera dell’amico», ecc. Senza dubbio, per la coscienza religiosa la pittura o
la maschera non si distingueva dal volto e non gli si contrapponeva, essa si
pensava con e in rapporto ad esso, come avente senso e valore attraverso la sua
connessione con esso. Questa maschera era non una riduzione del defunto, ma
una rivelazione di lui nella sua essenza spirituale, più chiara, più immediata
dell’apparenza del volto stesso.
La maschera nel culto dei morti era in verità la rivelazione del morto e
inoltre una rivelazione celeste, piena di maestà, di divina grazia, esente dai mali
terreni e illuminata dalla luce celeste. E l’uomo antico sapeva: in questa
maschera mi si rivela l’energia spirituale del morto stesso, che è in essa e sotto di
essa. La maschera del morto - era il morto stesso, non soltanto in senso
metafisico, ma anche fisico; egli è qui, egli stesso ci mostra il suo sguardo. Altra
ontologia non poteva esserci neanche presso gli Egiziani cristiani: anche per loro
l’icona era un testimone non mediante la rappresentazione, ma mediante il
testimone stesso, mediante essa e attraverso a essa, per tramite di essa
testimoniante. Così è anche se - forse perché questa ontologia è, innanzi tutto,
l’espressione di un fatto: l’icona sta sul corpo del testimone stesso, e ogni altra
idea su questo fatto, benché in astratto sia anche possibile, a un fine particolare
qualsiasi, in concreto, vitalmente possibile non è, e sarebbe contraddizione col
modo naturale di sentire.
Inoltre, questo fatto fisico può mutare, essere alterato, ma la sua essenza
spirituale non ne resta scalfita. Non appena si sia consapevoli del nesso
ontologico fra l’icona e il corpo, e del corpo con il sacro stesso, il grande divario
fra l’icona ed il corpo, perfino l’attuale aspetto fisico del corpo al momento
presente, non ha più importanza, e il nesso, concepito come ontologico, non è
cancellato dal notevole divario fra l’icona ed i resti del corpo o perfino l’integrità
di questi resti. Dove non ci sono reliquie d’un santo e dove non c’è la possibilità
di conservarle, il suo corpo è risorgente e trasfigurato nell’eternità, e l’icona,
mostrandocelo tuttora, non rappresenta il santo testimone ma è testimone. Non è
essa come monumento dell’arte cristiana che occorre studiare, ma ciò che lo
stesso santo con essa c’insegna. E in quel momento in cui un sia pur sottile
scandalo rompesse il rapporto ontologico dell’icona con il santo stesso, egli si
sottrae a noi nel luogo irraggiungibile, e l’icona diventa una cosa fra le altre
cose. In questo momento il nesso vivente fra il celeste e il terreno, che è la
religione, in questo luogo della vita si è sciolto, una macchia di lebbra
mortalmente essendosi associata al luogo della vita, e allora deve sorgere
l’angoscia, come se questa frattura non fosse già avvenuta.
1)
Così in V. Golzio, Raffaello, Città del Vaticano, 1936, p. 31. Ma
il Florenskij dovette servirsi di una versione infedele, per cui
attribuisce a Raffaello queste parole: «mi attengo a un’immagine
misteriosa che mi visita talvolta l’anima». Ritengo che la sua
fonte fosse l’opera di W.H. Wackenroder e L. Tieck,
Herzensergiessungen eines kunstliebenden Klosterbruders,
Berlin, 1797 [N.d.T.]. ↵
2)
Florenskij riferisce da un supposto manoscritto del Bramante. Sì
è tradotto come discorso indiretto, non risultando il testo fra le
collezioni consultate di scritti bramanteschi [N.d.T.]. ↵
3)
Geremia 48, 10 [N.d.T]. ↵
4)
Da questo punto in avanti, fino a p. 185, comincia un dialogo tra
Florenskij e un interlocutore, forse la stessa persona che
trascriveva le sue parole. Il testo russo non dà indicazioni in
proposito [N.d.T]. ↵
5)
S’interrompe il ms. [Nota del Curatore russo]. ↵



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