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Breve storia della giustizia in Grecia

La riflessione sul problema della giustizia percorre costantemente il mondo greco, dall’età arcaica
all’ellenismo, ed è attestata dalla consuetudine linguistica ben prima di affermarsi nella
concettualizzazione filosofica. Secondo Havelock1, il concetto filosofico di giustizia non sarebbe
presente ancora in nessuno dei presocratici e si formerebbe a causa della tendenza progressiva a
sostanzializzare l’attributo dàkaioj; del resto, qualcosa di analogo avverrebbe per il modo greco di
concepire il divino, vale a dire innanzitutto come attributo piuttosto che come soggetto: secondo
Donini2, un dio sarebbe tale in quanto divino, provvisto cioè di prerogative divine, e non, al
contrario, divino perché dio. Più in generale, però, il riferimento alla giustizia e alle proprietà
correlate (ordine, misura, armonia, equilibrio) traspare in tutta la sua evidenza nella cosmogonia e
nella cosmologia elleniche, in primo luogo nella transizione dal cßoj originario al k’smoj che, nella
narrazione esiodea, si afferma compiutamente con l’avvento al potere di Zeus e della generazione
delle divinità olimpiche. La giustizia imposta da Zeus consiste nell’ordine imposto al mondo da un
legislatore, quindi dall’esterno; è, forse, questa la differenza più radicale rispetto al punto di vista di
Anassimandro, che concepisce la Dàkh come un principio intrinseco, connaturato al Cosmo e alla
sua natura divina. Secondo Anassimandro, la nascita, intesa come limitare e definire
l’indeterminato, comporta fatalmente la dissoluzione: la genesi del particolare è un tradimento e
l’esistenza stessa del molteplice la colpa, da espiare di necessità, ripristinando l’equilibrio. Nella sua
traduzione, Pasquinelli3 rende con pena ed espiazione dell’ingiustizia i termini dàkh e tàsij per
sottolineare il valore compensativo del risarcimento dovuto e mettere così in evidenza il contesto
lessicale e concettuale di natura giuridica di sfondo al frammento. Ma non sono certo i cosmologi
gli unici a confrontarsi con la colpa, la giustizia e la pena, che, del resto, sono strettamente connesse
all’esistenza del bene, del male, del dolore e del castigo e riguardano, dunque, la sfera più personale
e soggettiva di ognuno di noi; un grandissimo contributo alla riflessione sul tema viene infatti dai
tragici e dallo stretto collegamento da essi istituito con il principio di responsabilità. Nell’Orestea,
la trilogia incentrata sulla saga degli Atridi, Eschilo affronta il problema della colpa che grava sul
gûnoj, ripercuotendosi di padre in figlio: una concezione, questa, che esprime una mentalità ancora
arcaica, all’interno della quale i figli devono pagare ed espiare le colpe dei padri perché la
responsabilità è un fattore intergenerazionale e collettivo. Soltanto con Euripide si afferma
compiutamente la responsabilità individuale, l’idea, cioè, che il singolo risponde per sé
assumendosi la responsabilità dei propri atti, peraltro nel contesto di un’aporeticità di fondo rispetto

1
E. HAVELOCK, Dike. La nascita della coscienza, trad. it. M. Piccolomini, Roma-Bari 1981.
2
P. DONINI, Introduzione ad Aristotele, Metafisica, Roma 1995, p. 149.
3
A. PASQUINELLI, I Presocratici, Torino 1958.
alla dimensione religiosa in cui l’ordine impartito dalla divinità spesso non è secondo saggezza e si
rivela, così, un condizionamento insopportabile da cui tuttavia non è ugualmente possibile sottrarsi.
Quella tra giustizia e ingiustizia non è, però, l’unica dicotomia: ve n’è infatti almeno un’altra, più
grave perché interna alla nozione di giustizia e dipendente, anzi, dallo scontro tra due concezioni fra
di loro irriducibili del comportamento giusto per definizione, vale a dire il rispetto della legge. E’
Sofocle che, nell’Antigone, pone il problema se bisogna obbedire ai n’moi della città o, piuttosto, alle
leggi non scritte del qum’j e del sangue, qualora non vi sia conciliazione possibile bensì aperta
contraddizione fra i due termini. Coraggiosamente, Antigone, non a caso una donna, sfida il decreto
del tiranno e offre sepoltura al corpo del fratello Polinice; per questo, viene condannata ad essere, a
sua volta, sepolta viva. Secondo un’interpretazione che ha fatto scuola, Antigone è sì un’eroina, ma
non per questo è incolpevole: anzi, è l’alter ego del tiranno Creonte; chiusa in una visione del
mondo inflessibile e univoca, si comporta come un’emarginata sociale e paga la colpa di non aver
neanche tentato di conciliare dialetticamente il suo punto di vista con quello dell’altro, che peraltro
rappresenta la città e, dunque, la collettività. La sepoltura pietosa offerta da Antigone al fratello è,
nello stesso tempo, un atto giusto e ingiusto: dal punto di vista dei legami familiari e dei vincoli del
sangue si tratta di un gesto dovuto, dell’adempimento di un rituale sacro a cui, semplicemente, non
ci si può sottrarre. Ma dal punto di vista delle leggi e della città è invece un atto di ¤brij, l’implicita
rivendicazione che esistono norme diverse e più alte anche di quelle dello Stato; optare per la
propria coscienza e sacrificarle le leggi della città significa così, automaticamente, porsi fuori dal
contesto sociale. E’ esattamente per evitare questo rischio che Socrate sceglie di morire e di
accettare la condanna di Atene. Nell’Apologia di Socrate, Platone ricostruisce il processo a partire
dalle accuse mosse a Socrate dai suoi avversari: i capi d’imputazione sono fra di loro palesemente
contraddittori, poiché al filosofo vengono contestati contemporaneamente l’ateismo e l’introduzione
di nuove divinità, estranee ai culti tradizionali. Nonostante un’autodifesa appassionata quanto
logicamente stringente, Socrate viene condannato a morte: a questo punto, rifiuta la possibilità di
fuggire e beve la cicuta. Non potrebbe essere diversamente; se, come sostiene Aristotele nella
Politica, la cifra dell’umanità si misura nell’appartenenza dell’individuo alla città, la fuga e l’esilio
implicano la rinuncia irreversibile al proprio essere uomo, una morte simbolica non meno
irreparabile di quella fisica. Situarsi al di fuori della città equivale così a varcare un confine al di là
del quale non esistono giustizia e ingiustizia, legge e arbitrio, ordine e confusione: non solo non
esistono, non sono proprio più concepibili, non hanno più senso. Aristotele osserva che al di sopra
della città si collocano gli dèi, al di sotto, invece, i bruti: è solo l’umanità a definirsi nel consorzio
sociale e nel rispetto delle leggi, il che costituisce, al tempo stesso, il limite e la grandezza della
condizione umana, almeno secondo una sensibilità, quella greca, nobile e coraggiosa quanto oggi,
forse, ormai anacronistica e malinconicamente inattuale.

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