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La dimensione volontaria nel peccato originale

È dunque inopportuno scartare la spiegazione della trasmissione del peccato


attraverso cause osservabili: le colpe e le corruzioni dell'ambiente sociale. Grazie a
questa spiegazione si può fugare l'impressione di arbitrarietà divina provocata dalle
teorie classiche: la perdita di un privilegio gratuito, a causa del peccato dell’antenato,
faceva sì che anche la sua discendenza ne fosse privata. Il paragone con i diritti
feudali concessi a un suddito dal suo sovrano, che poteva forse essere
soddisfacente nel medio evo (Anselmo, Tommaso d’Aquino), oggi ci sembra
convenzionale e artificiosa.
D'altra parte la spiegazione che abbiamo proposto permette di capire in che
modo il peccato originale può essere volontario.
Siamo qui alle prese con una difficoltà costante di questa dottrina, con la
ragione più decisiva per respingerla in quanto portatrice di una contraddizione
logica.”
Il peccato originale, questo disordine interiore frutto delle carenze della
primissima educazione individuale o dell’influenza nefasta delle perversioni collettive,
non è volontario nel senso di una scelta libera e cosciente. Ma non è contrario alla
volontà come può esserlo, per il desiderio spontaneo di un individuo, la privazione di
vantaggi posseduti dai genitori. I Ogni bambino o ragazzo ha la tendenza
fondamentale a imitare il comportamento che gli viene proposto dall’ambiente
circostante; tendenza che si prolungherà fino all’età adulta, ma che sarà allora
contrastata dalla resistenza di acquisizioni già fatte. Questa tendenza all’imitazione,
all’assimilazione del capitale culturale incontrato intorno a sé, è in se stessa buona. Il
precetto del decalogo «onora il padre e la madre» le conferisce il valore di una regola
di comportamento fondamentale. Questa tendenza si esercita prima ancora che
possa essere proposta da un'autorità esterna. È merito suo se il bambino diventa a
poco a poco pienamente umano.
Lo stato di peccato originale è volontario così come è volontario l'uso della
lingua materna, il cui apprendimento è stato spontaneo, senza essere mai diventato
oggetto di una libera scelta.
Il bambino ha consentito, con un consenso inevitabile, ma non costrittivo, ad
usare questa lingua mentre l'apprendimento di una nuova lingua, è determinato quasi
sempre da una scelta libera. In virtù di questa analogia, o meglio di questo caso
particolare di una legge generale, si può dire che gli uomini sono costituiti peccatori
perché trascinati nel comportamento peccaminoso del loro ambien-te,
comportamento al quale danno un'adesione spontanea, volon-taria, senza che sia
sempre frutto di una libera decisione, comportamento da cui non possono dissociarsi
completamente, qualunque siano le loro sterili velleità. Anche se non è frutto, almeno
all'inizio, di un atto della libertà personale del soggetto che ne è affetto, questo stato
viene chiamato peccato, nell'uso diventato classico della teologia e del dogma
cattolico. L'esatta portata di questo linguaggio non è più universalmente capita, e il
suo uso crea disagi in coloro che, in sintonia con le tendenze moderne, fanno della
libera dimensione volontaria un elemento essenziale del peccato.
Un peccato congenito, che non risulti da una scelta personale del soggetto,
appare più degno di pietà che di biasimo. Questa era l'opinione di Aristotele, riportata
da Tommaso d'Aquino 26 I teologi protestanti moderni rifiutano quasi unanimemente
la nozione di un peccato trasmesso per via ereditaria. Ispirandosi a Lutero, essi
sviluppano il quadro di una perversione fondamentale della libera volontà, divenuta
per sua colpa incapace di temere e di amare Dio. Questa perversione non viene
conosciuta attraverso la coscienza e l'introspezione, ma in forza della parola di Dio,
che rivela all'uomo la sua personale corruzione o malignità. Si tratta di un
atteggiamento fondamentalmente contrario al primo comandamento della legge
divina. La capacità di fare il bene nell'ambito dei rapporti con gli altri, l'onestà civile
non è compromessa da questo orientamento peccaminoso della volontà.
Questa concezione, abbastanza diffusa tra i teologi protestanti moderni,
potrebbe anche ispirarsi all'autorità di Kant, restituendo però un contenuto
specificatamente religioso che manca al pensiero del filosofo. Questi parlava
unicamente di un atto della volontà noumenica, distinto da ogni atto osservabile
nell'esperienza sottoposta alle leggi del tempo e dello spazio, che determinava, a
modo di massima o norma suprema, tutti i giudizi pratici accessibili all'osservazione.
La volontà non si conforma più alla legge, perché essa stessa è legge, ma per altri
motivi di interesse personale. 28 si può temere che ci sia in questa volontà
noumenica un mito nuovo, che prende il posto del mito della Genesi. Ma viene
espressa, in questa affermazione, una giusta esigenza secondo cui una volontà
individuale è alla radice di una corruzione o alterazione fondamen-tale, se bisogna
ammetterla con Kant in una prospettiva di filosofia morale, e con i teologi protestanti
in una prospettiva religiosa. La spiegazione della dimensione volontaria data da
Tommaso d'Aqui-no, che invoca un volere del primo antenato la cui azione si
prolunga in tutti i suoi discendenti che formano con lui un solo corpo mediante la
generazione, sembra molto remota e poco soddisfacente.29
Ma lo sforzo per mantenere una libera volontà individuale in ogni peccato, da
una parte trascura una dimensione volontaria che, per il fatto di non essere un atto di
libera scelta, non è meno reale:
T'adesione spontanea ai comportamenti e alle concezioni dell'ambiente umano
nel quale il bambino cresce. E, dall'altra, sfocia in una costruzione un po' gratuita, in
questo atto di volontà noumeni-ca, o in questo atto che si pretende libero e che si
verifica però universalmente in tutti.

La concupiscenza nel battezzato e nel non-battezzato

La teologia del peccato originale in occidente è in rapporto di Stretta


dipendenza dalla concezione di Agostino. Costui ammetteva
nel tomo innocente, che vesse dAgostino. Costa ara онома icevuta da Dio al
momento della creazione, una perfetta dipendenza delle facoltà inferiori nei confronti
della volontà, a sua volta
Periottamente sottomessa a Dio. Agostino tende dunque a conside-
Tare peccato la concupiscenza, intesa come la ribellione dei sensi contro la
volontà razionale. Aggiunge che questa concupiscenza, che rimane nel battezzato,
non gli viene imputata come peccato. In una concezione che fa dipendere la
sottomissione della parte inferiore dell'anima dalla sottomissione alla volontà di Dio, è
logico che una ribellione di questa parte inferiore sia un indizio di un'opposizione alla
volontà di Dio, dunque un peccato.
La teologia classica attribuisce di solito al primo uomo la grazia santificante
soprannaturale, che realizza l'equilibrio attribuito da Agostino alla natura. Essa
definisce il peccato originale come la perdita e la privazione di questa grazia. Ne
consegue indirettamente una parziale insubordinazione, in sé normale e naturale,
della vita psichica spontanea nei confronti della volontà libera. E la concupiscenza,
che perde così buona parte dell'aspetto drammatico che ha in Agostino. Si rischia
così di non vedere più ciò che essa ha di veramente deviante, di deplorare solo
l'imperfetta integrazione interiore di tutto il materiale psichico anteriore all'esercizio
della libera volontà e che persiste malgrado la sua decisione.
È meglio allora riconsiderare la dottrina della concupiscenza in una prospettiva
più biblica. Una potenza di peccato è entrata nel mondo attraverso il peccato di
Adamo (Rm 5,12). Ormai tutti sono asserviti a questa tirannia. Paolo moltiplica le
espressioni che descrivono questa impotenza morale a fare il bene, questa fatalità
del peccato: schiavo (Rm 6,17.20), servire come schiavo (Rm 6,6;
7,25; Tt 3,3), venduto come schiavo (Rm 7,14), fare uno prigionie-TO (Rm
7,23), legge del peccato (Rm 7,23; 8,2). Paolo considera la situazione in modo molto
concreto. Gli uomini peccano di fatto, commettono azioni malvage a motivo della
disobbedienza di Adamo (Rm 5,12.19). E questi atti peccaminosi, che sono inevita-
bili, hanno come conseguenza la morte, e cioè, esattamente, non soltanto ed
esclusivamente il decesso corporale, ma la diminuzione e la perdita di valore della
propria vita. Nel migliore dei casi, egli cita quello del giovane giudeo che conosce la
legge divina e desidera osservarla, ma una legge di peccato, insita nelle sue membra
e non nella sua intelligenza, però sempre all'interno del soggetto, lo porta a
commettere il male (Rm 7,7-23).
Altrove viene sottolineato il carattere collettivo di questa schiavitù. Dio ha
abbandonato i pagani alle loro concupiscenze, alle loro passioni, al loro spirito
depravato (Rm 1,24.26.28); e loro stessi si sono consegnati (cioè abbandonati come
schiavi) all'impu-rità (Ef 4,19). Anche i giudei hanno assecondato i desideri della
carne, proprio come i pagani (Ef 2,2). Tutti, pagani o giudei ora convertiti al Cristo,
possono ricordare che si sono piegati come schiavi alle concupiscenze e a molteplici
voluttà, degni di odio e odiandosi a vicenda (It 3,3). Tutti quindi sono trascinati dalla
valanga di peccato che è stata provocata dal peccato di Adamo. «La morte e passata
in tutti perché tutti hanno peccato» (Rm 5,12). «A ri» (Rm 5,19).

causa della disobbedienza di uno, tutti sono stati costituiti peccato-

Ora, questo peccato che domina fatalmente il non-cristiano almeno in qualche


settore del suo comportamento, il cui contagio si esercita alla luce del sole nel
mondo pagano attraverso lo spettacolo dell'immoralità sessuale, attraverso istituzioni
immorali come la schiavitù, attraverso la depravazione idolatrica del politeismo,
minaccia anche il cristiano. Anche lui, che rimane ancora carnale malgrado la sua
rigenerazione con il battesimo, può provare ancora sentimenti di gelosia e di
discordia (¡Cor 3,3); può avvertire la passione del desiderio lussurioso (1Ts 4,5); può
lasciarsi, nella sua debole coscienza, sopraffare dal prestigio del culto idolatrico
(1Cor 8,7). Tutto questo pone il problema della concupiscenza e del suo ruolo nella
vita del cristiano.
Questo problema è stato eccessivamente impoverito. Si sono considerate
soprattutto le concupiscenze di ordine fisico (lussuria, ingordigia, ubriachezza) in
quanto non sottomesse alla ragione, nella prospettiva di una dipendenza gerarchica
dell'inferiore nei confronti del superiore, oppure i desideri cattivi in quanto provenienti
dall'interiorità del soggetto. Ma sarebbe illusorio parlare di questi desideri come se
l'esempio perverso non avesse avuto nessun peso nella loro maturazione.
L'omosessualità pagana, condannata da Paolo, non veniva ogni volta reinventata da
coloro che vi si abbandonavano; era in certa misura eretta a sistema. Il problema
quindi non è sapere fino a che punto il cristiano abbia o meno recuperato l'armonia
interiore (che la teologia classica riteneva essere stata appannaggio dell'innocenza
primordiale) o se il conflitto che egli avverte sia o non sia colpevole. Il problema è
invece di sapere qual è la sua situazione di fronte alle potenze di peccato, dalle quali
lui o i suoi fratelli erano dominati prima del battesimo.

Gli apostoli esortano i loro corrispondenti a non diventare

Schiavi delle proprie concupiscenze, come è avvenuto nella loro Vita passata
(Rm 6,12.19; Ef 4,22; Col 3,5-7). I battezzati non devono più conformarsi alle
concupiscenze che li guidavano al tempo della loro ignoranza pagana, quando
seguivano una vana Condotta ereditata dai loro padri (1Pt 1,14.18); la loro condotta
deve essere diversa da quella di un tempo e dal persistente disordine dei pagani (1Pt
4,2-4). Il problema della concupiscenza non è separato da quello del mondo corrotto
e tentatore, perché tutto quello che c'è nel mondo è concupiscenza (1Gv 2,10). I
cristiano non viene immediatamente sottratto, in forza del battesi-mo, all'influsso del
mondo peccatore, che penetra in lui attraverso molteplici strade.
C'è però in lui una forza nuova, che gli permette di resistere alle concupiscenze
che l'hanno soggiogato prima della sua conversione.
È rigenerato a una vita nuova; ormai ha in sé la fede e la carità.
Entra in uno stato di pace con Dio che supera la santità e la giustizia perdute
dopo il dono della creazione. Il battesimo ha comportato un cambiamento radicale,
una morte e una risurrezione (Rm 6,1-11). Ma la vita cristiana deve continuamente
riconquistare ciò che in principio è stato dato. È l'ingresso in una nuova epoca della
storia di salvezza e, tuttavia, non è ancora uscita dall'antica, con la sua dipendenza
nei confronti del peccato. Così Paolo, dopo aver insegnato ai suoi corrispondenti
come fosse assoluto il passaggio operato dal battesimo, ricorda loro che devono
continuamente vegliare per non ricadere in quel peccato che hanno abbandonato
(Rm 6,12-23).
Se il cristiano avverte ancora in sé il fascino del peccato, questo non significa
che sia peccatore, perché ha in sé una carità più forte di questo desiderio
involontariamente subito. Ed è in grado, mediante lo Spirito che lo anima, di resistere
a questa tentazione a cui è esposto. Può osservare i comandamenti di Dio ed evitare
così il peccato grave, come insegna il concilio di Trento (sessione VI, c. 11; Denz,
804/1536-1537).

Il cuore del battezzato si rivolge a Dio nella fede e nella carità.

Il fatto che, nei suoi sensi, nelle sue abitudini di comportamento, nell'adesione
spontanea che egli dà alle opinioni e al comportamento dell'ambiente sociale in cui
vive, ci siano ancora delle resistenze a questa disposizione fondamentale, non
diminuisce il valore di queste virtù, ma offre loro un'occasione di esercitarsi con più
forza.
Bisogna superare la tendenza stoica e ritenere che una condotta morale e
religiosa sia tanto più perfetta quanto più è sotto il controllo completo della volontà e
quanto meno sono presenti nell'uomo elementi discordanti. E bisogna anche
superare una concezione troppo individualista della vita cristiana.
Il battezzato è solidale con una storia, storia di peccato e insieme storia di
salvezza. Attraverso la concupiscenza (che avverte senza consentirvi) egli entra in
contatto con un mondo peccatore, non per sperimentarvi una torbida connivenza, ma
per trovarvi una fonte di compassione per coloro che hanno bisogno di essere salvati
(Cf. Eb 2,17-18). Egli sa di rimanere nel mondo, e che Gesù ha pregato non perché i
suoi discepoli se ne allontanino, ma perche lossero preservati dal male (Gv 17,15).
L'ideale di un assoluto dominio della volontà su tutto cio che costituisce la trama della
vita codividuale appare assai chimerico a chi sa di non potere far diventare bianco o
nero un solo capello (Mt 5,36) o aggiungere un solo cubito alla lunghezza della sua
vita (Mt 6,27). Viviamo in un mondo in cui la nostra libertà è limitata in moltissimi
modi e ha ben poche possibilità di espressione, in un mondo la cui perniciosa
influenza suscita in noi concupiscenze che spingono al peccato.
Ma questa concupiscenza, che rende il male seducente, non è un peccato nel
battezzato che le oppone resistenza. Questo à chiaro, se si riserva il nome di
peccato al movimento della volontà che si ribella a Dio. Anche nell'uso più sfumato,
incontrato in molti testi dell'antico testamento in cui è chiamato peccato ciò che turba
o incrina la vita religiosa e ciò che impedisce la partecipazione al culto rituale, la
concupiscenza non è un peccato perché non nuoce alla vita religiosa profonda di chi
le resiste. Non solo essa non lo trascina fatalmente al peccato, ma gli offre
l'occasione di lottare contro il male e di imparare la misericordia nei confronti di
coloro che sono tentati. Nel non battezzato, invece, la vita religiosa viene talvolta
paralizzata dalla concupiscenza, e il soggetto è schiavo di atti che non condivide (Rm
7,14-17.20).
Tuttavia, se è vero che tra i pagani considerati nel loro insieme la conoscenza
di Dio è degenerata nel politeismo idolatrico, se è vero che c'è tra loro corruzione
morale e consenso al male, è anche vero che questo non è un fatto assolutamente
universale e privo di eccezioni. Degli individui possono, almeno parzialmente,
conoscere la legge divina e praticarla 3 Il giovane pagano incontra nel suo ambiente
elementi buoni e elementi cattivi, spesso indissolubilmente connessi, senza che sia
in grado di separare gli uni dagli altri. Egli vuole quello che di fatto assimila e fa suo;
vuole dunque ciò che è, di fatto, il disordine morale e religioso che regna nel suo
ambiente.
Non è una violenza che gli viene imposta, ma non è nemmeno una libera scelta
che impegna la sua responsabilità.
I vari elementi che sono stati così assimilati possono in seguito entrare in
conflitto. Il soggetto può dunque avvertire dei desideri che gli sembrano una fora
estranea presente in lui, che non può ne approvare, né dominare e con la quale si
trova in segreta complicità. È questa l'esperienza descritta da Ovidio: «Video meliora
proboque; deteriora sequor» e che Paolo interpreta in una prospettiva religiosa:
«sono io e non sono io che voglio e compio il peccato (Rm 7,7-25).
In Israele i salmi di confessione nazionale dei peccati, che passano
dolorosamente in rassegna tutte le mancanze del popolo di Dio, sono animati da due
movimenti di segno opposto: o riconoscere che questi peccati sono anche quelli della
generazione presente:
«Abbiamo peccato con i nostri padri» (sal 106,6), oppure invitare a ricordare
tutti i benefici che Dio ha fatto agli antenati ed esortarsi a vicenda a non imitare le
infedeltà del passato (Sal 78.1-8).

Conclusione
Il peccato originale non deve essere definito, in modo negativo e statico, come
privazione della grazia santificante. È invece la condizione in cui ognuno, attirato, e
trascinato, partecipa al peccato dell'ambiente umano che lo circonda. Ciascuno, sia
attraverso i rapporti affettivi con gli altri, sia per l'assimilazione quasi automatica dello
spirito oggettivo e impersonale depositatosi nel linguaggio, nei costumi sociali, nelle
istituzioni, nel diritto, si inserisce in una storia di peccato dalle mille sfaccettature che
avvolge tutta l'umanità.
Questa condizione ineluttabile è un peccato solo nel senso che la vita religiosa
di ciascuno ne è turbata e distorta. E uno stato volontario in una particolare
accezione di non costrizione. Questo stato di peccato è una perdizione in confronto
(e in contrasto) con la salvezza, di cui i cristiani già beneficiano grazie al battesimo e
alla fedeltà ai loro impegni. Talvolta essa lascia un certo spazio alla conoscenza e
alla pratica effettiva del bene. In ogni modo il non-cristiano non deve essere giudicato
secondo le norme dell'ideale cristiano, e ancor meno ritenerlo Votato alla dannazione
eterna. Soltanto Dio può dare a ciascuno secondo le sue opere, penetrando nel
profondo dei cuori (1Cor 5,13). La trasmissione di questo peccato originale fa si che,
fino alla scomparsa del mondo presente, il buon grano e la zizzania siano
inestricabilmente aggrovigliati nel campo del padre di famiglia (ME 13,36-43).

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