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Schiavi delle proprie concupiscenze, come è avvenuto nella loro Vita passata
(Rm 6,12.19; Ef 4,22; Col 3,5-7). I battezzati non devono più conformarsi alle
concupiscenze che li guidavano al tempo della loro ignoranza pagana, quando
seguivano una vana Condotta ereditata dai loro padri (1Pt 1,14.18); la loro condotta
deve essere diversa da quella di un tempo e dal persistente disordine dei pagani (1Pt
4,2-4). Il problema della concupiscenza non è separato da quello del mondo corrotto
e tentatore, perché tutto quello che c'è nel mondo è concupiscenza (1Gv 2,10). I
cristiano non viene immediatamente sottratto, in forza del battesi-mo, all'influsso del
mondo peccatore, che penetra in lui attraverso molteplici strade.
C'è però in lui una forza nuova, che gli permette di resistere alle concupiscenze
che l'hanno soggiogato prima della sua conversione.
È rigenerato a una vita nuova; ormai ha in sé la fede e la carità.
Entra in uno stato di pace con Dio che supera la santità e la giustizia perdute
dopo il dono della creazione. Il battesimo ha comportato un cambiamento radicale,
una morte e una risurrezione (Rm 6,1-11). Ma la vita cristiana deve continuamente
riconquistare ciò che in principio è stato dato. È l'ingresso in una nuova epoca della
storia di salvezza e, tuttavia, non è ancora uscita dall'antica, con la sua dipendenza
nei confronti del peccato. Così Paolo, dopo aver insegnato ai suoi corrispondenti
come fosse assoluto il passaggio operato dal battesimo, ricorda loro che devono
continuamente vegliare per non ricadere in quel peccato che hanno abbandonato
(Rm 6,12-23).
Se il cristiano avverte ancora in sé il fascino del peccato, questo non significa
che sia peccatore, perché ha in sé una carità più forte di questo desiderio
involontariamente subito. Ed è in grado, mediante lo Spirito che lo anima, di resistere
a questa tentazione a cui è esposto. Può osservare i comandamenti di Dio ed evitare
così il peccato grave, come insegna il concilio di Trento (sessione VI, c. 11; Denz,
804/1536-1537).
Il fatto che, nei suoi sensi, nelle sue abitudini di comportamento, nell'adesione
spontanea che egli dà alle opinioni e al comportamento dell'ambiente sociale in cui
vive, ci siano ancora delle resistenze a questa disposizione fondamentale, non
diminuisce il valore di queste virtù, ma offre loro un'occasione di esercitarsi con più
forza.
Bisogna superare la tendenza stoica e ritenere che una condotta morale e
religiosa sia tanto più perfetta quanto più è sotto il controllo completo della volontà e
quanto meno sono presenti nell'uomo elementi discordanti. E bisogna anche
superare una concezione troppo individualista della vita cristiana.
Il battezzato è solidale con una storia, storia di peccato e insieme storia di
salvezza. Attraverso la concupiscenza (che avverte senza consentirvi) egli entra in
contatto con un mondo peccatore, non per sperimentarvi una torbida connivenza, ma
per trovarvi una fonte di compassione per coloro che hanno bisogno di essere salvati
(Cf. Eb 2,17-18). Egli sa di rimanere nel mondo, e che Gesù ha pregato non perché i
suoi discepoli se ne allontanino, ma perche lossero preservati dal male (Gv 17,15).
L'ideale di un assoluto dominio della volontà su tutto cio che costituisce la trama della
vita codividuale appare assai chimerico a chi sa di non potere far diventare bianco o
nero un solo capello (Mt 5,36) o aggiungere un solo cubito alla lunghezza della sua
vita (Mt 6,27). Viviamo in un mondo in cui la nostra libertà è limitata in moltissimi
modi e ha ben poche possibilità di espressione, in un mondo la cui perniciosa
influenza suscita in noi concupiscenze che spingono al peccato.
Ma questa concupiscenza, che rende il male seducente, non è un peccato nel
battezzato che le oppone resistenza. Questo à chiaro, se si riserva il nome di
peccato al movimento della volontà che si ribella a Dio. Anche nell'uso più sfumato,
incontrato in molti testi dell'antico testamento in cui è chiamato peccato ciò che turba
o incrina la vita religiosa e ciò che impedisce la partecipazione al culto rituale, la
concupiscenza non è un peccato perché non nuoce alla vita religiosa profonda di chi
le resiste. Non solo essa non lo trascina fatalmente al peccato, ma gli offre
l'occasione di lottare contro il male e di imparare la misericordia nei confronti di
coloro che sono tentati. Nel non battezzato, invece, la vita religiosa viene talvolta
paralizzata dalla concupiscenza, e il soggetto è schiavo di atti che non condivide (Rm
7,14-17.20).
Tuttavia, se è vero che tra i pagani considerati nel loro insieme la conoscenza
di Dio è degenerata nel politeismo idolatrico, se è vero che c'è tra loro corruzione
morale e consenso al male, è anche vero che questo non è un fatto assolutamente
universale e privo di eccezioni. Degli individui possono, almeno parzialmente,
conoscere la legge divina e praticarla 3 Il giovane pagano incontra nel suo ambiente
elementi buoni e elementi cattivi, spesso indissolubilmente connessi, senza che sia
in grado di separare gli uni dagli altri. Egli vuole quello che di fatto assimila e fa suo;
vuole dunque ciò che è, di fatto, il disordine morale e religioso che regna nel suo
ambiente.
Non è una violenza che gli viene imposta, ma non è nemmeno una libera scelta
che impegna la sua responsabilità.
I vari elementi che sono stati così assimilati possono in seguito entrare in
conflitto. Il soggetto può dunque avvertire dei desideri che gli sembrano una fora
estranea presente in lui, che non può ne approvare, né dominare e con la quale si
trova in segreta complicità. È questa l'esperienza descritta da Ovidio: «Video meliora
proboque; deteriora sequor» e che Paolo interpreta in una prospettiva religiosa:
«sono io e non sono io che voglio e compio il peccato (Rm 7,7-25).
In Israele i salmi di confessione nazionale dei peccati, che passano
dolorosamente in rassegna tutte le mancanze del popolo di Dio, sono animati da due
movimenti di segno opposto: o riconoscere che questi peccati sono anche quelli della
generazione presente:
«Abbiamo peccato con i nostri padri» (sal 106,6), oppure invitare a ricordare
tutti i benefici che Dio ha fatto agli antenati ed esortarsi a vicenda a non imitare le
infedeltà del passato (Sal 78.1-8).
Conclusione
Il peccato originale non deve essere definito, in modo negativo e statico, come
privazione della grazia santificante. È invece la condizione in cui ognuno, attirato, e
trascinato, partecipa al peccato dell'ambiente umano che lo circonda. Ciascuno, sia
attraverso i rapporti affettivi con gli altri, sia per l'assimilazione quasi automatica dello
spirito oggettivo e impersonale depositatosi nel linguaggio, nei costumi sociali, nelle
istituzioni, nel diritto, si inserisce in una storia di peccato dalle mille sfaccettature che
avvolge tutta l'umanità.
Questa condizione ineluttabile è un peccato solo nel senso che la vita religiosa
di ciascuno ne è turbata e distorta. E uno stato volontario in una particolare
accezione di non costrizione. Questo stato di peccato è una perdizione in confronto
(e in contrasto) con la salvezza, di cui i cristiani già beneficiano grazie al battesimo e
alla fedeltà ai loro impegni. Talvolta essa lascia un certo spazio alla conoscenza e
alla pratica effettiva del bene. In ogni modo il non-cristiano non deve essere giudicato
secondo le norme dell'ideale cristiano, e ancor meno ritenerlo Votato alla dannazione
eterna. Soltanto Dio può dare a ciascuno secondo le sue opere, penetrando nel
profondo dei cuori (1Cor 5,13). La trasmissione di questo peccato originale fa si che,
fino alla scomparsa del mondo presente, il buon grano e la zizzania siano
inestricabilmente aggrovigliati nel campo del padre di famiglia (ME 13,36-43).