Sei sulla pagina 1di 71

Don Leonardo Maria Pompei

I PRINCIPI DELLA VITA MORALE CRISTIANA


PREFAZIONE
Nell’ambito della conoscenza della sana dottrina cattolica alla luce del Magistero della
Chiesa occupa indubbiamente un posto di primo piano ciò che attiene alla vita morale
della persona redenta da Cristo. Questa delicata e importante tematica coinvolge al suo
interno grandi problematiche filosofiche, antropologiche ed esistenziali, quali l’esistenza
del libero arbitrio, la necessità della grazia per compiere opere buone e meritorie, la
necessità di acquisire meriti per conseguire l’eterna salvezza.
Nell’esposizione seguiremo tale ordine: anzitutto un’ampia ed articolata presentazione del
tema alla luce dei solari insegnamenti di san Tommaso d’Aquino; in un secondo momento
una rassegna diacronica dei principali interventi magisteriali, sia su eresie - diciamo così -
“di principio” (cioè inerenti errori generali sulla visione della vita morale dell’uomo) che
su condanne “particolari” di certe posizioni attinenti la malizia (o meno) di determinati
comportamenti concreti.
PARTE PRIMA

GLI ATTI UMANI


E LE LORO CARATTERISTICHE
1. LA VOLONTARIETÀ DEGLI ATTI UMANI
Cominciamo subito ad introdurre il discorso sulla volontarietà degli atti umani, che il
dottore Angelico spiega in modo molto chiaro, puntuale e articolato in ben quindici
questioni della parte della Summa Theologiae dedicata a questo argomento (S. Th., I-II, qq.
6-21).
Appurato che l’uomo è un essere realmente libero dotato di intelligenza e volontà e quindi
in grado di esercitare il libero arbitrio, i suoi atti, ordinariamente e salvo circostanze del
tutto eccezionali e straordinari, sono volontari, cioè a lui attribuibili come propri con tutte
le loro conseguenze: la responsabilità dinanzi ad essi, il premio qualora si tratti di atti
meritori, la punizione nel caso in cui essi siano cattivi. Solo i bambini hanno una
volontarietà degli atti intrinsecamente imperfetta, in quanto, appena appresa una cosa
come appetibile o dilettevole, subito si muovono verso di essa senza deliberare circa
l’opportunità, la ragionevolezza o la convenienza di farlo e senza valutare i mezzi con cui
raggiungere quel bene o quel fine. Gli animali, poi, che agiscono in base agli istinti, sono
mossi in maniera quasi irreversibile verso ciò che apprendono come buono, valutando solo
- nella loro rudimentale ed istintiva capacità - fattori del tutto sensibili (ed egoistici) circa la
convenienza o meno del raggiungimento di un fine. Volendo fare un semplicissimo
esempio, una iena affamata che veda un cervo certamente si precipiterà su di esso per
ucciderlo e divorarlo; a meno che non sopraggiunga un leone che appetisca alla stessa
preda. In questo caso, la iena dovrà, per forza, “cambiare menù”, perché sa bene che, in
caso contrario, potrebbe diventare il secondo piatto del pranzo del leone!
Queste preliminari considerazioni sono, a dir poco, importantissime. Da quando l’essere
umano acquisisce un sufficiente uso della ragione (la dottrina comune della Chiesa pone i
sette anni di età come il tempo da cui, ordinariamente, lo si reputa presunto, ma può, in
concreto, avvenire prima o anche dopo), con la conseguente capacità di discernere il bene
dal male, diviene responsabile dei suoi atti. Ecco perché i fanciulli possono cominciare ad
accostarsi al sacramento della confessione dai sette - otto anni in poi. Hanno già una
sufficiente, anche se ancora incipiente, conoscenza del bene e del male, seguita da una
capacità di rendersi conto di quello che fanno e di scelta se fare oppure no una cosa
percepita come cattiva. Ne consegue che nessun argomento potrà mai in nessun modo
essere utilizzato in chiave deresponsabilizzante o malamente scusante le cattive scelte
dell’uomo. Si pensi, per esempio, a chi vive nella schiavitù della lussuria e si giustifica
dicendo che “questo è umano” e che “è impossibile controllare istinti così forti e violenti”.
Cosa del tutto falsa, come vedremo a mano a mano che ci addentreremo in questi
argomenti, e peraltro smentita da innumerevoli testimonianze di uomini e donne, di ogni
età e ogni stato che, con l’aiuto della grazia, raggiungono una piena conformità con la
volontà di Dio anche su questa materia. Gli istinti certamente esistono, perché
indubbiamente una componente dell’uomo è comune con gli animali; ma - e questo è ciò
che differenzia l’uomo dall’animale - si possono dominare, indirizzare o assecondare.
Quindi, nell’uomo, gli istinti non esistono mai - come negli animali - allo stato “puro”: ma
chiamano sempre in causa la volontà e il suo modo di relazionarsi ad essi; con
conseguente peccato o atto di virtù, merito o colpevolezza a seconda di come si è
concretamente agito. Senza speciose o inesistenti scappatoie o pseudo giustificazioni.
2. LA LIBERTÀ E LE CAUSE CHE LA DIMINUISCONO
L’uomo è realmente libero e i suoi atti sono dunque, ordinariamente, volontari e a lui
attribuibili. Tali atti, appunto in quanto volontari, chiamano in causa la responsabilità
personale circa le loro conseguenze, sia in bene che in male. La volontarietà degli atti di un
uomo adulto si dice che è perfetta in quanto capace di deliberare sulla bontà o cattiveria
dei fini ovvero degli obiettivi che intende raggiungere, sull’opportunità o meno di
perseguirli e sui mezzi con cui ottenerli.
La volontarietà di un atto può essere diminuita in tutto o in parte da una serie di
circostanze, che ora vedremo nel dettaglio, sempre corredando il discorso con degli esempi
che ne facciano comprendere la sua estrema concretezza e rilevanza per la vita “pratica”.
La prima causa di possibile involontarietà dell’atto (totale o parziale) si ha quando l’agente
subisca una coercizione estrinseca denominata “violenza”, sia essa fisica (percosse, torture
finalizzate a estorcere il compimento di una certa azione), oppure morale o psicologica
(perpetrata attraverso minacce, attraverso violenze o minacce a familiari, etc.). A differenza
di quanto comunemente si pensi, questa circostanza, salvo rarissimi e ben determinati casi,
non toglie del tutto la volontarietà dell’atto, ma ne diminuisce solo la gravità. Per quanto
gravi siano le minacce, le percosse e ogni altra forma anche raffinata di violenza, non si
perde, infatti, mai la possibilità di resistere e non fare ciò che l’autore della violenza
vorrebbe. C’è un esempio attinente alla vita morale che fa pienamente luce su questo
punto. Santa Maria Goretti resistette al tentativo di violenza sessuale di Alessandro
Serenelli nonostante questi minacciasse di ucciderla, come di fatto fece, con un punteruolo.
Qualche anno fa, proprio dalle pagine di questo settimane, venni a sapere che la ragazza di
nome Amelia di cui la Madonna di Fatima rivelò a suor Lucia nella prima apparizione che
sarebbe dovuta rimanere in Purgatorio fino alla fine del mondo, aveva subito una violenza
sessuale a cui per paura (di certo umanamente comprensibile) non si era ribellata.
Presumibilmente (io personalmente lo ignoro) ci saranno state altre problematiche attenti
alla vita morale di questa persona, che giustifichino una sosta tanto lunga nel luogo di
purgazione; ma nella fattispecie in questione la volontarietà dell’atto non è del tutto
assente, in quanto in circostanze del genere, bisogna trovare il coraggio e la forza di reagire
in tutti i modi possibili per evitare il compimento di tale atto turpe. Solo nel caso in cui,
volendo rimanere in questo scabroso esempio, la vittima venisse totalmente immobilizzata
(legata, oppure tenuta ferma da più persone) e subisse quindi tale violenza in maniera
invincibile, la volontarietà sarebbe del tutto assente.
Questo esempio apre il campo all’analisi di un secondo fattore che influisce sulla piena
volontarietà di un atto, che è la paura. In questo senso, san Tommaso d’Aquino insegna
perentoriamente che tale fattore, molto presente nel cuore dell’uomo, non causa e non può
causare mai l’involontarietà piena di un atto e questo perché anche se a causa della paura
ci si muove in un senso o in un altro per evitare un male maggiore o per sfuggire a qualche
grave e imminente male, in chi agisce rimane sempre la ripugnanza verso l’azione concreta
compiuta in balia della paura, che in circostanze ordinarie non si sarebbe compiuta. Si
pensi, in questo senso, al rimprovero che Gesù nei Vangeli dà al servo che “per paura”
aveva nascosto il talento in un fazzoletto; oppure alla paura che venne al giovane ricco
quando Gesù gli prospettò la chiamata a vendere tutto e seguirlo. Il servo fannullone è
stato condannato e il giovane ricco se ne è andato, con la sua tristezza, a mordersi le mani
per un “no” detto a Dio per paura. La paura è una pericolosissima passione che deve
essere combattuta e vinta, perché satana la usa spessissimo come arma per trasgredire la
legge di Dio. Quanti giovani perdono la purezza “per paura di rimanere da soli” o di
essere lasciati dal partner che chiede loro di concedersi! Quanti giovani si rovinano per
paura di rimanere senza amici, adeguandosi allo stile del branco e incamminandosi verso
precoci vie di perdizione! Quante persone oggi vanno “a convivere” per paura di prendere
una direzione di vita seria, impegnativa e definitiva e pensano che basti fare il “giro di
prova” per avere delle certezze che solo la fede in Dio, la forza del sacramento e la scelta di
un amore pieno e incondizionato può dare. Concludo citando un passo di un testo di
Padre Francesco Bamonte (“La Vergine Maria e il diavolo negli esorcismi”) dove riporta
queste illuminanti rivelazioni di satana a proposito della totale assenza di paura nella
Tutta Pura: “Era un giglio dei campi, intoccato, intoccato, niente avrebbe potuto sfiorarla;
Lei non ha avuto mai paura; lei non conosceva la paura, neanche quando minacciavano
suo Figlio; Lei non aveva mai paura; Lei non aveva mai rancore. Lei ha sempre sorriso,
anche quando piangeva. Lei è il riscatto della vostra razza” (pag. 160-161).

L’ignoranza

Apriamo il delicatissimo e importantissimo discorso sull’ignoranza, ossia se e quando si


può dire, come molti fanno, “non lo sapevo”, in modo che ciò sia realmente una
circostanza scusante dal peccato. La disciplina morale, come vedremo subito, è per molti
aspetti diversa da quella giuridica ed anche da ciò che si pensa comunemente; per altri,
abbastanza nota.
Secondo san Tommaso d’Aquino esistono tre generi di ignoranza, uno solo dei quali scusa
dal peccato: ignoranza concomitante, ignoranza conseguente (o volontaria), ignoranza
antecedente (o involontaria).
La prima si ha quando, contemporaneamente al momento in cui si sta compiendo un atto,
che comunque si voleva compiere, sopravviene una circostanza accidentale ed esterna
rispetto a un atto che comunque si voleva compiere. L’esempio di scuola chiarirà subito
una fattispecie. Un uomo è a caccia e vede dietro un cespuglio, muoversi qualcosa.
Pensando che sia una lepre, spara. Quando va a verificare, si accorge che non era la lepre,
ma il suo peggior nemico (che egli aveva già deciso di uccidere). Effettivamente la persona
non sapeva che dietro il cespuglio ci potesse essere il suo nemico. Ma se, con un buon
avvocato, potrà scampare alla condanna degli uomini, o quanto meno limitarla, davanti a
Dio questo fatto è del tutto irrilevante, solo perché la persona aveva già comunque
deliberato di uccidere il suo nemico e dovrà rispondere di omicidio volontario. E se,
diversamente, il cacciatore pensava di intravedere dietro il cespuglio il suo nemico e tutto
contento spara, pensando di poter in qualche modo coprirsi dietro un apparente incidente,
ed invece uccide una lepre (perché questa e non il suo nemico era dietro il cespuglio),
davanti agli uomini sarà totalmente innocente, ma davanti a Dio colpevole di omicidio
volontario. L’atto compiuto in questo modo non si può, infatti, definire involontario (=
contro la propria volontà), perché quell’uomo lo si voleva comunque uccidere; ma
semplicemente “non volontario”, essendo le circostanze concrete del tutto irrilevanti in
ordine alla volontarietà dell’atto, anche se così potrebbe non sembrare. E quindi questa
ignoranza, dal punto di vista morale, è del tutto irrilevante e non scusa in nessun modo
dal peccato né diminuisce la responsabilità.
Il secondo genere di ignoranza, il più diffuso, è quella volontaria (detta “conseguente”,
perché dipendente da una cattiva deliberazione precedente della volontà del soggetto) e si
distingue in tre specie. Quella “crassa” o “affettata” (tecnicamente definita “direttamente
volontaria”), tipica delle persone che si rifiutano di sapere come stanno le cose e dove sta
la verità per non essere distolti dal peccare; questa non solo non scusa, ma ordinariamente
aggrava la colpa, perché dipende da una preventiva chiusura alla possibilità di essere
illuminati per agire diversamente. Si pensi a un lussurioso incallito che rifiuta di ascoltare
chi cercasse di fargli comprendere perché questo vizio è così orribile e degradante. La
seconda specie è detta “ignoranza di inconsiderazione (o “indirettamente volontaria”) che
è quasi sempre presente nelle scelte cattive, abitudinarie o passionali. Si pensi, tornando
all’esempio del cacciatore e della preda, a chi, guardando il cespuglio, vede muoversi
qualcosa, ma gli viene il sospetto che possa essere non una lepre ma un uomo e decide di
sparare. Si reca sul luogo e trova una lepre morta. Nessuna legge umana potrà mai fargli il
processo all’intenzione né accusarlo di nulla, ma davanti a Dio è colpevole di omicidio
volontario e dovrà risponderne, perché ha sparato sconsideratamente, assumendosi il
rischio di un uccidere, per tanto banale motivo, un essere umano. La terza specie di
ignoranza volontaria - questa davvero diffusissima - è detta “di negligenza” ed è tipica di
chi ignora la legge morale perché non si è curato, come suo dovere, di cercare di conoscere
la verità. Quanta gente dice: “ho scoperto solo oggi di aver commesso questo peccato, ma
non lo sapevo che era peccato”. Dio gli obietterà il giorno di giudizio: “ma tu cosa hai fatto
per formare la tua coscienza? E poi sei proprio sicuro che non ne avessi neanche un
lontano sentore”? Indubbiamente questa ignoranza, frequentissima, può in parte
diminuire la responsabilità, ma mai scusare del tutto. Solo nel caso in cui - e questo Dio
solo può saperlo con certezza - per la persona fosse oggettivamente o soggettivamente
impossibile arrivare a conoscere il bene, sarebbe del tutto scusato. Si vede, dunque, come
anche nel caso della legge morale vale il principio giuridico in base al quale “l’ignoranza
della legge non scusa”.
Il terzo ed ultimo genere di ignoranza, l’unico che scusa, è quella “antecedente”, che causa
atti realmente involontari in quanto fa compiere un’azione in presenza di circostanze che,
se conosciute, mai avrebbero portato il compimento di quell’atto. Rimanendo ancora nel
celebre esempio, il famoso cacciatore spara ad una lepre e, disgraziatamente, proprio
nell’istante in cui fa fuoco, improvvisamente un altro cacciatore si inserisce nella traiettoria
del proiettore e ne resta ucciso. Quasi certamente la legge umana incriminerà il
malcapitato di omicidio colposo, ma, davanti a Dio, la persona è completamente innocente
e, nonostante sia morto un uomo, non può e non deve pensare di averlo ucciso, né deve
confessarsi. Si pensi anche all’odioso gioco per fanciulli, in base al quale si induce l’ignaro
destinatario del gioco a proferire, attraverso un escamotage, una bestemmia materiale al
termine di esso. I ragazzi che cadono in questo, si disperano pensando di aver
bestemmiato. Ma chi dovrà rispondere di bestemmia davanti a Dio non è il povero
ragazzo (che in realtà è una vittima), ma l’autore del gioco anche se non ha materialmente
proferito alcuna espressione blasfema. Dal che si deduce che “scusa non l’ignoranza della
legge, ma solo l’ignoranza del fatto”.
3. LE SETTE CIRCOSTANZE DEGLI ATTI UMANI
Un elemento fondamentale nella comprensione e nella valutazione degli atti umani e della
loro volontarietà sono le circostanze in cui si consumano. Esse, in alcuni casi, possono
escludere la volontarietà di un atto, altre volte diminuirla oppure, in alcuni casi,
aggravarla. La conoscenza di esse e la presa di coscienza della loro rilevanza è
fondamentale anche ai fini della validità della confessione, dal momento che, come si
ricorderà, il Concilio di Trento definì come verità di fede il fatto che i peccati mortali
commessi dopo il Battesimo debbano essere confessati non solo per specie e numero, ma
anche indicando le eventuali circostanze.
Le circostanze degli atti umani, da tempo note sia agli studiosi di morale che di diritto,
sono sette: “Chi” (“quis”); “che cosa” (“quid”); “dove” (“ ubi”); “con quali aiuti o
strumenti” (“quibus auxiliis”); “perché” (“cur”); “come” (“quomodo”);
“quando” (“quando”).
La prima circostanza (“chi”) è inerente alle qualità soggettive dell’agente oppure
dell’eventuale destinatario di una certa azione. Come per tutte le circostanze, userò degli
esempio per facilitare la comprensione. Una parolaccia detta da un sacerdote è più grave
di quella detta da un laico in ragione della dignità del sacerdote che è sempre e comunque
rappresentante di Cristo. Un furto perpetrato da un amministratore di denaro pubblico è
più grave di quello fatto da una persona comune in un supermercato. Uno scandalo
compiuto da una persona che ha ruoli educativi (un professore, un maestro, un educatore)
è più grave di quello in cui dovesse incorrere una persona comune. Per quanto riguarda il
soggetto offeso, compiere molestie sessuali su un bambino è enormemente più grave di
uno stalking fatto ad un adulto (atto che rimane comunque odioso). Offendere un vescovo
è molto più grave che offendere un fedele laico. Frodare un povero è molto più grave che
defraudare una persona comune. Avere rapporti con una persona sposata è molto più
grave che averli con una persona “single”; così come deflorare una vergine è molto più
grave di una fornicazione con persona già “iniziata”.
La seconda circostanza riguarda la comprensione corretta dell’azione compiuta dal punto
di vista oggettivo (“che cosa”). Anche qui gli esempi chiariranno. Se una cosa è
oggettivamente peccato, tale è e tale rimane, qualunque siano le intenzioni dell’agente. Al
contrario se una cosa peccato non è, chi l’ha commessa rimane innocente anche se avesse
mille sensi di colpa e diecimila scrupoli. La corretta formazione della coscienza è
importantissima per acquisire tale capacità di giudizio. Inutile dire che cento, mille volte
più importante è che tale corretta ed esatta competenza abbiano i sacerdoti che ascoltano le
confessioni.
Il luogo in cui si è agito (“dove”) può essere spesso un’aggravante. Una fornicazione
avvenuta in un parco, al mare, in un luogo comunque pubblico è molto più grave che
quella commessa in privato. Vestire in maniera indecente in luogo sacro costituisce una
gravissima aggravante al peccato (comunque sussistente anche fuori del luogo sacro…)
delle mode invereconde. E così via.
Per quel che concerne la quarta circostanza (“con quali aiuti”), l’uso di certi strumenti può
aggravare o diminuire una colpa morale. Uccidere una persona in maniera lenta e
dolorosa, è certamente più grave che farlo in maniera immediata e indolore. Corrompere
persone pubbliche per ottenere qualche risultato illecito è più grave che farlo senza
ricorrere a questo espediente. Similmente l’uso di mezzi oggettivamente cattivi non può
mai essere, a dispetto di Machiavelli, consentito per conseguire fini buoni. L’esempio
classico di Robin Hood è solo uno degli innumerevoli che potrebbero proporsi.
Le intenzioni dell’agente (“perché”) sono sempre altamente rilevanti anche se raramente,
come abbiamo visto nel capitolo precedente, una buona intenzione scusa da peccato
(quando esso c’è nel comportamento) ed è per questo che si dice che l’Inferno è lastricato
di buone intenzioni. Un’azione però “neutra” viene completamente specificata
dall’intenzione. Se io sto guidando e investo un bambino semplicemente per non averlo
visto, potrei, se tale disattenzione è del tutto incolpevole e fatale (cosa che solo Dio può
giudicare con certezza infallibile), essere del tutto innocente davanti a Dio. Mentre se
volessi uccidere una persona simulando un incidente, sarei un omicida anche se nessuno
riuscisse a provare le mie reali intenzioni. Così come una cattiva intenzione può rendere
perversa una buona azione (fare un digiuno o un’elemosina per farsi vedere). Le
intenzioni possono essere giudicate solo da Dio (per questo Gesù ammonisce
categoricamente di non farlo). I comportamenti oggettivi, tuttavia, non solo possono ma a
volte debbono essere giudicati dagli uomini.
Molto importante, infine, è il modo con cui si compie un’azione e anche il tempo in cui la
si compie. E qui è bene spendere una parola su come vengono compiute anche le buone
azioni, ricordando l’ammonizione di Sant’Alfonso: non basta fare il bene, bisogna farlo
bene. Un rimprovero giusto fatto senza carità, quasi sempre fa più male che bene. La
smania di voler convertire a tutti i costi una persona, moltiplicando prediche a dismisura o
assumendo addirittura atteggiamenti fanatici è una buona azione mossa da ottime
intenzioni, ma fatta malissimo e quindi certamente controproducente. Per ciò che concerne
il tempo, pregare quando è l’ora di lavorare è un disordine; correggere una persona nel
momento sbagliato, produce disastri; fare una cosa prima del tempo (si pensi, ai rapporti
sessuali prematrimoniali) può cambiare la qualificazione morale di un atto (da lecito a
illecito e viceversa).
Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito, ma ad una coscienza formata ed aperta
all’azione della grazia questi basteranno per comprendere quanto importante sia l’attenta
considerazione delle circostanze e la loro rilevanza, che deve sempre essere ponderata per
una corretta e completa valutazione degli atti umani.
4. LE CAUSE MOVENTI DELLA VOLONTÀ
Ultimo elemento da prendere in considerazione per l’analisi dell’atto umano è la volontà
in relazione alle cause che possono muoverla. è anzitutto da ricordare che è verità di fede
importantissima il fatto che la nostra volontà è realmente libera. L’esistenza del libero
arbitrio è un pilastro fondamentale per la comprensione di tutti gli atti umani e anche per
prendere coscienza della reale responsabilità dell’uomo nello scrivere il suo destino
terreno e ultraterreno. Certamente a causa della colpa di origine la nostra volontà è
indebolita, cioè con difficoltà si muove verso il bene a causa della concupiscenza, che
comporta una sua inclinazione naturale verso il male e la difficoltà nel controllare e
governare le passioni, le emozioni e i sentimenti, da cui spesso è violentemente trascinata.
La grazia di Dio, tuttavia, acquistata da Gesù attraverso la sua passione e morte e
comunicata agli uomini attraverso i sacramenti e la preghiera, restituisce alla volontà la
capacità di dominare passioni e emozioni e di orientarsi verso il bene, ovviamente non
senza fatiche, sforzi e sacrifici, che l’uomo può e deve compiere se vuole raggiungere la
salvezza della propria anima.
Ovviamente la causa più prossima e quella propriamente umana che muove la volontà è
l’intelletto: la nostra ragione apprende qualcosa come buono e lo presenta alla volontà
perché lo scelga. Questa valutazione dell’intelletto, tuttavia, è del tutto soggettiva (non è
detto che ciò che sembra buono lo sia effettivamente) e può essere in molteplici modi
indotta in errore dai fattori che ora vedremo.
Anzitutto da alcune cause “moventi” della volontà che si trovano dentro di noi e ci
condizionano non poco: le undici passioni di cui già chiaramente parlava Aristotele
(amore e odio, desiderio e ripugnanza, paura e audacia, piacere - gioia e dolore - tristezza,
speranza e disperazione, ira), la sfera di tutte le nostre emozioni (vergogna, stupore,
sgomento, meraviglia, sdegno, etc.) e dei nostri sentimenti (innamoramento, amori umani
di vario genere, etc.), costituiscono una serie di fili che tirano continuamente la nostra
volontà e alterano il giudizio sul bene dell’intelletto; dobbiamo quindi (e con fatica )
imparare a governarle e indirizzarle secondo il bene.
La volontà è inoltre spesso mossa dai sensi, che percepiscono qualcosa come gradevole (o
sgradevole) e quindi inducono la volontà a portarsi su un tale bene (o a ritrarsi da esso): la
vista, l’udito, il tatto, il gusto e l’odorato. Anche in relazione a queste cause moventi, si
pensi, ad esempio, ai peccati di gola (tutti compiuti in quanto alimentati dal senso del
gusto), a quelli di lussuria (senso del tatto), agli sguardi e i pensieri impuri e all’invidia
(senso della vista) e così via, è necessario imparare ad esercitare un sano e santo dominio
di sé.
Anche il demonio può muovere la nostra volontà attraverso la tentazione e può farlo
fondamentalmente in due modi: o insinuando all’intelletto un pensiero (proveniente da
lui) cattivo, allo scopo di indurla in errore e muovere la volontà verso una cosa cattiva;
oppure scatenando delle immaginazioni o provocando direttamente pulsioni e desideri
per trascinare la volontà al male. Si badi che per quanto astuto possa essere nel presentare
un certo pensiero e per quanto violento o suadente possa essere il suo provocarci con
immaginazioni e desideri, la nostra volontà rimane sempre libera di acconsentire o meno e
pertanto sempre responsabile (eccettuati i casi visti negli articoli precedenti) degli atti che
commette. Dire “sono stato tentato” non è dunque una causa scusante delle nostre azioni.
Un altro sistema usato dal nemico è scatenare l’inferno intorno a chi opera il bene,
aizzando le persone alla persecuzione e provocando nelle anime buone pensieri di paura e
terrore perché si arrestino nel cammino della virtù. Le testimonianze eroiche dei martiri,
tuttavia, ci dicono che neanche questo può fermare una volontà realmente radicata nel
bene e unita a Dio con la Grazia.
Finalmente, c’è anche Dio che muove la volontà dell’uomo attraverso le sante ispirazioni,
ovvero pensieri buoni, che provoca direttamente o per mezzo degli angeli custodi nella
nostra mente, a cui siamo liberi di aderire o meno. Dio, tuttavia, è l’unico che, se vuole,
può muovere la nostra volontà di impero, anche senza il nostro consenso. Questo fatto è
evidentissimo in tutte le esperienze mistiche straordinarie (se Dio fa entrare in estasi una
persona, questa non può in nessun modo opporsi), ma questo accade anche (in forma più
limitata) nella conversione del peccatore. Quando una persona si trova in stato di schiavitù
di satana, perché abituata nel peccato mortale, nonostante la permanenza reale del suo
libero arbitrio, non potrebbe assolutamente avere la forza di tornare definitivamente a Dio
e cambiare vita senza un intervento dall’Alto che, in qualche modo, “stacchi la presa” delle
grinfie infernali e permetta alla volontà di volgersi al bene, lasciando a lei solo l’ultimo
atto: acconsentire a questa grande grazia o rifiutarla. Si vede come a differenza delle
esperienze mistiche, questo intervento imperioso di Dio non toglie la nostra libertà e può
essere vanificato dall’uomo. Ci faccia però riflettere sulla miserevole condizione in cui si
pongono i peccatori che, per quanto sta in loro, si consegnano ad una crudele e umiliante
schiavitù da cui, se fossero lasciati a sé stessi, non potrebbero mai e in nessun modo
liberarsi. Né in questa né, cosa ancora più grave, nell’altra vita.
5. BONTÀ O CATTIVERIA DEGLI ATTI UMANI
Quando è che un atto libero dell’uomo può dirsi buono e quando invece cattivo? La
qualificazione di un atto dipende da tre elementi ben precisi: l’oggetto dell’atto; il fine; le
circostanze.
L’oggetto non è altro che la cosiddetta “materia” su cui l’atto cade ed è un elemento
assolutamente preponderante nella valutazione di esso, in quanto bene e male sono realtà
oggettive e non stabilite dall’arbitrio del soggetto. Come sempre, è bene fare alcuni esempi
concreti onde non lasciare nell’astrattezza e nella vaghezza queste considerazioni. Ciò che
specifica qualche materia come buona, cattiva o indifferente è anzitutto la legge di Dio, che
spesso e volentieri coincide con la legge naturale. Così, dare a Dio il culto che gli è dovuto
(primi tre comandamenti) è sempre cosa buona e dovuta, così come negarglielo è sempre
cosa cattiva e proibita. Quando un’azione è buona o cattiva in senso assoluto, a nulla vale
che ci siano fini buoni per compierla oppure circostanze particolari che potrebbero
sembrare giustificarla. Come ha insegnato Giovanni Paolo II nella splendida enciclica
Veritatis Splendor, un atto è totalmente cattivo quando è specificato come tale da un
comando negativo (o divieto) del decalogo (“non…”), mentre nel caso dei precetti positivi
(“ricordati di santificare le feste”, “onora il padre e la madre”) il discorso è leggermente
più complesso nel senso che non obbligano sempre, dovunque e comunque. Ad esempio,
rubare non si può mai e per nessun motivo, nemmeno come faceva Robin Hood, che
rubava ai ricchi per dare ai poveri; mentire non si può mai e per nessun motivo, nemmeno
per difendere una cosa buona o impedire il verificarsi di un grave male; uccidere un essere
umano innocente (con il delitto di aborto) non può mai essere moralmente lecito,
nemmeno se, sciaguratamente, il concepimento fosse avvenuto in circostanze
dolorosissime o drammatiche (si pensi a una violenza sessuale); commettere un atto
impuro non si può, nemmeno se fosse giustificato da motivi “medici” (per esempio le
visite che richiedono l’analisi del seme dell’uomo qualora per ottenerlo fosse necessario
compiere atti masturbatori). Invece, andare a Messa la Domenica, obbliga sotto pena di
peccato mortale qualora però non ci sia un impedimento grave dovuto da seria necessità;
nel qual caso il Parroco può dispensare dalla partecipazione alla santa Messa (cosa che non
sarebbe mai possibile se si trattasse di un precetto espresso in forma negativa). Il precetto
di onorare il padre e la madre non impedisce a un figlio di agire in modo da contrariare un
genitore, qualora questi facesse delle cose del tutto insulse oppure gli impedisse di seguire
la legge di Dio. E così via.
Veniamo ora al fine degli atti umani, che riveste grande importanza anche se, come
abbiamo appena visto, non fino al punto da trasformare in buono un atto intrinsecamente
cattivo. Facciamo subito alcuni tipici esempi morali. Rendere culto a Dio, anche con atti
esterni di adorazione, è cosa dovuta, oltre che lodevole. Tuttavia, se uno compisse dei gesti
eclatanti, con l’intenzione di attirare l’attenzione ed essere così reputato “santo”, non solo
non compirebbe un atto buono, ma commetterebbe peccato. Una persona che, come dice
Gesù nel Vangelo, facesse un’elemosina con l’intenzione di farsi vedere ed essere quindi
considerato generoso e magnanimo, non farebbe nulla di meritorio davanti a Dio. I
cosiddetti “metodi naturali” di controllo delle nascite sono oggettivamente leciti dal punto
di vista morale (cioè non è cosa cattiva che i coniugi si uniscano nei periodi infecondi), ma,
come insegna l’Humanae Vitae (n. 15), utilizzarli senza gravi motivi e a tempo
indeterminato, non è possibile. Devono esserci gravi motivi (ecco il fine che rende lecito o
illecito un atto di per sé lecito) ed un tempo limitato (il tempo, lo si ricorderà, è una delle
sette circostanze degli atti umani).
Le circostanze, infine, che abbiamo analizzato nei precedenti articoli, possono influire -
come si ricorderà - sulla qualificazione di un atto come buono o cattivo oppure sulla sua
rilevanza, aggravandolo o attenuandolo. Per esempio. Avere rapporti sessuali a tempo
indebito (prima del matrimonio) è peccato mortale, compierli dopo il matrimonio è atto
lecito e, in certi casi, anche meritorio. Rimanendo nello stesso esempio, gli atti coniugali
compiuti tra marito e moglie sono cosa buona, ma non sarebbe cosa buona compierli in un
luogo pubblico. Celebrare la Messa è una cosa buona, purché lo faccia un sacerdote
(circostanza del “chi” compie un atto), perché se lo facesse un seminarista farebbe un
peccato gravissimo. Andare al mare è una cosa lecita (oggi, per la verità, sempre più
problematico…), ma entrare in Chiesa in costume da bagno (fenomeno - ahimé,
-sciaguratamente non del tutto inusuale…) costituirebbe un grave peccato, e così via.
In conclusione, questi tre elementi dell’atto umano vanno considerati nell’ordine di
importanza “gerarchico” con cui li abbiamo trattati: prima l’oggetto, poi il fine, da ultimo
le circostanze. E’ ovvio che, dal momento che la cosa prioritaria è l’oggettiva bontà o
cattiveria di un atto, primo e doveroso compito di un buon cristiano è formare bene la
propria coscienza. Non farlo, come sappiamo, non ci esime dalla responsabilità di atti
cattivi compiuti in stato di eventuale ignoranza.
6. IL PECCATO, I MERITI E I CASTIGHI. CONCLUSIONI
Alla luce di tutto il percorso compiuto finora e prima di entrare nel dettaglio affrontando
la tematica delle virtù cristiane e degli atti conformi al bene, è necessario aggiungere
qualche ulteriore punto e trarre le debite conclusioni.
Un atto si qualifica come “buono” o “cattivo” in base alla volontarietà che dipende, come
abbiamo visto, dalla conoscenza e dall’intenzione, considerate le debite e opportune
circostanze. Conseguentemente un atto buono in relazione alla sua volontarietà si può e si
deve qualificare come “lodevole”, mentre un atto cattivo è per definizione “colpevole”.
Un atto oggettivamente buono, secondo l’insegnamento autorevole di san Tommaso e di
tutta la tradizione della Chiesa, è sempre oggettivamente ordinato al nostro bene e fine
ultimo, che è la salvezza e l’eterna beatitudine e lo diventa, come vedremo, in maniera
piena e perfetta quando è compiuto in stato di grazia ed è quindi animato dalla carità.
Sotto questo aspetto, un atto oggettivamente buono si definisce, in termini morali “retto”,
perché concorde col fine ultimo dell’uomo, mentre quando da esso oggettivamente si
discosta lo si qualifica come “peccato”. Il peccato, poi si definisce mortale, quando la
contrarietà al fine ultimo è diretta e immediata sia nell’oggetto che nelle intenzioni (per
questo si dice “peccato mortale” quello compiuto con piena avvertenza, deliberato
consenso e materia grave), mentre è veniale quando il discostamento dal fine ultimo non è
pieno oppure si situa solo sul piano dei mezzi (e questo accade o quando la materia è in se
stessa lieve o leggera, oppure quando la volontarietà o la coscienza del male compiuto -
anche in materia grave, come abbiamo visto - non sia piena). La definizione più accreditata
e comune del peccato nella dottrina cattolica è quella attribuita a sant’Agostino e
completata da san Tommaso: “un’offesa a Dio fatta trasgredendo la sua legge”. In questa
definizione sono contenuti gli elementi essenziali di ogni peccato: anzitutto l’offesa a Dio,
in quanto il peccato è sempre un atto oggettivo di disprezzo di Dio, di prevaricazione nei
suoi confronti, di rifiuto di riconoscerlo come santo e buono, di non considerazione della
sua eccellenza e della nostra miseria; in secondo luogo la trasgressione della sua legge, in
cui questa prevaricazione si sostanzia ed esplicita e che è quanto di più folle e
irragionevole si possa non solo fare ma perfino concepire o immaginare. Trasgredire la
legge santa dell’Altissimo, concepita solo per il bene dell’uomo e donata a lui come
bussola per guidare il proprio cammino al sicuro da rischi, incidenti e pericoli è quanto di
più stolto e ingiustificabile si possa commettere da parte dell’uomo. Eppure è fatto
continuamente, costantemente, sconsideratamente, a cuor leggero e a volte con superbia e
spavalderia, non immaginando che fare una cosa così nefasta significa non solo offendere
Dio, ma anche fare il male, provocare male, produrre male, scatenare il male, asservirsi al
principe del male e, non ultimo, “farsi” male. Gli uomini vanno cercando a destra e a
manca improbabili risposte al problema del male, sia in generale che in particolare, per i
tanti mali che travagliano le singole esistenze dei mortali, nessuna esclusa. Ma essa fu, è e
sempre sarà una sola: il peccato, l’unico male e l’unica causa di ogni male…
Infine ogni atto umano, compiuto esercitando il libero arbitrio, in quanto oggettivamente
buono o cattivo, sarà, checché stoltamente se ne pensi oggi, giudicato, valutato e,
soprattutto, retribuito da Dio, in questa e nell’altra vita. Sotto questo aspetto gli atti umani
si presentano come “meriti” (quando sono degni di un premio) oppure
“demeriti” (quando sono degni di castigo). I castighi conseguenti al demerito degli atti
cattivi degli uomini che si abbattono su di essi in questa vita, stante l’insegnamento
comune di tutti i dottori e maestri di spirito, sono quasi sempre, come ricorda l’etimologia
latina del termine (“castum agere” = “rendere puro”), finalizzati alla correzione,
all’emenda e alla conversione del peccatore, perché si ravveda e scampi dalla dannazione
eterna verso cui la divina sapienza sa esserlo incamminato. Invece i castighi che vengono
inflitti dalla divina giustizia nell’altra vita sono retributivi in senso stretto, ossia pene,
sofferenze, tormenti e dolori proporzionati nella specie, nell’intensità e nelle tipologie alle
varie specie e al numero dei peccati commessi in vita senza pentirsene. Può senz’altro non
piacere questa dottrina, ma è quella autenticamente cattolica e divinamente rivelata. E
piaccia o non piaccia, così è e così sarà, in questa e nell’altra vita.
PARTE SECONDA

LE SETTE VIRTÙ CRISTIANE


INTRODUZIONE
Cosa sono le virtù e in particolare le virtù cristiane? San Tommaso d’Aquino, per dare di
esse una descrizione comprensibile, ricorre al concetto aristotelico di “abito” (in latino:
“habitus”), da cui deriva, nel nostro linguaggio corrente, la parola “abitudine”. In questo
senso, l’abito è molto semplicemente una “disposizione stabile e continua, secondo la
quale uno è disposto ad operare il bene (e in questo caso si chiama “virtù”), oppure il male
(nel qual caso abbiamo il vizio)”. Volendo estremamente semplificare e generalizzare,
rientrano nelle virtù tutte quelle che comunemente chiameremmo “buone abitudini”, nel
vizio le “cattive abitudini”. Ovviamente queste “abitudini”, buone o cattive, producono
poi, nel concreto, degli “atti” (che sono buoni o cattivi, nel senso visto negli articoli
precedenti) e quindi costituiscono il medium tra gli atti che originano e le facoltà superiori
(intelletto e volontà) che li ordinano. è molto importante, alla luce di ciò, comprendere il
carattere decisivo che vizio e virtù hanno nel condizionare la nostra vita morale: l’intelletto
e la volontà, infatti, tendono, ordinariamente, ad assecondare le abitudini e incrementarle
ed esse, a loro volta, si traducono in atti conformi alla loro qualità (buona o cattiva)
ugualmente con ritmo ordinariamente crescente. Le virtù possono essere
“acquisite” (mediante la ripetizione degli atti) oppure infuse, come vedremo, direttamente
da Dio, mentre i vizi possono solo solo essere acquisiti, anche se, come sappiamo, sono
originati e alimentati dalla grande ferita (“concupiscenza”) del peccato originale, che in
questa vita non è purtroppo possibile rimarginare del tutto.
Varie sono state nel corso della storia le definizioni proposte della virtù. San Tommaso (in
S. Th., I-II, q. 55) ne riporta diverse, tutte ugualmente belle e significative, sia di autori
cristiani che di alcun grandi personaggi pagani. Così il medievale maestro delle sentenze
Pietro Lombardo definiva la virtù “abito buono della mente umana con cui si vive
rettamente e di cui nessuno usa malamente (virtù acquisita) o che Dio produce in noi
senza di noi (virtù infusa)”. Sant’Agostino, invece, molto semplicemente definì la virtù
come “uso buono di quelle cose di cui potremmo usare male”, oppure altrove, in modo
molto significativo, “buon uso del libero arbitrio”. Tra i pagani, Aristotele affermò che la
virtù “rende buono chi la possiede e l’azione che compie” e anche che “agire secondo virtù
è difficile come colpire il centro di una circonferenza”, mentre Marco Tullio Cicerone
affermò, egregiamente, che “la virtù è per l’anima ciò che la salute e la bellezza sono per il
corpo”. Nella Summa contra Gentiles, l’Aquinate definì la virtù come “il giusto mezzo tra
vizi contrari in base alla debita determinazione delle circostanze”: per esempio, la fortezza
è il giusto mezzo tra gli opposti vizi della viltà e della temerarietà. Sono tutte
considerazioni molto edificanti, che vanno ritenute nel loro insieme, valorizzando le
singole tessere che ciascuna di esse aggiunge al mirabile mosaico della comprensione di
cosa sia una virtù.
Le virtù, come già abbiamo accennato, si distinguono anzitutto nei due grandi generi delle
virtù umane (quando sono acquisite dall’uomo) e infuse (quando sono donate
direttamente da Dio senza concorso dell’uomo). Le virtù umane, a loro volta, si specificano
ulteriormente in “intellettuali” (quelle finalizzate a ordinare l’intelletto ad una conoscenza
sempre maggiore della verità) e “morali” (quelle che orientano la volontà al bene,
attraverso la scelta di atti buoni e/o il governo delle passioni). Le principali virtù morali
sono le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), mentre quelle
teologali sono la fede, la speranza e la carità. In ordine alle virtù morali afferma molto
saggiamente Aristotele (citato e seguito da san Tommaso): “Gli abiti delle virtù e dei vizi
sono causati dagli atti”; ancora: “Le virtù nascono e muoiono in forza di atti contrari”;
infine: “Gli abiti virtuosi decadono e si perdono per mancanza di esercizio”. L’Aquinate
dal canto suo puntualizza che “è necessario che l’uomo si eserciti simultaneamente sulla
materia di tutte le virtù morali. E se si esercita in tutte col ben operare, acquisterà gli abiti
di tutte le virtù morali”. Come vedremo, ordinariamente quando Dio infonde, attraverso la
grazia santificante, le tre virtù teologali, con esse infonde anche l’abito di tutte le virtù
morali (!). Conseguentemente grandi sono i doni, ma anche grande la responsabilità di
tutti i battezzati, che hanno realmente nella propria anima gli abiti di tutte le virtù ma che
purtroppo, assai sciaguratamente, trascurando di compierne gli atti, si degradano ad una
vita di vizio non diversamente da chi, non di rado senza alcuna propria colpa, non ha
avuto la grazia di ricevere tali tesori dal cielo. è dunque bene non dimenticare l’adagio
evangelico: “A chi molto fu dato, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto
molto di più” (Lc 12,48).
1. LE VIRTÙ INTELLETTUALI
Cominciamo con questo capitolo l’analisi delle virtù umane. Prima le virtù in generale, poi
le virtù cristiane. Le virtù umane (in generale) si distinguono in intellettuali (quelle atte a
regolare il buon uso dell’intelligenza) e morali (quelle attraverso cui la volontà esercita il
dominio delle passioni). Quelle cristiane, come è noto, si distinguono nelle tre virtù
teologali (fede, speranza e carità) e nelle quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia,
fortezza e temperanza), a cui sono collegate e raccordate tutte le altre. Il discorso sulle
virtù cristiane avrà come corollario necessario la descrizione dei sette doni e dei dodici
frutti dello Spirito Santo, nonché delle otto beatitudini.
Le cinque virtù intellettuali sono: intelletto, sapienza, scienza, arte e prudenza.
L’intelletto è una virtù intellettuale per mezzo della quale l’uomo ragiona correttamente,
applicando in modo adeguato i primi princìpi fondamentali di ogni umano raziocinio
(identità, non contraddizione e terzo escluso). Questi princìpi, per la verità, sono innati e
conosciuti dall’intelletto in maniera istantanea; la virtù dell’intelletto, tuttavia, ne regola la
loro corretta applicazione. Per farsi un’idea pratica dell’importanza di questa virtù, basti
pensare a quanti ragionamenti contorti, tendenziosi, a volte bislacchi, speciosi o faziosi
fanno gli uomini privi di essa. Concorrono non poco all’acquisto di questa virtù la
pacatezza, lo spirito di riflessione, lo studio, la meditazione e, per i credenti, la preghiera.
Gesù, per esempio, accusò esplicitamente i suoi discepoli di essere “privi di intelletto”,
quando non compresero la metafora del lievito dei farisei oppure l’insegnamento sul puro
e sull’impuro (cf Mt 16,5-12 e Mc 7,18).
La sapienza è la virtù per per mezzo della quale attraverso le cose create (e le nozioni ad
esse relative) l’intelletto risale e conosce le realtà ultime e supreme (Dio e la metafisica).
Non stupisca il fatto che essa sia una virtù intellettuale. Conoscere che Dio esiste e che
governa l’universo è atto non di fede, ma della ragione (che abbia, ovviamente, acquisito
questa virtù). Dicono infatti i Salmi: “Lo stolto pensa: non c’è Dio” (Sal 13,1) e: “Lo stolto
pensa: Dio non esiste” (Sal 52,2). Stolto, in senso etimologico, vuol dire stupido, privo di
intelligenza. Si legge, inoltre, nel libro della Sapienza (non a caso!!!): “Davvero stolti per
natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non
riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Difatti
dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sap 13,1-5). La
santa Madre Chiesa, a partire da queste affermazioni, ha solennemente affermato nella
costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I che “Dio, principio e fine di ogni cosa, può
esser conosciuto con certezza con la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose
create” (Denz 3004), aggiungendo che “Se qualcuno dice che Dio, uno e vero, creatore e
signore nostro, non può esser conosciuto con certezza, col lume dell’umana ragione,
attraverso le cose create, sia anatema” (Denz 3026).
La scienza è la virtù per mezzo della quale si conoscono nella loro verità e concatenazione
causale tutte le realtà create in se stesse, mediante dei processi che, utilizzando
correttamente i primi principi, formulano adeguate nozioni. Tutte le discipline realmente
scientifiche (siano esse scienze umane o scienze cosiddette “esatte”) operano adoperando
questa virtù, realizzando quella che Aristotele chiamava “una conoscenza delle cose
mediante le cause loro proprie”.
L’arte è quella particolare virtù per mezzo della quale si realizzano particolari opere
dell’ingegno quali pitture, sculture, opere architettoniche, poesie, composizioni musicali,
etc. Ad essa si accompagna anche la particolare e concreta “arte” di tutti quei mestieri che
sono conosciuti come “artigianato”. Questa virtù può essere certamente acquisita, ma in
alcune persone presenta delle particolari disposizioni innate, come gli innumerevoli geni
di ogni campo artistico succedutisi nel corso della storia dimostrano senza bisogno di
spendere molte parole in merito.
Infine la prudenza, che Aristotele definiva la “regina della virtù” e che si definisce come
“retta ragione delle cose da compiersi”, è quella virtù per mezzo della quale la nostra
intelligenza discerne le cose da farsi o meno sul piano concreto e i mezzi da scegliere per
poterle realizzare. è la virtù che consente di ben vivere e ben operare. Gli sforzi per cercare
di acquisirla non saranno mai abbastanza. Importantissima, sotto questo punto di vista, è
la cura della formazione della propria coscienza e la conoscenza dei principi generali
dell’ascetica e della spiritualità.
2. LE VIRTÙ MORALI
Tra le virtù comuni agli esseri umani (a prescindere dalla vita teologale della grazia) si
annoverano, oltre a quelle intellettuali, le dieci virtù cosiddette morali, che sono preposte
al controllo delle passioni. Esse sono dieci più la giustizia, esattamente lo stesso numero
(undici) delle passioni umane che debbono controllare e regolare: amore e odio, desiderio
e ripugnanza, piacere-gioia e dolore-tristezza, audacia e paura, speranza e disperazione,
ira. Esse sono: fortezza, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, filotimia,
affabilità, veracità, eutrapelia, mansuetudine, a cui si deve aggiungere la giustizia.
La fortezza è virtù preposta a moderare la componente irascibile dell’uomo, aiutando la
volontà a compiere il bene conosciuto come tale e comandato dalla ragione, anche in
presenza di grosse difficoltà incombenti, pericoli, ostacoli e problemi. Ha come vizi
opposti la viltà (che fa fuggire di fronte alle difficoltà e ai pericoli) e la spavalderia (che fa
compiere cose inopportune o impossibili presumendo di sé), di cui è il giusto mezzo.
La temperanza è la virtù che modera l’attaccamento ai piaceri sensibili, indirizzando verso
il loro giusto e corretto uso, soprattutto i piaceri legati al tatto (piaceri venerei) e al gusto
(gola). Rappresenta il giusto mezzo tra l’intemperanza (che fa abusare o mal adoperare tali
piaceri) e l’insensibilità (condizione patologica propria di chi non sente attrattiva verso ciò
che è sensibilmente e materialmente dilettevole).
La liberalità regola il disordinato attaccamento al denaro e ai beni materiali che si
possiedono (detti comunemente “beni di fortuna”), in vista del loro impiego a favore del
bene oggettivo del prossimo. L’avarizia è il difetto che le si oppone per difetto, mentre la
prodigalità la supera per eccesso.
Affine alla liberalità è la magnificenza, che regola l’uso corretto dei soldi e dei beni in vista
non del bene oggettivo del prossimo, ma del perseguimento di grandi opere, per sé, per
Dio, per il consorzio umano. La considerazione dei suoi due estremi (la grettezza da un
lato, lo sperpero dall’altro) ne consente di ben focalizzare l’ambito e l’oggetto.
La magnanimità è la virtù che fa tendere verso alti ideali di perfezione e cose grandi, senza
peccare di presunzione, vanagloria e ambizione e senza scadere nella pusillanimità, che fa
rimanere inerti e inoperosi dinanzi al dovere di ben impiegare i talenti ricevuti.
La filotimia è virtù assai importante, che regola l’attaccamento all’onore e ai beni morali,
molto simile a quella che comunemente si chiama “modestia”.
L’affabilità, virtù davvero splendida e quanto mai rara, è la piacevolezza nel modo di
parlare ed agire. Essa rifugge dalla polemica da un lato e dall’adulazione dall’altro ed è
una delle virtù che maggiormente concorrono a rendere la vita terrena molto gradevole.
La veracità consiste nella sincerità e fedeltà nelle parole (e anche negli atti), in modo che
quello che si dice (e si fa) sia fedele al vero e una volta data una parola si sia ad essa fedeli.
L’eutrapelia è la moderazione nei divertimenti, nel gioco e, più in generale, nelle attività
ricreative. Di esse ne abbiamo certamente necessità, ma non è mai cosa buona abusarne.
La mansuetudine tiene a bada e a freno gli impeti violenti della terribile passione dell’ira,
perché non esplodano in atti di rabbia, di violenza o quant’altro.
La giustizia, infine, regola tutti gli atti morali dell’uomo nei confronti degli altri: di Dio, del
prossimo, delle istituzioni, della famiglia, dei superiori e dei sottoposti, etc., facendo in
modo, come ben dicevano i romani, che si dia “a ciascuno il suo” (“suum cuique tribuere”)
e che ha, come poli opposti e contrari, l’ingiustizia da un lato e la parzialità dall’altro.
Tutte queste virtù furono oggetto di studio da parte di grandi pensatori e autori pagani:
solo per fare qualche nome, Socrate, Platone e Aristotele in Grecia, Cicerone e Seneca a
Roma. Da essi furono anche coltivate con diuturna e costante attenzione e sforzo. Oggi,
purtroppo, se ne vedono in giro ben poche. Vedremo, a partire dal prossimo capitolo, che
la grazia non fa altro che consolidarle e abbellirle, in quanto esse richiamano la nobile
origine (divina) dell’uomo e possono essere facilmente riconosciute, amate e apprezzate da
chiunque abbia solo un minimo di buon senso e di buona volontà.
3. LE VIRTÙ TEOLOGALI: LA FEDE
Cominciamo con questo capitolo la trattazione delle virtù cristiane in senso stretto, quelle
cioè che vengono infuse con il sacramento del Battesimo insieme alla grazia santificante,
cominciando anzitutto da quelle specificamente, precipuamente ed eminentemente
caratteristiche dei figli di Dio: la fede, la speranza e la carità.
Menzionate espressamente ed insieme dall’Apostolo delle genti al termine del celebre
“inno alla carità” (cf 1Cor 13,13), esse costituiscono il patrimonio sublime e divino di
coloro che ricevono la grazia immensa e straordinaria di essere battezzati. Devono però
essere custodite e coltivate, perché si possono facilmente perdere e non giungono a
maturazione e perfezione senza un costante e continuo lavoro ascetico riguardante il loro
esercizio in tutte le circostanze della vita.
Troviamo una prima definizione della fede nella lettera agli Ebrei: “fondamento delle cose
che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11,2). Su questa base san Tommaso
d’Aquino ha elaborato la seguente definizione della fede: “abito intellettivo con cui inizia
in noi la vita eterna e che fa aderire l’intelletto a realtà che non appaiono, ossia di per sé
inevidenti”. La definizione è molto bella, alta e profonda e fa cogliere tutti i tratti essenziali
di questa virtù, che Dio ha designato come primo e principale strumento di accesso alla
salvezza. Anzitutto è un abito (cioè una disposizione stabile positiva) intellettivo. La fede
illumina l’intelletto, mettendolo in contatto con informazioni, notizie e contenuti a lui
estranei e sconosciuti e che sono del tutto inevidenti, cioè ignorati e non conoscibili con gli
strumenti ordinari dell’intelletto ed ha come primo e principalissimo oggetto il credere
fermamente e senza alcun dubbio nella vera divinità di Cristo. Si pensi solo a qualche
esempio di verità di fede: la Trinità di Dio, la divinità di Cristo, la natura divina della
Chiesa, l’esistenza di una vita oltre la morte, il concetto stesso di peccato, etc. Fa iniziare in
noi la vita eterna in un duplice senso: primo, perché senza la fede non si può essere
battezzati e non si può in nessun modo essere salvati; secondo perché avendo l’accesso alle
verità di fede, si comincia a vivere fin da questa terra in modo divino e soprannaturale
(come scrive anche in questo caso san Paolo: “il giusto vive di fede”, cf Gal 3,11 e Rm 1,17),
dal momento che le scelte, lo stile di vita, i grandi orientamenti dell’esistenza sono
illuminati e orientati dall’orizzonte della fede, che inevitabilmente è e deve essere sempre
totalizzante e onnicomprensivo.
L’oggetto della fede è anzitutto Dio e secondariamente tutte le verità di fede e i dogmi che
direttamente o indirettamente lo riguardano. Si tratta di una virtù necessariamente infusa
sia dalla parte dell’oggetto (mai l’intelletto potrebbe apprendere da se stesso i dogmi e le
verità di fede) sia dalla parte del soggetto, dal momento che nessuno, con le sole sue forze,
potrebbe elevarsi ad aderire a verità che lo elevano al di sopra della propria natura, cosa
del tutto impossibile senza una preventiva e necessaria mozione della Grazia.
La fede comporta tre tipi di atti da parte del soggetto: primo, adesione piena e
incondizionata a tutti i contenuti delle verità rivelate (sant’Agostino chiamava questo
aspetto, “credere Deum”); secondo, obbedienza assoluta e incondizionata a Dio che è
l’autore della fede, fondata sul fatto che Egli non si sbaglia né può sbagliare, non si
inganna né può ingannare e pertanto tutto ciò che rivela è degno di fede assoluta; terzo,
adesione esistenziale e amorevole a Dio e a ciò che Egli rivela, in modo tale che tutta la vita
diventi totalmente informata dalle verità di fede e culmini nella preghiera, nella lode e
nella carità.
Infusa con il sacramento del Battesimo, le fede cresce con la preghiera, la frequentazione
dei sacramenti, lo studio e l’approfondimento delle verità di fede, attraverso l’ascolto di
buone prediche, la partecipazione a sane catechesi, la lettura del Vangelo e delle opere di
spiritualità, la conoscenza e l’approfondimento del catechismo. La trascuratezza di queste
cose porta alla progressiva e graduale perdita della fede, che rimane, come spiega san
Tommaso, solo come una sorta di radice informe (e infruttuosa) ma incapace di svolgere il
suo compito di orientamento totalizzante della vita e delle sue scelte. Ovviamente anche il
peccare mortalmente o, peggio, vivere abitualmente in vizi e peccati fanno morire la fede,
lasciandola languire al suo stato informe. Ci sono anche dei peccati direttamente e
formalmente contrari alla fede: l’incredulità e la bestemmia contro lo Spirito Santo. Di essi
e delle loro specie avremo modo di parlare nel prossimo paragrafo.

I peccati contro la fede

I principali peccati contro la Fede si dividono in due generi: l'incredulità e la bestemmia


contro lo Spirito Santo. Ci occuperemo in questo capitolo dell’incredulità e delle sue
specie.
L'incredulità consiste anzitutto nel rifiuto di credere alla predicazione del Vangelo e della
verità o nel disprezzo di essa. Può riguardare sia chi ascolta il primo annuncio della fede
(per esempio un pagano in terra di missione) oppure una persona già battezzata ma che
abbia smarrito l'autentica fede o, peggio, si sia fatta un proprio credo a sua immagine e
somiglianza. Certamente la fede si annuncia e interpella le singole libertà delle persone a
cui la si propone senza mai poterla imporre in nessun modo, in nessun caso e a nessuno.
Tuttavia, pur essendo un atto libero, ciò non toglie che a tale annuncio è dovuta
accoglienza e obbedienza e chi non gliela desse non potrebbe essere esente dal gravissimo
peccato di incredulità. Tale peccato si suddivide, peraltro, in alcune distinte specie, le cui
principali sono: l'ateismo, l'apostasia, l'eresia, l'errore e il dubbio ostinato. L’ateismo è il
rifiuto ostinato e irragionevole di credere nell’esistenza di un Dio creatore e personale e,
quindi, nelle verità da Lui rivelate. Si tratta di un grave peccato perché, come ha insegnato
autorevolmente il Concilio Vaticano I nella Costituzione Dei Filius, negare che esista un
Dio creatore dell’universo è atto che va non solo contro la fede, ma anche contro la ragione
dell’uomo, a cui consta, per evidente esperienza, che nulla di ordinato e perfetto può
esistere senza una intelligenza che lo abbia generato; e nulla di più perfetto esiste che
l’universo (almeno quella parte che noi conosciamo). L’apostasia è il gravissimo peccato
del rinnegare la fede già professata, stigmatizzato dalle severe parole evangeliche di Gesù:
“chi mi rinnegherà davanti a gli uomini, anch’Io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è
nei cieli” (Mt 10,33). Questo peccato può essere compiuto per paura (come nel caso di chi
rinnegasse la fede sotto minaccia del martirio), oppure, con maggiore coscienza e lucidità,
da chi si convertisse ad un’altra religione, qualunque essa sia, dal momento che solo nella
santa fede cattolica c’è tutta intera la pienezza della verità e volgersi a qualunque altra
confessione cristiana o religione significherebbe negare questo. L’eresia è la negazione o
l’alterazione dei dogmi o delle verità di fede divinamente rivelate. Molto grave è questa
specie, perché dalla negazione o l’alterazione delle verità di fede - che già in se stessa
offende grandemente Dio, in quanto è atto di grande superbia e arroganza - conseguono
nefaste conseguenze nell’ambito della vita cristiana, stante il noto adagio “agere sequitur
esse” (“l’agire segue l’essere”, cioè da ciò che si è - e si crede - scaturisce ciò che si fa).
Leggermente meno grave dell’eresia è l’errore, in quanto non tocca direttamente dogmi e
verità divinamente rivelate, ma quelle comunemente credute o che comunque che la
Chiesa propone a credere. Si può quindi definire errore anche lo sbaglio in materie che non
sono definite con certezza di fede. Si pensi per esempio al fatto che l’anima è creata da Dio
immediatamente appena esiste lo zigote, che non è mai stata definita come dogma o
divinamente rivelata; oppure all’esistenza del Limbo, che oggi molti negano a cuor leggero
ma che nella Tradizione della Chiesa è sempre stata creduta; oppure alla mediazione e
corredenzione della Madonna che ancora non è stata definita come dogma. Infine il
dubbio ostinato, consistente nel mettere in discussione le verità di fede in forza della loro
non dimostrabilità razionale, che è peccaminoso perché la forza di una verità di fede, a
differenza delle verità cosiddette scientifiche non sta nell’incontrovertibilità dimostrabile a
livello empirico e razionale, ma nell’autorità (superiore) di Dio che è la fonte delle verità
rivelate e che, per definizione, non sbaglia né può sbagliare, non inganna né può
ingannare. Dubitare di una verità di fede, pertanto, equivarrebbe a negare l’infallibilità
assoluta di Dio, la sua assoluta veracità e la sua assoluta credibilità in tutto ciò che rivela.
La misteriosa tipologia del “peccato contro lo Spirito” è l’altra specie dei peccati che si
oppongono formalmente alla virtù teologale della fede. La motivazione di ciò si
comprende analizzando e meditando bene le parole di Gesù riportate dell’evangelista san
Marco. Il contesto è un esorcismo praticato da Gesù in Giudea (o forse più di un
esorcismo) di cui vennero a conoscenza gli scribi di Gerusalemme. Ora, bisogna sapere che
il fatto di cacciare i demoni è uno dei pochissimi segni certi di presenza di Dio in chi
compie tale opera (le altre sono: predire con precisione un evento futuro, oppure rivelare
un segreto del cuore di una persona che sia noto a lui solo). Ebbene gli scribi cominciarono
a cianciare (bestemmiando) che quest’opera di Gesù sarebbe stata possibile non per la
presenza in Lui dello Spirito di Dio, ma di uno dei principi delle potenze infernali, cioè
Beelzebùl. Al che Gesù oppose non essere ciò possibile, dal momento che il regno del male
appare compatto ed agguerrito ed un regno che fosse diviso in questo modo così
grossolano starebbe per contro in procinto di essere distrutto. E concluse dicendo queste
testuali parole: “In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e
anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo,
non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna”. Poiché dicevano: "E` posseduto da
uno spirito immondo” (Mc 3,28-30). Dal che si capisce bene il motivo per cui la bestemmia
contro lo Spirito è un peccato contro la fede. La fede, infatti, come abbiamo
precedentemente visto, ha certamente la sua prima e principale “autorità” su Dio e sulla
sua Rivelazione. Ma, perché non scada in una vana creduloneria o in una sorta di
sciagurato fideismo, Dio stesso si è preoccupato di dare dei segni circa la soprannaturalità
delle cose rivelate ed anche della credibilità di Chi le ha rivelate (in questo caso Gesù in
persona). Abbiamo detto poc’anzi che scacciare i demoni rientra tra i segni inequivocabili
di origine divina e soprannaturale dell’esorcista per un motivo molto semplice (spiegato
da Gesù nello stesso contesto): i demoni sono angeli decaduti, la cui natura è infinitamente
superiore e più potente a quella umana. Nessuno che non fosse più grande di loro
potrebbe esercitare autorità su di essi. Anche gli angeli buoni (si pensi a san Michele)
combattono e vincono contro gli angeli ribelli perché hanno Dio con loro; in caso contrario
(essendo della stessa natura degli angeli ribelli) la loro vittoria sarebbe tutta da dimostrare.
Se un segno così grande viene travisato e addirittura interpretato come prova del contrario
(Gesù sarebbe una sorta di alleato del principe dei demoni per ingannare la gente) è ovvio
che l’esito di tale assurda operazione sarebbe (come fu nel caso di quegli scribi) la totale
incredulità.
Anche le singole tipologie di peccati contro lo Spirito Santo che la tradizione teologica
della Chiesa è venuta man mano enucleando, sono tutte, almeno sotto un certo
preponderante aspetto, in opposizione alla virtù teologale della fede. La disperazione della
salvezza, infatti, deriva dal non credere nella potenza infinita della divina misericordia che
può perdonare e di fatto perdona sempre il peccatore che si pente sinceramente delle colpe
commesse, è fermamente deciso a non più commetterle e disposto a ripararle e a farne
debita penitenza. La presunzione di salvarsi senza meriti nega l’altra importante verità di
fede che Dio è, oltre che misericordioso, sommamente ed infinitamente giusto e, in quanto
tale, premia i buoni e punisce i malvagi, onde per entrare in paradiso bisogna compiere
quelle che san Paolo chiama le “opere della fede” (ossia le opere buone), altrimenti si resta
fuori. L’impugnazione della verità conosciuta, tipologia molto vicina a quella del Vangelo
che abbiamo commentato, consiste nell’immotivata e volontaria negazione di una verità di
fede e morale già conosciuta esplicitamente nella fede e poi rinnegata volontariamente e
colpevolmente. L’ostinazione nel peccato nega la verità di fede che solo quando si è pentiti
si riceve il perdono di Dio, così come l’impenitenza finale dimentica che basta anche solo
un sincero atto di contrizione per scampare dall’eterna dannazione. L’invidia della grazia
altrui - che è per la verità formalmente contraria (come vedremo) alla virtù teologale della
carità - deriva però da un rifiuto di riconoscere la sovrana libertà divina di rendere o
donare a ciascuno le grazie e i doni che spetta solo a Dio dare a chi vuole, come vuole,
quando vuole e quanto vuole, per i suoi imperscrutabili disegni che devono essere accolti
sempre nell’ottica di fede che Dio sa quello che fa e, Solo, conosce tutti i “perché”.
4. LE VIRTÙ TEOLOGALI: LA SPERANZA
La speranza è la seconda delle tre virtù teologali. Si tratta di una virtù infusa mediante la
quale si tende, con l’aiuto di Dio, al bene futuro, arduo e possibile della beatitudine,
adeguando gli atti umani al fine ultimo, che è Dio. Da questa definizione si comprende
agevolmente la bellezza e l’importanza di questa virtù. Se la fede consente all’intelletto di
fare propri dei contenuti di per sé inevidenti, la speranza arma il desiderio e la volontà
perché pongano in essere tutti i mezzi necessari per raggiungere il motivo per cui Dio ci ha
creati: la beatitudine. L’atto di speranza, che ogni buon cristiano dovrebbe recitare mattino
e sera, recita che si spera da Dio, per la sua bontà e i meriti di Gesù Cristo, la vita eterna e
le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che si possono e si devono voler fare.
Oggetto secondario della speranza, pertanto, sono le grazie che si attendono da Dio per
poter porre in essere le azioni meritorie che consentano di raggiungere l’eterna felicità.
Due considerazioni mi sembrano quanto mai urgenti e opportune. La speranza è quella
virtù che ci fa tendere decisamente al cielo e ci consente, al tempo stesso, di relativizzare e
rettamente usare tutte le cose, i beni e le realtà transeunti ed effimere di questo mondo,
volgendole alla gloria di Dio ed usandone in maniera sempre subordinata ai suoi voleri e
ai suoi comandamenti. Mi chiedo quanti cristiani, anche cattolici, oggi interpretino lo stare
in questo mondo come un pellegrinaggio verso la patria celeste, come un momento di
passaggio, come un tempo propizio per crescere in grazia, virtù, meriti e santità. Uno dei
grossi equivoci o, se di preferisce, errori di certa mentalità contemporanea, è aver chiuso
l’orizzonte dell’uomo in una prospettiva rigorosamente ed eminentemente terrena. Anche
se si professa di credere vagamente ad una sorta di indefinito “aldilà”, di fatto si rimane
molto attaccati a questa vita e anche il bene che spesso si compie e si opera è sempre un
bene finalizzato a tamponare o soccorrere bisogni temporali. Se noi chiedessimo a un
cristiano medio se è più importante che una persona si confessi e si metta in grazia di Dio
oppure (tanto per fare un esempio) che si costruisca un ospedale moderno dove poter
meglio curare una sua malattia, quale risposta avremmo? Beninteso, combattere le malattie
è cosa molto buona e quando si è malati Dio vuole che ci si curi. Ma stare non in grazia di
Dio è cosa ben più grave di una malattia, per le conseguenze nefaste che ciò comporta non
solo in questa, ma anche nell’altra vita. La genuina tradizione della Chiesa ha, infatti,
sempre insegnato che in questo mondo siamo “viatori” in cammino verso la patria, verso
la meta, verso il fine della nostra esistenza. E che non abbiamo una città stabile quaggiù.
La seconda considerazione riguarda il pensiero, oggi enormemente diffuso, circa il modo e
le eventuali difficoltà di raggiungimento del fine ultimo. Mi spiego con qualche esempio:
andare in Paradiso è facile o difficile? La dannazione è un’ipotesi realmente concreta o una
eventualità praticamente impossibile? La tradizione della Chiesa ha definito il sommo
bene della beatitudine un bene possibile (cioè raggiungibile), ma anche “arduo”. Arduo
significa “difficilmente raggiungibile”. Quando a Gesù chiesero se fossero pochi quelli che
si salvano, Egli diede una risposta assai chiara e che molto dà da pensare: “sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi ma non ci
riusciranno” (Lc 13,23-24). Questa lapidaria e perentoria risposta di Gesù rende retoriche le
domande appena formulate. Se molti non ci riusciranno, pur provandoci, vuol dire che
non è affatto né facile, né scontato raggiungere il Paradiso, e che molti falliranno questo
che è l’obiettivo degli obiettivi, la causa della nostra creazione, il motivo unico per cui ci è
concesso un tempo da vivere in questo mondo che passa. San Pietro, nella sua prima
lettera, parla della salvezza dell’anima come meta da raggiungere, non come esito
univoco, universale e inevitabile della vita terrena (cf 1Pt 1,3-10). Eppure, anche a sentire
certe omelie di alcuni riti funebri, oggi sembra che in Paradiso ci vadano tutti, a
prescindere da quello che hanno fatto, da come sono vissuti, da quali virtù abbiano
praticato. Sembra che la misericordia di Dio sia una sorta di gigantesco “straccio da
spolvero” che cancelli, indiscriminatamente, qualunque macchia e cattiva azione anche a
prescindere da una minima larvata parvenza di pentimento e che quindi tutti, buoni e
cattivi, abbiano accesso sicuro e certo all’eterna beatitudine. Nessuno che abbia un minimo
di buon senso e di fede anche solo abbozzata e informe può negare che un simile pensiero
è totalmente in disaccordo con la Rivelazione e con l’immutabile e costante insegnamento
della Chiesa. Preghiamo il Signore che tutti possiamo riscoprire l’importanza capitale della
virtù della speranza e muoverci dentro il suo sicuro “ambito d’azione” per attendere
all’impresa della nostra salvezza con gioia e risolutezza, con prudenza e con fermezza ed
anche con “timore e tremore” (Fil 2,2).

I vizi opposti alla speranza

San Tommaso d’Aquino insegna che la virtù teologale della speranza contribuisce in
maniera forte e determinante ad infervorare l’anima ad amare Dio e ad osservarne i
comandamenti. Ciò perché distoglie l’anima dal desiderio dei miseri ed effimeri beni
terreni facendole volgere lo sguardo, le aspirazioni e i pensieri verso quelli eterni. San
Paolo, al riguardo, scrive egregiamente: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù,
dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della
terra” (Col 3,1-2). Una magnifica, plastica e dinamica descrizione di ciò che la speranza
opera una volta che viene infusa in un’anima! Essa fa aderire in maniera piena e risoluta a
Dio in quanto bontà perfetta e somma beatitudine dell’uomo, in modo certo, stabile e
duraturo, partecipando, in modo proprio, alla stessa granitica certezza che, sotto altri
aspetti, presenta - come abbiamo avuto modo di vedere - la fede. Quando la speranza è
forte in un’anima, la sua tensione decisa verso la meta è palese e percepibile e tutte le
scelte diventano subordinate alla compatibilità o meno con il fine e il senso ultimo della
vita terrena. La speranza è anche un ottimo sprone alla ricerca della sapienza, la virtù
intellettuale suprema che fa pensare secondo il cuore di Dio e muovere la vita in
ottemperanza ai suoi disegni, in quanto con la sua forza soave ritrae l’anima dal mondo e
dal peccato e la lancia nei santi voli verso le vette eterne. La speranza, infine, dispone
ottimamente all’adorabile virtù dell’umiltà, in quanto spinge alla presa di coscienza della
grandezza assoluta di Dio dinanzi al quale tutto è nulla; e, quindi, l’anima che ne è
pervasa cessa di studiarsi di apparire grande all’esterno e di desiderare di esserlo, non
avendo altra aspirazione che Dio sia magnificato e glorificato. Il “Magnificat” cantato dalla
Madonna ne è l’espressione suprema e cristallina.
Sono sommamente contrarie alla speranza due delle sei specie degli orribili “peccati contro
lo Spirito”, individuati nel corso del tempo dalla Tradizione della Chiesa: la disperazione
della salvezza e la presunzione di salvarsi senza meriti. La prima tipologia (la più grave) è
proprio formalmente contraria a questa virtù, in quanto dubita che Dio voglia la salvezza
degli uomini e dia a tutti i mezzi necessari per conseguirli, alla sola condizione che l’uomo
si converta e si disponga a riceverli. Questo peccato fu commesso da Caino e da Giuda ed
offende infinitamente l’infinita bontà e misericordia di Dio. La seconda tipologia nasce
dalla superbia, perché presume anzitutto di poter ottenere il perdono da Dio senza vero e
sincero pentimento, che - si badi e si ricordi - comprende sempre in sé il fermo e risoluto
proposito di non peccare mai più, e poi di raggiungere la gloria e la beatitudine senza lo
sforzo necessario ad acquisire i meriti necessari per conseguirla, disprezzando e
calpestando, in questo modo, il mistero della divina giustizia. Anche altre forme meno
estreme di superbia si oppongono alla speranza, quale - per esempio - la sciocca pretesa di
riuscire a salvarsi con le sole proprie forze, che è la caratteristica peculiare del peccato di
vanagloria.
Si accompagna alla speranza, infine, una disposizione che è perfezionata dal
corrispondente dono dello Spirito Santo, ossia il timore filiale di Dio. Questa forma di
timore (più elevata e nobile di quello servile che teme Dio in quanto castiga e punisce il
male) consiste nella somma riverenza verso di Lui unita al sereno, ma profondo, timore di
dispiacerlo e offenderlo anche nelle piccole cose, e spinge ad operare ed agire per piacergli
in tutto, non solo in vista del premio, ma anche perché Dio è degno di essere sommamente
compiaciuto, amato e servito. Ecco perché la speranza “termina” e “confluisce” quasi
spontaneamente nella più grande delle virtù: la carità. È di essa che presto dovremo
occuparci.
5. LE VIRTÙ TEOLOGALI: LA CARITÀ
“Queste dunque sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità. Ma di tutte
più grande è la carità” (1Cor 13,13). Queste celebri parole dell’Apostolo delle genti, che
chiudono in maniera mirabile il cosiddetto “inno alla carità”, fanno immediatamente
comprendere l’abisso che si apre quando ci si accinge a parlare di questa formidabile virtù,
la più grande e la regina di tutte, che tutte governa e regola e senza la quale niente è
gradito e accetto a Dio. Eppure poche virtù come questa sono così soventemente travisate
e non comprese nel loro significato autentico e profondo. Non è raro, nel pensiero comune,
confondere la carità con le piccole (o anche grandi) elemosine fatte a favore di qualche
indigente; oppure identificarla con qualche pur importante e meritoria opera di
misericordia, quale il volontariato in una mensa dei poveri, la costruzione di ospedali e
case di formazione o per anziani in terra di missione e simili; o infine travisarne il concetto
facendola scadere in un nefasto “buonismo” che tende a giustificare tutto e tutti, a
cancellare la distinzione tra bene e male, a nascondere - dietro lo specioso pretesto del
“non giudicare” - una pericolosissima abdicazione dal dovere di dire la verità e denunciare
il male e il peccato (senza ovviamente condannare senza appello il peccatore) dovunque
appaia e comunque si manifesti.
La carità è virtù così grande perché è quella che esprime la vita intima di Dio. Non senza
ragione, in ben due luoghi della sua prima lettera, san Giovanni, il discepolo prediletto di
Gesù e l’apostolo dell’amore, ha perentoriamente affermato che “Dio è amore” (1Gv 4,8.16)
dando quasi l’impressione di volere tentare l’impossibile definizione dell’essenza di Dio.
Stiamo dunque dinanzi a qualcosa di veramente grande. Proviamo dunque a fissare lo
sguardo sul sole di quest’aurea virtù, che dà vita al primo e più grande dei comandamenti,
e che rappresenta il principio e il fine della perfezione cristiana.
San Tommaso d’Aquino insegna che la carità è l’amicizia di benevolenza tra l’uomo e Dio,
creata in noi da Dio affinché la volontà agisca con prontezza e facilità per amore di Lui. E’
la più grande delle virtù perché ha Lui come oggetto immediato e diretto ed è la forma di
tutte le virtù in quanto ordina tutti gli atti dell’uomo al fine ultimo. Essa infatti consiste
anzitutto nell’amare Dio con tutto se stessi: con la totalità della dimensione affettiva
(“amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore”), con la totalità della dimensione
intellettiva (“amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua mente”) e con la totalità della
dimensione volitiva (“amerai il Signore tuo Dio con tutte le tue forze”). Solo Dio va amato
in questo modo pieno, totale e assoluto; e per quanto ci possiamo adoperare e sforzare -
insegna sempre san Tommaso - è praticamente impossibile adempiere con perfezione
questo primo precetto della carità. Unica eccezione è la Beatissima e Sempre Vergine
Maria, l’Unica che è stata capace di amare Dio, pur da creatura, come merita, nel senso
che, anche se certamente nemmeno Lei ha potuto, in quanto creatura limitata, adeguare
perfettamente l’infinito amore che Dio si merita, l’ha amato al massimo possibile per una
creatura, per cui nessuno ha amato Dio quanto Maria Santissima e nessuno mai potrà
uguagliarla in questo. Qualche santo particolarmente devoto alla Madonna ha addirittura
affermato che l’amore di Dio della Vergine Santissima supera, da solo, quello di tutti gli
angeli e santi messi insieme!
Da questo primo precetto discende immediatamente il secondo, che è quello dell’amore
del prossimo. Al riguardo l’Aquinate sottolinea che l’amore santo di sé stessi (cioè l’amore
della propria anima), viene logicamente prima dell’amore del prossimo (ed infatti il
precetto prescrive di amare il prossimo come stessi). Ovviamente si tratta di amore santo,
perché sia l’amore di sé che l’amore del prossimo trovano la loro ragion d’essere
nell’amore di Dio, il solo che va amato per sé stesso. Noi amiamo la nostra anima e quella
del prossimo in quanto in esse c’è l’immagine e la somiglianza di Dio e perché Egli le ha
create per sé e per renderle partecipi della sua beatitudine. Tutte le altre forme di “amore”
non hanno che il nome di questo atto, ma ben poco della sua sostanza. Questo amore
comprende anche quello al nemico (di cui si deve desiderare la conversione e la salvezza) e
ad esso devono essere sacrificati i beni esterni ed anche lo stesso corpo, come Gesù insegna
nel Vangelo.
In quanto virtù teologale, la carità è infusa dallo Spirito Santo nella misura che a Lui piace.
Ma come per tutte le virtù (anche quelle infuse), la sua permanenza, crescita o - Dio non
voglia - perdita, dipende da come l’anima la custodisce, la coltiva e la esercita. Come per
tutte le virtù, anche la carità cresce ogni volta che si compie un atto di amore per Dio o di
amore santo di sé stessi, oppure di amore ordinato del prossimo. Anche solo dire col cuore
a Dio: “ti amo”, anche quando non si sentissero riverberi emotivi e sensibili per questa
frase, determina un aumento del nostro amore per Lui. L’apostola dell’atto d’amore, la
serva di Dio suor Consolata Betrone, ebbe a suo tempo dal cielo il compito di far
comprendere quanto è importante esercitare questa virtù anzitutto in riferimento all’amore
di Dio. La vita di molti cristiani, anche cattolici, è purtroppo a volte molto fredda o, quanto
meno, tiepida. La carità, se ben coltivata, porta al fervore e allo zelo, ad avere un cuore
infiammato per Dio, incamminandosi verso l’adempimento del primo e più importante
comandamento, oggi troppo spesso frettolosamente accantonato per far spazio al pur
importante ma pur sempre secondo precetto della carità. San Filippo Neri ebbe addirittura
uno spostamento delle costole (all’altezza del cuore) a causa dell’ardore della sua carità
verso Dio che diede luogo allo straordinario fenomeno mistico della bruciatura (vera,
reale, fisica) delle vesti che il santo portava, con buchi e aloni neri tuttora visibili sulle sue
camicie all’altezza del petto! Il suo cuore prendeva realmente fuoco! Tanto grande (e in
verità sempre poco…) dovrebbe essere l’amore dei cristiani verso il loro Dio!
San Tommaso insegna che la perfezione della carità si manifesta quando l’anima pone
tutto il suo impegno nell’attendere a Dio e alle sue cose, posponendo a ciò ogni altro
interesse e relativizzando tutto ciò che comunque deve fare per vivere in questo mondo. Il
grado comune e ordinario della carità, invece, consiste nel tenere il proprio cuore
abitualmente in Dio, in modo da non pensare, volere, né fare nulla che sia contrario
all’amore di Lui. I peccati veniali comportano una sensibile diminuzione della carità
(questa virtù, anzi, ne risente più delle altre) ed inevitabilmente alla mediocrità, tiepidezza
e, nel peggiore dei casi, al colpevole raffreddamento di essa.
Quando la carità abita in un cuore lo si vede da tre spie inconfondibili: la gioia, la pace e la
(vera) misericordia. La loro assenza in noi è un chiarissimo, anzi inequivocabile segno di
scarsa vitalità della virtù teologale della carità. La gioia è quella disposizione di allegrezza
abituale (non per nulla il già citato san Filippo Neri è uno dei grandi santi della gioia) che
è provocata e alimentata dall’amore di Dio e del prossimo. Il grande san Giovanni Bosco,
al riguardo, amava dire che la santità consiste nello stare molto allegri, così come che il
demonio ha molta paura della gente allegra. Questo aspetto andrebbe molto meditato e
approfondito, perché anche tra le anime buone e devote si vede sovente la presenza di una
grande tristezza, che non può coesistere con una vera e autentica carità. La pace viene
dalla piena concordia dei desideri e aspirazioni dell’uomo con i divini voleri e opera in
modo tale da evitare sempre, quando è possibile, ogni minima forma di discordia, contesa,
polemica e discussione con il prossimo. La misericordia consiste nella compassione per i
peccati e i mali degli altri ed è direttamente e formalmente contraria all’invidia che anziché
compatire si rallegra dei mali altrui. Essa porta a farsi carico con amore delle miserie e
delle infermità del prossimo, a considerare il peccatore con compassione, a perdonare di
cuore le sue offese e giunge a fare del bene a chi fa del male, a benedire i maldicenti, ad
essere longanimi con gli ingrati. Per i figli di Dio non esistono altre disposizioni che
queste. E quando non le dovessimo riscontrare in noi, niente facili autogiustificazioni,
minimizzazioni o improbabili difese. è necessario esercitare più e meglio questa aurea
virtù, verificare che non si stia conducendo una vita troppo rilassata nella lotta al peccato
veniale e alimentarla alla fonte suprema di essa che è, come avremo modo di vedere
meglio, la santa Messa e la comunione sacramentale con Gesù eucaristia.
La carità ha degli atti peculiari in cui si esplica e si esercita e che san Tommaso, sull’onda
della Tradizione ascetica e spirituale, individua in tre particolari opere: la beneficenza,
l’elemosina e la correzione fraterna.
La beneficenza consiste, come dice il nome stesso, nel fare il bene, qualsiasi tipo di bene a
qualunque persona (amica o nemica, simpatica o antipatica): da un sorriso, a un favore, a
una parola di pace, a un incoraggiamento, a una qualunque gentilezza. Il garbo,
l’affabilità, il sorriso, la gentilezza, la generosità sono atteggiamenti che non possono non
trasparire quando la carità è viva in un’anima e, se non ci sono, qualcosa certamente non
funziona. Sono vere e proprie opere di beneficenza le sette opere di misericordia corporale
e spirituale enucleate dalla tradizione della Chiesa: dar da mangiare agli affamati e da bere
agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare i malati e i carcerati e
seppellire i morti (opere di misericordia corporale); insegnare agli ignoranti, ammonire i
peccatori, perdonare le offese, consolare gli afflitti, consigliare i dubbiosi, sopportare
pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti (opere di
misericordia spirituale). La legge del cristiano è fare sempre il bene, fare quanto più bene
possibile, quanto più spesso possibile e a quante più persone possibili. Molto occorre
imparare, quando si fa l’esame di coscienza, a verificare questo punto e prendere coscienza
delle innumerevoli omissioni che si commettono su questa materia.
L’elemosina è uno dei punti più importanti della vita cristiana e molto spesso trascurato
da non pochi fedeli. San Paolo scrive a chiare lettere che “l’attaccamento al denaro è la
radice di tutti i mali” (1Tm 6,10) e Gesù ha tuonato più volte nei vangeli con il noto
aforisma: “non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24; Lc 16,13), dove con
“mammona” chiaramente è da intendersi il denaro. L’elemosina, infatti, è una specie
particolare di beneficenza, cioè un atto di carità consistente nell’elargire liberamente,
volontariamente e gratuitamente denaro per sovvenire una miseria o una necessità altrui.
Gesù invita chiaramente i suoi discepoli “a non accumulare tesori sulla terra”, ma ad
accumularli “in cielo”, ricordando che dove è “il tesoro dell’uomo” lì si trova “anche il suo
cuore” (Mt 6,19-21). San Tommaso avverte che l’elemosina è un precetto cioè un obbligo in
due casi: quando si hanno dei beni superflui e quando c’è una situazione disperata di
estrema necessità; è un consiglio negli altri casi. Bisogna però sempre ricordare, con la
sapienza del santo patrono d’Italia san Francesco, che nessuno può portare soldi in
paradiso, a meno che non faccia ingenti versamenti sulla “banca del cielo” già in questa
vita attraverso le elemosine. Ogni elemosina, infatti, viene da Dio accolta e registrata e sarà
certamente da lui ricompensata. Il Dottore Angelico spiega che se la persona non sarà
salvata, Dio ricompenserà le sue elemosine in vita concedendo varie grazie di tipo
temporale; se invece l’anima raggiungerà la salvezza, come scrive san Pietro, molti peccati
saranno scontati dalle elemosine e dalle oltre opere di carità compiute in vita (cf 1Pt 4,8) e
grande ricompensa si riceverà in cielo con più alti gradi di gloria. I cristiani non sono
pauperisti, ma sanno che il denaro è un bene “pericoloso” che deve essere redento e
santificato dalla loro carità e non idolatrato come l’unico vero dio di questo mondo.
Infine qualche parola sulla correzione fraterna, che è una grande opera di carità, ma che va
compiuta nel debito modo. San Tommaso spiega che va fatta osservando le circostanze di
tempo (“quando”), di luogo (“dove”) e di modo (“come”), avendo un occhio particolare al
fine della virtù che è il bene, e che può essere addirittura tolto dalla presenza di una
circostanza non valutata. In particolare se si giudica che il peccatore non accetterà la
correzione ma farà peggio, bisogna desistere dal correggerlo. Inoltre: mai correggere
quando si è interiormente alterati o è alterata la persona da correggere (circostanza di
tempo); mai in presenza di altre persone mortificando la persona che ha sbagliato
(circostanza di luogo); e infine sempre con infinita carità, dolcezza, umiltà e delicatezza (il
modo santo di esercitare la correzione). Se non si osservano bene tutte queste circostanze è
preferibile omettere la correzione. Ed è bene ricordare sempre, specie a proposito di questo
delicato argomento, che “lo stolto dice quello che pensa, il saggio pensa a quello che dice”.
La carità ha dei gradi differenti di presenza e operatività nelle anime ed è soggetta a
crescita, diminuzione o perdita totale. San Tommaso afferma che nei principianti (quelli
che san Paolo chiama i bambini nella fede, i “neoconvertiti”, tanto per intendersi) muove
l’uomo ad allontanarsi dal peccato e a resistere alle concupiscenze; nei proficienti (cioè
quelli che sant’Ignazio di Loyola identificava con “coloro che vanno di bene in meglio”)
sostiene lo sforzo di avanzare nel bene; nei perfetti provoca la totale adesione a Dio, la vita
di unione con Lui ed il conseguente suo godimento, nei limiti in cui ciò è possibile in
questa vita. Basta un solo peccato mortale a far perdere completamente questa virtù, anzi
ciò costituisce esattamente il primo e principale effetto immediato del peccato mortale. I
peccati veniali, dal canto loro, “raffreddano la carità” fino a portare l’anima, se non li
combatte e non li evita, al deplorevole stato della tiepidezza, che produce grande
mediocrità di vita ed immette nel pericolo assai prossimo di peccare mortalmente e
perdere totalmente la Grazia e la carità.
La carità ha dei bruttissimi e numerosi vizi che le si oppongono, alcuni formalmente e
direttamente, altri indirettamente ma non in maniera meno grave e pericolosa.
La forma più grave di opposizione alla carità è l’odio di Dio. Ovviamente tale odio è
scatenato nelle creature (demoni e uomini cattivi) non certo da ciò che Dio è in sé (essendo
la Bellezza e la Bontà stessa), né da ciò che lo caratterizza (essere, vivere e intendere), ma
da alcuni suoi effetti che ripugnano alle volontà disordinate: il fatto cioè che proibisce e
punisce i peccati castigandoli con pene. L’odio del prossimo, invece, nasce dal vizio
capitale dell’invidia e si esplica nella bruttissima operazione del rattristarsi per il bene
altrui (percepito come male proprio) e nel rallegrarsi del male altrui (percepito come bene
proprio). Anche l’accidia - in quanto nausea o tedio per le cose spirituali - si oppone,
almeno indirettamente, alla carità in quanto allontana dalla preghiera, dai sacramenti,
dalle buone e sante letture, cioè da tutti quei mezzi che consolidano, accendono e
accrescono la virtù teologale della carità. Anche la discordia e la contesa sono vizi opposti
alla carità. La prima consiste nel contrasto di due volontà, ciascuna delle quali tende a
prevaricare sull’altra e ad anteporre le proprie scelte, opinioni e pareri a quelle altrui. La
carità, viceversa, cede il passo tutte le volte che può, con l’unica eccezione di quando c’è in
gioco il bene o la verità (oggettivi); per questo san Tommaso precisa che, fermo restando
quanto detto, è tuttavia cosa buona e lodevole introdurre il dissenso fra coloro che sono
concordi nel male, puntualizzando che è esattamente a questo che si riferisce Gesù quando
nel Vangelo afferma di essere venuto a portare non la pace ma una spada (cf Mt 10,34). La
contesa si ha invece quando si entra in discussione e polemica verbale con qualcuno.
Anche in questo caso, la carità, ordinariamente, evita le “vane discussioni”, come scrive
san Paolo (cf 2Tm 2,14), a meno che, anche in questo caso, la contesa non sia fatta per
difendere la verità o il bene a patto però che ciò si faccia a tempo, luogo e modi opportuni.
In caso contrario è peccato veniale contendere e discutere, mentre diventa peccato mortale
quando si dovesse contestare la Verità o il bene (oggettivi) in modo inurbano e indecoroso.
Ci sono infine due peccati “pubblici” che sono contrari alla virtù teologale della carità: lo
scandalo, in quanto uccide la carità anche nei cuori altrui; e lo scisma, in quanto rompe la
comunione gerarchica con il capo visibile della Chiesa, minando quella particolare nota
della Chiesa che è l’unità, la quale, pur essendo in sé stessa intaccabile e inattaccabile, è
tuttavia ferita dalle divisioni esteriori delle membra visibili del corpo di Cristo.
6. LE VIRTÙ CARDINALI: LA PRUDENZA
Insieme alle virtù teologali, l’albero delle virtù cristiane ha altri quattro grossi rami,
costituiti dalle virtù cardinali. Si tratta di una virtù intellettuale (la prudenza) e tre morali
(giustizia, fortezza e temperanza), che sono dette per l’appunto “cardinali”, perché sono
come i cardini delle porte, ossia il telaio a cui sono congiunte tutte le virtù cristiane,
ovviamente ciascuna al “telaio” ad essa consono e adatto. Cercheremo di analizzarne
ciascuna distintamente e con le sue singole parti e eventuali virtù connesse, occupandoci
anche dei vizi opposti che spesso gettano una luce ulteriore per la comprensione della
bellezza e dello splendore della singola virtù.
Etimologicamente, “prudenza” viene da “porro videns”, letteralmente “colui che vede
lontano” oppure “lungimirante”. è senza dubbio la regina delle virtù, perché senza di essa
molte cose apparentemente buone non lo sono in realtà sul piano pratico, dato che suo
compito come vedremo subito, è proprio quello di applicare i principi e le idee alle
circostanze concrete delle singole azioni. Fu definita da Aristotele “retta ragione delle cose
da farsi”. Sant’Agostino preferiva puntualizzare ulteriormente e più precisamente,
definendo la prudenza “conoscenza delle cose da perseguire e da evitare”, mentre san
Tommaso d’Aquino, col solito acume e rigore che lo caratterizza, la definì “abito della
ragion pratica che delibera, giudica e comanda rettamente le cose ordinate al bene
umano”, evidenziandone le funzioni e soprattutto l’operatività “concreta”, sulle singole
situazioni pratiche in cui è chiamata ad intervenire.
Compito di questa virtù, dunque, è dirigere la modalità concreta in cui tutte le azioni
devono essere compiute, applicando i principi generali al singolo caso. Dal che si
comprende questo elogio della prudenza formulato dall’Aquinate nella sezione in cui ne
tratta: “La prudenza è una virtù sommamente necessaria per la vita umana, perché vivere
bene consiste nel ben operare; e perché uno compia il bene non basta considerare ciò che
compie, ma anche il modo in cui lo compie: si richiede cioè che agisca non per impeto di
passione, ma seguendo un’opzione retta” (S. Th., I-II, q. 57, a. 5).
In quanto virtù cardinale e specificatamente intellettuale, la prudenza, come tutte le virtù
umane, può essere acquisita. Nel caso di un battezzato, tuttavia, viene infusa insieme agli
abiti di tutte le virtù e compito della persona, in questo caso, è solo imparare a conoscerla e
praticarla, compiendone gli atti che mano a mano si riconoscono attraverso la buona
formazione, la meditazione e, in certi casi, anche lo studio. Essa, come tutte le virtù, cresce
o diminuisce a seconda di come e quanto si compiano i suoi atti o quelli ad essa contrari.
Nulla ostacola tanto l’esercizio della prudenza quanto il disordine delle passioni non
regolate. Per cui ben a ragione scrive sempre il Dottore Angelico che “la prudenza
presuppone le virtù morali che rendono buona la volontà” (S. Th., I-II, q. 57, a. 4), in modo
che l’uomo sia correttamente predisposto verso il suo fine ultimo (che è la beatitudine) e
prossimo (il bene in tutte le sue forme), onde la prudenza possa esercitare il suo compito
di comandare come perseguire, qui, ora e in queste circostanze, il bene particolare di ogni
singola azione. La prudenza si distingue in ben otto parti: la memoria, necessaria per
trattenere i dati acquisiti dall’esperienza, che sono sommamente necessari a questa virtù;
l’intelletto, ossia la capacità di intuire i principi conoscitivi da applicare al caso concreto; la
docilità, necessaria per imparare da altri criteri di valutazione e principi da applicare; la
sagacia, cioè la capacità di ben congetturare scoprendo da se stessi criteri e principi per i
casi concreti; la ragione, ossia la capacità di raziocinare correttamente per ben deliberare; la
previdenza, che consiste nella capacità di ordinare gli atti contingenti al futuro; la
circospezione, ossia la capacità di ben considerare e valutare le singole circostanze; e infine
la cautela, grandissima e importantissima disposizione, che consiste nella capacità di ben
distinguere e separare, negli atti contingenti, il vero dal falso e il bene dal male, stante il
fatto che essi, purtroppo, appaiono spesso mescolati e frammisti ed è assai difficile
districarli e trovare il corretto bandolo della matassa.
Per meglio comprendere la grandezza e l’importanza della virtù cardinale della prudenza,
converrà ora passare in rassegna i vizi ad essa opposti, che sono di due distinte specie:
quelli che le si oppongono direttamente e formalmente e quelli che in qualche modo le
somigliano, ovvero dei vizi camuffati da virtù.
L’imprudenza è evidentemente il primo comportamento contrario a tale virtù e si ha
quando viene a mancare, colpevolmente, la debita prudenza che si può e si deve avere in
tutte le situazioni. Si incorre in tale difetto quando si disprezzano le regole del ben operare,
cosa che diventa molto grave quando di tratta di regole divine, come - per esempio - la
raccomandazione di Gesù di non dare le cose sante ai cani e le perle ai porci (cf Mt 7,6),
cosa a cui si contravviene quando si danno, per l’appunto, cose sante (sacramenti, “perle”
di spiritualità e simili) ad anime non solo del tutto indisposte alla grazia, ma quando
appare evidente che non esiste il minimo spiraglio di buona volontà di aprirsi ad essa.
Altro vizio contrario alla prudenza è la precipitazione, ovvero il prendere decisioni sotto
l’impeto di qualche passione e senza debitamente ponderare le fasi conoscitive
dell’esercizio di tale virtù. Per causa di questo brutto difetto, purtroppo, si combinano a
volta grossi pasticci di vario genere, talora con conseguenze non lievi. L’inconsiderazione
consiste nella mancata ponderazione e considerazione circa le cose necessarie da farsi,
quando sono conosciute come tali. Per esempio, prima di mettersi alla guida bisogna aver
preso la patente ed essere in stato di lucida vigilanza. Chi si mettesse a guidare senza
patente o in stato di ebbrezza o in preda al sonno, pensando di affidarsi alla divina
Provvidenza, peccherebbe assai gravemente di inconsiderazione, giungendo, in questo
modo, a tentare Dio. Ultimi difetti contrari alla prudenza sono l’incostanza, che si ha
quando si omette di ben ponderare a causa della fatica che ciò comporta e la negligenza,
quando la mancata considerazione adeguata di principi, cose e circostanze dipende da
colpevole trascuratezza e volontà non buona. Si pensi quanto sia grave la negligenza
quando ricade su cose necessarie alla salvezza (come il comportamento di chi, vedendo un
familiare malato approssimarsi alla morte, trascurasse di invitarlo a ricevere il viatico e
l’unzione o, peggio, omettesse di chiamare il sacerdote essendone stato sollecitato dal
morente).
Veniamo ora alle pseudo-virtù, che purtroppo intaccano come astuti ingannatori quelle
vere. La prima è la cosiddetta “prudenza della carne”, che consiste nel ponderare e
prendere le decisioni non in base alla legge di Dio e al bene della propria e altrui anima,
ma considerando il benessere del corpo e i piaceri sensibili come fine ultimo. Salutismo,
culturismo, idolatria del corpo, gola sono tutti comportamenti alimentati da questa
erronea forma di prudenza. Affine ad essa è la “prudenza del mondo”, che prende tutte le
decisioni in base alla convenienza economica che ne può ricavare, sottomettendo tutto al
tirannico potere del dio denaro. La terza è l’astuzia, di diabolica origine, che consiste
nell’escogitare mezzi cattivi (simulazione, ipocrisia, menzogna, falsità) per raggiungere
fini anche buoni. Si badi che per i figli di Dio non è mai e in nessun caso applicabile il
machiavellico principio secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. Affini all’astuzia sono
la frode e l’inganno, cioè l’esecuzione delle astuzie escogitate con le opere (frode) o con le
parole (inganno), traendo il prossimo nell’errore. Infine la sollecitudine per il futuro o i
beni temporali, che è quella che forse maggiormente si maschera da prudenza. Si tratta di
ciò che Gesù condanna nel Vangelo quando esorta a non preoccuparsi di quello che si
mangerà o si berrà o di come ci si vestirà e a non affannarsi per il domani (cf, per esempio,
Mt 6,25-34). I figli di Dio, infatti, sanno e credono di avere un Padre celeste che provvede a
loro, per cui certamente si occupano delle cose necessarie per vivere (lavorano
onestamente e si prendono cura di tutte le cose umanamente necessarie), ma non vivono
di preoccupazioni, né si astengono dal compiere ciò che Dio vuole e chiede per la sciocca
paura di un domani che nemmeno è certo che debba a venire e a cui, in ogni caso, credono
che Dio provvederà.
7. LE VIRTÙ CARDINALI: LA GIUSTIZIA
La seconda virtù cardinale è la giustizia ed è forse la virtù di cui da sempre maggiormente
si è parlato e discorso, anche se non sempre a proposito. Il grande giurista romano Ulpiano
ne diede una splendida definizione, perfettamente coerente con la fede cattolica e che san
Tommaso stesso non esitò a sottoscrivere praticamente “ad litteram”: “volontà perenne e
costante di dare a ciascuno il suo”, adagio che puntualizza ed articola il celebre aforisma
romano “suum cuique tribuere” (“dare a ciascuno il suo”), che insieme agli altri due -
“honeste vivere” (“vivere onestamente”) e “alterum non laedere” (“non ledere il
prossimo”) - costituiva la base assiologica del grande ordinamento giuridico romano.
Prima di questa bellissima definizione, troviamo quella di Aristotele che descrisse la
giustizia come “l’abito mediante il quale l’uomo agisce conformemente alla scelta che ha
fatto di ciò che è giusto”, mentre nella tradizione cattolica merita di essere menzionata,
oltre a quella già accennata di san Tommaso d’Aquino (“abito mediante il quale si dà a
ciascuno il suo con un volere costante e perenne”), quella di sant’Ambrogio: “virtù che dà
a ciascuno il suo, non esige l’altrui e sacrifica il proprio vantaggio al bene comune”.
Si capisce come compito prioritario per comprendere questa virtù e quello che comporta, è
anzitutto stabilire chi siano “gli altri” a cui è dovuto “il suo” e cosa sia esattamente questo
“suo”. Gli altri possono essere i nostri simili oppure Dio. Vedremo come gli obblighi verso
Dio sono puntualmente regolati in base ad una parte specifica della virtù della giustizia
che si chiama religione ed il contenuto del “suo” divino (che i pagani chiamavano “fas”) è
l’osservanza di tutte le sue leggi ma in particolare di quei comandamenti che hanno Dio
come termine o oggetto. Il “giusto” (“jus”) dovuto ai nostri simili, lo si deve considerare in
modo differenziato a seconda del tipo di relazione che sussista tra i soggetti in causa. Nel
caso di rapporti tra il singolo ed altri singoli in quanto tali, si parla di giustizia
“particolare” o “commutativa”, che segue la regola dell’uguaglianza (avendo tutti gli
uomini gli stessi diritti, si hanno nei loro confronti i reciproci doveri, uguali per tutti). Nel
caso di rapporti tra il singolo e la collettività, oppure tra questi e le autorità costituite (cioè
i “superiori”), si parla di giustizia “legale” ed ovviamente non c’è uguaglianza e
reciprocità tra diritti e doveri, nel senso che ai superiori sono dovute delle cose (come per
esempio l’obbedienza e l’onore) che non sono dovute ai singoli ad essi soggetti. Nel caso
infine contrario, di rapporti “dall’alto al basso”, cioè tra superiori e inferiori, si ha la
giustizia “distributiva” o “retributiva”, che proporziona la posizione del singolo con la
collettività chiede ad esso ciò che è giusto in relazione ai suoi rapporti con l’autorità e gli
rende tanto quanto merita, sia in bene che in male.
La giustizia, essendo virtù che non solo perfeziona la persona che la possiede, ma che
porta benefici e vantaggi agli altri, è indubbiamente la virtù cardinale più eccellente e da
perseguire con tutto l’impegno e lo zelo possibile. Per poter essere praticata,
evidentemente, richiede una conoscenza almeno sufficiente e differenziata dei propri
doveri, cosa impossibile senza una profonda e adeguata cura della propria formazione
morale, che consenta un attento discernimento dei doveri che si hanno anzitutto verso Dio,
poi verso chi è più grande di noi, verso la collettività ed infine verso i nostri simili.
Per essere conosciuto ciò che è giusto, è imprescindibile l’atto del giudicare (dal latino “ius
dicere”: “dichiarare il giusto”), argomento su cui non sempre si hanno le idee chiare, anche
in virtù delle sentenze evangeliche che esortano a “non giudicare”, dando l’impressione di
condannare sempre e comunque questo atto. In realtà non è né può essere così. I
comportamenti oggettivi e le realtà non solo possono, ma devono essere giudicate in base
a tre criteri: giustizia, cioè avendo dei corretti parametri di valutazione, altrimenti il
giudizio è perverso; autorità per emettere il giudizio, cioè il giudizio deve essere
pertinente alla sfera di interesse o di competenza di chi giudica, altrimenti si cade
nell’usurpazione; rettitudine, cioè prudenza e oggettività del giudizio, che altrimenti
diventa temerario (cosa che accade soprattutto quando si giudicano le intenzioni delle
persone e non i comportamenti oggettivi). Ciò che è proibito dall’insegnamento di Gesù
nel Vangelo (cf S. Th., II,II q. 60) è esattamente e anzitutto quest’ultima forma di giudizio
(“giudizio temerario”), come insegna sant’Agostino. Alcuni autori aggiungono altre due
fattispecie: il giudizio sulle cose divine, in quanto a noi assolutamente impossibile, come
afferma sant’Ilario di Poitiers e il giudicare con malizia e animosità, cosa che si verifica
quando si traggono frettolose conclusioni da semplici sospetti oppure si cade nella
tendenziosità dovuta a disprezzo della persona o (peggio) all’ira causata dall’odio (così
san Giovanni Crisostomo).
Prima di entrare nell’analisi delle nove parti in cui si specifica la virtù cardinale della
giustizia, è bene passare in rassegna i principali vizi che si oppongono alla giustizia legale,
distributiva e commutativa. Formalmente opposta alla giustizia legale è l’illegalità, ossia la
trasgressione volontaria delle leggi civili quando esse siano moralmente rilevanti o
comunque non moralmente ingiuste (nel qual caso non avrebbero nessuna forza
vincolante e sarebbe non solo lecito, ma addirittura doveroso non ottemperarvi, come - per
fare un esempio attuale - i medici e infermieri che si rifiutano di praticare l’aborto
volontario, che è purtroppo concesso e tutelato nella maggior parte degli ordinamenti
giuridici contemporanei). La parzialità (o accettazione di persone) si contrappone invece
formalmente alla giustizia distributiva e consiste nel dare ad una persona più di quanto
merita (o, peggio, a prescindere da qualsivoglia merito), oppure nel punirla meno di
quanto merita o senza alcun motivo. Questo peccato può essere chiaramente commesso
solo da persone costituite in autorità nei confronti dei loro sottoposti, quali genitori,
autorità ecclesiastiche, governanti, professori e maestri. Anche qualora si rendessero
colpevoli di tale odioso peccato, tuttavia, non viene meno il dovere di rendere loro onore
da parte dei sottoposti, poiché questo obbligo non deriva dal merito di essi, ma
semplicemente dal fatto di rappresentare, a modo proprio, la somma autorità divina.
Vanno dunque onorati, per esempio, ciascuno nel proprio ambito di influenza, Papa,
vescovi e sacerdoti, a prescindere dalla loro eventuale indegnità, così come genitori,
superiori di lavoro, governanti ed anche vecchi e anziani. Il dovere di onorarli non sempre
comprende, come già accennato in precedenza, l’obbligo di obbedire alle loro disposizioni
qualora esse siano oggettivamente ingiuste (in quanto contrarie alla legge o alla evidente
volontà divina) oppure siano date esorbitando dai limiti della propria autorità. In questi
casi conserva tutto il suo vigore il celebre adagio petrino “magis parendum Deo quam
hominibus” (“bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, cf At 4,19). Seguono
infine una serie di comportamenti contrari alla giustizia commutativa che sono altrettante
trasgressioni del quinto, settimo e ottavo comandamento e che sarà bene analizzare con
attenzione. Per quanto concerne le offese alla giustizia commutativa contro il quinto
comandamento sono: omicidio, mutilazioni e percosse, privazione della libertà, insulto (o
contumelia), improperia, detrazione (o maldicenza), mormorazione, derisione e
maledizione. Non rientrano evidentemente nell’omicidio le cosiddette uccisioni “giuste”,
ovvero quelle compiute per legittima difesa, in circostanze di “guerra giusta” o nei
rarissimi casi in cui può essere ritenuta lecita la pena di morte. Bisogna subito avvertire, al
riguardo, che il recente magistero di Concili e Pontefici tende a restringere di molto il
campo dei casi in cui una guerra possa essere considerata giusta e la pena di morte lecita,
pur senza giungere a negare la loro possibile liceità in linea di principio quando
circostanze del tutto gravi e straordinarie le rendessero necessarie. La contumelia (o
insulto) è oggi sciaguratamente comportamento ampiamente diffuso e consiste nel
rivolgere parole ingiuriose che attentino apertamente l’onore e la rispettabilità del
prossimo, rimproverandogli i difetti o mancandogli di rispetto dinanzi a molte persone.
Qualora l’insulto sia grave e fatto con l’intenzione di distruggere l’onore di una persona, il
peccato è certamente mortale, stante l’ammonizione evangelica di Gesù: “chi dice al suo
fratello: ‘pazzo’, sarà sottoposto al fuoco della Gehenna” (Mt 5,22). L’improperia consiste
nel rinfacciare al prossimo l’aiuto o il bene che gli si è prestato, mentre la maldicenza (o
detrazione) è l’odioso peccato di chi, di nascosto, proferisce parole dirette a compromettere
la buona fama del prossimo al fine di far formare una cattiva opinione di lui. Da essa
differisce leggermente la mormorazione, che pur avendo la stessa materia e forma - in
quanto consiste nel parlar male del prossimo in sua assenza - ha diverso fine, in quanto lo
si fa allo scopo di seminare discordia e zizzania tra due persone, mettendole l’una contro
l’altra e generando inimicizia. Anche la derisione è un comportamento oggi assai diffuso,
ma san Tommaso d’Aquino ricorda che l’irrisione di Dio, delle cose sante, dei genitori e
dei giusti a motivo dell’odio che suscitano in chi giusto non è, è peccato mortale. Molto
grave, infine, è la maledizione che consiste nell’augurare o desiderare il male di qualcuno,
soprattutto quando si ricorra a mezzi derivanti dall’occulto per nuocere o ledere la vita, gli
affetti o il benessere del prossimo.
Trattiamo ora delle mancanze nei confronti della giustizia commutativa che sono
altrettante trasgressioni del settimo e dell’ottavo comandamento.
Il furto, evidentemente, lede la giustizia in quanto consiste nell’appropriarsi indebitamente
di cose, beni o denaro altrui oppure nel non restituire quelli ricevuti in prestito, mentre la
rapina contiene l’aggravante del perpetrare il furto usando violenza o quanto meno
minacce alla persona. San Tommaso fa opportunamente rilevare, tuttavia, che ci sono due
situazioni da considerare con la debita attenzione. La prima è che per diritto naturale (e
quindi per giustizia e non per carità) i beni e il denaro superfluo devono essere elargiti ai
poveri e bisognosi, in quanto da Dio concessi proprio per il loro sostentamento; la seconda
è che, in caso di assoluta, urgente ed evidente necessità, è lecito soddisfare i propri bisogni
immediati (di cibo, per esempio), con cose che siano a portata di mano usandole nei limiti
del necessario (per esempio, mangiando un frutto di un albero appartenente a un privato).
Sono violazioni della giustizia anche l’usura (che, in forza della legge morale è sempre
illecita) e la frode (in cui con l’inganno si percepiscono o si mantengono indebite somme di
denaro). Tutti questi peccati, se commessi, obbligano alla riparazione, cioè alla restituzione
(per giustizia) di quanto indebitamente percepito, oppure, nel caso di impossibilità
oggettiva o di grave incomodo soggettivo nel farlo, a devolvere in beneficenza i beni di cui
ingiustamente ci si è impossessati.
Per ciò che concerne l’ottavo comandamento, ledono la giustizia commutativa le seguenti
tipologie di peccato. Anzitutto la falsa testimonianza in senso stretto, cioè il mentire su
cose relative alla giustizia di cui si è obbligati autoritativamente a deporre. L’obbligo è
sempre sussistente quando si tratta di delitti manifesti o di dominio pubblico, non negli
altri casi. Pecca molto gravemente contro la giustizia chi si macchia di calunnia, ovvero
diffama il buon nome del prossimo mentendo e togliendogli l’onore e la buona fama.
Questo grave delitto, non meno di quelli contro i beni, obbliga gravemente al dovere di
riparazione. Ci sono alcune altre fattispecie di carattere eminentemente forense, che vanno
comunque evidenziate, perché oggi piuttosto diffuse. Anzitutto la prevaricazione, ossia
l’aiuto della parte avversa (un avvocato che aiutasse il difensore della controparte o, in
caso di processo penale, il pubblico ministero); la tergiversazione, che è mancanza alla
giustizia (commissibile solo da chi esercita le funzioni della pubblica accusa) che consiste
nell’ingiusta desistenza dall’accusa intrapresa (ossia derivante non da elementi che
l’abbiano dimostrata infondata, ma da altre motivazioni, lecite o, peggio, illecite); la
reticenza, cioè il non dire (da parte dell’accusato) la verità su cose su cui si è tenuti a farlo
o, peggio, la menzogna usata per discolparsi. Si badi tuttavia che non sussiste
ordinariamente l’obbligo di dire a tutti tutta la verità, per cui, anche in sede processuale, il
giudice può e deve esigere la conoscenza solo di ciò che è lecito e giusto chiedere (e non di
altro) e che è possibile all’imputato, qualora ciò dovesse accadere, difendersi ricorrendo
alla prudenza (senza mai però poter mentire). Dovere grave dei magistrati è emettere
giuste sentenze e grave mancanza alla giustizia è non farlo. Una sentenza, secondo san
Tommaso, è (dal punto di vista morale) ingiusta in quattro casi: se il giudice usa come
prove cognizioni sue personali (e non risultanze processuali oggettive); se esorbita dai
limiti della sua competenza, fuoriuscendo dai margini della sua legittima potestà; se
condanna a prescindere dal contraddittorio e senza dare all’accusato la possibilità di
difendersi e la conoscenza dei capi di imputazione a suo carico; se condona la pena (che è
tenuto ad applicare), fuori dei casi in cui ne abbia licenza o potere. Infine c’è la grave
mancanza alla giustizia operata dagli avvocati che difendano cause oggettivamente
ingiuste (sant’Alfonso M. De Liguori, su questo, diede degli esempi e delle massime
assolutamente esemplari, quando esercitava la professione di avvocato), in quanto la
cooperazione al male con opere, consigli e aiuti, rende inevitabilmente complici di esso.
La virtù della giustizia, come abbiamo più volte rilevato, è una delle quattro virtù
“cardinali”. Vuol dire che, agganciate a questo “cardine”, ruotano una serie di virtù (che
sono altrettanti “parti integranti” della principale) ad essa inscindibilmente connesse. Ben
nove sono le parti integranti della giustizia: religione, pietà, osservanza (o rispetto),
gratitudine (o riconoscenza), vendetta, veracità, amicizia (o affabilità), liberalità (o
generosità), equità (o epicheia). Le analizzeremo dettagliatamente una per una, con i
relativi vizi opposti.
Le parti integranti della giustizia.
La religione

La religione è in assoluto la più alta tra le virtù morali, perché regola la giustizia verso Dio,
specificando ciò che a Lui è dovuto in termini di culto e in termini di obbedienza, con
particolare riguardo ai mezzi interni ed esterni necessari per rendere riverenza e onore a
Dio. Questo, evidentemente, non perché l’uomo possa aggiungere qualcosa all’infinita
gloria di Dio, ma perché per il suo bene l’uomo deve essere a Lui sottomesso e
riconoscergli, senza esitazione alcuna, l’assoluta Sua eccellenza al di sopra di ogni ente
creato. Discussa è l’etimologia del termine “religione”. San Tommaso considera due
possibili etimologie (una delle quali ambivalente), ciascuna delle quali contiene una parte
di vero. Può derivare dal verbo latino “relegere”, che significa “rileggere” oppure
“rieleggere”: in questo senso per “religione” dovrebbe intendersi la frequente
considerazione delle cose di Dio (“rileggere”) oppure la “rielezione” di Dio come proprio
Signore a seguito dell’abbandono del peccato raggiunto mediante la conversione. Può
anche derivare dal latino “religare”, cioè “stringere un legame” e, in questo senso,
indicherebbe il legame che si stringe con l’Onnipotente. In effetti attraverso i vari atti di
culto, interni ed esterni (preghiere, sacrifici, genuflessioni, prostrazioni) l’uomo si lega a
Dio in modo da non scostarsi da Lui, sovente per una sorta di istinto naturale per cui si
sente obbligato a prestare all’Altissimo la debita riverenza.
Qualunque etimologia si scelga (e nulla vieta di tenerle tutte per valide), è evidente che la
religione ed il suo esercizio è strettamente correlato alla santità, termine che ben si
comprende se si considera da un lato la sua etimologia greca (da “aghios”: “privo di
terra”) che ne sottolinea la caratteristica di purezza (nel senso di distacco dalla terra e dalle
cose terrene), dall’altro la duplice possibile etimologia latina: da “sanguine tinctus”,
letteralmente “tinto di sangue” che allude velatamente al martirio, cioè al saper mettere
Dio al di sopra di ogni cosa compresa la propria vita, oppure da “sancita”, ossia “cosa
stabilita”, cioè il saper applicare a Dio in modo stabile e permanente tutti gli atti
dell’anima che intende fedelmente servirlo. Questa virtù abbraccia tutti i primi tre
comandamenti e ha degli atti specifici e particolari in cui si esplica: devozione, adorazione,
preghiera, sacrificio, oblazioni (o offerte), decime, voti, giuramento, scongiuro e lode di
Dio. Trattandosi di atti meravigliosi e sublimi, bisognerà occuparsene nel dettaglio.
Devozione viene da “devovere”, che significa “consacrare” ed è la volontà di compiere con
prontezza le cose attinenti al servizio di Dio, per cui sono “devoti” quelli che si consacrano
a Dio e sono a Lui totalmente sottomessi (sacrificio spirituale interiore). La devozione ha
Dio come causa esterna e la meditazione e la contemplazione della bontà di Dio (che eccita
l’amore) e delle proprie deficienze (che uccide la presunzione) come cause interne.
Produce due effetti: gioia spirituale (per il pensiero costante della bontà di Dio) e tristezza
secondo Dio (per la considerazione delle miserie umane, da cui scaturisce la tenerezza
d’affetto fino alle lacrime).
L’adorazione consiste nel rendere omaggio alla Maestà infinita di Dio con atti esterni di
umiliazione del corpo in segno di latria (totale, assoluta ed incondizionata sottomissione,
servitù e dipendenza), come espressione sensibile della sottomissione affettiva e adorante
interna (devozione). L’adorazione di latria è dovuta a Dio solo; come vedremo però è
possibile adorare anche creature sommamente eccellenti (“dulia” o, in un caso,
“iperdulia”), senza mai in nessun modo equiparare questi atti al culto di latria che è
dovuto a Dio solo.
Continuiamo ad analizzare le parti e gli atti della virtù di religione. Dopo aver esposto,
precedentemente, il contenuto della devozione e dell’adorazione, dobbiamo ora occuparci
della preghiera.
Della preghiera o orazione (da “oris actio” = azione della bocca) sono state proposte varie
definizioni nel corso della storia. Sant’Agostino la definiva molto semplicemente
qualunque “domanda formulata a Dio”, mentre san Giovanni Damasceno preferiva
specificare che si tratta della “richiesta a Dio di cose convenienti” oppure, ampliando lo
spettro di attenzione anche alla cosiddetta orazione mentale e alla contemplazione,
definiva tale qualunque “elevazione della mente a Dio”. Con la preghiera, in ogni caso, si
attesta e si riconosce che ogni bene e beneficio (di grazia e di gloria) viene da Dio e a Lui
va dunque umilmente chiesto. La preghiera ha una quadriforme efficacia: impetratoria,
satisfattoria e meritoria (sotto il duplice profilo dell’accrescimento della grazia e del
conseguimento e aumento della gloria). Ogni preghiera debitamente rivolta ha Dio ha
anzitutto sempre un’efficacia impetratoria, cioè ottiene da Dio quel che si chiede, secondo
la promessa di Gesù (“chiedete e vi sarà dato”, Mt 7,7); e quando Dio non può concedere
esattamente quello che gli si chiede (perché, nella sua onnisciente perfezione, vede che
sarebbe male per il richiedente), sempre comunque concede qualche altra grazia a chi gli
ha rivolto la preghiera. Ogni preghiera ha sempre anche un’efficacia satisfattoria, cioè
espia i residui di pena contratti con i peccati commessi e purifica l’anima dalle loro
macchie e scorie. Questi primi due aspetti della preghiera possono essere dal fedele
liberamente donati ad altri: si possono, per esempio, chiedere grazie per altre persone, così
come offrire preghiere come suffragi per le anime del Purgatorio. La duplice efficacia
meritoria della preghiera, invece, è strettamente personale e non può in nessun modo
essere comunicata o ceduta ad altri. Si tratta del fatto che ogni preghiera ben fatta, essendo
un’opera non solo buona, ma molto buona in quanto espressione della virtù di religione, è
meritoria e quindi da un lato fa aumentare e crescere la presenza della Grazia santificante
in noi (grazia che, come è noto, si perde col peccato mortale, diminuisce col peccato
veniale, si intiepidisce con le imperfezioni volontarie o consentite, cresce con ogni opera
buona compiuta), dall’altro ci procura superiori gradi di gloria in cielo. Anche la gloria del
Paradiso, infatti, non è certamente uguale per tutti. Il nostro godimento di Dio, la nostra
conoscenza di Lui, la nostra familiarità con i beati saranno tanto più piene e intense quanto
maggiori saranno i meriti accumulati in terra. Questo ha sempre insegnato la Chiesa e
questa è stata la costante e immutata lezione dei santi. La preghiera più perfetta è
indubbiamente il Padre Nostro, le cui sette petizioni racchiudono tutto ciò che è necessario
e importante per la vita della nostra anima e, subordinatamente, anche per quella
temporale. Assai debitamente sant’Agostino amava precisare che possiamo rivolgerci a
Dio anche con altre parole, ma non possiamo e non dobbiamo chiedere “altro” rispetto al
Padre Nostro, che è dunque preghiera “normativa e normante” per eccellenza. San
Tommaso d’Aquino afferma inoltre che esistono quattro condizioni assolutamente
necessarie perché la preghiera sia sempre esaudita: chiedere per sé (perché non sappiamo
le condizioni in cui si trovano gli altri e, quindi, se Dio sia ben disposto o no ad accogliere
quella preghiera), cose necessarie alla salvezza (le uniche che Dio sempre prontamente
concede, a differenza delle richieste di grazie temporali), e farlo con pietà (non in modo
indegno di Dio e della sua maestà, ovvero con devozione interiore e compostezza
esteriore) e con perseveranza (non sporadicamente o saltuariamente, dato che Gesù ha
raccomandato di pregare con insistenza e perseveranza). Le specie della preghiera sono
quattro come si evince dal testo di 1 Tm 2,1 (“Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si
facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini”): domanda,
supplica o ossecrazione, preghiera, e ringraziamento. La forma più alta di preghiera è il
ringraziamento, la cui vetta più alta in assoluto è la lode. Si loda Dio con le labbra non per
manifestargli la nostra alta opinione di Lui (che Lui, che scruta i cuori, evidentemente
conosce) ma per eccitare gli affetti alla lode di Lui e testimoniare anche ad altri la Sua
eccellenza, attestando gioiosamente in questo modo che Egli ha fatto bene tutte le cose non
solo in generale, ma anche in particolare nella vita e nell’esistenza di chi sa lodarlo in ogni
luogo e in ogni tempo.
Le ultime parti della virtù della religione sono il sacrificio, le oblazioni, le decime, i voti, il
giuramento, lo scongiuro e la lode di Dio. Vediamole brevemente nel dettaglio.
Il sacrificio è l’offerta a Dio di beni sensibili come doni ed omaggi in segno della
sottomissione e dell’onore a Lui dovuti. Offrire sacrifici esterni è una norma di legge
naturale (tutti gli uomini li hanno sempre offerti alla divinità). Si chiamano propriamente
sacrifici (esterni) quelle cose che vengono offerte a Dio per confessare la propria
sottomissione e sulle quali si fa qualche atto (“sacrum facere”), quali uccisione di animali,
frazione del pane e simili: vanno offerti a Lui solo. Sono sacrifici esterni (analogamente)
anche tutti gli atti esterni di virtù compiuti in onore ed ossequio di Dio (per esempio fare
elemosine, rinunce, digiuni, penitenze corporali etc., atti che, propriamente, appartengono
alle virtù della compassione e della mortificazione). Nella nuova alleanza inaugurata da
nostro Signore Gesù Cristo sono stati aboliti tutti i sacrifici rituali e cruenti di animali o
altro, che furono compiuti nell’antica alleanza. In luogo di essi rimane soltanto l’adorabile
sacrificio incruento della santa Messa, in cui l’unico Sacrificio gradito a Dio del Corpo e del
Sangue del Suo Figlio, immolati all’altare della Croce, si rinnova in maniera mistica,
incruenta ma assolutamente vera e reale e al quale vanno uniti tutti i nostri sacrifici che,
solo in quello di Cristo e per mezzo di esso, sono a Dio graditi.
Le oblazioni o offerte e le primizie sono offerte di beni sensibili a Dio fatte senza compiere
atti su di essi. S. Tommaso le fa coincidere con le offerte (cibo e denaro) che i fedeli fanno a
Dio in occasione delle Messe, il cui uso e distribuzione spetta ai sacerdoti. Le primizie sono
oblazioni a Dio delle cose più belle e più care. Nell’antico testamento si offrivano come
primizie i primogeniti di greggi e bestiame, nel nuovo testamento qualunque cosa sia
particolarmente cara al cuore e la si offra con gioia a Dio al fine di rendergli gloria, culto,
di impetrare grazie e soddisfare ai peccati commessi e già perdonati.
Nell’antico testamento c’erano anche le decime, ossia le offerte della decima parte dei
propri beni fatta ai sacri ministri, sancita dal diritto naturale e ordinata positivamente
dalla Legge di Dio. Essa è obbligante nella misura e nelle modalità in cui è presentata
come tale dalla disciplina e dalla legge ecclesiastica. Attualmente, come è noto, è il
Concordato tra Stato e Chiesa ad aver sostanzialmente risolto la questione. Resta nei fedeli
l’obbligo canonico di sovvenire alle necessità della Chiesa secondo le proprie risorse e
possibilità.
I voti sono promesse fatte a Dio di offrirgli un bene possibile e migliore, motivati dalla
volontà deliberata di sacrificare in suo onore tale bene. E’ cosa altamente meritoria, perché
conferma e determina immutabilmente la volontà a compiere obbligatoriamente nel futuro
cose già di per sé meritorie, rendendole ancora migliori e ancora più santificanti, per i
seguenti motivi: perché trasforma gli atti anche di altre virtù in virtù di religione (che è la
più eccellente); perché sottomette a Dio anche la volontà; perché determina al bene
stabilmente. E’ strettissimo obbligo adempierli fedelmente (altrimenti è meglio
astenersene, perché con Dio e la Madonna non si scherza e non si gioca); per formularli ci
vuole il consenso dei superiori (in caso di consacrati) ed è sempre bene chiedere un
prudente consiglio al confessore prima di formularli, anche perché la loro eventuale
dispensa o commutazione - possibile su richiesta in caso di gravi incomodi sopravvenuti -
può però essere concessa solo da chi ha l’autorità canonica per poterlo fare.
Il giuramento consiste nell’invocare Dio come testimone della verità delle proprie
asserzioni sul passato o sul presente (assertorio), oppure delle dichiarazioni riguardanti il
futuro (promissorio). E’ lecito giurare per Dio, a causa della malizia degli uomini che,
sospettando che chi parla possa mentire, potrebbero dubitare della veracità di
dichiarazioni, purché si faccia su affari e materie importanti. Ci sono tre condizioni per la
liceità di tale giuramento: giudizio (deve esserci una vera necessità, altrimenti si pecca di
giuramento inconsiderato); giustizia (la materia su cui si giura deve essere lecita, perché
non si può rendere Dio complice di un peccato, nel qual caso il giuramento sarebbe
iniquo); verità (ciò che si afferma deve essere vero, altrimenti si pecca di giuramento falso).
Il fondamento scritturale del giuramento è il testo del Deuteronomio dove si legge:
“Temerai il Signore tuo Dio, Lo servirai e giurerai in Suo Nome” (Dt 6,13). Gesù nel
Vangelo, solo apparentemente sembra smentire tale prassi, dal momento che
l’interpretazione del passo dove esorta a non giurare (Mt 5,34), è stata sempre intesa non
come proibizione assoluta, ma come ulteriore divieto dell’uso sconsiderato di esso al di
fuori dei casi di vera e urgente necessità.
Lo scongiuro e la lode di Dio, infine, sono due modi più che leciti di invocare il nome di
Dio. Con il primo si vuole perorare una supplica (“Ti prego, per Gesù”) oppure esercitare
in suo nome un potere ricevuto (es.: scacciare i demoni per l’autorità e per il nome di
Cristo); con il secondo si usa la voce per eccitare gli affetti a riconoscere l’eccellenza di Dio
(distogliendosi dalle vanità) e per confessare pubblicamente la Sua grandezza, atto
sommamente santificante e altamente gradito a Dio.

I vizi opposti alla religione

Concludiamo la sezione dedicata della virtù della religione (la parte più importante e della
virtù cardinale della giustizia) passando in rassegna i vizi ad essa opposti. Si suddividono
in due grandi generi, a sua volta distinti in alcune singole specie. La superstizione, che
comprende le specie della superstizione nel culto del vero Dio, dell’idolatria, della
divinazione e delle vane osservanze superstiziose; e l’irreligiosità, che si distingue nel
tentare Dio, nello spergiuro, nel sacrilegio, nelle irriverenze e nella simonia.
Generalmente parlando, per superstizione si deve intendere tutte le forme indebite di
culto a Dio, che offendono gravemente la sua divina Maestà e mortificano non poco
l’intelligenza e la dignità dell’uomo, che esercita attraverso queste trasgressioni o un
elevato grado di superbia o un non meno significativo tasso di stupidità.
La superstizione nel culto del vero Dio consiste o nella trasgressione delle leggi della
Chiesa riguardanti il culto di Dio, oppure nel dare troppa importanza a gesti esterni che
non hanno nessuna utilità (né per la gloria di Dio, né per la sottomissione di anima e corpo
al suo culto) e sono estranei alle leggi di Dio e della Chiesa. Rientra in questa categoria
anche il triste fenomeno degli abusi e delle varie licenze liturgiche (oggi purtroppo così
tanto frequenti), come anche quelle forme esterne, affettate e stravaganti nel rendere a Dio
il culto che gli è dovuto, che esulano dalla compostezza, dal decoro e dal senso di misura
che, almeno quando si celebra pubblicamente il culto di Dio, bisogna sempre tener
presente e osservare. Anche le varie catene di sant’Antonio, dolci di padre Pio, catene di
santa Rita sono espressioni di questo grave peccato (e, a quanto sembra, possono
addirittura diventare riti magici usati dal Nemico…).
L’idolatria consiste nel dare alle creature il culto e l’onore dovuti a Dio. Si distinguono, in
linea generale, tre possibili forme di idolatria: fisica (adorare come dèi gli elementi della
natura o le creature celesti), mitologica (adorare come dèi gli uomini, come facevano un
tempo le religioni pagane greche e romane) e civile (adorare come dèi immagini di vario
tipo in quanto protettrici della città o del territorio). E’ gravissimo peccato prestare
adorazione anche solo esterna a qualunque pseudo divinità (pensare ai martiri dei primi
secoli, che per non farlo hanno subito tormenti atroci e acerbissimi) o anche ad un essere
umano, perché l’adorazione ha senso ed è doverosa solo e soltanto in quanto espressione
dell’adorazione interna (così come il sacrificio visibile non può essere mai separato dal
sacrificio spirituale e viceversa). Non si può quindi far finta di adorare esternamente
qualcosa o qualcuno con la riserva di non farlo internamente. Non si sarebbe, infatti,
certamente esenti da peccato mortale. Peraltro, nel nostro malato mondo contemporanea è
diffusissima l’idolatria delle persone, che vengono completamente messe al posto di Dio.
Può succedere anche di idolatrare un santo, quando il pur dovuto culto ad esso dovuto
non è ordinato e vissuto nel rispetto della regola della fede (cioè onorando ciò che Dio,
attraverso la grazia, ha operato in quel santo e non facendone un “alter ego” o un sostituto
dell’Altissimo, come se un santo fosse, da se stesso e in se stesso qualcosa…). Più grave
ancora è idolatrare un uomo ancora vivente, anche con la motivazione di (presunta)
santità, perché fino a quando sono in questo mondo, tutti - anche i santi (anzi soprattutto
loro!) - possono essere tentati e cadere. Dio non vuole in nessun modo che gli si tolga la
gloria a Lui solo dovuta e vuole essere onorato e adorato anche nei suoi santi e nei suoi
inviati, che devono essere cari al nostro cuore e da noi ascoltati e seguiti tanto quanto ci
trasmettono fedelmente la sua parola, ci guidano secondo i suoi disegni, ci santificano con
gli strumenti da Lui dati e voluti. Solo così e solo per questo. Nulla di più e nulla di meno,
sfuggendo dall’entrare in quel circolo idolatrico creato da quelle odiose celebrazioni
mediatiche che divinizzano dei poveri uomini, che sono sempre tali anche quando non
fossero (come la maggioranza degli idoli creati dagli uomini mondani) grandi peccatori o
personalità a dir poco discutibili. Come diceva san Luigi M. Grignion da Montfort: gloria a
Gesù in Maria, gloria anche a Maria in Gesù, ma soprattutto gloria a Dio solo!
La pietà e l’osservanza o rispetto

Trattiamo insieme la seconda e la terza parte integrante della virtù cardinale della giustizia
per la loro affinità, che le distingue tra di loro solo per alcune piccole sfumature.
La pietà consiste sostanzialmente nei doveri di giustizia verso i genitori e la patria: si
esplica nel “rendere servizi e cure diligenti a genitori, consanguinei e benemeriti della
patria”, in quanto verso di loro l’uomo è debitore immediatamente dopo Dio. Comporta il
dovere di rendere loro ossequio, onore, rispetto ed obbedienza e, in caso di necessità,
particolari servizi (sostentamento; visita ed assistenza in caso di infermità, etc.). E’ in ogni
caso sempre da osservare il primato di Dio, che ha autorità superiore anche ai genitori e a
cui, in caso di contrasto oggettivo, sempre, solo e comunque bisogna obbedire. Le regole di
questa virtù (come dell’osservanza, che vedremo subito) sono contenute nei doveri
inerenti al quarto comandamento.
L’osservanza o rispetto è l’esercizio dei doveri giustizia verso le persone oggettivamente
degne di onore perché rivestite di autorità e si attua nel “circondare di deferenza ed onore
tutte le persone eminenti”. In sostanza si tratta della giustizia nei confronti di tutte le
persone costituite in autorità (governanti; maestri; superiori ecclesiastici, etc.), a cui vanno
prestati rispetto ed onore. Al suo interno comprende due importanti atti. La “dulia”, ossia
tutti gli atti (esterni ed interni) con cui si rende e si esprime l’onore dovuto ad un
superiore; e l’obbedienza, che consiste nel sacrificio della propria volontà, che, tra tutti, è
indubbiamente il più grande. L’obbedienza deve essere assoluta solo, sempre e soltanto
nei confronti di Dio, mentre è sempre più o meno condizionata (anche se comunque
effettiva e reale) nei confronti degli uomini, in particolare dei superiori. I limiti oggettivi e
inviolabili dei comandi dei superiori sono tre: il primo e il più importante, è la legge di
Dio, che mai e in nessun modo può essere contraddetta o contrariata; inoltre, il superiore
non può e non deve travalicare o pretendere di andare contro un’autorità superiore (Dio,
in primis, ma anche autorità più grandi di lui); terzo, deve rimanere nei limiti della propria
autorità, cioè può dare comandi solo nelle cose in cui il suddito gli è realmente sottoposto
e soggetto, di modo che l’obbedienza non può mai riguardare i moti interiori della
volontà, che devono obbedire a Dio solo, mentre, nel cosiddetto “foro interno” (cioè
l’ambito personale della propria coscienza), è ordinariamente competente solo il
confessore o il direttore spirituale (non i superiori canonici). Si è tenuti ad obbedire anche
negli atti esterni da eseguirsi con il corpo che ricadano nell’oggetto del potere del
superiore: per esempio, tutto ciò che riguarda la regola per i religiosi; la cura e la condotta
della casa per un figlio nei confronti del padre; l’esercizio delle mansioni nei rapporti di
lavoro; la disciplina comunitaria e la vita del seminario e le cose riguardanti il giudizio da
formulare al vescovo nei confronti del rettore del seminario; etc. Queste forme di
obbedienza, tecnicamente, si definiscono “obbedienza nelle cose d’obbligo”, che è più che
sufficiente per salvarsi e la cui eventuale ingiustificata trasgressione costituisce senza
dubbio peccato. C’è anche un’obbedienza perfetta, che abbraccia la sottomissione al
superiore anche nelle cose in cui sarebbe lecito decidere per contro proprio (purché in ogni
caso non si vada mai contro Dio o, per un religioso, contro la regola). Si badi, tuttavia, che
è sempre disordinata ed è peccato l’obbedienza nelle cose illecite. Su quest’ultimo tema
vari autori (antichi e moderni) discutono circa i limiti della liceità dell’obbedienza,
specialmente quando un comando di un superiore non sia oggettivamente illecito (cioè
non violi uno dei tre requisiti suddetti), ma sia percepito dal suddito come
soggettivamente (ovviamente in base a solide e fondate ragioni) contrario a quello che Dio
vuole da lui. La regola dei maestri di spirito è quella di sottomettersi, in questi casi, al
superiore, lasciando a Dio il compito di giudicare un eventuale ordine contrario ai suoi
voleri. Chi scrive però comprende che ci sono e possono determinarsi delle rare situazioni
in cui è davvero difficile districarsi, come la storia della Chiesa attesta (si pensi, solo per
fare un esempio, alla drammatica vicenda di una santa Giovanna d’Arco). La coscienza, in
questi casi, è come sempre l’ultimo giudice da sottoporre, ovviamente, a Dio solo,
prendendosi sempre tutte le responsabilità davanti a Lui e davanti agli uomini. Detto
questo, si badi che ordinariamente la disobbedienza è, nel genere, a detta di san Tommaso
d’Aquino, un peccato mortale, in quanto incompatibile con l’amore di Dio che vuole che si
obbedisca a coloro che da Lui sono stati rivestiti di autorità e, sempre ordinariamente, tale
peccato nasce dalla superbia e dalla vanagloria, che sono passioni sempre intrinsecamente
disordinate e mai da assecondare.

La gratitudine e la vendetta

La quarta parte integrante della virtù cardinale della giustizia è la gratitudine.


La gratitudine o riconoscenza consiste nella “volontà di ricompensare un altro ricordando
le attenzioni della sua amicizia”. E’ dovuta anzitutto a Dio, poi ai genitori, a tutte le
persone costituite in autorità ed infine a tutti i propri benefattori. La ricompensa del
beneficio ricevuto è un obbligo morale del beneficato e si sostanzia anzitutto in affetti
riconoscenti, poi nell’accettare il dono ricevuto con gioia ed infine nel ricompensare il
benefattore possibilmente con qualcosa di più di quanto ricevuto. Il vizio opposto è
l’ingratitudine, che nasce dal disprezzo dei benefici ricevuti ed è grave quando è rivolta a
Dio. Può anche essere dovuta a negligenza (dimenticare i benefici ricevuti), ma non per
questo si è scusati. Nostro Signore Gesù Cristo in persona ha avuto modo di lamentare
grandemente la mancanza di gratitudine degli uomini nei suoi confronti, oltre che nel
Vangelo (quando si lamentò dell’ingratitudine dei lebbrosi guariti, Lc 17,17), soprattutto
durante le celebri apparizioni a santa Margherita Maria Alacoque (1643-1690), da cui prese
origine la devozione e la festa del Sacratissimo Cuore di Gesù. Simile cosa ha fatto la
Madre di Dio in occasione delle rivelazioni postume alle apparizioni di Fatima (1917),
quando, nel Dicembre del 1925, mostrò a suor Lucia il suo Cuore Immacolato circondato
dalle spine degli uomini ingrati che non si facevano scrupolo di martoriarlo con continui
peccati e chiedendo, come già fece a suo tempo il Sacratissimo Cuore di Gesù, riparazione
per questo.
Più delicato ed articolato è il discorso che deve farsi sulla “vendetta”, cioè la quinta parte
integrante della virtù della giustizia.
La vendetta non è altro che il “castigo inflitto al colpevole” per i peccati (o, da un punto di
vista della legge umana, i reati) che ha commesso. Non è mai lecita quando ha come fine la
propria soddisfazione, perché tale disposizione è propria dell’odio, che è il contrario della
carità. è invece lecita quando ha come fine l’emendamento del colpevole, la tutela della
pubblica quiete, della giustizia e dell’onore di Dio, salvo sempre il rispetto delle debite
circostanze. Spetta sempre alle legittime autorità applicare le giuste pene dovute per i
peccati e reati, mentre per i singoli è sempre cosa doverosa sopportare le ingiurie fatte a sé,
cioè non vendicarsi mai e per nessun motivo, secondo il Vangelo e le esortazioni di San
Paolo e ricordando il detto biblico: “chi si vendica avrà la vendetta del Signore ed egli terrà
sempre presenti i suoi peccati” (Sir 28,1). A detta di san Giovanni Crisostomo, per contro,
sarebbe, invece, il colmo dell’empietà tollerare le ingiurie verso Dio. In questo senso, per
esempio, si trova nella Sacra Scrittura l’esempio di Elia, che sterminò i 400 profeti di Baal; e
di Gesù stesso, che scacciò risolutamente - anche con l’uso di una certa moderata violenza
- i mercanti del Tempio e non risparmiò aspre invettive contro i farisei. Lo zelo infatti, che
è la prima radice della vendetta, fa considerare come fatte a sé le ingiurie fatte a Dio, a
causa della carità che trasforma l’amore in amore fervente. Si badi, tuttavia, che la misura,
l’opportunità e la proporzionalità di tali reazioni non sono ordinariamente comprensibili
dagli uomini. Elia, infatti, era un grande profeta e Gesù era il figlio di Dio fatto uomo.
Pertanto ordinariamente la difesa dei diritti di Dio offesi da uomini empi e ingrati, va
compiuta con mezzi pacifici (anche se fermi), pacati e proporzionati, salva sempre la
competenza delle autorità umane e di quella divina di punire tali comportamenti in modo
proporzionato e adeguato.
In quanto tale, la vendetta è il giusto mezzo tra la crudeltà (o durezza) che eccede nella
punizione e la blandizia che difetta di eccessiva indulgenza. Da quanto detto si comprende
che la vendetta ha due aspetti, peraltro condivisi anche dai giuristi esperti di diritto
penale: uno punitivo o retributivo, che è quello ristabilire la giustizia mediante una pena
adeguata e proporzionata al tipo e al numero dei reati commessi; l’altro emendativo o
medicinale, ossia la finalità di favorire l’emendamento e la correzione del colpevole, in
modo che si guardi dal reiterare in futuro gli stessi peccati o reati, per il bene suo e
dell’umano consorzio.

La veracità e l’amicizia

Proseguiamo il discorso sulla virtù cardinale della giustizia, passando rapidamente in


rassegna la sesta e la settima parte integrante.
La veracità è quella splendida virtù consistente nel “dichiarare, senza alterazioni, le cose
che sono, sono state e saranno”. Comprende, quindi, sia il dire il vero su ciò che è stato e
che è, sia la fedeltà alla parola data (“le cose che saranno”). Una virtù assai rara, ma molto
necessaria tra gli uomini. Si pensi ad un mondo in cui nessuno mentisse e tutti fossero
fedeli alla parola data e facilmente si comprenderà la bellezza e l’importanza di questa
virtù, i cui vizi opposti sono la menzogna, la simulazione, l’ipocrisia, la millanteria (o
iattanza) e l’ironia. La menzogna: è una “dichiarazione falsa fatta con l’intenzione di
ingannare” e può essere di tre specie: dannosa, giocosa e di scusa (o “bianca”). La prima
può spesso essere peccato mortale, le altre sono sempre e comunque peccati veniali, ma
non devono essere commesse a cuor leggero (Padre Pio era molto severo anche con una
sola bugia bianca o di scusa), perché sono sempre trasgressioni all’ottavo comandamento.
Non si cade nella menzogna quando si evita, per ragioni di necessità, di prudenza o per
altre buone cause, di dire tutta la verità, oppure si risponde in maniera generica o ambigua
a chi fa domande indebite, indiscrete o inopportune, dando alla risposta il senso (vero ma
non completo) che si desidera. Non è semplice imparare questa “tecnica” (mi si passi
l’espressione), ma si può ed è molto necessario, onde contemperare la duplice esigenza di
non moltiplicare i peccati veniali mentendo e, al tempo stesso, di non compromettere una
serie di beni o di persone rivelando ciò che deve essere mantenuto segreto. La simulazione
differisce dalla menzogna nella modalità in cui si perpetra, perché mentre la menzogna
altera la verità a parole (con una dichiarazione falsa), la simulazione è la menzogna posta
in essere con opere e azioni (far credere qualcosa che non è, con comportamenti rivolti a
questo fine). Vale, ovviamente in questo caso, quanto appena detto circa la menzogna, le
sue specie e i casi in cui non è peccato. L’ipocrisia è una forma di simulazione
particolarmente odiosa, tristemente incarnata dai farisei del Vangelo, gli unici contro cui
Gesù usò parole e gesti assai severi e a tratti duri: consiste infatti nella simulazione
(esteriore) della santità oppure della retta intenzione, allo scopo di apparire diversi da
quello che si è o (peggio) di tendere insidie al prossimo. Inutile puntualizzare che si tratta
senza dubbio di un peccato mortale e particolarmente odioso a Dio. Similmente assai
fastidiosa è la millanteria (o iattanza), ossia l’innalzare se stessi dicendo di sé cose
superiori alla realtà, peccato frequentissimo e diffusissimo e assai poco confessato. Nasce
dalla superbia e dalla vanagloria ed è perfettamente evitabile solo dai perfetti, per cui è,
ordinariamente, un peccato veniale, anche se assai odioso (specialmente al prossimo).
Infine l’ironia, nella sua accezione morale, è la falsa sottovalutazione di se stessi,
generalmente finalizzata ad ottenere obiezioni a tale protesta (falsa) di piccolezza e gratuiti
attestati di eccellenza e di santità. Anche questo è, nella specie, un peccato veniale, ma
camuffa delle forme assai raffinate di superbia.
Per concludere il discorso sulla veracità, si ricordi che non è peccato dire i propri peccati
reali (ma è altamente sconsigliabile) o tacere le proprie qualità (cosa che è invece sempre
assai raccomandabile), mentre è sempre peccato mentire in nome dell’umiltà (come
quando, per celare per esempio che si sta facendo un digiuno, si dovesse rispondere
affermativamente a chi chiedesse se si è mangiato. In questo caso o si evita di rispondere -
se si può - oppure umilmente si deve dire la verità).
L’amicizia (o, meglio, affabilità) è un habitus che ordina l’uomo a trattare tutti, nella vita
quotidiana, nel modo dovuto sia nelle parole che nei fatti. è senza dubbio una delle virtù
più amabili e gradite al cielo e che allietano non poco la vita di chi entra in contatto con
una persona veramente affabile, cortese, gentile, educata, garbata, sorridente e rispettosa. I
vizi ad essa opposti sono anzitutto l’adulazione, ossia il trattare il prossimo in modo da
compiacergli, sia nelle parole che nei fatti, oltre i limiti dell’onestà e del giusto;
specialmente quando non ci sarebbe niente da adulare per il cattivo comportamento della
persona, oppure quando si cade nell’idolatria e nell’eccesso di considerazione di una
persona umana, per quanto degna e santa possa essere. Opposto all’adulazione è il litigio,
cioè la tendenza ad avere atteggiamenti irrispettosi, sgarbati e aggressivi nei confronti del
prossimo, contraddicendolo (anche gratuitamente) senza alcun timore di rattristarlo. Il
che, oltre ad essere una mancanza all’affabilità è anche una brutta mancanza alla carità e
pertanto è vizio molto sgradito a Dio.
La liberalità e l’equità o epicheia

Concludiamo il discorso sulla virtù cardinale della giustizia, considerando le sue ultime
due parti integranti: la liberalità e l’equità.
La liberalità (o beneficenza o generosità) non è altro che il retto uso dei beni temporali, in
modo particolare del denaro (che è l’oggetto proprio della liberalità), a favore del
prossimo. Su questo tema, nonostante lo sviluppo soprattutto nell’ultimo secolo della
cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, sono ancora molti i fedeli che appaiono non avere
le idee chiare in merito, né disporre di un’adeguata formazione su tale aspetto tanto
importante della vita cristiana. I Vangeli ci narrano molti episodi in cui Gesù ammonisce
circa il pericolo di un uso egoistico o distorto delle ricchezze (si pensi, per esempio, alla
parabola dell’uomo stolto o del ricco epulone) ed esorta ad un grandissimo distacco,
spesso anche effettivo oltre che affettivo, dalle ricchezze e dai beni. Le ricchezze sono
senza dubbio un bene non un male, ma è molto difficile usarle secondo giustizia e per
questo rappresentano un grande pericolo. Gesù ha condannato l’accumulo eccessivo ed
egoistico di ricchezze, l’uso di esse per gozzoviglie e bagordi dimenticando le necessità del
prossimo, l’attaccamento ad esse qualora creasse un laccio che impedisca di fare la volontà
di Dio. Il fatto che la liberalità sia una parte della giustizia (e non della carità) significa che
elargire a chi è nel bisogno ciò che è realmente superfluo non è un atto di misericordia, ma
di giustizia; in altre parole non è facoltativo, ma doveroso. Insegna, infatti, la dottrina
sociale della Chiesa che Dio, avendo disposto che esista la proprietà privata e quindi la
possibilità di possedere beni propri e ricchezze personali, non ha tuttavia rinnegato il
principio di “destinazione universale dei beni creati”, ma ha solo, per così dire, costituito i
ricchi dispensatori dei suoi beni a favore di chi, per varie circostanze, si trova nel bisogno o
nell’indigenza. Guai dunque, come dice Gesù nel Vangelo, a chi spende per accumulare
beni e denaro ma non arricchisce davanti a Dio (cf Lc 12,21)!
La liberalità ha due vizi opposti: l’avarizia (o cupidigia), termine che deriva da “aeris
aviditas” (avidità di denaro), secondo vizio capitale, che si identifica con uno smoderato
amore di possedere e accumulare beni e ricchezze e che sfocia sempre nella durezza di
cuore nei confronti dei bisogni e delle necessità del prossimo. San Paolo è giunto a dire che
“l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tim 6,10), principio su cui molti sono
d’accordo in linea teorica, ma che pochi sanno trasformare in criterio per un sincero e
accurato esame di coscienza. Dal lato completamente opposto rispetto all’avarizia c’è la
prodigalità, che consiste nello spendere senza criterio e senza utilità, solo per sé e per i
propri interessi, le ricchezze di cui si dispone. Questo bruttissimo vizio è oggi diffusissimo
ed è la vera causa della povertà e della fame del mondo, unitamente agli spaventosi
sprechi partoriti dalla nostra “civiltà” (?!?) occidentale. è stato infatti calcolato che ogni
anno nel mondo vengono sprecate 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, cifra che basterebbe a
nutrire e sfamare 4 volte tanto il numero delle persone che ogni anno soffre la fame (circa
805 milioni di persone). Prima di dare la colpa a Dio (bestemmiando) di questo, come degli
altri mali presenti del mondo (la cui colpa è solo degli uomini e dei demoni, mai di Dio),
bisognerebbe conoscere e meditare non poche su queste inquietanti cifre.
L’equità o epicheia è la capacità di discernere l’eccezionalità di circostanze che rendano
necessaria la disapplicazione della legge generale al caso concreto. Questo vale per tutte le
leggi umane (comprese quelle ecclesiastiche) e non è altro che un’applicazione vera e
pratica dell’antico adagio romano “summa lex, summa iniuria”. Tutte le leggi umane,
infatti, sono per definizione generali e astratte e non possono prevedere tutte le circostanze
(potenzialmente infinite) in cui potrebbero o dovrebbero essere applicate. In questo senso
possono verificarsi delle situazioni in cui applicare una certa norma sarebbe
completamente assurdo, fuori luogo, dannoso e contrario ai divini voleri. Tale giudizio va
fatto, davanti a Dio, da una coscienza ben formata (e con un certo rigore, non
concedendosi a cuor leggero facili dispense), e non è affatto una sorta di deponziamento o
svuotamento della forza vincolante della legge, ma un modo per ribadirne la sua forza
cogente, che è generale ma non assoluta, cosa che è proprietà (e tale rimane) della sola
legge positiva di Dio (naturale e non), dinanzi alla quale tale principio non può e non
potrà mai essere lecitamente e legittimamente applicato.
8. LE VIRTÙ CARDINALI: LA FORTEZZA
La terza virtù cardinale è la fortezza. Le più belle definizioni di questa importante e
affascinante virtù vengono da alcuni grandi pensatori pagani. Cicerone la definì come il
“deliberato esporsi a pericoli e disagi”, mentre Andronico disse che lo fortezza è “la virtù
dell’irascibile che non si lascia spaventare dal timore della morte”.
La virtù della fortezza ha come oggetto la rimozione degli ostacoli a compiere il bene
causati dalla presenza di difficoltà incombenti che trattengono la volontà impedendole di
agire, soprattutto il pericolo della morte, ma anche il timore di altri danni o guai che
potrebbero derivare dall’operare secondo virtù. Questa operazione la virtù della fortezza
la compie reprimendo il timore (perché sia vinto e superato) e moderando l’audacia.
L’atto proprio e principale della fortezza è dunque il resistere al pericolo, vincendo il
timore; l’atto secondario e subordinato è regolare l’audacia. La più importante
manifestazione di questa virtù, potremmo dire l’atto di fortezza per antonomasia, è il
martirio, mediante il quale un cristiano preferisce farsi uccidere che tradire la verità (cioè
la fede) o rinnegare la giustizia (mancando alla carità), compiendo in questo modo il più
perfetto degli atti umani in quanto massimo segno dell’ardente carità (Gv 15,13).
Per mezzo di questa mirabile virtù, viene dunque vinto il timore, che insieme alla tristezza
è la passione che più propriamente può dirsi tale e quindi difficilmente vincibile. Essa,
infatti, conferisce una tenacia invincibile (o fermezza) nel perseguire il bene anche di fronte
al più grave dei timori - che è quello della morte - e quindi anche di tutte le altre possibili
forme di sofferenza fisica (dolori corporali) e spirituale (abiezione). Si manifesta
soprattutto nei casi imprevisti anche se, ordinariamente, l’uomo forte prevede i pericoli e
si prepara ad affrontarli. L’uomo forte propriamente non gode nel compiere gli atti di
fortezza (farsi ammazzare, incarcerare, flagellare, percuotere, ingiuriare, calunniare,
disonorare, etc.), ma il godimento della virtù compiuta (grazie all’esercizio della fortezza)
impedisce all’anima di farsi vincere dalla tristezza sensibile e di farsi sopraffare dai dolori
fisici.
Si può mancare alla virtù della fortezza, come a tutte le virtù, per difetto o per eccesso. Da
ciò derivano i due vizi opposti alla virtù della fortezza in quanto tale: la viltà (o paura) e
l’audacia (o temerarietà). La viltà (o paura) è peccato quando è disordinata, cioè quando
per paura di certi mali l’uomo si astiene dal perseguire dei beni che devono essere
perseguiti. E’ peccato veniale quando la volontà non dà il consenso, mortale quando la
volontà dà il consenso a tralasciare per paura (ad esempio di soffrire qualche pena nel
corpo) l’osservanza della legge di Dio. Non c’è peccato quando si tollera un male minore
per sfuggire ad uno maggiore (per esempio, per conservare la vita si lascia che i ladri
rubino davanti ai propri occhi); nel caso contrario (accettare un male maggiore per evitare
un minore) si ha peccato, ma solo veniale, perché la paura diminuisce notevolmente la
volontarietà. L’audacia (o temerarietà) è la mancanza di retta considerazione dei pericoli,
per cui i temerari sono baldanzosi ed impetuosi prima che sopravvengano i pericoli, ma
poi, quando arrivano, scappano. Esattamente il contrario fanno i forti, che sanno regolare
l’impeto dell’affrontare le cose ostili proprio dell’audacia. Molto affine all’audacia è la
spavalderia (o insensibilità al timore), ossia il vizio per mezzo del quale non si teme ciò
che va temuto. Il forte infatti non è colui che non teme nulla, ma colui che sa vincere il
timore (perfino il più grande) in nome della virtù da compiere.
La terza virtù cardinale della fortezza ha quattro parti integranti: la magnanimità, la
magnificenza, la pazienza e la perseveranza. Come di consueto, ne analizzeremo nel
dettaglio ciascuna di esse, anche in relazione ai vizi opposti.
La magnanimità è la tensione della volontà verso il conseguimento di cose grandi e degne
di particolare onore. Secondo san Tommaso d’Aquino, il magnanimo ha cinque proprietà:
non ricorda i benefici ricevuti, perché largheggia nel contraccambiare e nel dare,
eccellendo nella gratitudine; è “ozioso e tardo”, non nel senso negativo che ordinariamente
si dà a questi termini, ma in quello positivo consistente nel suo non voler intromettersi in
ogni faccenda, anche che lo riguardi, ma solo in quelle più eccellenti; si serve dell’ironia,
poiché cela la sua grandezza - senza mentire né simulare - facendosi modesto con quelli di
media condizione; non sa convivere se non cogli amici veri, perché rifugge ed aborrisce
l’adulazione e la simulazione; preferisce le cose infruttuose a quelle belle e fruttuose, nel
senso che persegue e antepone sempre e comunque ciò che è bene a ciò che è utile.
Rientrano nelle dotazioni del magnanimo anche la fiducia, intesa come speranza ferma e
tenace di conseguire le cose degne di onore e la sicurezza, attitudine interiore grazie alla
quale non si cede né davanti al turbamento dell’animo, né agli uomini, né alla sfortuna. “Il
magnanimo è aperto nell’amore e nell’odio e parla e opera apertamente” (S. Th., I-II, q. 48,
a. 3, ad 2).
Si oppone a questa splendida virtù anzitutto la presunzione, atteggiamento vizioso di chi
intraprende cose grandi ma superiori alle proprie forze (cf Sal 130), mentre il magnanimo
non lo fa mai: eccede senz’altro nella grandezza delle cose perseguite, ma non nel
ponderare la proporzione di esse alle proprie capacità. Si badi che non è affatto
presunzione cercare di compiere azioni virtuose sotto il pretesto del fatto che l’uomo,
senza l’aiuto della grazia, non può compierle, perché ciò che si può con l’aiuto di altri è in
qualche modo in potere dell’agente. Il giusto e il santo sono consapevoli che senza la
Grazia non si può fare nulla di buono, ma sanno anche che essa non manca a chi la chiede,
si dispone a riceverla e usa i mezzi e pertanto si regolano secondo il celebre adagio di
sant’Ignazio di Loyola: “Fa’ come se tutto dipendesse da te, sapendo che niente dipende
da te”. E’ presunzione, invece, non seguire l’ordine nelle fasi di crescita nella virtù e quindi
agire sconsideratamente senza la “legge della gradualità” (per esempio, voler agire come i
perfetti pur avendo una virtù imperfetta). Una particolare specie (gravissima) di
presunzione è quella di salvarsi senza meriti, che, come è noto, è anche uno dei sei peccati
contro lo Spirito Santo. Questa forma di presunzione, che esclude dalla possibilità di
raggiungere l’eterna salvezza (come tutti i peccati contro lo Spirito Santo), eccede la
proporzione nella moderazione che si deve avere nella pur doverosa fiducia nella divina
Misericordia ed eccede la condizione di natura creata nel disprezzo della divina Giustizia,
che omette totalmente di prendere in considerazione e pensa di poter impunemente
“bypassare”.
Alla magnanimità si oppongono anche l’ambizione, la vanagloria e la pusillanimità.
L’ambizione è la brama disordinata dell’onore, avente tre specie: cercare l’onore per
un’eccellenza che non si ha; non riferire le proprie reali eccellenze alla loro Fonte (che è
Dio); non ordinare le proprie eccellenze al bene altrui (che è il motivo per cui Dio le dona)
ed è sempre vizio molto grave.
La gloria è una certa chiarezza e splendore pubblicamente riscontrabile e lodata, a cui
l’uomo naturalmente tende, per cui il desiderio della gloria, di per sé, non è certamente un
male. E’ invece un male cercare la gloria vana (inutile) che è tale sotto tre aspetti: per il suo
oggetto, quando si cerca la lode in cose fragili e caduche; per essere ricercata presso gli
uomini, il cui giudizio di lode non è certo, anzi è sempre fallace e imperfetto; per il fatto
che non è ordinata al debito fine, ossia all’onore di Dio e al bene del prossimo. Può essere
un peccato mortale quando cade su un oggetto direttamente contrario all’amore di Dio
(come per esempio preferire i beni temporali alle eterne ricompense, oppure la
testimonianza degli uomini a quella di Dio), oppure quando sia realmente il fine ultimo
dell’agire (agire solo per ottenere gloria propria e personale); altrimenti è un peccato
veniale. La vanagloria, ha a sua volta, sette figlie: la millanteria (aumentare la parvenza di
eccellenza con parole false), la pretesa di novità (atteggiamenti originali tali da attirare
l’attenzione), l’ipocrisia (atteggiamenti esterni, comunemente lodati, ma falsamente
ostentati), la pertinacia (difesa ostinata delle proprie idee e rifiuto di accettare un consiglio
altrui), la discordia (rifiuto di abbandonare i propri pareri in nome della comunione), la
contesa (polemica con il prossimo) e la disobbedienza (rifiuto di obbedire ai propri
superiori).
La pusillanimità, infine, è l’esatto contrario della presunzione, in quanto il pusillanime
rifiuta di tendere, per paura e viltà, a cose che sarebbero del tutto proporzionate alle sue
forze, pur essendo ardue. Ne rappresenta un emblematico esempio l’evangelico servo che
nasconde il talento sotto terra, misconoscendo le proprie capacità. Effetto molto comune
della pusillanimità è la pigrizia, unitamente all’accidia e all’ignavia. Come si evince dal
brano evangelico (e dai danteschi gironi infernali degli ignavi), non bisogna incautamente
e frettolosamente sottovalutare la portata di negatività che porta in sé questo vizio e la sua
capacità di compromettere l’eterna salvezza.
La seconda parte integrante della virtù cardinale della fortezza è la magnificenza, il cui
significato letterale è “fare qualcosa di grande”. Consiste nel progettare ed eseguire cose
grandi, sublimi e molto dispendiose, con splendidezza e ampiezza di disegno e proposito.
Ha per oggetto le grandi spese fatte in vista di grandi opere in onore di Dio ed è grande
virtù perché ha come presupposto una grande moderazione nell’attaccamento al denaro.
E’ il giusto mezzo tra i due eccessi (che ne rappresentano i vizi opposti) della grettezza,
che consiste nell’eccessiva preoccupazione di spendere poco in relazione alla grandezza
delle opere da compiere e dello sperpero, che oltrepassa, senza adeguata motivazione, la
giusta proporzione tra spesa ed opera da compiere.
Grandissima virtù è poi la pazienza, di cui la piccola Giacinta di Fatima ebbe a dire che è la
virtù che ci porta in cielo. Tende a regolare i moti della tristezza, che sono molto potenti
nel distogliere l’uomo dal perseguimento dei beni più grandi e di essa sono state date tre
bellissime definizioni: “volontaria e prolungata sopportazione di cose ardue e difficili,
motivata da un fine utile e onesto” (Cicerone); “sopportare con animo sereno i turbamenti
della tristezza che scoraggiano nella corsa verso il bene” (S. Agostino); “sopportare con
animo sereno i mali che ci vengono dagli altri” (S. Gregorio Magno). Dall’insieme di
queste tre definizioni, si evincono facilmente le caratteristiche di questa importantissima
virtù, grazie alla quale si accetta ogni dolore e privazione in vista dell’amore di Dio e del
godimento di Lui. Sono strettamente connesse alla pazienza anzitutto la longanimità, cioè
la capacità di attendere la dilazione nel tempo del bene sperato, che è il contrario del
volere tutto e subito; e la costanza, cioè la capacità di affrontare le fatiche necessarie per
compiere un’opera buona, superando tutte le difficoltà. San Tommaso afferma, assai
acutamente, che Dio è paziente con quelli che peccano per malizia (che, in quanto tali,
meriterebbero di essere subito castigati), mentre è longanime con quelli che peccano per
fragilità (cioè aspetta che prendano meglio coscienza del male commesso e che lavorino
per correggersi ed emendarsi).
L’ultima parte integrante della fortezza è la perseveranza, abito per mezzo del quale si
resiste al prolungamento nel tempo dello sforzo necessario a compiere il bene, sia negli atti
che in tutti gli abiti. L’oggetto proprio a cui si resiste con questa virtù è pertanto il tempo (a
differenza della costanza, il cui oggetto sono le difficoltà di altro genere incontrate
nell’esecuzione del bene), per mezzo della moderazione del timore di venir meno o di
stancarsi a causa del prolungarsi dello sforzo. Oltre alla grazia abituale (necessaria per
proporsi fermamente di perseverare nel bene), per essere perseveranti è necessario anche
un dono gratuito di Dio, necessario per stabilire immobilmente il proposito del libero
arbitrio. Per questo motivo il Concilio di Trento ha autorevolmente insegnato che la grazia
della perseveranza nella fede fino alla fine, deve essere chiesta con insistenza a Dio e il
santo stigmatizzato padre Pio da Pietrelcina non esitava a confessare candidamente che
ogni giorno non mancava di rivolgere a Dio la sua personale supplica per ottenere il santo
dono della perseveranza. I vizi opposti a questa virtù sono anzitutto la pertinacia, che deriva
etimologicamente da “impudenter tenax”, ossia tenace in modo impudente. La persona
pertinace o “pervicace”, è colui che vuole andare avanti fino alla fine e si incaponisce,
anche quando dovesse accorgersi che sta percorrendo una strada non buona. Si tratta in
sostanza della persistenza ostinata nella propria opinione personale, che è sempre figlia
primogenita della vanagloria e che conduce inevitabilmente alla rovina. Opposta alla
perseveranza per difetto è invece la mollezza, vizio per mezzo del quale si abbandona il
bene alla minima difficoltà, al minimo impulso di dolore o alla mancanza di qualche
soddisfazione. E’ la ripugnanza a sopportare la fatica e lo sforzo prolungato per conseguire
il bene e causa la rovina dell’anima, come non mancò di ricordarci nostro Signore nel suo
Vangelo: “solo chi persevera fino alla fine sarà salvato” (cf Mt 10,22 e 24,13).
9. LE VIRTÙ CARDINALI: LA TEMPERANZA
La quarta virtù cardinale è quella della temperanza. Secondo il grande dottore
sant’Agostino, è “la virtù che modera l’uso dei beni e dei piaceri sensibili, impedendo
l’affetto e il desiderio di essi per se stessi e servendosene nei limiti delle necessità della vita
presente”. Per questa virtù, che è l’ultima in ordine di importanza delle sette virtù
cristiane, sembra quanto mai adatto il celebre aforisma di Gesù, secondo cui “gli ultimi
saranno i primi e i primi saranno gli ultimi” (Lc 13,30). Come presto vedremo, infatti,
senza la presenza di questa virtù (e di tutte le sue parti e virtù connesse), diverrebbe
impossibile il compimento di qualunque atto virtuoso, oppure perderebbe larga parte
della sua bellezza e meritorietà. L’oggetto di questa virtù, infatti, è la rimozione degli
ostacoli a compiere il bene causati dalla presenza di beni dilettevoli che attraggono la
volontà, distogliendola dal bene da compiere. è dunque evidente che se la volontà
rimanesse irretita nel mare dei piaceri sensibili e dilettevoli, non compirebbe nessun atto di
virtù! Compito della temperanza, invece, è anzitutto frenare la forza attrattiva dei piaceri e
delle concupiscenze e, inoltre, regolare e moderare le tristezze e i dolori che nascono
dall’assenza di tali beni e piaceri sensibili.
I piaceri frenati da questa piccola ma grande virtù sono propriamente e principalmente
quelli del tatto e del gusto: piaceri sessuali, cibo e bevande e, secondariamente, quelli degli
altri sensi (vista, odorato e olfatto). Ovviamente è compito della temperanza non eliminare
del tutto il piacere naturalmente insito nei beni sensibili e dilettevoli (il gusto nel
mangiare, il piacere venereo, il diletto legato alle immagini, ai suoni, agli odori, etc.), ma
solo condurne a farne l’uso strettamente necessario per la vita presente, imponendo la
dovuta moderazione e impedendo di amare questi beni bassi come se fossero il fine ultimo
e il motivo principale della vita, che mai può coincidere con nessuna forma e nessun tipo
di piacere sensibile, con buona pace di Epicuro e di tutti i suoi (stolti, ma oggi assai
numerosi) seguaci.
Parti strettamente integranti della quarta virtù cardinale (la cui presenza, cioè, è necessaria
per l’esistenza stessa di questa virtù) sono la vergogna e l’onestà. La vergogna è da
intendersi non in maniera vaga o naturalistica, ma nel senso ben specifico del timore delle
cose turpi, indecenti e deplorevoli, che spinge ad aborrirle, detestarle e fuggirle. Porta
dunque ad astenersi da alcuni vizi direttamente opposti a questa virtù per la vergogna che
ne consegue, come la vergogna a mostrarsi ubriachi, ad esporre il proprio corpo alla vista
altrui, etc. La vergogna - che è propriamente una passione da indirizzare verso il suo
giusto oggetto - è funzionale alla temperanza; ovviamente quando è indirizzata, come
appena detto, verso il suo giusto oggetto, perché, per esempio, vergognarsi di Gesù o delle
sue parole (cf Lc 9,26), lungi dall’essere atto virtuoso, costituisce ben serio e riprovevole
peccato. L’onestà è invece l’amore verso tutto ciò che è bene e virtuoso, anzitutto dal punto
di vista intellettuale e spirituale, ma senza escludere il piano dell’utile e del dilettevole che,
in quanto rettamente considerati e moderatamente perseguiti, rientrano senz’altro nella
categoria del bene, quanto meno naturale. San Tommaso d’Aquino nota acutamente che
nell’onestà confluiscono, quanto a meno a livello pratico, il bene, il bene, l’utile e il
dilettevole, pur rimanendo tra loro, distinti (nel senso che non tutto ciò che è bello, utile o
piacevole per il singolo è, ipso facto, onesto, ma lo è solo quando è oggettivamente tale).
Il vizio formalmente opposto alla temperanza in quanto tale è l’intemperanza, cioè il
desiderio di godere di tutti i piaceri sensibili senza alcun freno. Si tratta di un vizio
volontario in senso forte e quasi assoluto e quindi i suoi atti, in quanto sempre pienamente
volontari, producono sempre danni gravi (un peccato produce tanto più male in chi lo
compie e anche al di fuori di lui, quanto più è volontario) e degradano l’uomo rendendolo
simile alle bestie (il cui unico diletto in questo mondo è godere dei piaceri sensibili, gli
unici proporzionati alla loro condizione e da esse fruibili). Oltre che degradanti gli atti
dell’intemperante sono anche sommamente disonoranti, perché i piaceri del tatto - si badi
che anche il gusto è una forma particolare di tatto - sono quelli che offuscano al massimo
la luce della ragione, rendendo l’uomo incapace di compiere qualsivoglia atto di virtù. In
questo senso l’intemperanza diventa sinonimo di turpitudine e conduce l’uomo al
degrado e alla dissolutezza.

Le parti integranti

La virtù cardinale della temperanza ha ben nove parti integranti: astinenza e digiuno,
sobrietà, castità, pudicizia, verginità, continenza, mansuetudine, clemenza, modestia (a
sua volta distinta in quattro parti). Cercheremo di vederne ciascuna nel dettaglio, con i
relativi vizi opposti.
L'astinenza, di cui il digiuno è l'atto principale, è la virtù in base alla quale, per fede e
amore di Dio, ci si astiene dai cibi nella giusta misura, tutelando in ogni caso la salute e i
reali bisogni personali (e anche tenendo conto delle esigenze delle persone con cui si
convive). Essi, infatti, ordinariamente allontanano l'uomo dai beni più elevati,
dall'attenzione alla vita spirituale e dalla vita interiore e diventano tanto più esigenti
quanto più vengono assecondati. In questo l'importanza della temperanza è davvero
fondamentale, perché tutti i beni sensibili hanno in sé lo stesso generale principio delle
sostanze stupefacenti: tendenza all'assuefazione e forte impulso nell'aumentare la dose.
Questo è evidentissimo per i piaceri venerei, per le bevande alcoliche, per i cibi ed anche
per ciò che cade sotto il senso della vista (dato che gli occhi non si saziano mai di guardare
e vedere cose sempre nuove e più intriganti). Senza il freno del digiuno e dell'astinenza -
che ordinariamente cade sulla carne ma può interessare qualunque bene sensibile oggetto
di rinuncia (tra i beni di oggi: la televisione, la musica, internet, Facebook, cinema, teatri,
etc.) - diventa estremamente difficile (se non praticamente quasi impossibile) avere e
conservare un minimo di vita interiore e tendere alla perfezione cristiana.
Quattro sono gli scopi principali del digiuno: reprimere le concupiscenze della carne (san
Girolamo sentenziava: "senza Cerere e Bacco, Venere si raffredda"), elevare l'anima a
contemplare le realtà sublimi; espiare e riparare i peccati; ottenere grazie dal cielo.
Per quanto riguarda le forme del digiuno, tra quelle più comuni e più attestate nella storia
e nella tradizione antica e recente della Chiesa, né possiamo individuare tre, che
elenchiamo in ordine di crescente "impegnatività" (mi si passi il termine). 1. Il digiuno
cosiddetto "canonico", attualmente obbligatorio (secondo la vigente disciplina
ecclesiastica) due volte all'anno (il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo) per tutti i
fedeli cattolici che abbiano un'età compresa tra i 18 e i 60 anni. Questo digiuno consiste
nella riduzione della colazione e di uno dei pasti principali (pranzo o cena), mentre l'altro
pasto può essere fatto o in maniera estremamente leggera (una porzione di minestra, una
ridotta porzione di pasta) oppure a pane e acqua. È facoltà della persona (ma non
obbligatorio) anche omettere del tutto tale pasto (uno dei due principali). Dal digiuno
canonico si può essere dispensati (per giusta causa) come da altre leggi ecclesiastiche (tipo
il digiuno eucaristico) dal parroco nella cui giurisdizione ci si trovi attualmente. Fuori dei
casi in cui è obbligatorio, ogni fedele, previo sempre consiglio di un prudente ed attento
confessore o direttore spirituale, può decidere di praticarlo anche in altri momenti e
circostanze. 2. Il digiuno "a pane e acqua". Molto più impegnativo del primo, consiste nel
cibarsi per 24 ore (da mezzanotte a mezzanotte) di solo pane e acqua. A quanto pare
sembra consentito, dato il carattere impegnativo di tale digiuno, assumere durante la
giornata qualche bevanda zuccherata (per esempio il caffè), specie se ciò fosse richiesto per
adempiere i propri doveri di stato o di lavoro. 3. Il digiuno rigoroso. Consiste nel limitarsi
per 24 ore ad assumere solo acqua (e eventualmente qualche caffè zuccherato, come nel
caso precedente). Tale digiuno richiede un ottimo stato di salute ed anche una condizione
fisica che consenta di sopportarlo. Si badi che sia il digiuno a pane e acqua che (a maggior
ragione) quello rigoroso richiedono, per ovvie ragioni di prudenza, di essere soggetti a
discernimento e autorizzazione di un prudente direttore spirituale o confessore che
conosca bene l'anima, le sue disposizioni, la sua vita interiore e le sue condizioni generali e
complessive di salute.
Affine all'astinenza è la virtù della sobrietà, in base alla quale si usano con moderazione il
vino e tutte le altre bevande inebrianti, perché il minimo eccesso in esse offusca o
addirittura toglie l'uso della ragione, mentre un loro uso moderato (soprattutto del vino)
può addirittura giovare alla salute. Non per nulla San Paolo in persona raccomanda al
vescovo san Timoteo di non bere solo acqua, ma anche un po' di vino per ragioni di salute
(cf 1Tm 5,23) e nella regola di san Benedetto da Norcia la misura di vino consentita ai
monaci nei pasti è fissata ad un quarto di litro, cioè due bicchieri scarsi (Regola, capitolo
XL, n. 3). È senz'altro lecito, anzi lodevole, fare qualche fioretto in questa materia, tipo
astenersi periodicamente, oppure in qualche giorno della settimana, in qualche pasto, da
vino e bevande inebrianti, ma, lo si ripeta, la virtù della sobrietà esige soltanto la
moderazione nel loro uso. Si badi tuttavia che, a detta di san Tommaso, l'uso del vino
diventa illecito per quattro motivi: quando è assunto senza la dovuta moderazione;
quando dovesse ingenerare scandalo negli altri (caso in cui, per la verità, vige la massima
di San Paolo di astenersi da qualunque cosa, anche lecita, per amore delle anime quando
da ciò dovesse nascere scandalo per i deboli - cf 1Cor 8,9); quando si fosse fatto voto di
non berlo; quando si avesse la tendenza naturale ad ubriacarsi facilmente. Come tutti i
beni leciti, è sempre possibile astenersi dal vino e dalle bevande per ragioni ascetiche
personali o per il desiderio di una maggiore perfezione, salvi però sempre i doveri di
custodire la salute del corpo, che va ordinariamente tutelata e salvaguardata proprio per
amore di Dio, al fine di rispettare il dono della vita ricevuto e di rimanere su questa terra a
servirlo e compiere la nostra missione fino a quando Egli vorrà.
In tempi relativamente recenti sono sorti nuovi tipi di piacere legati in qualche modo al
senso del gusto su cui è bene spendere qualche parola, necessariamente discutibile in
quanto, a conoscenza di chi scrive, non sembrano essersi ancora formati in campo morale
dei chiari e netti criteri di discernimento. Se, infatti, è assolutamente indubbio che l'uso di
tutte le sostanze stupefacenti (comprese le cosiddette droghe leggere) sia sempre di per se
stesso un peccato grave (a prescindere dalla frequenza e dalla quantità con cui siano
assunti), non appare ancora chiaramente definita la qualificazione morale del vizio del
fumo. Il catechismo della Chiesa cattolica (n. 2290) afferma genericamente che "la virtù
della temperanza dispone ad evitare ogni sorta di eccessi, l'abuso dei cibi, dell'alcool, del
tabacco e dei medicinali". Sembrerebbe, dunque, lecito l'uso del tabacco ed illecito solo il
suo abuso. Tuttavia la dizione "tabacco" è generica, perché il tabacco può essere usato, per
esempio, solo per essere odorato, oppure per essere fumato con la pipa oppure attraverso i
sigari, modalità - queste ultime - che non mettono gravemente a repentaglio la salute come
il fumo da sigaretta, che normalmente viene aspirato e produce notevoli danni all'apparato
respiratorio, circolatorio ed anche - almeno in parte - al sistema neurologico e nervoso. Su
questo tema, sono state fatte grandi campagne di informazione, sensibilizzazione e
dissuasione dalle legislazioni recenti occidentali. A fronte di questa forte e netta presa di
posizione "laica", è mancato a mio avviso, un approfondimento morale della materia del
fumo da sigaretta, perché per esso non può applicarsi lo stesso criterio del vino, perché
mentre quest'ultimo non solo non nuoce alla salute se assunto in quantità moderate, ma
può addirittura giovarle, lo stesso certamente non vale né per il fumo aspirato né per il
fumo passivo, che sempre e comunque nuoce sia alla salute del fumatore che a quella delle
persone a lui vicine. Alla luce di ciò, il fumo da sigaretta non sembrerebbe essere esente da
un'intrinseca peccaminosità (che peraltro andrebbe specificata in ordine alla sua gravità o
meno), per il fatto che rappresenta un attentato alla salute che è un dono di Dio a
salvaguardia della vita umana. In attesa che una più approfondita riflessione dei moralisti
nonché una presa di posizione del Magistero della Chiesa facciano maggiore luce
sull'argomento, è senza dubbio a mio avviso quanto meno preferibile e raccomandato che i
discepoli di Gesù rinuncino a questo vizio per amore suo e della vita che Egli ha loro
donato.
Tra le parti della temperanza rientrano anche le virtù ordinate alla regolazione dei piaceri
venerei, il cui vizio opposto, come è noto, è la lussuria. Si tratta delle distinte e
complementari virtù della castità, pudicizia e verginità, che ci accingiamo ad analizzare. Vi
rientrerebbe, per la verità, anche la continenza, quantunque san Tommaso (a mio avviso
assai opportunamente) la consideri anche in relazione alla capacità di dominare i moti
dell’ira, motivo per cui la tratteremo come ultimo punto.
Il termine castità deriva da “castigo”, che etimologicamente significa “rendere casto, puro”
(“castum agere”). Indica, infatti, il “castigo”, cioè il lavoro di controllo e di purificazione in
vista della corretta ordinazione, che la retta ragione infligge al desiderio dei piaceri
venerei, come farebbe un padre con un bambino capriccioso. I piaceri venerei, infatti, sono
i più intensi e violenti e quando si godono, soprattutto se in modo disordinato,
sconsiderato ed eccessivo, fanno perdere completamente all’uomo il dominio e la
padronanza di sé e dei suoi atti, avvicinando la sua condizione a quella degli animali che
sono completamente mossi e dominati dai loro istinti. Generalmente si identifica la castità
con la verginità o con la continenza: niente di più fuorviante, perché la castità consiste
nell’esercizio ordinato della sessualità in base al proprio stato di vita, a differenza della
verginità (che appunto è uno stato o condizione di vita) e della continenza (che è la
capacità di sapersi dominare). Esistono pertanto tre tipi di castità: anzitutto la castità
comune, che consiste nella doverosa rinuncia - obbligatoria per tutti i cristiani (a
qualunque stato di vita appartengano) - a tutte le forme illecite di ricerca del piacere
venereo: dagli atti impuri solitari (che sono sempre intrinsecamente e gravemente
disordinati), alle forme di esercizio contro natura della sessualità, quali la sodomia e
l’oralità (si badi: anche quando compiuti tra persone di sesso diverso sono atti che
rimangono sempre intrinsecamente e gravemente disordinati e ignominiosi), per terminare
con le forme di perversione e depravazione, che è preferibile omettere perfino di
nominare, stante il loro carattere assolutamente turpe, spregevole e degradante. Viene poi
la seconda forma di castità che è la vedovanza, ossia la rinuncia a contrarre un nuovo
matrimonio (cosa di per sé lecita) dopo la morte del coniuge, motivata sia dal desiderio di
serbare per l’eternità l’amore sponsale che da quello di rinunciare, in spirito di penitenza e
fedeltà al primo matrimonio, a godere anche dei piaceri venerei leciti, quali sarebbero
quelli vissuti all’interno di un nuovo matrimonio (ovviamente celebrato in forma
sacramentale). Infine c’è la castità coniugale, argomento di cui oggi poco si parla, con
gravissimo danno dei fedeli, che ordina la sessualità sponsale (di per sé lecita e degna) al
suo retto fine, che è quello unitivo insieme a quello procreativo. è in nome della castità
coniugale che nella coppia cristiana deve essere anzitutto bandita ogni forma di
contraccezione; ed è sempre in nome della castità coniugale, come insegna la Chiesa nella
Gaudium et Spes, che nell’esercizio degli atti coniugali i coniugi devono comportarsi in
modo squisitamente umano, di modo che essi siano vissuti come linguaggio di amore
tenero, sincero, intimo e delicato e non solo come ricerca di mutua soddisfazione di un
piacere egoistico. La morale cattolica classica ha approfondito non poco questa tematica,
dando anche dei chiari criteri di orientamento e discernimento ai pastori in cura di anime e
ai confessori, perché aiutassero i fedeli nel delicato compito di santificare questo aspetto
costitutivo della vita sponsale. Basta, tuttavia, riflettere sulla parola “umano”, per
comprendere molte cose senza bisogno di scendere, almeno in questa sede, in ulteriori
particolari. La tradizione della Chiesa ha unanimemente sottolineato l’importanza di
questo punto, che puntualmente san Tommaso d’Aquino ribadisce nel trattare questo
argomento. Gli atti coniugali devono, dunque, essere compiuti dignitosamente e
umanamente, perché anche quest’aspetto della vita umana - oggi per la verità idolatrato e
assolutizzato fino all’inverosimile - redento dalla grazia legata al sacramento del
matrimonio, possa essere indirizzato al fine retto di cooperare con Dio alla procreazione e
di alimentare, in modo umano e degno, l’affetto coniugale. I figli di Dio non hanno
bisogno di “educazione sessuale”, di cui oggi tanto si parla; ma piuttosto di “educazione
all’amore”, perché anche questa delicata materia, foriera spesso di tanto male e dolore e
che - come la Madonna rammentò a Fatima - è ingente “serbatoio” di anime per la
dannazione, tramite la grazia del sacramento del matrimonio possa concorrere
all’edificazione e alla gioia dei coniugi, a gloria di Dio e a scorno del nemico dell’umana
salute.
Distinta dalla castità, che coinvolge a differente titolo tutti i fedeli di Cristo a qualunque
condizione e stato di vita appartengono, è la verginità, che è uno stato di vita eccellente
che coinvolge solo alcuni dei membri del popolo santo di Dio e rappresenta la forma più
sublime di vita raggiungibile da un essere umano segnato dalla colpa d’origine. La
verginità consiste nella rinuncia totale all’esercizio dell’attività sessuale, anche nelle sue
forme buone o lecite, non certo per una sorta di idiosincrasia congenita verso questo
mondo o, peggio, di malata “sessuofobia”, ma in nome di un amore più grande e perfetto,
a detta di Gesù non da tutti comprensibile (cf Mt 19,11), che ha come destinatario diretto
Dio come sommamente amato e che apre le braccia in un casto abbraccio potenzialmente
capace di accogliere il mondo intero. L’amore verginale, da sempre considerato dalla
Chiesa una forma più perfetta ed eccellente di amore (cf LG 42), è stato, non senza ragione,
vissuto e praticato anzitutto da Gesù e Maria Santissima, nonché dal grande San
Giuseppe, indubbiamente il più santo tra le creature appartenenti alla razza umana. A
prescindere dalle possibili ulteriori e profonde motivazioni e implicazioni che tale scelta
potrebbe rivelare, è indubbio che l’amore verginale libera l’amore umano di ogni minimo
residuo - anche naturale e involontario - di egoismo (inesorabilmente insito, per forza di
cose, in ogni atto sessuale, anche se buono e lecito), sublimando la capacità umana di
amore ed elevandola ad un livello superiore (la vita verginale è chiamata, nella tradizione
della Chiesa, “vita angelica”), al contrario dell’abbrutimento ed abbassamento in cui la
lussuria sfrenata fa precipitare l’uomo, degradandolo non solo al livello degli animali
bruti, ma talora (e oggi, purtroppo, abbastanza spesso) addirittura al di sotto di esso. Si
tratta di una vocazione sublime, che deve continuare ad essere ritenuta in altissima
considerazione nella vita della Chiesa e che deve essere custodita e preservata educando
senza paura i giovani al valore della verginità, non avendo nessunissimo timore di opporsi
con forza, coraggio e sante motivazioni alla “sessolatria” dominante e ricordando che la
verginità è custodia non solo di un’eventuale futura scelta di vita consacrata, ma anche
della santità dei matrimoni, che hanno la pienezza della divina benedizione solo quando
entrambi gli sposi, dominandosi, sanno portare all’altare il giglio della verginità, donando
l’uno all’altra proprio questa perla preziosissima: l’illibatezza di un corpo inviolato,
illibato, incontaminato, che da nessun altro sarà conosciuto se non da chi diventerà per
sempre una cosa sola col coniuge. Cosa ci può essere di più bello, di più desiderabile, di
più autentico di un tale (vero) amore? Che prima di dire il “sì” per sempre, ha saputo
custodirlo con tanti “no”, anche a costo di non poche rinunce e sacrifici?
Diversa dalla verginità è la pudicizia, che consiste nella capacità di mantenere la decenza e
il pudore in tutti gli atti della persona, non solo in quelli a contenuto direttamente
sessuale, ma anche in tutti quelli che, in qualche modo evocano questo mondo. Il pudore
spinge a trattare il proprio corpo con “santità e rispetto” (1Ts 4,4) e non come oggetto da
ostentare per provocare, sedurre ed eccitare, come purtroppo ormai quasi dovunque
vediamo accadere. Sia la donna che l’uomo hanno il dovere di non indurre le altre persone
al peccato ostentando in maniera maliziosa il proprio corpo, evitando vesti indecenti o
inappropriate, così come qualunque artificio che in qualche modo possa suscitare o
risvegliare la concupiscenza nel prossimo. In questo campo ha grandissima importanza
l’educazione, tanto più quanto maggiormente i costumi contemporanei sono scivolati
verso un’immodestia pressoché generalizzata, che non poche volte scade in volgarità o
addirittura oscenità, che a loro volta sono tanto più gravi quanto più disinvoltamente e
provocatoriamente ostentate ai quattro venti. La Rivelazione, nel suo linguaggio parco e
sobrio, è tuttavia quanto mai chiara: dopo la colpa d’origine l’uomo e la donna,
accorgendosi di essere nudi e sapendo di non poter sopportare innocentemente tale vista,
si coprirono. Il che significa che senza (ovviamente) cadere in fanatismi o esagerazioni, in
inutili anacronismi o in estremismi controproducenti, è necessario riscoprire il rispetto del
proprio e dell’altrui corpo, una sana e santa eleganza nel vestirsi, il sentirsi a proprio agio
(da parte delle donne) nella loro sacrosanta e benedetta femminilità, il riscoprire la vera
dignità del corpo umano, tempio dello Spirito Santo e abitazione terrena dell’anima
immortale, destinato ad essere rivestito e coronato di gloria nella misura in cui in questa
vita avrà concorso alla santità di ogni singola persona, sarà stato custodito con dignità e
rispetto, sarà stato trampolino di elevazione, abbellimento e nobilitazione dell’uomo e non
strumento per la sua degradazione, avvilimento e abbassamento.
Prima di chiudere il discorso sulle virtù connesse con la temperanza legate alla purezza,
occorre spendere qualche parola sulla continenza, che, come già accennato, è un’unica
virtù con due campi di azione: la moderazione dei disordini della nostra concupiscenza e
il freno alle intemperanze dell’irascibilità. Dovremo anche dire qualcosa sulla modestia
(anch’essa virtù dai molti campi di azione), in relazione alla sua funzione di moderare
l’indecenza e l’inverecondia nel vestire.
Due sono dunque le accezioni comuni già del termine (prima ancora che della virtù)
“continenza”: capacità della volontà di dominare gli impulsi relativi ai piaceri sessuali (in
questo caso è una specie della virtù della castità), oppure controllo della volontà sui moti
impetuosi e violenti delle altre passioni (specie l’ira). Si esercita in tutti quegli atti
comunemente chiamati “freni inibitori”, che impediscono alle passioni di dominare sulla
ragione. La differenza che c’è tra la continenza e la temperanza è che quest’ultima
assoggetta totalmente l’appetito sensitivo, mentre la continenza ne frena solo il disordine e
la veemenza. Simile discorso vale per ciò che concerne il rapporto tra continenza e castità:
la castità, infatti, serve a indirizzare al bene tutto il patrimonio affettivo e corporeo
dell’essere umano, affinché serva al suo fine, che è sempre l’amore e, nel caso del
matrimonio, anche la cooperazione con Dio nella trasmissione della vita. La continenza,
invece, è il mero controllo delle pulsioni, che vengono frenate ed inibite quando esplodono
, semplicemente per evitare di cadere in qualche peccato mortale.
Leggermente più articolato, anche in considerazione dei tempi in cui viviamo, deve essere
il discorso sulla modestia nell’abbigliamento. Desidero cominciare citando le indicazioni
date già a suo tempo da sant’Ambrogio e fedelmente riportate da san Tommaso nella
sezione della Summa Theologiae dedicata a quest’argomento, che mi sembrano equilibrate
ed appropriate: “Abbigliamento non affettato, ma naturale; semplice e più trascurato che
ricercato; corredato di vesti non preziose e sgargianti, ma ordinarie: sicché non manchi
nulla all’onestà ed alla necessità e nulla venga aggiunto alla bellezza”. E’ affettato
l’abbigliamento derivante da cura eccessiva delle proprie vesti, oltre le necessità della cura
del decoro; in altre parole quando si esagera nella pur doverosa cura ad esso dovuto, tale
da ingenerare stili “caricati” o atti ad attirare l’attenzione, cosa che non è mai indice di
buon gusto (oltre che di santità). La semplicità implica il contentarsi di ciò che capita, salva
la doverosa e sobria bellezza ed eleganza, mentre è proprio della ricercatezza lo scegliere
accuratamente gli abiti da indossare, perdere molto tempo nello stabilire accoppiamenti,
fogge, colori, etc. L’ordinarietà non esagera nelle spese, acquistando vesti preziose o in
numero eccessivo e non attira l’attenzione indossandone di sgargianti. Si può essere
splendidamente vestiti anche con abiti non di lusso, tenendo sempre presenti i canoni
della bellezza santa, che sono sintetizzabili nello slogan: modestia ed eleganza. Per le
donne andrebbe curata la femminilità, mentre per gli uomini una certa cura e dignità (cose
in cui tendono talora ad essere mancanti). In altre parole: per osservare la modestia
nell’abbigliamento è necessario non eccedere i limiti del necessario, sia nella quantità di
vesti posseduti, sia nella qualità di esse, sia infine nell’eccesso di cura nello sceglierle ed
indossarle; non andare in niente al di sopra dell’onesto (che è di per sé bello), in modo tale
che nulla venga aggiunto alla bellezza, che deve rimanere il più possibile “naturale”.
Evidentemente grande deve essere il discernimento su questa materia e non si possono
dare norme o schemi rigidi: lo stato di vita, la condizione di vita, il tipo di lavoro
esercitato, gli ambienti da frequentare, le altre circostanze sono sempre fattori da
considerare quando si deve valutare come vestirsi. Due sono i tipi di vizi opposti (per
eccesso e per difetto), entrambi catalogabili sotto il vizio dell’ostentazione: per quanto
riguarda l’eccesso ricadono sotto la fattispecie dell’ostentazione sia l’uso di vesti preziose
superiori alla propria condizione, sia l’uso di vesti troppo raffinate e ricercate, sia la troppa
sollecitudine nella cura del vestiario (tutti eccessi causati dalla vanagloria). In difetto si
danno i casi di chi trascura la cura e l’attenzione necessarie a conservare il decoro
(“trasandatezza”), oppure di chi, mediante un atteggiamento affettato, simula con vesti
estremamente misere una parvenza esteriore di inopportuna e appariscente santità: difetti
causati dall’indolenza il primo e dalla vanagloria il secondo.
Riguardo il trucco e le acconciature esterne delle donne, i santi Padri (S. Agostino, S.
Cipriano e S. Ambrogio) davano indicazioni molto severe. S. Tommaso opta per una
maggiore moderazione (a mio avviso condivisibile), consentendo alle donne sposate di
curare la bellezza esteriore, avendo però come fine quello di piacere al marito. Il campo
della vanità, purtroppo, che oggi scende spessissimo al basso livello dell’inverecondia e,
spesso, anche della pubblica oscenità, è certamente una delle “croci" dell’universo
femminile. Bisogna a mio avviso stare attenti a non esagerare in nessun modo, avendo
attenzione alle usanze e alle circostanze concrete di tempo e di luogo, evitando
comportamenti estremi che possano apparire come anacronistici o fuori luogo. Il
discernimento è sempre la regola principale! Alcuni punti però sono da tenere presenti: la
cura eccessiva del proprio corpo finalizzata a suscitare l’altrui sensualità è ovviamente
peccaminosa; l’uso eccessivo di gioielli e oggetti preziosi è certamente contrario alla
modestia (e, in qualche caso, anche alla giustizia); l’abuso, l’eccesso o il cattivo gusto
nell’uso dei cosmetici è una forma di alterazione vana della bellezza naturale, su cui i
Padri sono molto severi; è bene sempre farne un uso moderato, evitando tinte e
colorazioni troppo forti, ma preferendo delicatezza, sobrietà e, mi si lasci dire, un pochino
di “classe”, oggi, ahimè, spesso latente.
Abbiamo parlato della modestia nell’abbigliamento. Questa bella e delicata virtù, ha in
verità altre tre specie particolari, che è bene trattare subito e insieme: l’umiltà, la studiosità
e la modestia negli atteggiamenti del corpo e nel gioco (di cui tratteremo però nel
prossimo capitolo).
Dovrebbe ormai essere chiaro che tutto ciò che ha a che fare con la virtù della temperanza
è sempre identificabile con una parola d’ordine fondamentale: “moderazione”. La
temperanza e tutte le sue parti e virtù connesse hanno lo scopo di abilitare la persona al
dominio di sé in tutte le sue forme e ad evitare ogni eccesso in ogni sua possibile
manifestazione.
L’umiltà modera l’amore disordinato di sé e la brama della propria eccellenza, che dà
origine a molteplici e insopportabili comportamenti assai comuni ai figli degli uomini. Il
temine “umiltà” deriva da “humi acclinis” (letteralmente: “giacente per terra”). E’ la virtù
che porta ad avere l’esatta conoscenza di se stessi, permettendo all’uomo di conoscere la
propria miseria in quanto a lui appartiene il male e tutti i difetti, mentre sempre e solo da
Dio e grazie a Dio riceve ogni tipo di bene (di natura, di grazia e di gloria). Questa
conoscenza dovrebbe sortire l’effetto di impedirgli di innalzarsi al di sopra di ciò che gli
spetta. L’umiltà è dunque anzitutto un atteggiamento interiore di verità, che porta
naturalmente all’adorazione di Dio, alla gratitudine, alla prosternazione dinanzi a Lui ed
al (sano) disprezzo di sé e del mondo; porta inoltre a ritenersi inferiore agli altri, non certo
attribuendosi peccati che non si hanno o negando di avere certe grazie e doni
effettivamente posseduti (atteggiamenti propri della falsa umiltà), ma riferendo tutto il
bene che si è, che si ha e che si fa a Dio solo, considerando bene tutto il male presente in se
stessi, pensando che il prossimo ha molto bene nascosto che egli non ha, mentre in lui c’è
del male che il prossimo non ha, etc. E’ una virtù fondamentale perché rimuove la
superbia (amore della propria grandezza e della grandezza mondana) che è l’ostacolo
principale all’apertura verso i beni celesti e quindi alla salvezza.
Poco conosciuta, ma molto importante è anche la virtù della studiosità, per mezzo della
quale l’uomo si applica a conoscere ciò che deve nel modo e nella misura consentiti,
frenando gli eccessi insiti nel desiderio naturale di conoscenza e vincendo la repulsione
naturale alla fatica necessaria per acquisirla. La conoscenza della verità è di per sé buona,
ma può essere cattiva nel fine (per vantarsi o per peccare) o nei modi (curiosità). Se il
desiderio di conoscenza diventa smania mossa dal desiderio di primeggiare e dominare o,
peggio, di peccare; se si vogliono conoscere cose proibite (il futuro, la magia, la condizione
dei morti, etc.); se si preferisce conoscere cose inutili o meno utili; se si studiano le realtà
create come fini, senza indirizzarle ed ordinarle alla conoscenza ed alla gloria di Dio; se
infine si cerca di conoscere cose superiori al proprio ingegno (presunzione), si incorre nel
vizio della curiosità nella conoscenza intellettuale. Anche nel campo della conoscenza
sensitiva si hanno tuttavia due forme viziose di curiosità (che coincidono con quella che la
Sacra Scrittura chiama “concupiscenza degli occhi”): inutilità dell’oggetto del conoscere,
che anzi distoglie da altre occupazioni (come esempio attuale si potrebbe portare il caso di
chi abusa della televisione guardando programmi frivoli); oppure la malizia intrinseca
dell’oggetto che si vuole conoscere (per esempio il desiderio di assistere a spettacoli del
tutto immorali, oppure l’interessamento ai fatti altrui, che è causa della mormorazione e
della maldicenza). Quando invece ci si preoccupasse di conoscere cose di per sé inutili ma
per fini buoni (come per esempio provvedere ai propri bisogni materiali oppure conoscere
la verità) non solo non ci sarebbe alcun vizio, ma si tornerebbe nell’ambito della virtù. La
cultura e la conoscenza di molte cose, come è evidente, non sempre è sinonimo di vita
virtuosa né conferisce alcun attestato di virtù ad alcuna persona colta e istruita, qualora le
motivazioni che l’avessero spinta ad acquisirla non fossero, come appena visto, buone,
lecite e oneste.
Concludiamo la lunga disanima delle virtù cardinali e della temperanza in particolare
trattando della modestia negli atteggiamenti del corpo e nel gioco.
Abbiamo ampiamente avuto modo di rilevare che quando si parla di temperanza si ha a
che fare con una virtù che abilita l’uomo al controllo integrale di sé. Il corpo è
indubbiamente una dimensione importantissima della vita umana, perché è da esso e
attraverso di esso, che traspare l’anima di una persona. I gesti del corpo, se osservati con
attenzione, sono molto significativi ed espressivi dello stato emotivo, sentimentale ed
anche spirituale della persona. Similmente, si dice come detto popolare che al tavolo da
gioco si conosce la signorilità o comunque la qualità di una persona, perché anche in
questa dimensione, per quanto ristretta e circoscritta della vita terrena, molto traspare di
quello che c’è nel cuore dell’uomo. Vediamo dunque cosa la tradizione cattolica ha
evidenziato circa questi ambiti e la modestia, ossia la moderazione e il controllo, che in essi
si deve osservare.
La modestia negli atteggiamenti esterni del corpo comprende molte cose: il tono della
voce; i gesti che si fanno; come si sta seduti e in piedi; il modo di camminare; come si
mangia e si sta a tavola; come si sta nei vari luoghi (compostezza adatta al luogo). Tutte
queste cose rientrano nella categoria generale del decoro, che è sempre da valutare anche
in relazione alle circostanze di persona e di luogo. Fa parte della modestia negli
atteggiamenti esterni anche la cura dell’ordine esterno (della propria persona e dei luoghi)
nonché il saper bene ordinare le cose da fare (nella giornata, in un certo periodo) ed in
generale le modalità ordinate di procedere nel lavoro e nelle occupazioni. La Sacra
Scrittura ammonisce dal considerare queste cose, come si potrebbe superficialmente
pensare di primo acchito, meri aspetti esteriori e del tutto irrilevanti. Anzi li riconosce
come atteggiamenti che rivelano l’interno di una persona (Sir 19,26: “Dall’aspetto si
conosce l’uomo, e dal volto si conosce l’uomo di senno”). La buona educazione (che
integra buona parte del decoro), oggi davvero smarrita da molte parti, non è un mero e
freddo elenco di regole esteriori da osservare per essere ammessi dentro ambienti di élite o
salotti di alto rango. Si tratta di una manifestazione esteriore dell’ordine interno che vive
un’anima, quando sta in grazia, si sforza di fuggire il peccato e di crescere nelle virtù In
questo senso l’ordine esteriore è, sotto certi punti di vista, manifestazione dell’ordine
interiore, mentre, sotto altri aspetti, ne costituisce la salvaguardia e la garanzia. Dio è
bellezza assoluta e non esiste autentica bellezza senza ordine e misura. L’eccesso nel
troppo o nel troppo poco è sempre biasimevole perché è la negazione della virtù, che è
sempre il giusto mezzo tra questi due estremi. Vizi opposti al decoro sono la
maleducazione, la mancanza di cura del decoro e l’irriverenza verso luoghi e persone.
La modestia nel gioco coincide con l’eutrapelia (o giovialità) e consiste nella capacità di
dare all’anima la possibilità di riposare un poco attraverso distrazioni lecite regolando: il
tempo da impiegare; la liceità dei giochi e delle conversazioni; le modalità, che non
devono mai portare l’anima a perdere del tutto la sua gravità ed austerità. E’ possibile
anche scherzare, salvo sempre il divieto assoluto di scadere in trivialità e turpitudini. Si
può peccare sia per eccesso come nel caso di giochi illeciti, ovvero compiuti fuori delle
debite circostanze di tempo, luogo e persona, oppure desiderati con veemenza di affetto
fino al punto di agire contro la legge di Dio e della Chiesa (in questi casi si tratta, a detta di
san Tommaso d’Aquino, di peccati mortali); oppure per difetto, come nel caso dei duri (o
intrattabili) e maleducati (o volgari), i quali non dicono mai nulla di ridicolo e non lo
ammettono negli altri. E’ ovviamente più grave il peccato per eccesso, ma anche
un’eccessiva seriosità, austerità o tristezza (per la verità oggi assai poco rappresentate)
sono da bandire e da evitare. La gioia, la vera gioia, il secondo frutto dello Spirito Santo, è
infatti uno dei distintivi più grandi dell’autenticità del cammino che si sta vivendo! Dio è
felicità somma e perfetta beatitudine e la letizia umana (che ne è una parziale ed
imperfetta condivisione) è un’ottima spia dello stato di grazia. Non si tratta della stolta
letizia o della sciocca allegria dei peccatori, che mangiano, bevono e ridono sguaiatamente;
ma di quella profonda e serena contentezza che traspare dal tratto e dagli occhi dei figli di
Dio e che non è offuscata né cancellata nemmeno da prove e tribolazioni. La sua origine,
infatti, è la consonanza con i divini voleri e il suo termine l’eterna beatitudine. I romani
sentenziavano con piena verità: “risus abundat in ore stultorum”, io mi permetto di chiosare
la frase aggiungendo: “sorrisus abundat in ore sanctorum”. Proprio come sembra aver detto
la Madonna in un celeste messaggio: “i miei figli sono gioia”! Così possa sempre essere per
tutti gli autentici discepoli di Gesù!

Potrebbero piacerti anche