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L’ignoranza
San Tommaso d’Aquino insegna che la virtù teologale della speranza contribuisce in
maniera forte e determinante ad infervorare l’anima ad amare Dio e ad osservarne i
comandamenti. Ciò perché distoglie l’anima dal desiderio dei miseri ed effimeri beni
terreni facendole volgere lo sguardo, le aspirazioni e i pensieri verso quelli eterni. San
Paolo, al riguardo, scrive egregiamente: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù,
dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della
terra” (Col 3,1-2). Una magnifica, plastica e dinamica descrizione di ciò che la speranza
opera una volta che viene infusa in un’anima! Essa fa aderire in maniera piena e risoluta a
Dio in quanto bontà perfetta e somma beatitudine dell’uomo, in modo certo, stabile e
duraturo, partecipando, in modo proprio, alla stessa granitica certezza che, sotto altri
aspetti, presenta - come abbiamo avuto modo di vedere - la fede. Quando la speranza è
forte in un’anima, la sua tensione decisa verso la meta è palese e percepibile e tutte le
scelte diventano subordinate alla compatibilità o meno con il fine e il senso ultimo della
vita terrena. La speranza è anche un ottimo sprone alla ricerca della sapienza, la virtù
intellettuale suprema che fa pensare secondo il cuore di Dio e muovere la vita in
ottemperanza ai suoi disegni, in quanto con la sua forza soave ritrae l’anima dal mondo e
dal peccato e la lancia nei santi voli verso le vette eterne. La speranza, infine, dispone
ottimamente all’adorabile virtù dell’umiltà, in quanto spinge alla presa di coscienza della
grandezza assoluta di Dio dinanzi al quale tutto è nulla; e, quindi, l’anima che ne è
pervasa cessa di studiarsi di apparire grande all’esterno e di desiderare di esserlo, non
avendo altra aspirazione che Dio sia magnificato e glorificato. Il “Magnificat” cantato dalla
Madonna ne è l’espressione suprema e cristallina.
Sono sommamente contrarie alla speranza due delle sei specie degli orribili “peccati contro
lo Spirito”, individuati nel corso del tempo dalla Tradizione della Chiesa: la disperazione
della salvezza e la presunzione di salvarsi senza meriti. La prima tipologia (la più grave) è
proprio formalmente contraria a questa virtù, in quanto dubita che Dio voglia la salvezza
degli uomini e dia a tutti i mezzi necessari per conseguirli, alla sola condizione che l’uomo
si converta e si disponga a riceverli. Questo peccato fu commesso da Caino e da Giuda ed
offende infinitamente l’infinita bontà e misericordia di Dio. La seconda tipologia nasce
dalla superbia, perché presume anzitutto di poter ottenere il perdono da Dio senza vero e
sincero pentimento, che - si badi e si ricordi - comprende sempre in sé il fermo e risoluto
proposito di non peccare mai più, e poi di raggiungere la gloria e la beatitudine senza lo
sforzo necessario ad acquisire i meriti necessari per conseguirla, disprezzando e
calpestando, in questo modo, il mistero della divina giustizia. Anche altre forme meno
estreme di superbia si oppongono alla speranza, quale - per esempio - la sciocca pretesa di
riuscire a salvarsi con le sole proprie forze, che è la caratteristica peculiare del peccato di
vanagloria.
Si accompagna alla speranza, infine, una disposizione che è perfezionata dal
corrispondente dono dello Spirito Santo, ossia il timore filiale di Dio. Questa forma di
timore (più elevata e nobile di quello servile che teme Dio in quanto castiga e punisce il
male) consiste nella somma riverenza verso di Lui unita al sereno, ma profondo, timore di
dispiacerlo e offenderlo anche nelle piccole cose, e spinge ad operare ed agire per piacergli
in tutto, non solo in vista del premio, ma anche perché Dio è degno di essere sommamente
compiaciuto, amato e servito. Ecco perché la speranza “termina” e “confluisce” quasi
spontaneamente nella più grande delle virtù: la carità. È di essa che presto dovremo
occuparci.
5. LE VIRTÙ TEOLOGALI: LA CARITÀ
“Queste dunque sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità. Ma di tutte
più grande è la carità” (1Cor 13,13). Queste celebri parole dell’Apostolo delle genti, che
chiudono in maniera mirabile il cosiddetto “inno alla carità”, fanno immediatamente
comprendere l’abisso che si apre quando ci si accinge a parlare di questa formidabile virtù,
la più grande e la regina di tutte, che tutte governa e regola e senza la quale niente è
gradito e accetto a Dio. Eppure poche virtù come questa sono così soventemente travisate
e non comprese nel loro significato autentico e profondo. Non è raro, nel pensiero comune,
confondere la carità con le piccole (o anche grandi) elemosine fatte a favore di qualche
indigente; oppure identificarla con qualche pur importante e meritoria opera di
misericordia, quale il volontariato in una mensa dei poveri, la costruzione di ospedali e
case di formazione o per anziani in terra di missione e simili; o infine travisarne il concetto
facendola scadere in un nefasto “buonismo” che tende a giustificare tutto e tutti, a
cancellare la distinzione tra bene e male, a nascondere - dietro lo specioso pretesto del
“non giudicare” - una pericolosissima abdicazione dal dovere di dire la verità e denunciare
il male e il peccato (senza ovviamente condannare senza appello il peccatore) dovunque
appaia e comunque si manifesti.
La carità è virtù così grande perché è quella che esprime la vita intima di Dio. Non senza
ragione, in ben due luoghi della sua prima lettera, san Giovanni, il discepolo prediletto di
Gesù e l’apostolo dell’amore, ha perentoriamente affermato che “Dio è amore” (1Gv 4,8.16)
dando quasi l’impressione di volere tentare l’impossibile definizione dell’essenza di Dio.
Stiamo dunque dinanzi a qualcosa di veramente grande. Proviamo dunque a fissare lo
sguardo sul sole di quest’aurea virtù, che dà vita al primo e più grande dei comandamenti,
e che rappresenta il principio e il fine della perfezione cristiana.
San Tommaso d’Aquino insegna che la carità è l’amicizia di benevolenza tra l’uomo e Dio,
creata in noi da Dio affinché la volontà agisca con prontezza e facilità per amore di Lui. E’
la più grande delle virtù perché ha Lui come oggetto immediato e diretto ed è la forma di
tutte le virtù in quanto ordina tutti gli atti dell’uomo al fine ultimo. Essa infatti consiste
anzitutto nell’amare Dio con tutto se stessi: con la totalità della dimensione affettiva
(“amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore”), con la totalità della dimensione
intellettiva (“amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua mente”) e con la totalità della
dimensione volitiva (“amerai il Signore tuo Dio con tutte le tue forze”). Solo Dio va amato
in questo modo pieno, totale e assoluto; e per quanto ci possiamo adoperare e sforzare -
insegna sempre san Tommaso - è praticamente impossibile adempiere con perfezione
questo primo precetto della carità. Unica eccezione è la Beatissima e Sempre Vergine
Maria, l’Unica che è stata capace di amare Dio, pur da creatura, come merita, nel senso
che, anche se certamente nemmeno Lei ha potuto, in quanto creatura limitata, adeguare
perfettamente l’infinito amore che Dio si merita, l’ha amato al massimo possibile per una
creatura, per cui nessuno ha amato Dio quanto Maria Santissima e nessuno mai potrà
uguagliarla in questo. Qualche santo particolarmente devoto alla Madonna ha addirittura
affermato che l’amore di Dio della Vergine Santissima supera, da solo, quello di tutti gli
angeli e santi messi insieme!
Da questo primo precetto discende immediatamente il secondo, che è quello dell’amore
del prossimo. Al riguardo l’Aquinate sottolinea che l’amore santo di sé stessi (cioè l’amore
della propria anima), viene logicamente prima dell’amore del prossimo (ed infatti il
precetto prescrive di amare il prossimo come stessi). Ovviamente si tratta di amore santo,
perché sia l’amore di sé che l’amore del prossimo trovano la loro ragion d’essere
nell’amore di Dio, il solo che va amato per sé stesso. Noi amiamo la nostra anima e quella
del prossimo in quanto in esse c’è l’immagine e la somiglianza di Dio e perché Egli le ha
create per sé e per renderle partecipi della sua beatitudine. Tutte le altre forme di “amore”
non hanno che il nome di questo atto, ma ben poco della sua sostanza. Questo amore
comprende anche quello al nemico (di cui si deve desiderare la conversione e la salvezza) e
ad esso devono essere sacrificati i beni esterni ed anche lo stesso corpo, come Gesù insegna
nel Vangelo.
In quanto virtù teologale, la carità è infusa dallo Spirito Santo nella misura che a Lui piace.
Ma come per tutte le virtù (anche quelle infuse), la sua permanenza, crescita o - Dio non
voglia - perdita, dipende da come l’anima la custodisce, la coltiva e la esercita. Come per
tutte le virtù, anche la carità cresce ogni volta che si compie un atto di amore per Dio o di
amore santo di sé stessi, oppure di amore ordinato del prossimo. Anche solo dire col cuore
a Dio: “ti amo”, anche quando non si sentissero riverberi emotivi e sensibili per questa
frase, determina un aumento del nostro amore per Lui. L’apostola dell’atto d’amore, la
serva di Dio suor Consolata Betrone, ebbe a suo tempo dal cielo il compito di far
comprendere quanto è importante esercitare questa virtù anzitutto in riferimento all’amore
di Dio. La vita di molti cristiani, anche cattolici, è purtroppo a volte molto fredda o, quanto
meno, tiepida. La carità, se ben coltivata, porta al fervore e allo zelo, ad avere un cuore
infiammato per Dio, incamminandosi verso l’adempimento del primo e più importante
comandamento, oggi troppo spesso frettolosamente accantonato per far spazio al pur
importante ma pur sempre secondo precetto della carità. San Filippo Neri ebbe addirittura
uno spostamento delle costole (all’altezza del cuore) a causa dell’ardore della sua carità
verso Dio che diede luogo allo straordinario fenomeno mistico della bruciatura (vera,
reale, fisica) delle vesti che il santo portava, con buchi e aloni neri tuttora visibili sulle sue
camicie all’altezza del petto! Il suo cuore prendeva realmente fuoco! Tanto grande (e in
verità sempre poco…) dovrebbe essere l’amore dei cristiani verso il loro Dio!
San Tommaso insegna che la perfezione della carità si manifesta quando l’anima pone
tutto il suo impegno nell’attendere a Dio e alle sue cose, posponendo a ciò ogni altro
interesse e relativizzando tutto ciò che comunque deve fare per vivere in questo mondo. Il
grado comune e ordinario della carità, invece, consiste nel tenere il proprio cuore
abitualmente in Dio, in modo da non pensare, volere, né fare nulla che sia contrario
all’amore di Lui. I peccati veniali comportano una sensibile diminuzione della carità
(questa virtù, anzi, ne risente più delle altre) ed inevitabilmente alla mediocrità, tiepidezza
e, nel peggiore dei casi, al colpevole raffreddamento di essa.
Quando la carità abita in un cuore lo si vede da tre spie inconfondibili: la gioia, la pace e la
(vera) misericordia. La loro assenza in noi è un chiarissimo, anzi inequivocabile segno di
scarsa vitalità della virtù teologale della carità. La gioia è quella disposizione di allegrezza
abituale (non per nulla il già citato san Filippo Neri è uno dei grandi santi della gioia) che
è provocata e alimentata dall’amore di Dio e del prossimo. Il grande san Giovanni Bosco,
al riguardo, amava dire che la santità consiste nello stare molto allegri, così come che il
demonio ha molta paura della gente allegra. Questo aspetto andrebbe molto meditato e
approfondito, perché anche tra le anime buone e devote si vede sovente la presenza di una
grande tristezza, che non può coesistere con una vera e autentica carità. La pace viene
dalla piena concordia dei desideri e aspirazioni dell’uomo con i divini voleri e opera in
modo tale da evitare sempre, quando è possibile, ogni minima forma di discordia, contesa,
polemica e discussione con il prossimo. La misericordia consiste nella compassione per i
peccati e i mali degli altri ed è direttamente e formalmente contraria all’invidia che anziché
compatire si rallegra dei mali altrui. Essa porta a farsi carico con amore delle miserie e
delle infermità del prossimo, a considerare il peccatore con compassione, a perdonare di
cuore le sue offese e giunge a fare del bene a chi fa del male, a benedire i maldicenti, ad
essere longanimi con gli ingrati. Per i figli di Dio non esistono altre disposizioni che
queste. E quando non le dovessimo riscontrare in noi, niente facili autogiustificazioni,
minimizzazioni o improbabili difese. è necessario esercitare più e meglio questa aurea
virtù, verificare che non si stia conducendo una vita troppo rilassata nella lotta al peccato
veniale e alimentarla alla fonte suprema di essa che è, come avremo modo di vedere
meglio, la santa Messa e la comunione sacramentale con Gesù eucaristia.
La carità ha degli atti peculiari in cui si esplica e si esercita e che san Tommaso, sull’onda
della Tradizione ascetica e spirituale, individua in tre particolari opere: la beneficenza,
l’elemosina e la correzione fraterna.
La beneficenza consiste, come dice il nome stesso, nel fare il bene, qualsiasi tipo di bene a
qualunque persona (amica o nemica, simpatica o antipatica): da un sorriso, a un favore, a
una parola di pace, a un incoraggiamento, a una qualunque gentilezza. Il garbo,
l’affabilità, il sorriso, la gentilezza, la generosità sono atteggiamenti che non possono non
trasparire quando la carità è viva in un’anima e, se non ci sono, qualcosa certamente non
funziona. Sono vere e proprie opere di beneficenza le sette opere di misericordia corporale
e spirituale enucleate dalla tradizione della Chiesa: dar da mangiare agli affamati e da bere
agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare i malati e i carcerati e
seppellire i morti (opere di misericordia corporale); insegnare agli ignoranti, ammonire i
peccatori, perdonare le offese, consolare gli afflitti, consigliare i dubbiosi, sopportare
pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti (opere di
misericordia spirituale). La legge del cristiano è fare sempre il bene, fare quanto più bene
possibile, quanto più spesso possibile e a quante più persone possibili. Molto occorre
imparare, quando si fa l’esame di coscienza, a verificare questo punto e prendere coscienza
delle innumerevoli omissioni che si commettono su questa materia.
L’elemosina è uno dei punti più importanti della vita cristiana e molto spesso trascurato
da non pochi fedeli. San Paolo scrive a chiare lettere che “l’attaccamento al denaro è la
radice di tutti i mali” (1Tm 6,10) e Gesù ha tuonato più volte nei vangeli con il noto
aforisma: “non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24; Lc 16,13), dove con
“mammona” chiaramente è da intendersi il denaro. L’elemosina, infatti, è una specie
particolare di beneficenza, cioè un atto di carità consistente nell’elargire liberamente,
volontariamente e gratuitamente denaro per sovvenire una miseria o una necessità altrui.
Gesù invita chiaramente i suoi discepoli “a non accumulare tesori sulla terra”, ma ad
accumularli “in cielo”, ricordando che dove è “il tesoro dell’uomo” lì si trova “anche il suo
cuore” (Mt 6,19-21). San Tommaso avverte che l’elemosina è un precetto cioè un obbligo in
due casi: quando si hanno dei beni superflui e quando c’è una situazione disperata di
estrema necessità; è un consiglio negli altri casi. Bisogna però sempre ricordare, con la
sapienza del santo patrono d’Italia san Francesco, che nessuno può portare soldi in
paradiso, a meno che non faccia ingenti versamenti sulla “banca del cielo” già in questa
vita attraverso le elemosine. Ogni elemosina, infatti, viene da Dio accolta e registrata e sarà
certamente da lui ricompensata. Il Dottore Angelico spiega che se la persona non sarà
salvata, Dio ricompenserà le sue elemosine in vita concedendo varie grazie di tipo
temporale; se invece l’anima raggiungerà la salvezza, come scrive san Pietro, molti peccati
saranno scontati dalle elemosine e dalle oltre opere di carità compiute in vita (cf 1Pt 4,8) e
grande ricompensa si riceverà in cielo con più alti gradi di gloria. I cristiani non sono
pauperisti, ma sanno che il denaro è un bene “pericoloso” che deve essere redento e
santificato dalla loro carità e non idolatrato come l’unico vero dio di questo mondo.
Infine qualche parola sulla correzione fraterna, che è una grande opera di carità, ma che va
compiuta nel debito modo. San Tommaso spiega che va fatta osservando le circostanze di
tempo (“quando”), di luogo (“dove”) e di modo (“come”), avendo un occhio particolare al
fine della virtù che è il bene, e che può essere addirittura tolto dalla presenza di una
circostanza non valutata. In particolare se si giudica che il peccatore non accetterà la
correzione ma farà peggio, bisogna desistere dal correggerlo. Inoltre: mai correggere
quando si è interiormente alterati o è alterata la persona da correggere (circostanza di
tempo); mai in presenza di altre persone mortificando la persona che ha sbagliato
(circostanza di luogo); e infine sempre con infinita carità, dolcezza, umiltà e delicatezza (il
modo santo di esercitare la correzione). Se non si osservano bene tutte queste circostanze è
preferibile omettere la correzione. Ed è bene ricordare sempre, specie a proposito di questo
delicato argomento, che “lo stolto dice quello che pensa, il saggio pensa a quello che dice”.
La carità ha dei gradi differenti di presenza e operatività nelle anime ed è soggetta a
crescita, diminuzione o perdita totale. San Tommaso afferma che nei principianti (quelli
che san Paolo chiama i bambini nella fede, i “neoconvertiti”, tanto per intendersi) muove
l’uomo ad allontanarsi dal peccato e a resistere alle concupiscenze; nei proficienti (cioè
quelli che sant’Ignazio di Loyola identificava con “coloro che vanno di bene in meglio”)
sostiene lo sforzo di avanzare nel bene; nei perfetti provoca la totale adesione a Dio, la vita
di unione con Lui ed il conseguente suo godimento, nei limiti in cui ciò è possibile in
questa vita. Basta un solo peccato mortale a far perdere completamente questa virtù, anzi
ciò costituisce esattamente il primo e principale effetto immediato del peccato mortale. I
peccati veniali, dal canto loro, “raffreddano la carità” fino a portare l’anima, se non li
combatte e non li evita, al deplorevole stato della tiepidezza, che produce grande
mediocrità di vita ed immette nel pericolo assai prossimo di peccare mortalmente e
perdere totalmente la Grazia e la carità.
La carità ha dei bruttissimi e numerosi vizi che le si oppongono, alcuni formalmente e
direttamente, altri indirettamente ma non in maniera meno grave e pericolosa.
La forma più grave di opposizione alla carità è l’odio di Dio. Ovviamente tale odio è
scatenato nelle creature (demoni e uomini cattivi) non certo da ciò che Dio è in sé (essendo
la Bellezza e la Bontà stessa), né da ciò che lo caratterizza (essere, vivere e intendere), ma
da alcuni suoi effetti che ripugnano alle volontà disordinate: il fatto cioè che proibisce e
punisce i peccati castigandoli con pene. L’odio del prossimo, invece, nasce dal vizio
capitale dell’invidia e si esplica nella bruttissima operazione del rattristarsi per il bene
altrui (percepito come male proprio) e nel rallegrarsi del male altrui (percepito come bene
proprio). Anche l’accidia - in quanto nausea o tedio per le cose spirituali - si oppone,
almeno indirettamente, alla carità in quanto allontana dalla preghiera, dai sacramenti,
dalle buone e sante letture, cioè da tutti quei mezzi che consolidano, accendono e
accrescono la virtù teologale della carità. Anche la discordia e la contesa sono vizi opposti
alla carità. La prima consiste nel contrasto di due volontà, ciascuna delle quali tende a
prevaricare sull’altra e ad anteporre le proprie scelte, opinioni e pareri a quelle altrui. La
carità, viceversa, cede il passo tutte le volte che può, con l’unica eccezione di quando c’è in
gioco il bene o la verità (oggettivi); per questo san Tommaso precisa che, fermo restando
quanto detto, è tuttavia cosa buona e lodevole introdurre il dissenso fra coloro che sono
concordi nel male, puntualizzando che è esattamente a questo che si riferisce Gesù quando
nel Vangelo afferma di essere venuto a portare non la pace ma una spada (cf Mt 10,34). La
contesa si ha invece quando si entra in discussione e polemica verbale con qualcuno.
Anche in questo caso, la carità, ordinariamente, evita le “vane discussioni”, come scrive
san Paolo (cf 2Tm 2,14), a meno che, anche in questo caso, la contesa non sia fatta per
difendere la verità o il bene a patto però che ciò si faccia a tempo, luogo e modi opportuni.
In caso contrario è peccato veniale contendere e discutere, mentre diventa peccato mortale
quando si dovesse contestare la Verità o il bene (oggettivi) in modo inurbano e indecoroso.
Ci sono infine due peccati “pubblici” che sono contrari alla virtù teologale della carità: lo
scandalo, in quanto uccide la carità anche nei cuori altrui; e lo scisma, in quanto rompe la
comunione gerarchica con il capo visibile della Chiesa, minando quella particolare nota
della Chiesa che è l’unità, la quale, pur essendo in sé stessa intaccabile e inattaccabile, è
tuttavia ferita dalle divisioni esteriori delle membra visibili del corpo di Cristo.
6. LE VIRTÙ CARDINALI: LA PRUDENZA
Insieme alle virtù teologali, l’albero delle virtù cristiane ha altri quattro grossi rami,
costituiti dalle virtù cardinali. Si tratta di una virtù intellettuale (la prudenza) e tre morali
(giustizia, fortezza e temperanza), che sono dette per l’appunto “cardinali”, perché sono
come i cardini delle porte, ossia il telaio a cui sono congiunte tutte le virtù cristiane,
ovviamente ciascuna al “telaio” ad essa consono e adatto. Cercheremo di analizzarne
ciascuna distintamente e con le sue singole parti e eventuali virtù connesse, occupandoci
anche dei vizi opposti che spesso gettano una luce ulteriore per la comprensione della
bellezza e dello splendore della singola virtù.
Etimologicamente, “prudenza” viene da “porro videns”, letteralmente “colui che vede
lontano” oppure “lungimirante”. è senza dubbio la regina delle virtù, perché senza di essa
molte cose apparentemente buone non lo sono in realtà sul piano pratico, dato che suo
compito come vedremo subito, è proprio quello di applicare i principi e le idee alle
circostanze concrete delle singole azioni. Fu definita da Aristotele “retta ragione delle cose
da farsi”. Sant’Agostino preferiva puntualizzare ulteriormente e più precisamente,
definendo la prudenza “conoscenza delle cose da perseguire e da evitare”, mentre san
Tommaso d’Aquino, col solito acume e rigore che lo caratterizza, la definì “abito della
ragion pratica che delibera, giudica e comanda rettamente le cose ordinate al bene
umano”, evidenziandone le funzioni e soprattutto l’operatività “concreta”, sulle singole
situazioni pratiche in cui è chiamata ad intervenire.
Compito di questa virtù, dunque, è dirigere la modalità concreta in cui tutte le azioni
devono essere compiute, applicando i principi generali al singolo caso. Dal che si
comprende questo elogio della prudenza formulato dall’Aquinate nella sezione in cui ne
tratta: “La prudenza è una virtù sommamente necessaria per la vita umana, perché vivere
bene consiste nel ben operare; e perché uno compia il bene non basta considerare ciò che
compie, ma anche il modo in cui lo compie: si richiede cioè che agisca non per impeto di
passione, ma seguendo un’opzione retta” (S. Th., I-II, q. 57, a. 5).
In quanto virtù cardinale e specificatamente intellettuale, la prudenza, come tutte le virtù
umane, può essere acquisita. Nel caso di un battezzato, tuttavia, viene infusa insieme agli
abiti di tutte le virtù e compito della persona, in questo caso, è solo imparare a conoscerla e
praticarla, compiendone gli atti che mano a mano si riconoscono attraverso la buona
formazione, la meditazione e, in certi casi, anche lo studio. Essa, come tutte le virtù, cresce
o diminuisce a seconda di come e quanto si compiano i suoi atti o quelli ad essa contrari.
Nulla ostacola tanto l’esercizio della prudenza quanto il disordine delle passioni non
regolate. Per cui ben a ragione scrive sempre il Dottore Angelico che “la prudenza
presuppone le virtù morali che rendono buona la volontà” (S. Th., I-II, q. 57, a. 4), in modo
che l’uomo sia correttamente predisposto verso il suo fine ultimo (che è la beatitudine) e
prossimo (il bene in tutte le sue forme), onde la prudenza possa esercitare il suo compito
di comandare come perseguire, qui, ora e in queste circostanze, il bene particolare di ogni
singola azione. La prudenza si distingue in ben otto parti: la memoria, necessaria per
trattenere i dati acquisiti dall’esperienza, che sono sommamente necessari a questa virtù;
l’intelletto, ossia la capacità di intuire i principi conoscitivi da applicare al caso concreto; la
docilità, necessaria per imparare da altri criteri di valutazione e principi da applicare; la
sagacia, cioè la capacità di ben congetturare scoprendo da se stessi criteri e principi per i
casi concreti; la ragione, ossia la capacità di raziocinare correttamente per ben deliberare; la
previdenza, che consiste nella capacità di ordinare gli atti contingenti al futuro; la
circospezione, ossia la capacità di ben considerare e valutare le singole circostanze; e infine
la cautela, grandissima e importantissima disposizione, che consiste nella capacità di ben
distinguere e separare, negli atti contingenti, il vero dal falso e il bene dal male, stante il
fatto che essi, purtroppo, appaiono spesso mescolati e frammisti ed è assai difficile
districarli e trovare il corretto bandolo della matassa.
Per meglio comprendere la grandezza e l’importanza della virtù cardinale della prudenza,
converrà ora passare in rassegna i vizi ad essa opposti, che sono di due distinte specie:
quelli che le si oppongono direttamente e formalmente e quelli che in qualche modo le
somigliano, ovvero dei vizi camuffati da virtù.
L’imprudenza è evidentemente il primo comportamento contrario a tale virtù e si ha
quando viene a mancare, colpevolmente, la debita prudenza che si può e si deve avere in
tutte le situazioni. Si incorre in tale difetto quando si disprezzano le regole del ben operare,
cosa che diventa molto grave quando di tratta di regole divine, come - per esempio - la
raccomandazione di Gesù di non dare le cose sante ai cani e le perle ai porci (cf Mt 7,6),
cosa a cui si contravviene quando si danno, per l’appunto, cose sante (sacramenti, “perle”
di spiritualità e simili) ad anime non solo del tutto indisposte alla grazia, ma quando
appare evidente che non esiste il minimo spiraglio di buona volontà di aprirsi ad essa.
Altro vizio contrario alla prudenza è la precipitazione, ovvero il prendere decisioni sotto
l’impeto di qualche passione e senza debitamente ponderare le fasi conoscitive
dell’esercizio di tale virtù. Per causa di questo brutto difetto, purtroppo, si combinano a
volta grossi pasticci di vario genere, talora con conseguenze non lievi. L’inconsiderazione
consiste nella mancata ponderazione e considerazione circa le cose necessarie da farsi,
quando sono conosciute come tali. Per esempio, prima di mettersi alla guida bisogna aver
preso la patente ed essere in stato di lucida vigilanza. Chi si mettesse a guidare senza
patente o in stato di ebbrezza o in preda al sonno, pensando di affidarsi alla divina
Provvidenza, peccherebbe assai gravemente di inconsiderazione, giungendo, in questo
modo, a tentare Dio. Ultimi difetti contrari alla prudenza sono l’incostanza, che si ha
quando si omette di ben ponderare a causa della fatica che ciò comporta e la negligenza,
quando la mancata considerazione adeguata di principi, cose e circostanze dipende da
colpevole trascuratezza e volontà non buona. Si pensi quanto sia grave la negligenza
quando ricade su cose necessarie alla salvezza (come il comportamento di chi, vedendo un
familiare malato approssimarsi alla morte, trascurasse di invitarlo a ricevere il viatico e
l’unzione o, peggio, omettesse di chiamare il sacerdote essendone stato sollecitato dal
morente).
Veniamo ora alle pseudo-virtù, che purtroppo intaccano come astuti ingannatori quelle
vere. La prima è la cosiddetta “prudenza della carne”, che consiste nel ponderare e
prendere le decisioni non in base alla legge di Dio e al bene della propria e altrui anima,
ma considerando il benessere del corpo e i piaceri sensibili come fine ultimo. Salutismo,
culturismo, idolatria del corpo, gola sono tutti comportamenti alimentati da questa
erronea forma di prudenza. Affine ad essa è la “prudenza del mondo”, che prende tutte le
decisioni in base alla convenienza economica che ne può ricavare, sottomettendo tutto al
tirannico potere del dio denaro. La terza è l’astuzia, di diabolica origine, che consiste
nell’escogitare mezzi cattivi (simulazione, ipocrisia, menzogna, falsità) per raggiungere
fini anche buoni. Si badi che per i figli di Dio non è mai e in nessun caso applicabile il
machiavellico principio secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. Affini all’astuzia sono
la frode e l’inganno, cioè l’esecuzione delle astuzie escogitate con le opere (frode) o con le
parole (inganno), traendo il prossimo nell’errore. Infine la sollecitudine per il futuro o i
beni temporali, che è quella che forse maggiormente si maschera da prudenza. Si tratta di
ciò che Gesù condanna nel Vangelo quando esorta a non preoccuparsi di quello che si
mangerà o si berrà o di come ci si vestirà e a non affannarsi per il domani (cf, per esempio,
Mt 6,25-34). I figli di Dio, infatti, sanno e credono di avere un Padre celeste che provvede a
loro, per cui certamente si occupano delle cose necessarie per vivere (lavorano
onestamente e si prendono cura di tutte le cose umanamente necessarie), ma non vivono
di preoccupazioni, né si astengono dal compiere ciò che Dio vuole e chiede per la sciocca
paura di un domani che nemmeno è certo che debba a venire e a cui, in ogni caso, credono
che Dio provvederà.
7. LE VIRTÙ CARDINALI: LA GIUSTIZIA
La seconda virtù cardinale è la giustizia ed è forse la virtù di cui da sempre maggiormente
si è parlato e discorso, anche se non sempre a proposito. Il grande giurista romano Ulpiano
ne diede una splendida definizione, perfettamente coerente con la fede cattolica e che san
Tommaso stesso non esitò a sottoscrivere praticamente “ad litteram”: “volontà perenne e
costante di dare a ciascuno il suo”, adagio che puntualizza ed articola il celebre aforisma
romano “suum cuique tribuere” (“dare a ciascuno il suo”), che insieme agli altri due -
“honeste vivere” (“vivere onestamente”) e “alterum non laedere” (“non ledere il
prossimo”) - costituiva la base assiologica del grande ordinamento giuridico romano.
Prima di questa bellissima definizione, troviamo quella di Aristotele che descrisse la
giustizia come “l’abito mediante il quale l’uomo agisce conformemente alla scelta che ha
fatto di ciò che è giusto”, mentre nella tradizione cattolica merita di essere menzionata,
oltre a quella già accennata di san Tommaso d’Aquino (“abito mediante il quale si dà a
ciascuno il suo con un volere costante e perenne”), quella di sant’Ambrogio: “virtù che dà
a ciascuno il suo, non esige l’altrui e sacrifica il proprio vantaggio al bene comune”.
Si capisce come compito prioritario per comprendere questa virtù e quello che comporta, è
anzitutto stabilire chi siano “gli altri” a cui è dovuto “il suo” e cosa sia esattamente questo
“suo”. Gli altri possono essere i nostri simili oppure Dio. Vedremo come gli obblighi verso
Dio sono puntualmente regolati in base ad una parte specifica della virtù della giustizia
che si chiama religione ed il contenuto del “suo” divino (che i pagani chiamavano “fas”) è
l’osservanza di tutte le sue leggi ma in particolare di quei comandamenti che hanno Dio
come termine o oggetto. Il “giusto” (“jus”) dovuto ai nostri simili, lo si deve considerare in
modo differenziato a seconda del tipo di relazione che sussista tra i soggetti in causa. Nel
caso di rapporti tra il singolo ed altri singoli in quanto tali, si parla di giustizia
“particolare” o “commutativa”, che segue la regola dell’uguaglianza (avendo tutti gli
uomini gli stessi diritti, si hanno nei loro confronti i reciproci doveri, uguali per tutti). Nel
caso di rapporti tra il singolo e la collettività, oppure tra questi e le autorità costituite (cioè
i “superiori”), si parla di giustizia “legale” ed ovviamente non c’è uguaglianza e
reciprocità tra diritti e doveri, nel senso che ai superiori sono dovute delle cose (come per
esempio l’obbedienza e l’onore) che non sono dovute ai singoli ad essi soggetti. Nel caso
infine contrario, di rapporti “dall’alto al basso”, cioè tra superiori e inferiori, si ha la
giustizia “distributiva” o “retributiva”, che proporziona la posizione del singolo con la
collettività chiede ad esso ciò che è giusto in relazione ai suoi rapporti con l’autorità e gli
rende tanto quanto merita, sia in bene che in male.
La giustizia, essendo virtù che non solo perfeziona la persona che la possiede, ma che
porta benefici e vantaggi agli altri, è indubbiamente la virtù cardinale più eccellente e da
perseguire con tutto l’impegno e lo zelo possibile. Per poter essere praticata,
evidentemente, richiede una conoscenza almeno sufficiente e differenziata dei propri
doveri, cosa impossibile senza una profonda e adeguata cura della propria formazione
morale, che consenta un attento discernimento dei doveri che si hanno anzitutto verso Dio,
poi verso chi è più grande di noi, verso la collettività ed infine verso i nostri simili.
Per essere conosciuto ciò che è giusto, è imprescindibile l’atto del giudicare (dal latino “ius
dicere”: “dichiarare il giusto”), argomento su cui non sempre si hanno le idee chiare, anche
in virtù delle sentenze evangeliche che esortano a “non giudicare”, dando l’impressione di
condannare sempre e comunque questo atto. In realtà non è né può essere così. I
comportamenti oggettivi e le realtà non solo possono, ma devono essere giudicate in base
a tre criteri: giustizia, cioè avendo dei corretti parametri di valutazione, altrimenti il
giudizio è perverso; autorità per emettere il giudizio, cioè il giudizio deve essere
pertinente alla sfera di interesse o di competenza di chi giudica, altrimenti si cade
nell’usurpazione; rettitudine, cioè prudenza e oggettività del giudizio, che altrimenti
diventa temerario (cosa che accade soprattutto quando si giudicano le intenzioni delle
persone e non i comportamenti oggettivi). Ciò che è proibito dall’insegnamento di Gesù
nel Vangelo (cf S. Th., II,II q. 60) è esattamente e anzitutto quest’ultima forma di giudizio
(“giudizio temerario”), come insegna sant’Agostino. Alcuni autori aggiungono altre due
fattispecie: il giudizio sulle cose divine, in quanto a noi assolutamente impossibile, come
afferma sant’Ilario di Poitiers e il giudicare con malizia e animosità, cosa che si verifica
quando si traggono frettolose conclusioni da semplici sospetti oppure si cade nella
tendenziosità dovuta a disprezzo della persona o (peggio) all’ira causata dall’odio (così
san Giovanni Crisostomo).
Prima di entrare nell’analisi delle nove parti in cui si specifica la virtù cardinale della
giustizia, è bene passare in rassegna i principali vizi che si oppongono alla giustizia legale,
distributiva e commutativa. Formalmente opposta alla giustizia legale è l’illegalità, ossia la
trasgressione volontaria delle leggi civili quando esse siano moralmente rilevanti o
comunque non moralmente ingiuste (nel qual caso non avrebbero nessuna forza
vincolante e sarebbe non solo lecito, ma addirittura doveroso non ottemperarvi, come - per
fare un esempio attuale - i medici e infermieri che si rifiutano di praticare l’aborto
volontario, che è purtroppo concesso e tutelato nella maggior parte degli ordinamenti
giuridici contemporanei). La parzialità (o accettazione di persone) si contrappone invece
formalmente alla giustizia distributiva e consiste nel dare ad una persona più di quanto
merita (o, peggio, a prescindere da qualsivoglia merito), oppure nel punirla meno di
quanto merita o senza alcun motivo. Questo peccato può essere chiaramente commesso
solo da persone costituite in autorità nei confronti dei loro sottoposti, quali genitori,
autorità ecclesiastiche, governanti, professori e maestri. Anche qualora si rendessero
colpevoli di tale odioso peccato, tuttavia, non viene meno il dovere di rendere loro onore
da parte dei sottoposti, poiché questo obbligo non deriva dal merito di essi, ma
semplicemente dal fatto di rappresentare, a modo proprio, la somma autorità divina.
Vanno dunque onorati, per esempio, ciascuno nel proprio ambito di influenza, Papa,
vescovi e sacerdoti, a prescindere dalla loro eventuale indegnità, così come genitori,
superiori di lavoro, governanti ed anche vecchi e anziani. Il dovere di onorarli non sempre
comprende, come già accennato in precedenza, l’obbligo di obbedire alle loro disposizioni
qualora esse siano oggettivamente ingiuste (in quanto contrarie alla legge o alla evidente
volontà divina) oppure siano date esorbitando dai limiti della propria autorità. In questi
casi conserva tutto il suo vigore il celebre adagio petrino “magis parendum Deo quam
hominibus” (“bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, cf At 4,19). Seguono
infine una serie di comportamenti contrari alla giustizia commutativa che sono altrettante
trasgressioni del quinto, settimo e ottavo comandamento e che sarà bene analizzare con
attenzione. Per quanto concerne le offese alla giustizia commutativa contro il quinto
comandamento sono: omicidio, mutilazioni e percosse, privazione della libertà, insulto (o
contumelia), improperia, detrazione (o maldicenza), mormorazione, derisione e
maledizione. Non rientrano evidentemente nell’omicidio le cosiddette uccisioni “giuste”,
ovvero quelle compiute per legittima difesa, in circostanze di “guerra giusta” o nei
rarissimi casi in cui può essere ritenuta lecita la pena di morte. Bisogna subito avvertire, al
riguardo, che il recente magistero di Concili e Pontefici tende a restringere di molto il
campo dei casi in cui una guerra possa essere considerata giusta e la pena di morte lecita,
pur senza giungere a negare la loro possibile liceità in linea di principio quando
circostanze del tutto gravi e straordinarie le rendessero necessarie. La contumelia (o
insulto) è oggi sciaguratamente comportamento ampiamente diffuso e consiste nel
rivolgere parole ingiuriose che attentino apertamente l’onore e la rispettabilità del
prossimo, rimproverandogli i difetti o mancandogli di rispetto dinanzi a molte persone.
Qualora l’insulto sia grave e fatto con l’intenzione di distruggere l’onore di una persona, il
peccato è certamente mortale, stante l’ammonizione evangelica di Gesù: “chi dice al suo
fratello: ‘pazzo’, sarà sottoposto al fuoco della Gehenna” (Mt 5,22). L’improperia consiste
nel rinfacciare al prossimo l’aiuto o il bene che gli si è prestato, mentre la maldicenza (o
detrazione) è l’odioso peccato di chi, di nascosto, proferisce parole dirette a compromettere
la buona fama del prossimo al fine di far formare una cattiva opinione di lui. Da essa
differisce leggermente la mormorazione, che pur avendo la stessa materia e forma - in
quanto consiste nel parlar male del prossimo in sua assenza - ha diverso fine, in quanto lo
si fa allo scopo di seminare discordia e zizzania tra due persone, mettendole l’una contro
l’altra e generando inimicizia. Anche la derisione è un comportamento oggi assai diffuso,
ma san Tommaso d’Aquino ricorda che l’irrisione di Dio, delle cose sante, dei genitori e
dei giusti a motivo dell’odio che suscitano in chi giusto non è, è peccato mortale. Molto
grave, infine, è la maledizione che consiste nell’augurare o desiderare il male di qualcuno,
soprattutto quando si ricorra a mezzi derivanti dall’occulto per nuocere o ledere la vita, gli
affetti o il benessere del prossimo.
Trattiamo ora delle mancanze nei confronti della giustizia commutativa che sono
altrettante trasgressioni del settimo e dell’ottavo comandamento.
Il furto, evidentemente, lede la giustizia in quanto consiste nell’appropriarsi indebitamente
di cose, beni o denaro altrui oppure nel non restituire quelli ricevuti in prestito, mentre la
rapina contiene l’aggravante del perpetrare il furto usando violenza o quanto meno
minacce alla persona. San Tommaso fa opportunamente rilevare, tuttavia, che ci sono due
situazioni da considerare con la debita attenzione. La prima è che per diritto naturale (e
quindi per giustizia e non per carità) i beni e il denaro superfluo devono essere elargiti ai
poveri e bisognosi, in quanto da Dio concessi proprio per il loro sostentamento; la seconda
è che, in caso di assoluta, urgente ed evidente necessità, è lecito soddisfare i propri bisogni
immediati (di cibo, per esempio), con cose che siano a portata di mano usandole nei limiti
del necessario (per esempio, mangiando un frutto di un albero appartenente a un privato).
Sono violazioni della giustizia anche l’usura (che, in forza della legge morale è sempre
illecita) e la frode (in cui con l’inganno si percepiscono o si mantengono indebite somme di
denaro). Tutti questi peccati, se commessi, obbligano alla riparazione, cioè alla restituzione
(per giustizia) di quanto indebitamente percepito, oppure, nel caso di impossibilità
oggettiva o di grave incomodo soggettivo nel farlo, a devolvere in beneficenza i beni di cui
ingiustamente ci si è impossessati.
Per ciò che concerne l’ottavo comandamento, ledono la giustizia commutativa le seguenti
tipologie di peccato. Anzitutto la falsa testimonianza in senso stretto, cioè il mentire su
cose relative alla giustizia di cui si è obbligati autoritativamente a deporre. L’obbligo è
sempre sussistente quando si tratta di delitti manifesti o di dominio pubblico, non negli
altri casi. Pecca molto gravemente contro la giustizia chi si macchia di calunnia, ovvero
diffama il buon nome del prossimo mentendo e togliendogli l’onore e la buona fama.
Questo grave delitto, non meno di quelli contro i beni, obbliga gravemente al dovere di
riparazione. Ci sono alcune altre fattispecie di carattere eminentemente forense, che vanno
comunque evidenziate, perché oggi piuttosto diffuse. Anzitutto la prevaricazione, ossia
l’aiuto della parte avversa (un avvocato che aiutasse il difensore della controparte o, in
caso di processo penale, il pubblico ministero); la tergiversazione, che è mancanza alla
giustizia (commissibile solo da chi esercita le funzioni della pubblica accusa) che consiste
nell’ingiusta desistenza dall’accusa intrapresa (ossia derivante non da elementi che
l’abbiano dimostrata infondata, ma da altre motivazioni, lecite o, peggio, illecite); la
reticenza, cioè il non dire (da parte dell’accusato) la verità su cose su cui si è tenuti a farlo
o, peggio, la menzogna usata per discolparsi. Si badi tuttavia che non sussiste
ordinariamente l’obbligo di dire a tutti tutta la verità, per cui, anche in sede processuale, il
giudice può e deve esigere la conoscenza solo di ciò che è lecito e giusto chiedere (e non di
altro) e che è possibile all’imputato, qualora ciò dovesse accadere, difendersi ricorrendo
alla prudenza (senza mai però poter mentire). Dovere grave dei magistrati è emettere
giuste sentenze e grave mancanza alla giustizia è non farlo. Una sentenza, secondo san
Tommaso, è (dal punto di vista morale) ingiusta in quattro casi: se il giudice usa come
prove cognizioni sue personali (e non risultanze processuali oggettive); se esorbita dai
limiti della sua competenza, fuoriuscendo dai margini della sua legittima potestà; se
condanna a prescindere dal contraddittorio e senza dare all’accusato la possibilità di
difendersi e la conoscenza dei capi di imputazione a suo carico; se condona la pena (che è
tenuto ad applicare), fuori dei casi in cui ne abbia licenza o potere. Infine c’è la grave
mancanza alla giustizia operata dagli avvocati che difendano cause oggettivamente
ingiuste (sant’Alfonso M. De Liguori, su questo, diede degli esempi e delle massime
assolutamente esemplari, quando esercitava la professione di avvocato), in quanto la
cooperazione al male con opere, consigli e aiuti, rende inevitabilmente complici di esso.
La virtù della giustizia, come abbiamo più volte rilevato, è una delle quattro virtù
“cardinali”. Vuol dire che, agganciate a questo “cardine”, ruotano una serie di virtù (che
sono altrettanti “parti integranti” della principale) ad essa inscindibilmente connesse. Ben
nove sono le parti integranti della giustizia: religione, pietà, osservanza (o rispetto),
gratitudine (o riconoscenza), vendetta, veracità, amicizia (o affabilità), liberalità (o
generosità), equità (o epicheia). Le analizzeremo dettagliatamente una per una, con i
relativi vizi opposti.
Le parti integranti della giustizia.
La religione
La religione è in assoluto la più alta tra le virtù morali, perché regola la giustizia verso Dio,
specificando ciò che a Lui è dovuto in termini di culto e in termini di obbedienza, con
particolare riguardo ai mezzi interni ed esterni necessari per rendere riverenza e onore a
Dio. Questo, evidentemente, non perché l’uomo possa aggiungere qualcosa all’infinita
gloria di Dio, ma perché per il suo bene l’uomo deve essere a Lui sottomesso e
riconoscergli, senza esitazione alcuna, l’assoluta Sua eccellenza al di sopra di ogni ente
creato. Discussa è l’etimologia del termine “religione”. San Tommaso considera due
possibili etimologie (una delle quali ambivalente), ciascuna delle quali contiene una parte
di vero. Può derivare dal verbo latino “relegere”, che significa “rileggere” oppure
“rieleggere”: in questo senso per “religione” dovrebbe intendersi la frequente
considerazione delle cose di Dio (“rileggere”) oppure la “rielezione” di Dio come proprio
Signore a seguito dell’abbandono del peccato raggiunto mediante la conversione. Può
anche derivare dal latino “religare”, cioè “stringere un legame” e, in questo senso,
indicherebbe il legame che si stringe con l’Onnipotente. In effetti attraverso i vari atti di
culto, interni ed esterni (preghiere, sacrifici, genuflessioni, prostrazioni) l’uomo si lega a
Dio in modo da non scostarsi da Lui, sovente per una sorta di istinto naturale per cui si
sente obbligato a prestare all’Altissimo la debita riverenza.
Qualunque etimologia si scelga (e nulla vieta di tenerle tutte per valide), è evidente che la
religione ed il suo esercizio è strettamente correlato alla santità, termine che ben si
comprende se si considera da un lato la sua etimologia greca (da “aghios”: “privo di
terra”) che ne sottolinea la caratteristica di purezza (nel senso di distacco dalla terra e dalle
cose terrene), dall’altro la duplice possibile etimologia latina: da “sanguine tinctus”,
letteralmente “tinto di sangue” che allude velatamente al martirio, cioè al saper mettere
Dio al di sopra di ogni cosa compresa la propria vita, oppure da “sancita”, ossia “cosa
stabilita”, cioè il saper applicare a Dio in modo stabile e permanente tutti gli atti
dell’anima che intende fedelmente servirlo. Questa virtù abbraccia tutti i primi tre
comandamenti e ha degli atti specifici e particolari in cui si esplica: devozione, adorazione,
preghiera, sacrificio, oblazioni (o offerte), decime, voti, giuramento, scongiuro e lode di
Dio. Trattandosi di atti meravigliosi e sublimi, bisognerà occuparsene nel dettaglio.
Devozione viene da “devovere”, che significa “consacrare” ed è la volontà di compiere con
prontezza le cose attinenti al servizio di Dio, per cui sono “devoti” quelli che si consacrano
a Dio e sono a Lui totalmente sottomessi (sacrificio spirituale interiore). La devozione ha
Dio come causa esterna e la meditazione e la contemplazione della bontà di Dio (che eccita
l’amore) e delle proprie deficienze (che uccide la presunzione) come cause interne.
Produce due effetti: gioia spirituale (per il pensiero costante della bontà di Dio) e tristezza
secondo Dio (per la considerazione delle miserie umane, da cui scaturisce la tenerezza
d’affetto fino alle lacrime).
L’adorazione consiste nel rendere omaggio alla Maestà infinita di Dio con atti esterni di
umiliazione del corpo in segno di latria (totale, assoluta ed incondizionata sottomissione,
servitù e dipendenza), come espressione sensibile della sottomissione affettiva e adorante
interna (devozione). L’adorazione di latria è dovuta a Dio solo; come vedremo però è
possibile adorare anche creature sommamente eccellenti (“dulia” o, in un caso,
“iperdulia”), senza mai in nessun modo equiparare questi atti al culto di latria che è
dovuto a Dio solo.
Continuiamo ad analizzare le parti e gli atti della virtù di religione. Dopo aver esposto,
precedentemente, il contenuto della devozione e dell’adorazione, dobbiamo ora occuparci
della preghiera.
Della preghiera o orazione (da “oris actio” = azione della bocca) sono state proposte varie
definizioni nel corso della storia. Sant’Agostino la definiva molto semplicemente
qualunque “domanda formulata a Dio”, mentre san Giovanni Damasceno preferiva
specificare che si tratta della “richiesta a Dio di cose convenienti” oppure, ampliando lo
spettro di attenzione anche alla cosiddetta orazione mentale e alla contemplazione,
definiva tale qualunque “elevazione della mente a Dio”. Con la preghiera, in ogni caso, si
attesta e si riconosce che ogni bene e beneficio (di grazia e di gloria) viene da Dio e a Lui
va dunque umilmente chiesto. La preghiera ha una quadriforme efficacia: impetratoria,
satisfattoria e meritoria (sotto il duplice profilo dell’accrescimento della grazia e del
conseguimento e aumento della gloria). Ogni preghiera debitamente rivolta ha Dio ha
anzitutto sempre un’efficacia impetratoria, cioè ottiene da Dio quel che si chiede, secondo
la promessa di Gesù (“chiedete e vi sarà dato”, Mt 7,7); e quando Dio non può concedere
esattamente quello che gli si chiede (perché, nella sua onnisciente perfezione, vede che
sarebbe male per il richiedente), sempre comunque concede qualche altra grazia a chi gli
ha rivolto la preghiera. Ogni preghiera ha sempre anche un’efficacia satisfattoria, cioè
espia i residui di pena contratti con i peccati commessi e purifica l’anima dalle loro
macchie e scorie. Questi primi due aspetti della preghiera possono essere dal fedele
liberamente donati ad altri: si possono, per esempio, chiedere grazie per altre persone, così
come offrire preghiere come suffragi per le anime del Purgatorio. La duplice efficacia
meritoria della preghiera, invece, è strettamente personale e non può in nessun modo
essere comunicata o ceduta ad altri. Si tratta del fatto che ogni preghiera ben fatta, essendo
un’opera non solo buona, ma molto buona in quanto espressione della virtù di religione, è
meritoria e quindi da un lato fa aumentare e crescere la presenza della Grazia santificante
in noi (grazia che, come è noto, si perde col peccato mortale, diminuisce col peccato
veniale, si intiepidisce con le imperfezioni volontarie o consentite, cresce con ogni opera
buona compiuta), dall’altro ci procura superiori gradi di gloria in cielo. Anche la gloria del
Paradiso, infatti, non è certamente uguale per tutti. Il nostro godimento di Dio, la nostra
conoscenza di Lui, la nostra familiarità con i beati saranno tanto più piene e intense quanto
maggiori saranno i meriti accumulati in terra. Questo ha sempre insegnato la Chiesa e
questa è stata la costante e immutata lezione dei santi. La preghiera più perfetta è
indubbiamente il Padre Nostro, le cui sette petizioni racchiudono tutto ciò che è necessario
e importante per la vita della nostra anima e, subordinatamente, anche per quella
temporale. Assai debitamente sant’Agostino amava precisare che possiamo rivolgerci a
Dio anche con altre parole, ma non possiamo e non dobbiamo chiedere “altro” rispetto al
Padre Nostro, che è dunque preghiera “normativa e normante” per eccellenza. San
Tommaso d’Aquino afferma inoltre che esistono quattro condizioni assolutamente
necessarie perché la preghiera sia sempre esaudita: chiedere per sé (perché non sappiamo
le condizioni in cui si trovano gli altri e, quindi, se Dio sia ben disposto o no ad accogliere
quella preghiera), cose necessarie alla salvezza (le uniche che Dio sempre prontamente
concede, a differenza delle richieste di grazie temporali), e farlo con pietà (non in modo
indegno di Dio e della sua maestà, ovvero con devozione interiore e compostezza
esteriore) e con perseveranza (non sporadicamente o saltuariamente, dato che Gesù ha
raccomandato di pregare con insistenza e perseveranza). Le specie della preghiera sono
quattro come si evince dal testo di 1 Tm 2,1 (“Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si
facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini”): domanda,
supplica o ossecrazione, preghiera, e ringraziamento. La forma più alta di preghiera è il
ringraziamento, la cui vetta più alta in assoluto è la lode. Si loda Dio con le labbra non per
manifestargli la nostra alta opinione di Lui (che Lui, che scruta i cuori, evidentemente
conosce) ma per eccitare gli affetti alla lode di Lui e testimoniare anche ad altri la Sua
eccellenza, attestando gioiosamente in questo modo che Egli ha fatto bene tutte le cose non
solo in generale, ma anche in particolare nella vita e nell’esistenza di chi sa lodarlo in ogni
luogo e in ogni tempo.
Le ultime parti della virtù della religione sono il sacrificio, le oblazioni, le decime, i voti, il
giuramento, lo scongiuro e la lode di Dio. Vediamole brevemente nel dettaglio.
Il sacrificio è l’offerta a Dio di beni sensibili come doni ed omaggi in segno della
sottomissione e dell’onore a Lui dovuti. Offrire sacrifici esterni è una norma di legge
naturale (tutti gli uomini li hanno sempre offerti alla divinità). Si chiamano propriamente
sacrifici (esterni) quelle cose che vengono offerte a Dio per confessare la propria
sottomissione e sulle quali si fa qualche atto (“sacrum facere”), quali uccisione di animali,
frazione del pane e simili: vanno offerti a Lui solo. Sono sacrifici esterni (analogamente)
anche tutti gli atti esterni di virtù compiuti in onore ed ossequio di Dio (per esempio fare
elemosine, rinunce, digiuni, penitenze corporali etc., atti che, propriamente, appartengono
alle virtù della compassione e della mortificazione). Nella nuova alleanza inaugurata da
nostro Signore Gesù Cristo sono stati aboliti tutti i sacrifici rituali e cruenti di animali o
altro, che furono compiuti nell’antica alleanza. In luogo di essi rimane soltanto l’adorabile
sacrificio incruento della santa Messa, in cui l’unico Sacrificio gradito a Dio del Corpo e del
Sangue del Suo Figlio, immolati all’altare della Croce, si rinnova in maniera mistica,
incruenta ma assolutamente vera e reale e al quale vanno uniti tutti i nostri sacrifici che,
solo in quello di Cristo e per mezzo di esso, sono a Dio graditi.
Le oblazioni o offerte e le primizie sono offerte di beni sensibili a Dio fatte senza compiere
atti su di essi. S. Tommaso le fa coincidere con le offerte (cibo e denaro) che i fedeli fanno a
Dio in occasione delle Messe, il cui uso e distribuzione spetta ai sacerdoti. Le primizie sono
oblazioni a Dio delle cose più belle e più care. Nell’antico testamento si offrivano come
primizie i primogeniti di greggi e bestiame, nel nuovo testamento qualunque cosa sia
particolarmente cara al cuore e la si offra con gioia a Dio al fine di rendergli gloria, culto,
di impetrare grazie e soddisfare ai peccati commessi e già perdonati.
Nell’antico testamento c’erano anche le decime, ossia le offerte della decima parte dei
propri beni fatta ai sacri ministri, sancita dal diritto naturale e ordinata positivamente
dalla Legge di Dio. Essa è obbligante nella misura e nelle modalità in cui è presentata
come tale dalla disciplina e dalla legge ecclesiastica. Attualmente, come è noto, è il
Concordato tra Stato e Chiesa ad aver sostanzialmente risolto la questione. Resta nei fedeli
l’obbligo canonico di sovvenire alle necessità della Chiesa secondo le proprie risorse e
possibilità.
I voti sono promesse fatte a Dio di offrirgli un bene possibile e migliore, motivati dalla
volontà deliberata di sacrificare in suo onore tale bene. E’ cosa altamente meritoria, perché
conferma e determina immutabilmente la volontà a compiere obbligatoriamente nel futuro
cose già di per sé meritorie, rendendole ancora migliori e ancora più santificanti, per i
seguenti motivi: perché trasforma gli atti anche di altre virtù in virtù di religione (che è la
più eccellente); perché sottomette a Dio anche la volontà; perché determina al bene
stabilmente. E’ strettissimo obbligo adempierli fedelmente (altrimenti è meglio
astenersene, perché con Dio e la Madonna non si scherza e non si gioca); per formularli ci
vuole il consenso dei superiori (in caso di consacrati) ed è sempre bene chiedere un
prudente consiglio al confessore prima di formularli, anche perché la loro eventuale
dispensa o commutazione - possibile su richiesta in caso di gravi incomodi sopravvenuti -
può però essere concessa solo da chi ha l’autorità canonica per poterlo fare.
Il giuramento consiste nell’invocare Dio come testimone della verità delle proprie
asserzioni sul passato o sul presente (assertorio), oppure delle dichiarazioni riguardanti il
futuro (promissorio). E’ lecito giurare per Dio, a causa della malizia degli uomini che,
sospettando che chi parla possa mentire, potrebbero dubitare della veracità di
dichiarazioni, purché si faccia su affari e materie importanti. Ci sono tre condizioni per la
liceità di tale giuramento: giudizio (deve esserci una vera necessità, altrimenti si pecca di
giuramento inconsiderato); giustizia (la materia su cui si giura deve essere lecita, perché
non si può rendere Dio complice di un peccato, nel qual caso il giuramento sarebbe
iniquo); verità (ciò che si afferma deve essere vero, altrimenti si pecca di giuramento falso).
Il fondamento scritturale del giuramento è il testo del Deuteronomio dove si legge:
“Temerai il Signore tuo Dio, Lo servirai e giurerai in Suo Nome” (Dt 6,13). Gesù nel
Vangelo, solo apparentemente sembra smentire tale prassi, dal momento che
l’interpretazione del passo dove esorta a non giurare (Mt 5,34), è stata sempre intesa non
come proibizione assoluta, ma come ulteriore divieto dell’uso sconsiderato di esso al di
fuori dei casi di vera e urgente necessità.
Lo scongiuro e la lode di Dio, infine, sono due modi più che leciti di invocare il nome di
Dio. Con il primo si vuole perorare una supplica (“Ti prego, per Gesù”) oppure esercitare
in suo nome un potere ricevuto (es.: scacciare i demoni per l’autorità e per il nome di
Cristo); con il secondo si usa la voce per eccitare gli affetti a riconoscere l’eccellenza di Dio
(distogliendosi dalle vanità) e per confessare pubblicamente la Sua grandezza, atto
sommamente santificante e altamente gradito a Dio.
Concludiamo la sezione dedicata della virtù della religione (la parte più importante e della
virtù cardinale della giustizia) passando in rassegna i vizi ad essa opposti. Si suddividono
in due grandi generi, a sua volta distinti in alcune singole specie. La superstizione, che
comprende le specie della superstizione nel culto del vero Dio, dell’idolatria, della
divinazione e delle vane osservanze superstiziose; e l’irreligiosità, che si distingue nel
tentare Dio, nello spergiuro, nel sacrilegio, nelle irriverenze e nella simonia.
Generalmente parlando, per superstizione si deve intendere tutte le forme indebite di
culto a Dio, che offendono gravemente la sua divina Maestà e mortificano non poco
l’intelligenza e la dignità dell’uomo, che esercita attraverso queste trasgressioni o un
elevato grado di superbia o un non meno significativo tasso di stupidità.
La superstizione nel culto del vero Dio consiste o nella trasgressione delle leggi della
Chiesa riguardanti il culto di Dio, oppure nel dare troppa importanza a gesti esterni che
non hanno nessuna utilità (né per la gloria di Dio, né per la sottomissione di anima e corpo
al suo culto) e sono estranei alle leggi di Dio e della Chiesa. Rientra in questa categoria
anche il triste fenomeno degli abusi e delle varie licenze liturgiche (oggi purtroppo così
tanto frequenti), come anche quelle forme esterne, affettate e stravaganti nel rendere a Dio
il culto che gli è dovuto, che esulano dalla compostezza, dal decoro e dal senso di misura
che, almeno quando si celebra pubblicamente il culto di Dio, bisogna sempre tener
presente e osservare. Anche le varie catene di sant’Antonio, dolci di padre Pio, catene di
santa Rita sono espressioni di questo grave peccato (e, a quanto sembra, possono
addirittura diventare riti magici usati dal Nemico…).
L’idolatria consiste nel dare alle creature il culto e l’onore dovuti a Dio. Si distinguono, in
linea generale, tre possibili forme di idolatria: fisica (adorare come dèi gli elementi della
natura o le creature celesti), mitologica (adorare come dèi gli uomini, come facevano un
tempo le religioni pagane greche e romane) e civile (adorare come dèi immagini di vario
tipo in quanto protettrici della città o del territorio). E’ gravissimo peccato prestare
adorazione anche solo esterna a qualunque pseudo divinità (pensare ai martiri dei primi
secoli, che per non farlo hanno subito tormenti atroci e acerbissimi) o anche ad un essere
umano, perché l’adorazione ha senso ed è doverosa solo e soltanto in quanto espressione
dell’adorazione interna (così come il sacrificio visibile non può essere mai separato dal
sacrificio spirituale e viceversa). Non si può quindi far finta di adorare esternamente
qualcosa o qualcuno con la riserva di non farlo internamente. Non si sarebbe, infatti,
certamente esenti da peccato mortale. Peraltro, nel nostro malato mondo contemporanea è
diffusissima l’idolatria delle persone, che vengono completamente messe al posto di Dio.
Può succedere anche di idolatrare un santo, quando il pur dovuto culto ad esso dovuto
non è ordinato e vissuto nel rispetto della regola della fede (cioè onorando ciò che Dio,
attraverso la grazia, ha operato in quel santo e non facendone un “alter ego” o un sostituto
dell’Altissimo, come se un santo fosse, da se stesso e in se stesso qualcosa…). Più grave
ancora è idolatrare un uomo ancora vivente, anche con la motivazione di (presunta)
santità, perché fino a quando sono in questo mondo, tutti - anche i santi (anzi soprattutto
loro!) - possono essere tentati e cadere. Dio non vuole in nessun modo che gli si tolga la
gloria a Lui solo dovuta e vuole essere onorato e adorato anche nei suoi santi e nei suoi
inviati, che devono essere cari al nostro cuore e da noi ascoltati e seguiti tanto quanto ci
trasmettono fedelmente la sua parola, ci guidano secondo i suoi disegni, ci santificano con
gli strumenti da Lui dati e voluti. Solo così e solo per questo. Nulla di più e nulla di meno,
sfuggendo dall’entrare in quel circolo idolatrico creato da quelle odiose celebrazioni
mediatiche che divinizzano dei poveri uomini, che sono sempre tali anche quando non
fossero (come la maggioranza degli idoli creati dagli uomini mondani) grandi peccatori o
personalità a dir poco discutibili. Come diceva san Luigi M. Grignion da Montfort: gloria a
Gesù in Maria, gloria anche a Maria in Gesù, ma soprattutto gloria a Dio solo!
La pietà e l’osservanza o rispetto
Trattiamo insieme la seconda e la terza parte integrante della virtù cardinale della giustizia
per la loro affinità, che le distingue tra di loro solo per alcune piccole sfumature.
La pietà consiste sostanzialmente nei doveri di giustizia verso i genitori e la patria: si
esplica nel “rendere servizi e cure diligenti a genitori, consanguinei e benemeriti della
patria”, in quanto verso di loro l’uomo è debitore immediatamente dopo Dio. Comporta il
dovere di rendere loro ossequio, onore, rispetto ed obbedienza e, in caso di necessità,
particolari servizi (sostentamento; visita ed assistenza in caso di infermità, etc.). E’ in ogni
caso sempre da osservare il primato di Dio, che ha autorità superiore anche ai genitori e a
cui, in caso di contrasto oggettivo, sempre, solo e comunque bisogna obbedire. Le regole di
questa virtù (come dell’osservanza, che vedremo subito) sono contenute nei doveri
inerenti al quarto comandamento.
L’osservanza o rispetto è l’esercizio dei doveri giustizia verso le persone oggettivamente
degne di onore perché rivestite di autorità e si attua nel “circondare di deferenza ed onore
tutte le persone eminenti”. In sostanza si tratta della giustizia nei confronti di tutte le
persone costituite in autorità (governanti; maestri; superiori ecclesiastici, etc.), a cui vanno
prestati rispetto ed onore. Al suo interno comprende due importanti atti. La “dulia”, ossia
tutti gli atti (esterni ed interni) con cui si rende e si esprime l’onore dovuto ad un
superiore; e l’obbedienza, che consiste nel sacrificio della propria volontà, che, tra tutti, è
indubbiamente il più grande. L’obbedienza deve essere assoluta solo, sempre e soltanto
nei confronti di Dio, mentre è sempre più o meno condizionata (anche se comunque
effettiva e reale) nei confronti degli uomini, in particolare dei superiori. I limiti oggettivi e
inviolabili dei comandi dei superiori sono tre: il primo e il più importante, è la legge di
Dio, che mai e in nessun modo può essere contraddetta o contrariata; inoltre, il superiore
non può e non deve travalicare o pretendere di andare contro un’autorità superiore (Dio,
in primis, ma anche autorità più grandi di lui); terzo, deve rimanere nei limiti della propria
autorità, cioè può dare comandi solo nelle cose in cui il suddito gli è realmente sottoposto
e soggetto, di modo che l’obbedienza non può mai riguardare i moti interiori della
volontà, che devono obbedire a Dio solo, mentre, nel cosiddetto “foro interno” (cioè
l’ambito personale della propria coscienza), è ordinariamente competente solo il
confessore o il direttore spirituale (non i superiori canonici). Si è tenuti ad obbedire anche
negli atti esterni da eseguirsi con il corpo che ricadano nell’oggetto del potere del
superiore: per esempio, tutto ciò che riguarda la regola per i religiosi; la cura e la condotta
della casa per un figlio nei confronti del padre; l’esercizio delle mansioni nei rapporti di
lavoro; la disciplina comunitaria e la vita del seminario e le cose riguardanti il giudizio da
formulare al vescovo nei confronti del rettore del seminario; etc. Queste forme di
obbedienza, tecnicamente, si definiscono “obbedienza nelle cose d’obbligo”, che è più che
sufficiente per salvarsi e la cui eventuale ingiustificata trasgressione costituisce senza
dubbio peccato. C’è anche un’obbedienza perfetta, che abbraccia la sottomissione al
superiore anche nelle cose in cui sarebbe lecito decidere per contro proprio (purché in ogni
caso non si vada mai contro Dio o, per un religioso, contro la regola). Si badi, tuttavia, che
è sempre disordinata ed è peccato l’obbedienza nelle cose illecite. Su quest’ultimo tema
vari autori (antichi e moderni) discutono circa i limiti della liceità dell’obbedienza,
specialmente quando un comando di un superiore non sia oggettivamente illecito (cioè
non violi uno dei tre requisiti suddetti), ma sia percepito dal suddito come
soggettivamente (ovviamente in base a solide e fondate ragioni) contrario a quello che Dio
vuole da lui. La regola dei maestri di spirito è quella di sottomettersi, in questi casi, al
superiore, lasciando a Dio il compito di giudicare un eventuale ordine contrario ai suoi
voleri. Chi scrive però comprende che ci sono e possono determinarsi delle rare situazioni
in cui è davvero difficile districarsi, come la storia della Chiesa attesta (si pensi, solo per
fare un esempio, alla drammatica vicenda di una santa Giovanna d’Arco). La coscienza, in
questi casi, è come sempre l’ultimo giudice da sottoporre, ovviamente, a Dio solo,
prendendosi sempre tutte le responsabilità davanti a Lui e davanti agli uomini. Detto
questo, si badi che ordinariamente la disobbedienza è, nel genere, a detta di san Tommaso
d’Aquino, un peccato mortale, in quanto incompatibile con l’amore di Dio che vuole che si
obbedisca a coloro che da Lui sono stati rivestiti di autorità e, sempre ordinariamente, tale
peccato nasce dalla superbia e dalla vanagloria, che sono passioni sempre intrinsecamente
disordinate e mai da assecondare.
La gratitudine e la vendetta
La veracità e l’amicizia
Concludiamo il discorso sulla virtù cardinale della giustizia, considerando le sue ultime
due parti integranti: la liberalità e l’equità.
La liberalità (o beneficenza o generosità) non è altro che il retto uso dei beni temporali, in
modo particolare del denaro (che è l’oggetto proprio della liberalità), a favore del
prossimo. Su questo tema, nonostante lo sviluppo soprattutto nell’ultimo secolo della
cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, sono ancora molti i fedeli che appaiono non avere
le idee chiare in merito, né disporre di un’adeguata formazione su tale aspetto tanto
importante della vita cristiana. I Vangeli ci narrano molti episodi in cui Gesù ammonisce
circa il pericolo di un uso egoistico o distorto delle ricchezze (si pensi, per esempio, alla
parabola dell’uomo stolto o del ricco epulone) ed esorta ad un grandissimo distacco,
spesso anche effettivo oltre che affettivo, dalle ricchezze e dai beni. Le ricchezze sono
senza dubbio un bene non un male, ma è molto difficile usarle secondo giustizia e per
questo rappresentano un grande pericolo. Gesù ha condannato l’accumulo eccessivo ed
egoistico di ricchezze, l’uso di esse per gozzoviglie e bagordi dimenticando le necessità del
prossimo, l’attaccamento ad esse qualora creasse un laccio che impedisca di fare la volontà
di Dio. Il fatto che la liberalità sia una parte della giustizia (e non della carità) significa che
elargire a chi è nel bisogno ciò che è realmente superfluo non è un atto di misericordia, ma
di giustizia; in altre parole non è facoltativo, ma doveroso. Insegna, infatti, la dottrina
sociale della Chiesa che Dio, avendo disposto che esista la proprietà privata e quindi la
possibilità di possedere beni propri e ricchezze personali, non ha tuttavia rinnegato il
principio di “destinazione universale dei beni creati”, ma ha solo, per così dire, costituito i
ricchi dispensatori dei suoi beni a favore di chi, per varie circostanze, si trova nel bisogno o
nell’indigenza. Guai dunque, come dice Gesù nel Vangelo, a chi spende per accumulare
beni e denaro ma non arricchisce davanti a Dio (cf Lc 12,21)!
La liberalità ha due vizi opposti: l’avarizia (o cupidigia), termine che deriva da “aeris
aviditas” (avidità di denaro), secondo vizio capitale, che si identifica con uno smoderato
amore di possedere e accumulare beni e ricchezze e che sfocia sempre nella durezza di
cuore nei confronti dei bisogni e delle necessità del prossimo. San Paolo è giunto a dire che
“l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tim 6,10), principio su cui molti sono
d’accordo in linea teorica, ma che pochi sanno trasformare in criterio per un sincero e
accurato esame di coscienza. Dal lato completamente opposto rispetto all’avarizia c’è la
prodigalità, che consiste nello spendere senza criterio e senza utilità, solo per sé e per i
propri interessi, le ricchezze di cui si dispone. Questo bruttissimo vizio è oggi diffusissimo
ed è la vera causa della povertà e della fame del mondo, unitamente agli spaventosi
sprechi partoriti dalla nostra “civiltà” (?!?) occidentale. è stato infatti calcolato che ogni
anno nel mondo vengono sprecate 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, cifra che basterebbe a
nutrire e sfamare 4 volte tanto il numero delle persone che ogni anno soffre la fame (circa
805 milioni di persone). Prima di dare la colpa a Dio (bestemmiando) di questo, come degli
altri mali presenti del mondo (la cui colpa è solo degli uomini e dei demoni, mai di Dio),
bisognerebbe conoscere e meditare non poche su queste inquietanti cifre.
L’equità o epicheia è la capacità di discernere l’eccezionalità di circostanze che rendano
necessaria la disapplicazione della legge generale al caso concreto. Questo vale per tutte le
leggi umane (comprese quelle ecclesiastiche) e non è altro che un’applicazione vera e
pratica dell’antico adagio romano “summa lex, summa iniuria”. Tutte le leggi umane,
infatti, sono per definizione generali e astratte e non possono prevedere tutte le circostanze
(potenzialmente infinite) in cui potrebbero o dovrebbero essere applicate. In questo senso
possono verificarsi delle situazioni in cui applicare una certa norma sarebbe
completamente assurdo, fuori luogo, dannoso e contrario ai divini voleri. Tale giudizio va
fatto, davanti a Dio, da una coscienza ben formata (e con un certo rigore, non
concedendosi a cuor leggero facili dispense), e non è affatto una sorta di deponziamento o
svuotamento della forza vincolante della legge, ma un modo per ribadirne la sua forza
cogente, che è generale ma non assoluta, cosa che è proprietà (e tale rimane) della sola
legge positiva di Dio (naturale e non), dinanzi alla quale tale principio non può e non
potrà mai essere lecitamente e legittimamente applicato.
8. LE VIRTÙ CARDINALI: LA FORTEZZA
La terza virtù cardinale è la fortezza. Le più belle definizioni di questa importante e
affascinante virtù vengono da alcuni grandi pensatori pagani. Cicerone la definì come il
“deliberato esporsi a pericoli e disagi”, mentre Andronico disse che lo fortezza è “la virtù
dell’irascibile che non si lascia spaventare dal timore della morte”.
La virtù della fortezza ha come oggetto la rimozione degli ostacoli a compiere il bene
causati dalla presenza di difficoltà incombenti che trattengono la volontà impedendole di
agire, soprattutto il pericolo della morte, ma anche il timore di altri danni o guai che
potrebbero derivare dall’operare secondo virtù. Questa operazione la virtù della fortezza
la compie reprimendo il timore (perché sia vinto e superato) e moderando l’audacia.
L’atto proprio e principale della fortezza è dunque il resistere al pericolo, vincendo il
timore; l’atto secondario e subordinato è regolare l’audacia. La più importante
manifestazione di questa virtù, potremmo dire l’atto di fortezza per antonomasia, è il
martirio, mediante il quale un cristiano preferisce farsi uccidere che tradire la verità (cioè
la fede) o rinnegare la giustizia (mancando alla carità), compiendo in questo modo il più
perfetto degli atti umani in quanto massimo segno dell’ardente carità (Gv 15,13).
Per mezzo di questa mirabile virtù, viene dunque vinto il timore, che insieme alla tristezza
è la passione che più propriamente può dirsi tale e quindi difficilmente vincibile. Essa,
infatti, conferisce una tenacia invincibile (o fermezza) nel perseguire il bene anche di fronte
al più grave dei timori - che è quello della morte - e quindi anche di tutte le altre possibili
forme di sofferenza fisica (dolori corporali) e spirituale (abiezione). Si manifesta
soprattutto nei casi imprevisti anche se, ordinariamente, l’uomo forte prevede i pericoli e
si prepara ad affrontarli. L’uomo forte propriamente non gode nel compiere gli atti di
fortezza (farsi ammazzare, incarcerare, flagellare, percuotere, ingiuriare, calunniare,
disonorare, etc.), ma il godimento della virtù compiuta (grazie all’esercizio della fortezza)
impedisce all’anima di farsi vincere dalla tristezza sensibile e di farsi sopraffare dai dolori
fisici.
Si può mancare alla virtù della fortezza, come a tutte le virtù, per difetto o per eccesso. Da
ciò derivano i due vizi opposti alla virtù della fortezza in quanto tale: la viltà (o paura) e
l’audacia (o temerarietà). La viltà (o paura) è peccato quando è disordinata, cioè quando
per paura di certi mali l’uomo si astiene dal perseguire dei beni che devono essere
perseguiti. E’ peccato veniale quando la volontà non dà il consenso, mortale quando la
volontà dà il consenso a tralasciare per paura (ad esempio di soffrire qualche pena nel
corpo) l’osservanza della legge di Dio. Non c’è peccato quando si tollera un male minore
per sfuggire ad uno maggiore (per esempio, per conservare la vita si lascia che i ladri
rubino davanti ai propri occhi); nel caso contrario (accettare un male maggiore per evitare
un minore) si ha peccato, ma solo veniale, perché la paura diminuisce notevolmente la
volontarietà. L’audacia (o temerarietà) è la mancanza di retta considerazione dei pericoli,
per cui i temerari sono baldanzosi ed impetuosi prima che sopravvengano i pericoli, ma
poi, quando arrivano, scappano. Esattamente il contrario fanno i forti, che sanno regolare
l’impeto dell’affrontare le cose ostili proprio dell’audacia. Molto affine all’audacia è la
spavalderia (o insensibilità al timore), ossia il vizio per mezzo del quale non si teme ciò
che va temuto. Il forte infatti non è colui che non teme nulla, ma colui che sa vincere il
timore (perfino il più grande) in nome della virtù da compiere.
La terza virtù cardinale della fortezza ha quattro parti integranti: la magnanimità, la
magnificenza, la pazienza e la perseveranza. Come di consueto, ne analizzeremo nel
dettaglio ciascuna di esse, anche in relazione ai vizi opposti.
La magnanimità è la tensione della volontà verso il conseguimento di cose grandi e degne
di particolare onore. Secondo san Tommaso d’Aquino, il magnanimo ha cinque proprietà:
non ricorda i benefici ricevuti, perché largheggia nel contraccambiare e nel dare,
eccellendo nella gratitudine; è “ozioso e tardo”, non nel senso negativo che ordinariamente
si dà a questi termini, ma in quello positivo consistente nel suo non voler intromettersi in
ogni faccenda, anche che lo riguardi, ma solo in quelle più eccellenti; si serve dell’ironia,
poiché cela la sua grandezza - senza mentire né simulare - facendosi modesto con quelli di
media condizione; non sa convivere se non cogli amici veri, perché rifugge ed aborrisce
l’adulazione e la simulazione; preferisce le cose infruttuose a quelle belle e fruttuose, nel
senso che persegue e antepone sempre e comunque ciò che è bene a ciò che è utile.
Rientrano nelle dotazioni del magnanimo anche la fiducia, intesa come speranza ferma e
tenace di conseguire le cose degne di onore e la sicurezza, attitudine interiore grazie alla
quale non si cede né davanti al turbamento dell’animo, né agli uomini, né alla sfortuna. “Il
magnanimo è aperto nell’amore e nell’odio e parla e opera apertamente” (S. Th., I-II, q. 48,
a. 3, ad 2).
Si oppone a questa splendida virtù anzitutto la presunzione, atteggiamento vizioso di chi
intraprende cose grandi ma superiori alle proprie forze (cf Sal 130), mentre il magnanimo
non lo fa mai: eccede senz’altro nella grandezza delle cose perseguite, ma non nel
ponderare la proporzione di esse alle proprie capacità. Si badi che non è affatto
presunzione cercare di compiere azioni virtuose sotto il pretesto del fatto che l’uomo,
senza l’aiuto della grazia, non può compierle, perché ciò che si può con l’aiuto di altri è in
qualche modo in potere dell’agente. Il giusto e il santo sono consapevoli che senza la
Grazia non si può fare nulla di buono, ma sanno anche che essa non manca a chi la chiede,
si dispone a riceverla e usa i mezzi e pertanto si regolano secondo il celebre adagio di
sant’Ignazio di Loyola: “Fa’ come se tutto dipendesse da te, sapendo che niente dipende
da te”. E’ presunzione, invece, non seguire l’ordine nelle fasi di crescita nella virtù e quindi
agire sconsideratamente senza la “legge della gradualità” (per esempio, voler agire come i
perfetti pur avendo una virtù imperfetta). Una particolare specie (gravissima) di
presunzione è quella di salvarsi senza meriti, che, come è noto, è anche uno dei sei peccati
contro lo Spirito Santo. Questa forma di presunzione, che esclude dalla possibilità di
raggiungere l’eterna salvezza (come tutti i peccati contro lo Spirito Santo), eccede la
proporzione nella moderazione che si deve avere nella pur doverosa fiducia nella divina
Misericordia ed eccede la condizione di natura creata nel disprezzo della divina Giustizia,
che omette totalmente di prendere in considerazione e pensa di poter impunemente
“bypassare”.
Alla magnanimità si oppongono anche l’ambizione, la vanagloria e la pusillanimità.
L’ambizione è la brama disordinata dell’onore, avente tre specie: cercare l’onore per
un’eccellenza che non si ha; non riferire le proprie reali eccellenze alla loro Fonte (che è
Dio); non ordinare le proprie eccellenze al bene altrui (che è il motivo per cui Dio le dona)
ed è sempre vizio molto grave.
La gloria è una certa chiarezza e splendore pubblicamente riscontrabile e lodata, a cui
l’uomo naturalmente tende, per cui il desiderio della gloria, di per sé, non è certamente un
male. E’ invece un male cercare la gloria vana (inutile) che è tale sotto tre aspetti: per il suo
oggetto, quando si cerca la lode in cose fragili e caduche; per essere ricercata presso gli
uomini, il cui giudizio di lode non è certo, anzi è sempre fallace e imperfetto; per il fatto
che non è ordinata al debito fine, ossia all’onore di Dio e al bene del prossimo. Può essere
un peccato mortale quando cade su un oggetto direttamente contrario all’amore di Dio
(come per esempio preferire i beni temporali alle eterne ricompense, oppure la
testimonianza degli uomini a quella di Dio), oppure quando sia realmente il fine ultimo
dell’agire (agire solo per ottenere gloria propria e personale); altrimenti è un peccato
veniale. La vanagloria, ha a sua volta, sette figlie: la millanteria (aumentare la parvenza di
eccellenza con parole false), la pretesa di novità (atteggiamenti originali tali da attirare
l’attenzione), l’ipocrisia (atteggiamenti esterni, comunemente lodati, ma falsamente
ostentati), la pertinacia (difesa ostinata delle proprie idee e rifiuto di accettare un consiglio
altrui), la discordia (rifiuto di abbandonare i propri pareri in nome della comunione), la
contesa (polemica con il prossimo) e la disobbedienza (rifiuto di obbedire ai propri
superiori).
La pusillanimità, infine, è l’esatto contrario della presunzione, in quanto il pusillanime
rifiuta di tendere, per paura e viltà, a cose che sarebbero del tutto proporzionate alle sue
forze, pur essendo ardue. Ne rappresenta un emblematico esempio l’evangelico servo che
nasconde il talento sotto terra, misconoscendo le proprie capacità. Effetto molto comune
della pusillanimità è la pigrizia, unitamente all’accidia e all’ignavia. Come si evince dal
brano evangelico (e dai danteschi gironi infernali degli ignavi), non bisogna incautamente
e frettolosamente sottovalutare la portata di negatività che porta in sé questo vizio e la sua
capacità di compromettere l’eterna salvezza.
La seconda parte integrante della virtù cardinale della fortezza è la magnificenza, il cui
significato letterale è “fare qualcosa di grande”. Consiste nel progettare ed eseguire cose
grandi, sublimi e molto dispendiose, con splendidezza e ampiezza di disegno e proposito.
Ha per oggetto le grandi spese fatte in vista di grandi opere in onore di Dio ed è grande
virtù perché ha come presupposto una grande moderazione nell’attaccamento al denaro.
E’ il giusto mezzo tra i due eccessi (che ne rappresentano i vizi opposti) della grettezza,
che consiste nell’eccessiva preoccupazione di spendere poco in relazione alla grandezza
delle opere da compiere e dello sperpero, che oltrepassa, senza adeguata motivazione, la
giusta proporzione tra spesa ed opera da compiere.
Grandissima virtù è poi la pazienza, di cui la piccola Giacinta di Fatima ebbe a dire che è la
virtù che ci porta in cielo. Tende a regolare i moti della tristezza, che sono molto potenti
nel distogliere l’uomo dal perseguimento dei beni più grandi e di essa sono state date tre
bellissime definizioni: “volontaria e prolungata sopportazione di cose ardue e difficili,
motivata da un fine utile e onesto” (Cicerone); “sopportare con animo sereno i turbamenti
della tristezza che scoraggiano nella corsa verso il bene” (S. Agostino); “sopportare con
animo sereno i mali che ci vengono dagli altri” (S. Gregorio Magno). Dall’insieme di
queste tre definizioni, si evincono facilmente le caratteristiche di questa importantissima
virtù, grazie alla quale si accetta ogni dolore e privazione in vista dell’amore di Dio e del
godimento di Lui. Sono strettamente connesse alla pazienza anzitutto la longanimità, cioè
la capacità di attendere la dilazione nel tempo del bene sperato, che è il contrario del
volere tutto e subito; e la costanza, cioè la capacità di affrontare le fatiche necessarie per
compiere un’opera buona, superando tutte le difficoltà. San Tommaso afferma, assai
acutamente, che Dio è paziente con quelli che peccano per malizia (che, in quanto tali,
meriterebbero di essere subito castigati), mentre è longanime con quelli che peccano per
fragilità (cioè aspetta che prendano meglio coscienza del male commesso e che lavorino
per correggersi ed emendarsi).
L’ultima parte integrante della fortezza è la perseveranza, abito per mezzo del quale si
resiste al prolungamento nel tempo dello sforzo necessario a compiere il bene, sia negli atti
che in tutti gli abiti. L’oggetto proprio a cui si resiste con questa virtù è pertanto il tempo (a
differenza della costanza, il cui oggetto sono le difficoltà di altro genere incontrate
nell’esecuzione del bene), per mezzo della moderazione del timore di venir meno o di
stancarsi a causa del prolungarsi dello sforzo. Oltre alla grazia abituale (necessaria per
proporsi fermamente di perseverare nel bene), per essere perseveranti è necessario anche
un dono gratuito di Dio, necessario per stabilire immobilmente il proposito del libero
arbitrio. Per questo motivo il Concilio di Trento ha autorevolmente insegnato che la grazia
della perseveranza nella fede fino alla fine, deve essere chiesta con insistenza a Dio e il
santo stigmatizzato padre Pio da Pietrelcina non esitava a confessare candidamente che
ogni giorno non mancava di rivolgere a Dio la sua personale supplica per ottenere il santo
dono della perseveranza. I vizi opposti a questa virtù sono anzitutto la pertinacia, che deriva
etimologicamente da “impudenter tenax”, ossia tenace in modo impudente. La persona
pertinace o “pervicace”, è colui che vuole andare avanti fino alla fine e si incaponisce,
anche quando dovesse accorgersi che sta percorrendo una strada non buona. Si tratta in
sostanza della persistenza ostinata nella propria opinione personale, che è sempre figlia
primogenita della vanagloria e che conduce inevitabilmente alla rovina. Opposta alla
perseveranza per difetto è invece la mollezza, vizio per mezzo del quale si abbandona il
bene alla minima difficoltà, al minimo impulso di dolore o alla mancanza di qualche
soddisfazione. E’ la ripugnanza a sopportare la fatica e lo sforzo prolungato per conseguire
il bene e causa la rovina dell’anima, come non mancò di ricordarci nostro Signore nel suo
Vangelo: “solo chi persevera fino alla fine sarà salvato” (cf Mt 10,22 e 24,13).
9. LE VIRTÙ CARDINALI: LA TEMPERANZA
La quarta virtù cardinale è quella della temperanza. Secondo il grande dottore
sant’Agostino, è “la virtù che modera l’uso dei beni e dei piaceri sensibili, impedendo
l’affetto e il desiderio di essi per se stessi e servendosene nei limiti delle necessità della vita
presente”. Per questa virtù, che è l’ultima in ordine di importanza delle sette virtù
cristiane, sembra quanto mai adatto il celebre aforisma di Gesù, secondo cui “gli ultimi
saranno i primi e i primi saranno gli ultimi” (Lc 13,30). Come presto vedremo, infatti,
senza la presenza di questa virtù (e di tutte le sue parti e virtù connesse), diverrebbe
impossibile il compimento di qualunque atto virtuoso, oppure perderebbe larga parte
della sua bellezza e meritorietà. L’oggetto di questa virtù, infatti, è la rimozione degli
ostacoli a compiere il bene causati dalla presenza di beni dilettevoli che attraggono la
volontà, distogliendola dal bene da compiere. è dunque evidente che se la volontà
rimanesse irretita nel mare dei piaceri sensibili e dilettevoli, non compirebbe nessun atto di
virtù! Compito della temperanza, invece, è anzitutto frenare la forza attrattiva dei piaceri e
delle concupiscenze e, inoltre, regolare e moderare le tristezze e i dolori che nascono
dall’assenza di tali beni e piaceri sensibili.
I piaceri frenati da questa piccola ma grande virtù sono propriamente e principalmente
quelli del tatto e del gusto: piaceri sessuali, cibo e bevande e, secondariamente, quelli degli
altri sensi (vista, odorato e olfatto). Ovviamente è compito della temperanza non eliminare
del tutto il piacere naturalmente insito nei beni sensibili e dilettevoli (il gusto nel
mangiare, il piacere venereo, il diletto legato alle immagini, ai suoni, agli odori, etc.), ma
solo condurne a farne l’uso strettamente necessario per la vita presente, imponendo la
dovuta moderazione e impedendo di amare questi beni bassi come se fossero il fine ultimo
e il motivo principale della vita, che mai può coincidere con nessuna forma e nessun tipo
di piacere sensibile, con buona pace di Epicuro e di tutti i suoi (stolti, ma oggi assai
numerosi) seguaci.
Parti strettamente integranti della quarta virtù cardinale (la cui presenza, cioè, è necessaria
per l’esistenza stessa di questa virtù) sono la vergogna e l’onestà. La vergogna è da
intendersi non in maniera vaga o naturalistica, ma nel senso ben specifico del timore delle
cose turpi, indecenti e deplorevoli, che spinge ad aborrirle, detestarle e fuggirle. Porta
dunque ad astenersi da alcuni vizi direttamente opposti a questa virtù per la vergogna che
ne consegue, come la vergogna a mostrarsi ubriachi, ad esporre il proprio corpo alla vista
altrui, etc. La vergogna - che è propriamente una passione da indirizzare verso il suo
giusto oggetto - è funzionale alla temperanza; ovviamente quando è indirizzata, come
appena detto, verso il suo giusto oggetto, perché, per esempio, vergognarsi di Gesù o delle
sue parole (cf Lc 9,26), lungi dall’essere atto virtuoso, costituisce ben serio e riprovevole
peccato. L’onestà è invece l’amore verso tutto ciò che è bene e virtuoso, anzitutto dal punto
di vista intellettuale e spirituale, ma senza escludere il piano dell’utile e del dilettevole che,
in quanto rettamente considerati e moderatamente perseguiti, rientrano senz’altro nella
categoria del bene, quanto meno naturale. San Tommaso d’Aquino nota acutamente che
nell’onestà confluiscono, quanto a meno a livello pratico, il bene, il bene, l’utile e il
dilettevole, pur rimanendo tra loro, distinti (nel senso che non tutto ciò che è bello, utile o
piacevole per il singolo è, ipso facto, onesto, ma lo è solo quando è oggettivamente tale).
Il vizio formalmente opposto alla temperanza in quanto tale è l’intemperanza, cioè il
desiderio di godere di tutti i piaceri sensibili senza alcun freno. Si tratta di un vizio
volontario in senso forte e quasi assoluto e quindi i suoi atti, in quanto sempre pienamente
volontari, producono sempre danni gravi (un peccato produce tanto più male in chi lo
compie e anche al di fuori di lui, quanto più è volontario) e degradano l’uomo rendendolo
simile alle bestie (il cui unico diletto in questo mondo è godere dei piaceri sensibili, gli
unici proporzionati alla loro condizione e da esse fruibili). Oltre che degradanti gli atti
dell’intemperante sono anche sommamente disonoranti, perché i piaceri del tatto - si badi
che anche il gusto è una forma particolare di tatto - sono quelli che offuscano al massimo
la luce della ragione, rendendo l’uomo incapace di compiere qualsivoglia atto di virtù. In
questo senso l’intemperanza diventa sinonimo di turpitudine e conduce l’uomo al
degrado e alla dissolutezza.
Le parti integranti
La virtù cardinale della temperanza ha ben nove parti integranti: astinenza e digiuno,
sobrietà, castità, pudicizia, verginità, continenza, mansuetudine, clemenza, modestia (a
sua volta distinta in quattro parti). Cercheremo di vederne ciascuna nel dettaglio, con i
relativi vizi opposti.
L'astinenza, di cui il digiuno è l'atto principale, è la virtù in base alla quale, per fede e
amore di Dio, ci si astiene dai cibi nella giusta misura, tutelando in ogni caso la salute e i
reali bisogni personali (e anche tenendo conto delle esigenze delle persone con cui si
convive). Essi, infatti, ordinariamente allontanano l'uomo dai beni più elevati,
dall'attenzione alla vita spirituale e dalla vita interiore e diventano tanto più esigenti
quanto più vengono assecondati. In questo l'importanza della temperanza è davvero
fondamentale, perché tutti i beni sensibili hanno in sé lo stesso generale principio delle
sostanze stupefacenti: tendenza all'assuefazione e forte impulso nell'aumentare la dose.
Questo è evidentissimo per i piaceri venerei, per le bevande alcoliche, per i cibi ed anche
per ciò che cade sotto il senso della vista (dato che gli occhi non si saziano mai di guardare
e vedere cose sempre nuove e più intriganti). Senza il freno del digiuno e dell'astinenza -
che ordinariamente cade sulla carne ma può interessare qualunque bene sensibile oggetto
di rinuncia (tra i beni di oggi: la televisione, la musica, internet, Facebook, cinema, teatri,
etc.) - diventa estremamente difficile (se non praticamente quasi impossibile) avere e
conservare un minimo di vita interiore e tendere alla perfezione cristiana.
Quattro sono gli scopi principali del digiuno: reprimere le concupiscenze della carne (san
Girolamo sentenziava: "senza Cerere e Bacco, Venere si raffredda"), elevare l'anima a
contemplare le realtà sublimi; espiare e riparare i peccati; ottenere grazie dal cielo.
Per quanto riguarda le forme del digiuno, tra quelle più comuni e più attestate nella storia
e nella tradizione antica e recente della Chiesa, né possiamo individuare tre, che
elenchiamo in ordine di crescente "impegnatività" (mi si passi il termine). 1. Il digiuno
cosiddetto "canonico", attualmente obbligatorio (secondo la vigente disciplina
ecclesiastica) due volte all'anno (il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo) per tutti i
fedeli cattolici che abbiano un'età compresa tra i 18 e i 60 anni. Questo digiuno consiste
nella riduzione della colazione e di uno dei pasti principali (pranzo o cena), mentre l'altro
pasto può essere fatto o in maniera estremamente leggera (una porzione di minestra, una
ridotta porzione di pasta) oppure a pane e acqua. È facoltà della persona (ma non
obbligatorio) anche omettere del tutto tale pasto (uno dei due principali). Dal digiuno
canonico si può essere dispensati (per giusta causa) come da altre leggi ecclesiastiche (tipo
il digiuno eucaristico) dal parroco nella cui giurisdizione ci si trovi attualmente. Fuori dei
casi in cui è obbligatorio, ogni fedele, previo sempre consiglio di un prudente ed attento
confessore o direttore spirituale, può decidere di praticarlo anche in altri momenti e
circostanze. 2. Il digiuno "a pane e acqua". Molto più impegnativo del primo, consiste nel
cibarsi per 24 ore (da mezzanotte a mezzanotte) di solo pane e acqua. A quanto pare
sembra consentito, dato il carattere impegnativo di tale digiuno, assumere durante la
giornata qualche bevanda zuccherata (per esempio il caffè), specie se ciò fosse richiesto per
adempiere i propri doveri di stato o di lavoro. 3. Il digiuno rigoroso. Consiste nel limitarsi
per 24 ore ad assumere solo acqua (e eventualmente qualche caffè zuccherato, come nel
caso precedente). Tale digiuno richiede un ottimo stato di salute ed anche una condizione
fisica che consenta di sopportarlo. Si badi che sia il digiuno a pane e acqua che (a maggior
ragione) quello rigoroso richiedono, per ovvie ragioni di prudenza, di essere soggetti a
discernimento e autorizzazione di un prudente direttore spirituale o confessore che
conosca bene l'anima, le sue disposizioni, la sua vita interiore e le sue condizioni generali e
complessive di salute.
Affine all'astinenza è la virtù della sobrietà, in base alla quale si usano con moderazione il
vino e tutte le altre bevande inebrianti, perché il minimo eccesso in esse offusca o
addirittura toglie l'uso della ragione, mentre un loro uso moderato (soprattutto del vino)
può addirittura giovare alla salute. Non per nulla San Paolo in persona raccomanda al
vescovo san Timoteo di non bere solo acqua, ma anche un po' di vino per ragioni di salute
(cf 1Tm 5,23) e nella regola di san Benedetto da Norcia la misura di vino consentita ai
monaci nei pasti è fissata ad un quarto di litro, cioè due bicchieri scarsi (Regola, capitolo
XL, n. 3). È senz'altro lecito, anzi lodevole, fare qualche fioretto in questa materia, tipo
astenersi periodicamente, oppure in qualche giorno della settimana, in qualche pasto, da
vino e bevande inebrianti, ma, lo si ripeta, la virtù della sobrietà esige soltanto la
moderazione nel loro uso. Si badi tuttavia che, a detta di san Tommaso, l'uso del vino
diventa illecito per quattro motivi: quando è assunto senza la dovuta moderazione;
quando dovesse ingenerare scandalo negli altri (caso in cui, per la verità, vige la massima
di San Paolo di astenersi da qualunque cosa, anche lecita, per amore delle anime quando
da ciò dovesse nascere scandalo per i deboli - cf 1Cor 8,9); quando si fosse fatto voto di
non berlo; quando si avesse la tendenza naturale ad ubriacarsi facilmente. Come tutti i
beni leciti, è sempre possibile astenersi dal vino e dalle bevande per ragioni ascetiche
personali o per il desiderio di una maggiore perfezione, salvi però sempre i doveri di
custodire la salute del corpo, che va ordinariamente tutelata e salvaguardata proprio per
amore di Dio, al fine di rispettare il dono della vita ricevuto e di rimanere su questa terra a
servirlo e compiere la nostra missione fino a quando Egli vorrà.
In tempi relativamente recenti sono sorti nuovi tipi di piacere legati in qualche modo al
senso del gusto su cui è bene spendere qualche parola, necessariamente discutibile in
quanto, a conoscenza di chi scrive, non sembrano essersi ancora formati in campo morale
dei chiari e netti criteri di discernimento. Se, infatti, è assolutamente indubbio che l'uso di
tutte le sostanze stupefacenti (comprese le cosiddette droghe leggere) sia sempre di per se
stesso un peccato grave (a prescindere dalla frequenza e dalla quantità con cui siano
assunti), non appare ancora chiaramente definita la qualificazione morale del vizio del
fumo. Il catechismo della Chiesa cattolica (n. 2290) afferma genericamente che "la virtù
della temperanza dispone ad evitare ogni sorta di eccessi, l'abuso dei cibi, dell'alcool, del
tabacco e dei medicinali". Sembrerebbe, dunque, lecito l'uso del tabacco ed illecito solo il
suo abuso. Tuttavia la dizione "tabacco" è generica, perché il tabacco può essere usato, per
esempio, solo per essere odorato, oppure per essere fumato con la pipa oppure attraverso i
sigari, modalità - queste ultime - che non mettono gravemente a repentaglio la salute come
il fumo da sigaretta, che normalmente viene aspirato e produce notevoli danni all'apparato
respiratorio, circolatorio ed anche - almeno in parte - al sistema neurologico e nervoso. Su
questo tema, sono state fatte grandi campagne di informazione, sensibilizzazione e
dissuasione dalle legislazioni recenti occidentali. A fronte di questa forte e netta presa di
posizione "laica", è mancato a mio avviso, un approfondimento morale della materia del
fumo da sigaretta, perché per esso non può applicarsi lo stesso criterio del vino, perché
mentre quest'ultimo non solo non nuoce alla salute se assunto in quantità moderate, ma
può addirittura giovarle, lo stesso certamente non vale né per il fumo aspirato né per il
fumo passivo, che sempre e comunque nuoce sia alla salute del fumatore che a quella delle
persone a lui vicine. Alla luce di ciò, il fumo da sigaretta non sembrerebbe essere esente da
un'intrinseca peccaminosità (che peraltro andrebbe specificata in ordine alla sua gravità o
meno), per il fatto che rappresenta un attentato alla salute che è un dono di Dio a
salvaguardia della vita umana. In attesa che una più approfondita riflessione dei moralisti
nonché una presa di posizione del Magistero della Chiesa facciano maggiore luce
sull'argomento, è senza dubbio a mio avviso quanto meno preferibile e raccomandato che i
discepoli di Gesù rinuncino a questo vizio per amore suo e della vita che Egli ha loro
donato.
Tra le parti della temperanza rientrano anche le virtù ordinate alla regolazione dei piaceri
venerei, il cui vizio opposto, come è noto, è la lussuria. Si tratta delle distinte e
complementari virtù della castità, pudicizia e verginità, che ci accingiamo ad analizzare. Vi
rientrerebbe, per la verità, anche la continenza, quantunque san Tommaso (a mio avviso
assai opportunamente) la consideri anche in relazione alla capacità di dominare i moti
dell’ira, motivo per cui la tratteremo come ultimo punto.
Il termine castità deriva da “castigo”, che etimologicamente significa “rendere casto, puro”
(“castum agere”). Indica, infatti, il “castigo”, cioè il lavoro di controllo e di purificazione in
vista della corretta ordinazione, che la retta ragione infligge al desiderio dei piaceri
venerei, come farebbe un padre con un bambino capriccioso. I piaceri venerei, infatti, sono
i più intensi e violenti e quando si godono, soprattutto se in modo disordinato,
sconsiderato ed eccessivo, fanno perdere completamente all’uomo il dominio e la
padronanza di sé e dei suoi atti, avvicinando la sua condizione a quella degli animali che
sono completamente mossi e dominati dai loro istinti. Generalmente si identifica la castità
con la verginità o con la continenza: niente di più fuorviante, perché la castità consiste
nell’esercizio ordinato della sessualità in base al proprio stato di vita, a differenza della
verginità (che appunto è uno stato o condizione di vita) e della continenza (che è la
capacità di sapersi dominare). Esistono pertanto tre tipi di castità: anzitutto la castità
comune, che consiste nella doverosa rinuncia - obbligatoria per tutti i cristiani (a
qualunque stato di vita appartengano) - a tutte le forme illecite di ricerca del piacere
venereo: dagli atti impuri solitari (che sono sempre intrinsecamente e gravemente
disordinati), alle forme di esercizio contro natura della sessualità, quali la sodomia e
l’oralità (si badi: anche quando compiuti tra persone di sesso diverso sono atti che
rimangono sempre intrinsecamente e gravemente disordinati e ignominiosi), per terminare
con le forme di perversione e depravazione, che è preferibile omettere perfino di
nominare, stante il loro carattere assolutamente turpe, spregevole e degradante. Viene poi
la seconda forma di castità che è la vedovanza, ossia la rinuncia a contrarre un nuovo
matrimonio (cosa di per sé lecita) dopo la morte del coniuge, motivata sia dal desiderio di
serbare per l’eternità l’amore sponsale che da quello di rinunciare, in spirito di penitenza e
fedeltà al primo matrimonio, a godere anche dei piaceri venerei leciti, quali sarebbero
quelli vissuti all’interno di un nuovo matrimonio (ovviamente celebrato in forma
sacramentale). Infine c’è la castità coniugale, argomento di cui oggi poco si parla, con
gravissimo danno dei fedeli, che ordina la sessualità sponsale (di per sé lecita e degna) al
suo retto fine, che è quello unitivo insieme a quello procreativo. è in nome della castità
coniugale che nella coppia cristiana deve essere anzitutto bandita ogni forma di
contraccezione; ed è sempre in nome della castità coniugale, come insegna la Chiesa nella
Gaudium et Spes, che nell’esercizio degli atti coniugali i coniugi devono comportarsi in
modo squisitamente umano, di modo che essi siano vissuti come linguaggio di amore
tenero, sincero, intimo e delicato e non solo come ricerca di mutua soddisfazione di un
piacere egoistico. La morale cattolica classica ha approfondito non poco questa tematica,
dando anche dei chiari criteri di orientamento e discernimento ai pastori in cura di anime e
ai confessori, perché aiutassero i fedeli nel delicato compito di santificare questo aspetto
costitutivo della vita sponsale. Basta, tuttavia, riflettere sulla parola “umano”, per
comprendere molte cose senza bisogno di scendere, almeno in questa sede, in ulteriori
particolari. La tradizione della Chiesa ha unanimemente sottolineato l’importanza di
questo punto, che puntualmente san Tommaso d’Aquino ribadisce nel trattare questo
argomento. Gli atti coniugali devono, dunque, essere compiuti dignitosamente e
umanamente, perché anche quest’aspetto della vita umana - oggi per la verità idolatrato e
assolutizzato fino all’inverosimile - redento dalla grazia legata al sacramento del
matrimonio, possa essere indirizzato al fine retto di cooperare con Dio alla procreazione e
di alimentare, in modo umano e degno, l’affetto coniugale. I figli di Dio non hanno
bisogno di “educazione sessuale”, di cui oggi tanto si parla; ma piuttosto di “educazione
all’amore”, perché anche questa delicata materia, foriera spesso di tanto male e dolore e
che - come la Madonna rammentò a Fatima - è ingente “serbatoio” di anime per la
dannazione, tramite la grazia del sacramento del matrimonio possa concorrere
all’edificazione e alla gioia dei coniugi, a gloria di Dio e a scorno del nemico dell’umana
salute.
Distinta dalla castità, che coinvolge a differente titolo tutti i fedeli di Cristo a qualunque
condizione e stato di vita appartengono, è la verginità, che è uno stato di vita eccellente
che coinvolge solo alcuni dei membri del popolo santo di Dio e rappresenta la forma più
sublime di vita raggiungibile da un essere umano segnato dalla colpa d’origine. La
verginità consiste nella rinuncia totale all’esercizio dell’attività sessuale, anche nelle sue
forme buone o lecite, non certo per una sorta di idiosincrasia congenita verso questo
mondo o, peggio, di malata “sessuofobia”, ma in nome di un amore più grande e perfetto,
a detta di Gesù non da tutti comprensibile (cf Mt 19,11), che ha come destinatario diretto
Dio come sommamente amato e che apre le braccia in un casto abbraccio potenzialmente
capace di accogliere il mondo intero. L’amore verginale, da sempre considerato dalla
Chiesa una forma più perfetta ed eccellente di amore (cf LG 42), è stato, non senza ragione,
vissuto e praticato anzitutto da Gesù e Maria Santissima, nonché dal grande San
Giuseppe, indubbiamente il più santo tra le creature appartenenti alla razza umana. A
prescindere dalle possibili ulteriori e profonde motivazioni e implicazioni che tale scelta
potrebbe rivelare, è indubbio che l’amore verginale libera l’amore umano di ogni minimo
residuo - anche naturale e involontario - di egoismo (inesorabilmente insito, per forza di
cose, in ogni atto sessuale, anche se buono e lecito), sublimando la capacità umana di
amore ed elevandola ad un livello superiore (la vita verginale è chiamata, nella tradizione
della Chiesa, “vita angelica”), al contrario dell’abbrutimento ed abbassamento in cui la
lussuria sfrenata fa precipitare l’uomo, degradandolo non solo al livello degli animali
bruti, ma talora (e oggi, purtroppo, abbastanza spesso) addirittura al di sotto di esso. Si
tratta di una vocazione sublime, che deve continuare ad essere ritenuta in altissima
considerazione nella vita della Chiesa e che deve essere custodita e preservata educando
senza paura i giovani al valore della verginità, non avendo nessunissimo timore di opporsi
con forza, coraggio e sante motivazioni alla “sessolatria” dominante e ricordando che la
verginità è custodia non solo di un’eventuale futura scelta di vita consacrata, ma anche
della santità dei matrimoni, che hanno la pienezza della divina benedizione solo quando
entrambi gli sposi, dominandosi, sanno portare all’altare il giglio della verginità, donando
l’uno all’altra proprio questa perla preziosissima: l’illibatezza di un corpo inviolato,
illibato, incontaminato, che da nessun altro sarà conosciuto se non da chi diventerà per
sempre una cosa sola col coniuge. Cosa ci può essere di più bello, di più desiderabile, di
più autentico di un tale (vero) amore? Che prima di dire il “sì” per sempre, ha saputo
custodirlo con tanti “no”, anche a costo di non poche rinunce e sacrifici?
Diversa dalla verginità è la pudicizia, che consiste nella capacità di mantenere la decenza e
il pudore in tutti gli atti della persona, non solo in quelli a contenuto direttamente
sessuale, ma anche in tutti quelli che, in qualche modo evocano questo mondo. Il pudore
spinge a trattare il proprio corpo con “santità e rispetto” (1Ts 4,4) e non come oggetto da
ostentare per provocare, sedurre ed eccitare, come purtroppo ormai quasi dovunque
vediamo accadere. Sia la donna che l’uomo hanno il dovere di non indurre le altre persone
al peccato ostentando in maniera maliziosa il proprio corpo, evitando vesti indecenti o
inappropriate, così come qualunque artificio che in qualche modo possa suscitare o
risvegliare la concupiscenza nel prossimo. In questo campo ha grandissima importanza
l’educazione, tanto più quanto maggiormente i costumi contemporanei sono scivolati
verso un’immodestia pressoché generalizzata, che non poche volte scade in volgarità o
addirittura oscenità, che a loro volta sono tanto più gravi quanto più disinvoltamente e
provocatoriamente ostentate ai quattro venti. La Rivelazione, nel suo linguaggio parco e
sobrio, è tuttavia quanto mai chiara: dopo la colpa d’origine l’uomo e la donna,
accorgendosi di essere nudi e sapendo di non poter sopportare innocentemente tale vista,
si coprirono. Il che significa che senza (ovviamente) cadere in fanatismi o esagerazioni, in
inutili anacronismi o in estremismi controproducenti, è necessario riscoprire il rispetto del
proprio e dell’altrui corpo, una sana e santa eleganza nel vestirsi, il sentirsi a proprio agio
(da parte delle donne) nella loro sacrosanta e benedetta femminilità, il riscoprire la vera
dignità del corpo umano, tempio dello Spirito Santo e abitazione terrena dell’anima
immortale, destinato ad essere rivestito e coronato di gloria nella misura in cui in questa
vita avrà concorso alla santità di ogni singola persona, sarà stato custodito con dignità e
rispetto, sarà stato trampolino di elevazione, abbellimento e nobilitazione dell’uomo e non
strumento per la sua degradazione, avvilimento e abbassamento.
Prima di chiudere il discorso sulle virtù connesse con la temperanza legate alla purezza,
occorre spendere qualche parola sulla continenza, che, come già accennato, è un’unica
virtù con due campi di azione: la moderazione dei disordini della nostra concupiscenza e
il freno alle intemperanze dell’irascibilità. Dovremo anche dire qualcosa sulla modestia
(anch’essa virtù dai molti campi di azione), in relazione alla sua funzione di moderare
l’indecenza e l’inverecondia nel vestire.
Due sono dunque le accezioni comuni già del termine (prima ancora che della virtù)
“continenza”: capacità della volontà di dominare gli impulsi relativi ai piaceri sessuali (in
questo caso è una specie della virtù della castità), oppure controllo della volontà sui moti
impetuosi e violenti delle altre passioni (specie l’ira). Si esercita in tutti quegli atti
comunemente chiamati “freni inibitori”, che impediscono alle passioni di dominare sulla
ragione. La differenza che c’è tra la continenza e la temperanza è che quest’ultima
assoggetta totalmente l’appetito sensitivo, mentre la continenza ne frena solo il disordine e
la veemenza. Simile discorso vale per ciò che concerne il rapporto tra continenza e castità:
la castità, infatti, serve a indirizzare al bene tutto il patrimonio affettivo e corporeo
dell’essere umano, affinché serva al suo fine, che è sempre l’amore e, nel caso del
matrimonio, anche la cooperazione con Dio nella trasmissione della vita. La continenza,
invece, è il mero controllo delle pulsioni, che vengono frenate ed inibite quando esplodono
, semplicemente per evitare di cadere in qualche peccato mortale.
Leggermente più articolato, anche in considerazione dei tempi in cui viviamo, deve essere
il discorso sulla modestia nell’abbigliamento. Desidero cominciare citando le indicazioni
date già a suo tempo da sant’Ambrogio e fedelmente riportate da san Tommaso nella
sezione della Summa Theologiae dedicata a quest’argomento, che mi sembrano equilibrate
ed appropriate: “Abbigliamento non affettato, ma naturale; semplice e più trascurato che
ricercato; corredato di vesti non preziose e sgargianti, ma ordinarie: sicché non manchi
nulla all’onestà ed alla necessità e nulla venga aggiunto alla bellezza”. E’ affettato
l’abbigliamento derivante da cura eccessiva delle proprie vesti, oltre le necessità della cura
del decoro; in altre parole quando si esagera nella pur doverosa cura ad esso dovuto, tale
da ingenerare stili “caricati” o atti ad attirare l’attenzione, cosa che non è mai indice di
buon gusto (oltre che di santità). La semplicità implica il contentarsi di ciò che capita, salva
la doverosa e sobria bellezza ed eleganza, mentre è proprio della ricercatezza lo scegliere
accuratamente gli abiti da indossare, perdere molto tempo nello stabilire accoppiamenti,
fogge, colori, etc. L’ordinarietà non esagera nelle spese, acquistando vesti preziose o in
numero eccessivo e non attira l’attenzione indossandone di sgargianti. Si può essere
splendidamente vestiti anche con abiti non di lusso, tenendo sempre presenti i canoni
della bellezza santa, che sono sintetizzabili nello slogan: modestia ed eleganza. Per le
donne andrebbe curata la femminilità, mentre per gli uomini una certa cura e dignità (cose
in cui tendono talora ad essere mancanti). In altre parole: per osservare la modestia
nell’abbigliamento è necessario non eccedere i limiti del necessario, sia nella quantità di
vesti posseduti, sia nella qualità di esse, sia infine nell’eccesso di cura nello sceglierle ed
indossarle; non andare in niente al di sopra dell’onesto (che è di per sé bello), in modo tale
che nulla venga aggiunto alla bellezza, che deve rimanere il più possibile “naturale”.
Evidentemente grande deve essere il discernimento su questa materia e non si possono
dare norme o schemi rigidi: lo stato di vita, la condizione di vita, il tipo di lavoro
esercitato, gli ambienti da frequentare, le altre circostanze sono sempre fattori da
considerare quando si deve valutare come vestirsi. Due sono i tipi di vizi opposti (per
eccesso e per difetto), entrambi catalogabili sotto il vizio dell’ostentazione: per quanto
riguarda l’eccesso ricadono sotto la fattispecie dell’ostentazione sia l’uso di vesti preziose
superiori alla propria condizione, sia l’uso di vesti troppo raffinate e ricercate, sia la troppa
sollecitudine nella cura del vestiario (tutti eccessi causati dalla vanagloria). In difetto si
danno i casi di chi trascura la cura e l’attenzione necessarie a conservare il decoro
(“trasandatezza”), oppure di chi, mediante un atteggiamento affettato, simula con vesti
estremamente misere una parvenza esteriore di inopportuna e appariscente santità: difetti
causati dall’indolenza il primo e dalla vanagloria il secondo.
Riguardo il trucco e le acconciature esterne delle donne, i santi Padri (S. Agostino, S.
Cipriano e S. Ambrogio) davano indicazioni molto severe. S. Tommaso opta per una
maggiore moderazione (a mio avviso condivisibile), consentendo alle donne sposate di
curare la bellezza esteriore, avendo però come fine quello di piacere al marito. Il campo
della vanità, purtroppo, che oggi scende spessissimo al basso livello dell’inverecondia e,
spesso, anche della pubblica oscenità, è certamente una delle “croci" dell’universo
femminile. Bisogna a mio avviso stare attenti a non esagerare in nessun modo, avendo
attenzione alle usanze e alle circostanze concrete di tempo e di luogo, evitando
comportamenti estremi che possano apparire come anacronistici o fuori luogo. Il
discernimento è sempre la regola principale! Alcuni punti però sono da tenere presenti: la
cura eccessiva del proprio corpo finalizzata a suscitare l’altrui sensualità è ovviamente
peccaminosa; l’uso eccessivo di gioielli e oggetti preziosi è certamente contrario alla
modestia (e, in qualche caso, anche alla giustizia); l’abuso, l’eccesso o il cattivo gusto
nell’uso dei cosmetici è una forma di alterazione vana della bellezza naturale, su cui i
Padri sono molto severi; è bene sempre farne un uso moderato, evitando tinte e
colorazioni troppo forti, ma preferendo delicatezza, sobrietà e, mi si lasci dire, un pochino
di “classe”, oggi, ahimè, spesso latente.
Abbiamo parlato della modestia nell’abbigliamento. Questa bella e delicata virtù, ha in
verità altre tre specie particolari, che è bene trattare subito e insieme: l’umiltà, la studiosità
e la modestia negli atteggiamenti del corpo e nel gioco (di cui tratteremo però nel
prossimo capitolo).
Dovrebbe ormai essere chiaro che tutto ciò che ha a che fare con la virtù della temperanza
è sempre identificabile con una parola d’ordine fondamentale: “moderazione”. La
temperanza e tutte le sue parti e virtù connesse hanno lo scopo di abilitare la persona al
dominio di sé in tutte le sue forme e ad evitare ogni eccesso in ogni sua possibile
manifestazione.
L’umiltà modera l’amore disordinato di sé e la brama della propria eccellenza, che dà
origine a molteplici e insopportabili comportamenti assai comuni ai figli degli uomini. Il
temine “umiltà” deriva da “humi acclinis” (letteralmente: “giacente per terra”). E’ la virtù
che porta ad avere l’esatta conoscenza di se stessi, permettendo all’uomo di conoscere la
propria miseria in quanto a lui appartiene il male e tutti i difetti, mentre sempre e solo da
Dio e grazie a Dio riceve ogni tipo di bene (di natura, di grazia e di gloria). Questa
conoscenza dovrebbe sortire l’effetto di impedirgli di innalzarsi al di sopra di ciò che gli
spetta. L’umiltà è dunque anzitutto un atteggiamento interiore di verità, che porta
naturalmente all’adorazione di Dio, alla gratitudine, alla prosternazione dinanzi a Lui ed
al (sano) disprezzo di sé e del mondo; porta inoltre a ritenersi inferiore agli altri, non certo
attribuendosi peccati che non si hanno o negando di avere certe grazie e doni
effettivamente posseduti (atteggiamenti propri della falsa umiltà), ma riferendo tutto il
bene che si è, che si ha e che si fa a Dio solo, considerando bene tutto il male presente in se
stessi, pensando che il prossimo ha molto bene nascosto che egli non ha, mentre in lui c’è
del male che il prossimo non ha, etc. E’ una virtù fondamentale perché rimuove la
superbia (amore della propria grandezza e della grandezza mondana) che è l’ostacolo
principale all’apertura verso i beni celesti e quindi alla salvezza.
Poco conosciuta, ma molto importante è anche la virtù della studiosità, per mezzo della
quale l’uomo si applica a conoscere ciò che deve nel modo e nella misura consentiti,
frenando gli eccessi insiti nel desiderio naturale di conoscenza e vincendo la repulsione
naturale alla fatica necessaria per acquisirla. La conoscenza della verità è di per sé buona,
ma può essere cattiva nel fine (per vantarsi o per peccare) o nei modi (curiosità). Se il
desiderio di conoscenza diventa smania mossa dal desiderio di primeggiare e dominare o,
peggio, di peccare; se si vogliono conoscere cose proibite (il futuro, la magia, la condizione
dei morti, etc.); se si preferisce conoscere cose inutili o meno utili; se si studiano le realtà
create come fini, senza indirizzarle ed ordinarle alla conoscenza ed alla gloria di Dio; se
infine si cerca di conoscere cose superiori al proprio ingegno (presunzione), si incorre nel
vizio della curiosità nella conoscenza intellettuale. Anche nel campo della conoscenza
sensitiva si hanno tuttavia due forme viziose di curiosità (che coincidono con quella che la
Sacra Scrittura chiama “concupiscenza degli occhi”): inutilità dell’oggetto del conoscere,
che anzi distoglie da altre occupazioni (come esempio attuale si potrebbe portare il caso di
chi abusa della televisione guardando programmi frivoli); oppure la malizia intrinseca
dell’oggetto che si vuole conoscere (per esempio il desiderio di assistere a spettacoli del
tutto immorali, oppure l’interessamento ai fatti altrui, che è causa della mormorazione e
della maldicenza). Quando invece ci si preoccupasse di conoscere cose di per sé inutili ma
per fini buoni (come per esempio provvedere ai propri bisogni materiali oppure conoscere
la verità) non solo non ci sarebbe alcun vizio, ma si tornerebbe nell’ambito della virtù. La
cultura e la conoscenza di molte cose, come è evidente, non sempre è sinonimo di vita
virtuosa né conferisce alcun attestato di virtù ad alcuna persona colta e istruita, qualora le
motivazioni che l’avessero spinta ad acquisirla non fossero, come appena visto, buone,
lecite e oneste.
Concludiamo la lunga disanima delle virtù cardinali e della temperanza in particolare
trattando della modestia negli atteggiamenti del corpo e nel gioco.
Abbiamo ampiamente avuto modo di rilevare che quando si parla di temperanza si ha a
che fare con una virtù che abilita l’uomo al controllo integrale di sé. Il corpo è
indubbiamente una dimensione importantissima della vita umana, perché è da esso e
attraverso di esso, che traspare l’anima di una persona. I gesti del corpo, se osservati con
attenzione, sono molto significativi ed espressivi dello stato emotivo, sentimentale ed
anche spirituale della persona. Similmente, si dice come detto popolare che al tavolo da
gioco si conosce la signorilità o comunque la qualità di una persona, perché anche in
questa dimensione, per quanto ristretta e circoscritta della vita terrena, molto traspare di
quello che c’è nel cuore dell’uomo. Vediamo dunque cosa la tradizione cattolica ha
evidenziato circa questi ambiti e la modestia, ossia la moderazione e il controllo, che in essi
si deve osservare.
La modestia negli atteggiamenti esterni del corpo comprende molte cose: il tono della
voce; i gesti che si fanno; come si sta seduti e in piedi; il modo di camminare; come si
mangia e si sta a tavola; come si sta nei vari luoghi (compostezza adatta al luogo). Tutte
queste cose rientrano nella categoria generale del decoro, che è sempre da valutare anche
in relazione alle circostanze di persona e di luogo. Fa parte della modestia negli
atteggiamenti esterni anche la cura dell’ordine esterno (della propria persona e dei luoghi)
nonché il saper bene ordinare le cose da fare (nella giornata, in un certo periodo) ed in
generale le modalità ordinate di procedere nel lavoro e nelle occupazioni. La Sacra
Scrittura ammonisce dal considerare queste cose, come si potrebbe superficialmente
pensare di primo acchito, meri aspetti esteriori e del tutto irrilevanti. Anzi li riconosce
come atteggiamenti che rivelano l’interno di una persona (Sir 19,26: “Dall’aspetto si
conosce l’uomo, e dal volto si conosce l’uomo di senno”). La buona educazione (che
integra buona parte del decoro), oggi davvero smarrita da molte parti, non è un mero e
freddo elenco di regole esteriori da osservare per essere ammessi dentro ambienti di élite o
salotti di alto rango. Si tratta di una manifestazione esteriore dell’ordine interno che vive
un’anima, quando sta in grazia, si sforza di fuggire il peccato e di crescere nelle virtù In
questo senso l’ordine esteriore è, sotto certi punti di vista, manifestazione dell’ordine
interiore, mentre, sotto altri aspetti, ne costituisce la salvaguardia e la garanzia. Dio è
bellezza assoluta e non esiste autentica bellezza senza ordine e misura. L’eccesso nel
troppo o nel troppo poco è sempre biasimevole perché è la negazione della virtù, che è
sempre il giusto mezzo tra questi due estremi. Vizi opposti al decoro sono la
maleducazione, la mancanza di cura del decoro e l’irriverenza verso luoghi e persone.
La modestia nel gioco coincide con l’eutrapelia (o giovialità) e consiste nella capacità di
dare all’anima la possibilità di riposare un poco attraverso distrazioni lecite regolando: il
tempo da impiegare; la liceità dei giochi e delle conversazioni; le modalità, che non
devono mai portare l’anima a perdere del tutto la sua gravità ed austerità. E’ possibile
anche scherzare, salvo sempre il divieto assoluto di scadere in trivialità e turpitudini. Si
può peccare sia per eccesso come nel caso di giochi illeciti, ovvero compiuti fuori delle
debite circostanze di tempo, luogo e persona, oppure desiderati con veemenza di affetto
fino al punto di agire contro la legge di Dio e della Chiesa (in questi casi si tratta, a detta di
san Tommaso d’Aquino, di peccati mortali); oppure per difetto, come nel caso dei duri (o
intrattabili) e maleducati (o volgari), i quali non dicono mai nulla di ridicolo e non lo
ammettono negli altri. E’ ovviamente più grave il peccato per eccesso, ma anche
un’eccessiva seriosità, austerità o tristezza (per la verità oggi assai poco rappresentate)
sono da bandire e da evitare. La gioia, la vera gioia, il secondo frutto dello Spirito Santo, è
infatti uno dei distintivi più grandi dell’autenticità del cammino che si sta vivendo! Dio è
felicità somma e perfetta beatitudine e la letizia umana (che ne è una parziale ed
imperfetta condivisione) è un’ottima spia dello stato di grazia. Non si tratta della stolta
letizia o della sciocca allegria dei peccatori, che mangiano, bevono e ridono sguaiatamente;
ma di quella profonda e serena contentezza che traspare dal tratto e dagli occhi dei figli di
Dio e che non è offuscata né cancellata nemmeno da prove e tribolazioni. La sua origine,
infatti, è la consonanza con i divini voleri e il suo termine l’eterna beatitudine. I romani
sentenziavano con piena verità: “risus abundat in ore stultorum”, io mi permetto di chiosare
la frase aggiungendo: “sorrisus abundat in ore sanctorum”. Proprio come sembra aver detto
la Madonna in un celeste messaggio: “i miei figli sono gioia”! Così possa sempre essere per
tutti gli autentici discepoli di Gesù!