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SE DIO ESISTE, PERCHÉ IL MALE?

Il problema della teodicea

Uno degli argomenti più forti nel corso della storia oltre che all’esistenza di Dio è quello della
presenza del male nel mondo.
Autori come Mackie, Adam, sostenevano che l’esistenza di Dio, onnipotente e buono, è in antitesi e
contraddetta dall’esistenza del male.
Con “Teodicea” si è indicata quella riflessione filosofica e teologica in cui si pone proprio il
problema di creare quel cuscinetto di compatibilità tra l’esistenza di un Dio, onnipotente e buono,
con la presenza del male nel mondo.
Etimologicamente il termine Teodicea ci aiuta a comprendere meglio:(Theos, Dio – dike,giustizia);
è quindi il tentativo di “rendere giustizia” a Dio definendolo e assolvendolo dall’accusa di essere
responsabile del male nel mondo. Tentativo che ha radici antiche nelle riflessioni filosofiche e
teologiche e che ancora necessita di accortezza perché la contraddizione logica fra esistenza e quella
del male non è proprio un dato di evidenza immediata.
Tale evidenza non lo è sicuramente per la coscienza contemporanea, come dimostrato, limitandoci
alla tradizione dell’occidente di molti autori ebraici ( Jonás e Fackenheim ) che hanno provato di
dare un senso all’orrore dei campi di concentramento con la fede di Dio.
In ambito cristiano già in San Paolo troviamo tale domanda: (Rm, 3,5) “forse è ingiusto Dio quando
riversa su di noi la sua ira? Ma con il termine ingiusto in parallelo con giusto capiamo come
nell’antichità il termine “teodicea” sia stato utilizzato come sinonimo di teologia naturale, cioè di
discorso giusto o adeguato su Dio.
Il problema della teodicea è sembrato perdere nel corso dell’epoca moderna, specialmente con
l’entrata in crisi con la crisi della metafisica.
Vista la difficoltà nel trovare un assunto molti filosofi, a partire da Kant, hanno preferito non
affrontare.
Tutto ciò ha portato la stessa riflessione teologica ad essere influenzata, portando a inclinarsi sulla
posizione di Kreiner che ha definito la reductio in mysterium. Facendo leva sull’incompatibilità di
Dio come un incentivo alla fede, riducendo il problema della teodicea come qualcosa di insolubile
dal punto di vista teorico.
Questa posizione è già insoddisfacente per la teologia perché di fatto si va verso il fideismo. Stessa
posizione per la filosofia della religione.
Da una posizione simile si può evincere l’indicazione (Kreiner Dio nel dolore. Sulla validità degli
argomenti della teodicea) ad assegnare alla teodicea un compito più modesto “non quello di
giustificare Dio, ma di giustificare la credenza in Dio” di fronte alla tesi della sua incompatibilità
con il male.
Più che elaborare argomenti “difensivi”su Dio, la teodicea può elaborare argomenti che tentano di
rendere plausibile e razionale la credenza in Dio.
Anche in ambito filosofico la crisi della teodicea in epoca contemporanea può servire non per
abbandonare o far finta del problema, ma adottare strategie di soluzioni magari meno ambiziose.
In ambito angloamericano abbiamo discussioni a riguardo che hanno portato a due tipi di risposta
alle tesi dell’ ateismo che prendono spunto dall’esistenza del male:
1) La difesa: sostenendo che Dio abbia delle ragioni per permettere il male senza specificare
la loro natura
2) La teodicea: offrire una spiegazione delle ragioni per le quali Dio permette il male.

Alcuni ritengono che sia meglio fermarsi alla prima forma di risposta per garantire la credenza in
Dio, altri la seconda ad una teodicea vera e propria; senza pero quest’ultimi da sollevare la pretesa
di elaborare una teoria vera e propria.
Come è ovvio che sia il problema della teodicea sta in continuità con il tema dell’esistenza e della
natura di Dio.

Riferimenti storico-concettuali

Come accennato precedentemente il problema della teodicea ha radici antiche che hanno sviluppato
modelli di teodicea differenti nei secoli.
I modelli che affronteremo hanno caratterizzato le diverse epoche della cultura occidentale e che
sono centrali nella discussione attuale.
Teodicea elaborata dal pensiero greco-ellenistico, quella cristiana e infine quella età moderna.

Le origini del problema della teodicea nella filosofia greca antica vanno viste nel contesto del
processo di razionalizzazione e di eticizzazione dell’immagine del divino che si sviluppa dal VI sec.
A.C.
Nei poemi omerici è possibile rintracciare questo processo di razionalizzazione/eticizzazione.
Per esempio nel prologo di Zeus dove si evince come il male sofferto dagli uomini non è imputabile
agli dei, ma alle colpe degli uomini. (riferimento a Egisto, che sedotta da Clitemnestra, uccide
Agamennone e, a sua volta viene ucciso da figlio Oreste).
Al contrario nell’Iliade, la figura di Zeus che attinge da due orci, uno ricolmo di beni e l’altro di
mali, il cui contenuto viene mescolato e dato agli uomini; ci fa intendere come la divinità è ancora
concepita come moralmente ambigua.
Questa ambiguità connota la fase successiva del pensiero greco come dipenda dalla centralità
dell’idea del destino (moira) come legge cosmica che regola gli accadimenti del mondo senza
riguardo alla bontà e alla malvagità delle azioni umani.

Nietzsche trae alimento da questa concezione per arrivare a dire: “per l’uomo sarebbe stato meglio
non essere mai nato”
Nel frammento di Anassimandro nel quale si afferma che “da quelle cose dalle quali viene per gli
essere l’origine, nel quale si verifica anche la distruzione secondo necessità; esse pagano le une alle
altre la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.
Questo frammento, secondo una interpretazione, afferma che le cose portano sin dalla nascita una
colpa originaria che devono scontare; un’altra interpretazione potrebbe essere di “una legge
cosmica” che determina ciò che accade secondo giustizia e dove è stabilita un’identità tra la
necessità- azione del principio divino (apeiron)- e la natura. [ prima forma di teodicea filosofica ].
Arriviamo poi alla filosofia platonica e con essa anche un più maturo problema di teodicea, proprio
perché si supera il problema di ambiguità morale del divino come appena esposto.
Platone (nella Repubblica) si pone il problema di contornare i modelli di una descrizione del divino
che siano corrispondente alla vera natura di Dio e arriva ad affermare che “il bene non è causa di
tutte le cose, ma è causa delle cose buone, invece dei mali non è causa”.
Possiamo semplificare che Platone afferma la tesi della perfezione del divino. “ dio e ciò che
riguarda la divinità sono realtà in assoluto precette”
La domanda allora è la seguente:
Se la causa del male non la si può attribuire a Dio, perché gli uomini soffrono?
2 sono le risposte di Platone:
1. Gli uomini sono responsabili dei mali. Dio è innocente
2. Come seconda risposta mira a dare una soluzione al problema perché i mali colpiscono
anche i virtuosi, facendo leva sulla natura apparente e momentanea del male sofferto e
soprattutto sulla sua utilità alla virtù stessa.
Il male non può scomparire o morire perché deve esserci qualcosa di contrapposto e contrario al
bene; non può essere presente fra gli dei, ma deve per forza stare sulla terra accanto alla nostra
natura mortale. Una “necessità” del male sottende che il male non è comprensibile sotto un profilo
etico bensì richieda una spiegazione di tipo metafisico.
In Platone possiamo trovare una concezione bipolare della metafisica che vede nell’Uno il
principio dell’ordine e del bene, e nella diade quello del disordine e del male. Dove troviamo
molteplicità s’incontra anche la mancanza di perfezione e quindi il MALE.
La soluzione a cui Platone si avvicina sembra quella appunto del dualismo in cui il principio del
bene è limitato nella sua azione da quello del male.

Nello stoicismo, che rappresenta il culmine della razionalizzazione e dell’eticizzazione del divino
nella cultura greca, questa impostazione è decisamente superata. Qui l’ananke non è qualcosa di
opposto al divino, ma identitificata con la disposizione universale del Logos che pervade tutto il
cosmo. Il fato è una struttura razionalmente benefica e il cosmo perfezione.
Con queste basi è scontata la soluzione al problema del male naturale: il male naturale non esiste.
Si cita Crisippo che usa come esempio gli insetti; essi rappresentano un pungolo contro la pigrizia.
In Crisippo si riconosce l’ineliminabilità dei mali come un aspetto che non si può giustificare.

In questa concezione anche il male morale va in una direzione semplicistica, ovvero:


il male morale esiste soltanto nella misura in cui l’uomo agisce contro natura, contro la recta ratio.
Ma anche in questo caso tale concezione da sola non basta perché lascia il fronte aperto sulla libertà
dell’uomo di agire contro natura oppure abbia necessità nel farlo.
Crisippo con la teoria delle azioni “co-destinate” tenta una conciliazione tra destino e libertà di
scelta, mediante l’impegnò da parte del soggetto nella realizzare l’evento. In questo senso egli
distingue tra cause promotrici, dove l’uomo non può nulla e cause autodeterminanti, dipendenti dal
soggetto.
La soluzione platonica come quella degli stoici, nella cultura greca ritroviamo però profondo
scetticismo proprio confronti del tentativo di dare una risposta plausibile al problema della teodicea.
La più famosa la troviamo nel “tetralemma” di Epicuro (in Lattanzio, De ira Dei):

“la divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e
può.

- Se vuole e non può. Potremmo ammettere che sia impotente. Entreremmo in contrasto con la
nozione di divinità stessa.
- Se può e non vuole. Ci troviamo difronte a un dio invidioso. Sarebbe estraneo all’essenza
divina
- Se non vuole e non può. Sarebbe una divinità sia impotente che invidiosa.
- Se vuole e può. La sola cosa che conviene alla sua essenza. Eccoci difronte alla domanda:
da dove provengono i mali e perché non li abolisce?.

La soluzione del dualismo è tornata prepotentemente con l’avvento dell’era cristiana, nello
gnosticismo prima, dove l’opposizione metafisica tra un un principio d’origine buono e uno cattivo
in Marcione (diteismo) offre una spiegazione al male naturale e all’inclinazione dell’uomo verso il
male morale. Proprio l’avvento dello gnosticismo si ha l’ultima elaborazione della filosofia greca
nell’ambito della teodicea: Plotino e del neoplatonismo di Proclo.
Sia in Plotino che in Proclo troviamo alcuni elementi essenziali della teodicea platonica e stoica con
l’aggiunta di una concezione della provvidenza divina che contrasta volutamente con il significato
personalistico tipico del cristianesimo. Dobbiamo sottolineare che affiora una rilevante elemento di
novità: male come “mancanza completa del bene”, che sarà poi sviluppato dalla teodicea cristina.

In Proclo troviamo l’idea di male come “pseudo-esistenza”. Egli contro lo gnosticismo rifiuta di
incentivare il male come materia e nega in generale che il male sia una sostanza. Se si dovesse
identificare il male con la materia “delle due l’una: o si deve considerare il bene causa del male
oppure si deve mettere due diversi principi degli enti. O il bene, che causa del reale, è anche causa
della materia, e quindi del male (contraddittorio pensarlo) oppure la soluzione è quella del dualismo
(contraddittorio). Unica soluzione dunque: il male come privazione di bene!

Secondo Aristotele la privazione è il contrario della perfezione. Esempio l’uomo cieco e la talpa
sono privi di vista, ma in maniera diversa: la talpa è priva di vista rispetto al genere animale, mentre
l’uomo si dice privo di vista in sé.

La tesi che definisce il male come la privazione di bene significa quindi che il male ha la natura al
contrario e, non potrà mai essere totale o assoluto, perché partecipa della potenza e dell’attività del
bene.
Per Proclo, la partecipazione al bene fa sì che il male debba essere visto come bene. “Tutto esiste in
virtù del bene, compreso lo stesso male” e che gli dei creano anche il male ma in quanto bene. Si
banalizza dunque il male privandolo non soltanto di una natura, ma identificandolo con il bene.
Un’affermazione convinta della provvidenza divina e di una negazione dell’ ambiguità morale del
divino.
La concezione neoplatonica del male come difetto di bene.
Tale concezione la si ritrova nella teologia cristiana, perché coerente con alcuni suoi assunti di base.
Il cristianesimo, dal punto di vista storico-religioso, può essere considerato come il culmine del
processo di eticizzazione dell’idea di Dio che Dio è Amore.
Con Dio è amore è definitivamente superato l’elemento di ambiguità morale della concezione greca
del divino, così come l’impressione di un’ arbitrarietà morale nell’ agire storico di Dio; l’assoluta
bontà di Dio si combina con l’ onnipotenza che è un elemento fondante e strutturale del
monoteismo ebraico, il quale dichiara la vacuità delle altre divinità di fronte al Dio unico (Esodo).
Questa combinazione (bontà e onnipotenza) trova un espressione nella dottrina della creazione del
mondo dal nulla; Dio ha creato il mondo non per intima necessità ma in virtù di un atto libero che
da luogo a un inizio assoluto.
Cade così la concezione di una materia co-eterna a Dio e si afferma quella di una potenza assoluta
di Dio sul mondo.
In Genesi è esplicito affermare la bontà dell’intera creazione, nel nuovo testamento San Paolo 1 Tm
4,4: “ogni cosa creata da Dio è buona”.

La domanda che nasce e che assume contorni ancora più drammatici rispetto alla filosofia greca: “si
Deus est, unde mala?”
Come è possibile che nel mondo buono creato da un Dio assolutamente buono e onnipotente faccia
la comparsa del male?

La teodicea cristiana ha sviluppato grazie alla teologia per esempio di Agostino e Tommaso
d’Aquino la risposta alla domanda.
 Agostino: concezione del male come privazione del bene (antidualistico e antimanicheo)
Nelle Confessioni egli afferma “ tutto ciò che esiste è buono, e il male, non è una sostanza” perché
se fosse una sostanza sarebbe buono.
Il male è dunque, una grandezza tanto morale quanto naturale, ma non possiede una consistenza
ontologica.
Come spiegare questa esistenza? Abbiamo due fasi in Agostino.
Nella prima fase fa propri gli argomenti della teodicea platonica e stoica e pensa che il male come
un elemento necessario per l’ordine del mondo
Nella seconda fase, che potremmo chiamarla come quella più matura, collega il tema del male
naturale a quello del male morale.
Nel De libero arbitrio ci dice che il male commesso dall’uomo consiste nell’introduzione del
disordine sulla natura ordinata di Dio. L’uomo non suscita affatto il male come realtà positiva, ma
semplicemente usa i beni di cui è circondato in modo malvagio, spinto dalla concupiscenza dei beni
finiti, la quale a sua volta trova la propria radice nell’amore di sé.
Il male consiste nell’uso cattivo del bene. Diminuzione del bene che tende fino al nulla assoluto.
La trasgressione di Adamo nell’Eden è il gesto per eccellenza che segna l’entrata nella natura del
male nella forma della morte e della sofferenza. La scelta del male operata dall’uomo ( Città di Dio)
precede da quella degli angeli. Tale scelta consiste nel fatto che non esiste alcunché che precede la
volontà cattiva, bensì questa è l’origine esclusiva dell’azione cattiva.
Per Agostino la natura umana è mutevole essendo stata creata dal nulla; nulla non è sinonimo di
negativo ma inevitabile limitazione.Tale limitazione rappresenta la condizione di possibilità del
male, che si attualizza per mezzo di un atto specifico, come quello fatto dagli angeli e da Adamo, i
quali subiscono la forza dei attrazione del nulla.
Agostino non rinuncia del tutto a utilizzare argomenti platonici e stoici per giustificare il male
naturale. Nella Città di Dio per esempio egli afferma:
 “Come accade per un quadro con un colore scuro dipinto nel posto giusto, così l’universo,
se lo si potesse contemplare nel suo insieme, risulta bello anche con i peccatori”
La si può chiamare la soluzione estetica al problema della teodicea. Per giustificare il male morale
egli ricorre alla tesi il male come un castigo per il malvagio, la sofferenza provocata dal male come
debito da riscuotere nell’eternità.
Idea di fondo è la seguente: Dio ha giudicato che fosse meglio tirar fuori del bene dal male che
impedire al male di esistere.

Altro tema che affronta il Vescovo di Ippona riguardo alla sofferenza dei soggetti che non hanno
ancora responsabilità morale: i bambini. Agostino reclina affidando la risposta al mistero divino sul
perché avviene. la formalizzazione successiva della dottrina del peccato originale porta Agostino a
vedere già nei bambini gli effetti della colpa originaria; questo, oltre a metterlo di fronte
all’alternativa tra traducianesimo e creazionismo, lo ha spinto a un ridimensionamento del libero
arbitrio. Tale ridimensionamento lo portò troppo vicino alla dottrina della predestinazione. Per
quanto non abbia mai sostenuto l’idea di doppia predestinazione, ne ha rinunciato ad assegnare al
male morale una finalità dimostrativa del bene che risulta indipendente dalla colpa umana e perciò a
pensare Dio il vero artefice del male.

 Tommaso d’Aquino: riprende l’idea della natura privativa del male. Intende il male come
privazione di un bene dovuto: “il male altro non è che la privazione della privazione
dovuta”, “il male non è altro che la privazione di ciò che una cosa è fatta per avere e deve
avere”

Tommaso distingue tra il male come “privazione” di un bene e il male come “negazione” di un
bene.
La negazione è il risvolto della perfezione ontologica che voluta da Dio affinché il mondo contenga
in sé tutte le gradazioni del bene; Dio è la causa dell’ordine del mondo che comprende in sé la
“corruptio rerum”, ha luogo per accidens.
Esempio: il fuoco che serve a molti scopi buoni per l’uomo, può anche distruggere.
Nella trattazione del male morale la nozione guida è “permissione”. Dio vuole che i mali esistono,
ma anche che i mali non esistano; vuole permettere che esistano i mali e questo è bene.
Tale affermazione significa affermare che Dio permettendo il male egli non è l’artefice. Tommaso
distingue tra “l’atto di peccare” e “ il peccato stesso” quest’ultimo come violazione dell’ordine
ontologico cui l’uomo è artefice. Dio muove l’azione umana esclusivamente al bene, ma l’uomo
può dirigersi verso il male.
Quindi: il male di cui l’uomo è responsabile è così permesso da Dio, ma non causato da lui.
Questo permettere è in vista di un bene maggiore, cioè ordinando questo male a un bene maggiore.
Teleologicamente il male ordinato al bene.
Tommaso nega che l’esistenza del male valga come argomento contro l’esistenza di Dio.
Egli ribalta i termini in questione deducendo dall’esigenza del male proprio l’esistenza di Dio!!

Tommaso come Agostino fanno leva l’intera costruzione della teodicea che il male naturale e quello
morale in quanto previsti da Dio o come conseguenza accidentali o permessi in vista di un bene
maggiore abbiano una funzione positiva.
Pur essendo il male assurdo in sé, non è possibile parlare di assurdità del male nel mondo, poiché
qualsiasi male non si sottrae al disegno provvidenziale di Dio.

La concezione agostiniana-tomista della teodicea che ha come capisaldi nella concezione privativa
del male che esclude il dualismo e nella teoria del libero arbitrio che spiega il male morale, è entrata
in crisi all’inizio dell’epoca moderna.
La crisi è specialmente teologica più che filosofica. Con la riforma protestante si entra in crisi
propria nella teoria del libero arbitrio e questo ha finito per stendere un’ombra di ambiguità morale
sul concetto di Dio.
Lutero tratta la problematica dell’esistenza del libero arbitrio formulando una dottrina della
predestinazione.

In sintesi:
1) libero arbitrio fuori la grazia non può nulla contro il peccato ed è incapace di scegliere il
bene.
2) Non esiste un’ universale destinazione degli uomini alla salvezza. (1Tm 2,4) deve essere
interpretato in riferimento ai suoi eletti.
3) La condanna di Dio non è ingiusta perché tutti gli uomini hanno peccato; è una “necessità
irrevocabile” in quanto Dio lo permette. “ Dio vuole così”

Calvino radicalizza questa posizione, affermando che Dio si serve dei malvagi e piega i loro cuori a
eseguire i suoi giudizi rimanendo però puro da ogni macchia e colpa.
Calvino rifiutò la distinzione tra un’azione di Dio e la permissione; l’azione che determina
direttamente i malvagi a un fine e la permissione che questi compiono liberamente la loro azione
malvagia.
Calvino dunque accetta l’idea di una doppia predestinazione e di conseguenza vede in Dio il vero
mandante dei crimini commessi .

Il predestinazionismo dei riformatori rappresenta un elemento esplosivo per la dottrina della


teodicea, perché poggiare tutto il peso del problema della teodicea sul “decreto eterno” di Dio che
chiama gli uni alla salvezza e altri alla perdizione contrasta con qualsiasi teologia razionale.

Tra il XVI e XVII si sono elaborate tre diverse strategie di risposta alla teodicea:

 Si prende spunto dalle argomentazioni tradizionali, ma con non poche tensioni.E’ il caso
della trattazione del male o dell’errore che Cartesio opera nelle Meditazioni metafisiche.
Cartesio attribuisce a Dio la verità dei nostri giudizi e all’uso cattivo del libero arbitrio.
Ma perché un Dio buono consente l’errore nella sua creatura?
Cartesio risponde in maniera poco convincente affermando che non si può “negare che non
sia una più grande perfezione di tutto l’universo il fatto che invece di essere tutte simili
alcuni delle sue parti non sono esente da difetto (4 meditazione).
L’uomo non ha comunque alcun diritto di lamentarsi visto che Dio gli ha dato la possibilità
di distinguere la verità dalla falsità. Nella 6 meditazione va a imputare, come se fosse non
solo un limite ma ancor più un difetto della natura umana. Alla costituzione corporea
dell’uomo. Allora si formulerebbe la domanda: perché Dio ha creato l’uomo in questo
modo?
Cartesio in ultimo postula il tutto nella seguente maniera: la verità di Dio è garanzia dei
nostri giudizi, mentre per la capacità dell’uomo di sbagliare, si rimette alla volontà di Dio
che vuole così e ha deciso così.

 Seconda soluzione al problema della teodicea è stata quella massimalistica data da Spinoza.
Il volontarismo teologico appariva superato di principio e il riferimento alla volontà di Dio
veniva privato di qualsiasi plausibilità filosofica.
Conseguenze: negazione della personalità di Dio e del libero arbitrio – ATEISMO-.

 Terzo tipo di soluzione Leibniz. Ha trovato espressione nei “saggi di teodicea” .


L’opera è scritta in risposta alle posizioni fideiste di Bayle. La prima parte la dedica al
problema del rapporto tra fede e ragione che assomiglia alla teologia scolastica “ suppongo
che due verità non possono contraddirsi” Fede: verità rivelata da Dio. Ragione: connessione
formale delle verità. Le prove della verità della religione possono solo dare una certezza
morale
Nel merito: una volta ammessa l’esistenza di un Dio supremamente buono e saggio ne
consegue che egli non può che scegliere per la sua creazione il meglio
“Come un minor male è una specie di bene, allo stesso modo un minor bene è una specie di
male, se è di ostacolo a un bene più grande; e vi sarebbe qualcosa da correggere nelle
azioni di Dio, se egli avesse modo di far meglio”
Il mondo creato da Dio è il migliore dei mondi possibili.

La strategia argomentata a di Leibniz è: ammettere quella che chiama una necessità di


“convenienza”, il “principio del meglio”.

Parla di un male metafisico! Per Leibniz vi è la concezione di una “un’imperfezione


originaria della creatura già prima del peccato” imperfezione inevitabile poiché “Dio non
poteva darle tutto senza farne un Dio”
Se il limite nella concezione cristiana non è un problema, per Leibniz questo limite appare
già come un difetto.
Per Leibniz Dio certamente non vuole il male, ma poiché, in virtù del limite della sua
creazione, esso è destinato ad apparire in quest’ultima, deve essere compresa in essa.
Troviamo allora una volontà antecedente e una volontà conseguente. La prima vuole il
bene per tutti gli uomini, ma poiché esiste il limite, l’uomo compie inevitabilmente il male,
egli vuole in seconda battuta il meglio, il che implica da parte di Dio la permissione del
male.

La differenza con la teodicea cristiana classica, la permissione del male non è collegata al
libero arbitrio. Per Leibniz : “Dio [abbia] regolato tutto in anticipo e una volta per sempre,
avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni”
La permissione del luogo ha luogo nel quadro di una conoscenza preliminare di Dio delle
azioni umane. E il libero arbitrio allora? L’opinione di Leibniz è da una parte che la
prescienza di Dio non determini eventi futuri così come la nostra conoscenza del presente o
del passato non determina il loro essere accaduto o accadere, ma per l’altro non ammette
nell’uomo una libertà in senso causale. L’anima umana come “autonomia spirituale”, dove
gli uomini appaiono predestinati alle loro azioni dal disegno divino.
La teodicea di Leibniz è a tratti convergenti con la teodicea agostiniano-tomista, ma risente
delle tensioni della sua epoca. Per esempio l’idea che il male sia un elemento necessario
all’ordine del mondo. Va ricordato che la tesi del miglior dei mondi possibili è rimasta un
punto di riferimento per la filosofia moderna e per la stessa teodicea cristiana. Es:Rosmini
(terzo libro della teodicea) ove si discute sulla “legge del minimo mezzo” ove lo stesso cerca
di dimostrare che il toglimento dei mali da parte di Dio senza sforzo umano o per mezzo di
miracoli sarebbe contraria a questa legge.
Per Rosmini il principio è quello di togliere il determinismo negli argomenti di Leibniz.

La problematicità della soluzione di Leibniz ha fatto si che la teodicea si avviasse alla crisi
nella coscienza dei posteri dello stesso, crisi accompagnata a quella della teologia naturale
portando tutto a un razionalismo del problema o del fideismo.

Due esempi: Hume e Kant.

Hume (nei dialoghi sulla religione naturale) troviamo la difficoltà a sviluppare una teodicea,
proprio per l’impossibilità di derivare dalle realtà del mondo, dove è presente il male, una
dottrina sulla natura di Dio, dotato di attributi quali “onnipotenza, bontà, sapienza”.
La natura del mondo e alle cause del male; per Hume li riconduce a 4:
1. La predisposizione della vita animale al dolore
2. La regolazione del mondo in base a leggi generali
3. La scarsa dotazione biologica dell’uomo
4. L’ imperfezione della natura

Tutte e 4 ci mostra in modo evidente che il “solo metodo per difendere la bontà divina è di
negare la miseria e la malvagità.

Ma questa negazione è assurda e quindi la conclusione più plausibile è quella scettica

Kant inizia con una definizione del termine teodicea. Teodicea si intende la difesa della
somma saggezza dell’autore del mondo (Dio) dalle accuse che la ragione solleva contro di
lei muovendo da quanto di contrario a un fine accede nel mondo.
Non è altro che la difesa della nostra presuntuosa ragione che qui appunto misconosce i
suoi limiti.
Critica degli argomenti principali della teodicea:
1. Che quanto è contrario a un fine, cioè il male nel mondo, in realtà non sia tale. Respinge
la tesi che esista un’assoluta divaricazione tra la saggezza di Dio e nostra saggezza, tale
da far apparire a noi quello che Dio non appare
2. Che il male sia l’inevitabile conseguenza della natura delle cose. Kant obietta con una
domanda: “per quale motivo l’autore del nostro esistere ci ha chiamati alla vita, se
questa, secondo un nostro esatto calcolo, non è per noi desiderabile?
3. Che il male non sia imputabile al “supremo ordine delle cose”, ma agli essere umani.
Kant obietta che “tutto questo si può sostenere, ma non comprendere, il che significa che
tale argomento riporta tutta alla suprema saggezza divina e non è valido per la teodicea.

Kant trae la conseguenza che “nessuna teodicea fino ad oggi ha realizzato quanto promette:
giustificare la saggezza morale nel governo del mondo contro i dubbi che le vengono
opposti in base a quanto l’esperienza di questo dà a conoscere.
Per Kant noi abbiamo l’idea di una saggezza artistica di Dio nella disposizione di questo
mondo, così come un’idea della saggezza morale.
Teodicea totalmente connessa a una qualche teologia naturale. Kant si ispira al libro di
Giobbe. È quella che una teodicea autentica può fondarsi soltanto nella “fede”,(morale) nel
decreto divino, opponendosi a una teodicea di tipo razionale.

Per Kant esiste nell’uomo una predisposizione al bene (Anlage) che accoglie la massima
legge morale e la (Hang) tendenza al male. Il male è dunque radicale.
Ma essa da dive scaturisce?
Per Kant non è altro, in primis alla contaminazione della massima della legge morale con
quello della sensibilità, che il risultato della debolezza dei diversi gradi di intensità con cui
la massima della sensibilità agisce contro quella della legge morale.
“Il male ha potuto derivare solo da un male morale”
Così rifiuta un’origine storica e temporale del male come quello in Genesi.
Si può concludere che per Kant il male rimane un mistero.

Nella seconda metà del XIX secolo abbiamo la crisi più acuta della teodicea.

Con l’evoluzionismo e le tersi darwiane la teodicea è apparsa come un’impresa largamente


implausibile proprio perché queste tesi hanno messo in crisi non solo quelle tradizionali ma anche
quelle del positivismo e marxismo chiamate teodicee secolarizzate.

Si profilano due posizioni teoriche sul problema della teodicea e una terza caratterizzata da teorie
difficilmente classificabili.

Prima : quella di Ricour che si rifà alla critica kantiana, per esempio nella sua opera: “il male”.
Ricour individua 3 stadi nella risposta umana al problema del male: 1) lo stadio della “saggezza”
che tocca il suo culmine nel l’atteggiamento negativo di Giobbe verso i tentativi di giustificazione
razionale del male e conclude per il carattere apiretico del male stesso; 2) quello della “gnosi” e
della polemica anti-gnostica di Agostino; 3) e quello vero e proprio della teodicea, nel quale
l’ontoteologia moderna tenta di giustificare Dio facendo uso della logica della non-contraddizione e
della totalizzazione sistematica.

Quest’ultimo stadio fallirebbe per Ricour! Perché le finalità divine rimangono celate di fronte
all’esistenza dei mali e quindi occorre una forte ottimismo umano per comprendere.
Ciò porta a concludere che il problema della teodicea possiede un carattere aporetico, anche se non
esclude un lavoro concettuale nel tentare di rendere l’aporia produttiva per passarla al piano dell’
agire e del sentire.
Ciò significa di fatto che prima di ogni speculazione sul male, occorre agire contro il male, ma
poiché il piano dell’ agire non è sufficiente per l’uomo è necessario passare al piano del sentire

Espressione massima: “nello scoprire che le ragioni del credere in Dio non hanno niente in comune
con il bisogno di spiegare l’origine della sofferenza.
La risposta al problema del male si trova sul piano pratico della lotta contro il male e su quello di
un sentire che separa la fede religiosa di un Dio da motivi razionali.

Possiamo trovare ancora una volta il razionalismo critico di Kant che si sposa con il fideismo del
protestantesimo.

Seconda:la seconda posizione è rappresentata in quegli autori che continuano a trovare nel
dualismo una soluzione filosofica al problema della teodicea.
Tra gli autori citiamo Stuart Mill.
Nei Saggi alla religione dice: “l’unica teoria moralmente ammissibile della Creazione è quella per
cui il principio del Bene non può sottomettere d’un tratto e in modo completo i poteri del male, sia
fisici che morali”. Già troviamo evidente come l’autore abbandoni qualsiasi tipo di teologia
naturale, egli però ritiene ancora razionalmente plausibile l’idea di un ordinatore della natura “di
una mente intelligente” che creando il mondo ha prodotto un “meccanismo al di sotto delle proprie
intenzioni”.
La stessa idea di Leibniz del migliore dei mondi possibili, anche se in Mill si tratta del migliore dei
mondi possibili “ non però del migliore in assoluto. L’ipotesi del dualismo è per lui oggetto di
apprezzamento morale così da lasciar spazio all’opera di perfezionamento umano e alla lotta umana
contro la sofferenza; di una religione dell’Umanità. Il compito dell’uomo è di aiutare Dio, di
compensare il bene da lui donatoci,con una cooperazione volontaria di cui Dio, non essendo
onnipotente, ha effettivamente bisogno, cosi da avvicinarsi maggiormente nel fare i Suoi propositi.

La teoria di Mill ha trovato consenso nel XX secolo. Citiamo Toynbee e quella del filosofo ebreo
Jonas. Jonas in un suo discorso nel 1986 (pubblicato con il titolo Il concetto di Dio dopo
Auschwitz) è ricorso al dualismo per rendere compatibile, dentro l’ebraismo, la fede nell’esistenza
di Dio con l’evento Auschwitz.
Anche per lui il dualismo risulta dall’abbandono obbligato del concetto di onnipotenza divina,
tipica della sua religione, “Signore nella Storia”; vi è dunque l’abdicazione di ogni potere
d’intervento di Dio. Jonas ritiene che questo apra all’autentico senso della responsabilità morale
umana, che è quello di cooperare alla redenzione del cosmo creato da un Dio buono ma non
onnipotente.

Terza: Pareyson e il Teologo Barth tra i più noti che si distaccano dalle posizioni classiche della
teodicea antica, cristiana e moderna. Sono anche tra i più citati nel dibattito sulla teodicea
soprattutto in ambito italiano.
Pareyson (La Filosofia e il problema del male), ritiene che una soluzione al problema del male non
si trova in epoca antica e cristiana ma solo a partire da Kant, con la sua critica alla teodicea e la sua
teoria del male radicale, addirittura abbiamo un situazione migliorata. Questo per perorare di fronte
al razionalismo critico la necessità di del “ricorso al mito”. Elaborare una ermeneutica del mito
religioso, che colliderebbe cosi con l’ermeneutica cristiana.
Pareyson concepisce Dio come libertà originaria che ha vinto il nulla e che volendo il bene, ha
vinto il male. “Dio contiene dunque in sé, come possibilità ab aeterno vinte e superate, il nulla e il
male. Un Dio prima di Dio, che esiste prima della scelta a favore dell’essere e del bene. Concetto
largamente gnostico che collide sia con la teologia che con i fondamenti biblici.
Il pensiero di Pareyson finisce per introdurre nuovamente nell’essere divino un elemento di
ambiguità ontologica e morale.
Egli osserva che Dio non è l’ens necessarium, ma volontà che nel “vuoto universale” ha voluto se
stesso e ci è riuscita; poteva fallire, rientrare nel vuoto, ma ha saputo evitare tale possibilità negativa
che stava diventando minacciosa come forza contraria.
Vuoto come una realtà preesistente o come minimo co-esistete a Dio. Ennesima rimarco al
dualismo.
L’uomo è dunque il ridestatosi del male che è latente in Dio. E’ la comprensione moderna del
peccato originale presente in Kant e negli idealisti, per la quale il peccato si configura come un
oggettivo avanzamento della condizione umana, che lo emancipa dalla tutela divina portandolo a
essere un agente autonomo, Allo stesso modo è difficile da capire se dall’azione umana risulti il
contributo alla vittoria finale del bene sul male e se in generale qualcosa del genere sia plausibile.
Barth (Dio e il niente). Per il teologo il male è identificabile con il Niente e su questa base pone la
domanda classica della teodicea di come sia possibile rendere contemporaneamente giustizia alla
santità di Dio e alla sua onnipotenza facendo i conti con il problema del Niente.
Per fare ciò Barth distingue due sensi possibili al niente. 1) Il Niente come negazione assoluta e 2)
il Niente come negazione relativa.
Il niente è il non-essere assoluto di Parmenide e il niente non è l’eteron platonico il non-essere
relativo.
“ La relazione tra Dio e la creatura racchiude in sé un “non” e questa negazione appartiene alla
perfezione di tale rapporto, e di conseguenza, alla perfezione della creatura stessa!
La distinzione tra Niente e nulla serve a Barth per affermare la perfezione della creazione di Dio, la
quale seppur insistiate dal nulla, non possiede alcun lato oscuro.
Barth non si allinea totalmente al pensiero classico del male come “privazione” del bene, egli infatti
riconosce da un lato che il Niente “non possiede alcuna consistenza” dall’altro afferma che esso è in
grado di produrre una “negazione radicale alla creatura e della sua natura”.
Il Niente acquisisce una qualche realtà e forza soltanto in conseguenza della scelta di Dio per la
creatura. Esso è il “no” che deriva dal “si” divino.
È il pensiero teologico riformato che esclude totalmente il libero arbitrio! Peccando l’uomo ha fatto
ciò che poteva, ha agito non come un essere libero, ma come un prigioniero.Secondo Barth, l’uomo
non soltanto non ha optato liberamente per il peccato, ma non possiede alcuna conoscenza reale del
Niente. L’uomo non può nemmeno intraprendere una vera e propria lotta contro il Niente perché
soltanto Dio può combattere questa lotta.
L’uomo è impotente di fronte al male. Questa lotta trova il suo compimento nella morte e
resurrezione di Gesù Cristo e si conclude con la sconfitta del Niente.
Domanda: ma allora se il male è stato sconfitto da Dio perché esso esiste ancora?
Barth si colloca sulla linea di Calvino e Lutero e vede nel male l’opulenta alienum, lo strumento
dell’ira e della collera divina.

La teodicea barthiana costituisce l’ennesima riprova della difficoltà ad affrontare il problema della
teodicea dopo le profonde tensioni che al suo interno ha indotto il pensiero moderno e
contemporaneo. Si affronta il problema della teodicea all’interno di un contesto che non riconosce
più come validi i criteri di adeguatezza razionale dell’idea di Dio tipici della teologia naturale. Si è
passati dunque tra lo scetticismo e il fideismo o ad adottare la soluzione del dualismo.
Occorrerebbe dunque ristabilire il legame tra teologia naturale e problema della teodicea per
superare l’impasse.

La soluzione dualistica

Il dualismo è innanzitutto una categoria storico-religiosa


Bianchi definisce dualiste quelle religioni ove ci sia una dicotomia originaria e sostanziale
nell’ambito degli esseri che governano il modo; ove uno o più di questi esseri siano concepiti come
antagonisti e maligni per natura intrinseca.
L’abituale classificazione del dualismo in una forma radicale e mitigata, lascia spazio alla
modulazione di varianti del dualismo.
Quello dialettico, in cui i due principi lottano eternamente dentro una concezione ciclica-ripetitiva
della storia; quello escatologico che ammette una vittoria finale del principio del buono su quello
cattivo; quelli cosmologici e acosmistico dove la materia è valutata in modo positivo oppure
principio spesso del male.
Se pensiamo al sincretismo, forma di gnosticismo del II secolo, il male è una realtà effettiva,
persino persuasiva al punto che certe loro espressioni si afferma una sorta di acosmico o
anticosmico che consegna il mondo al dominio del male.
Nella giudaismo ellenistico , per esempio in Filone, si afferma l’idea di una infinita lontananza di
Dio dal mondo, delegando (libro di Daniele) alla sfera angelica di governare il mondo. Gli stessi
che in virtù della loro negligenza e dei loro conflitti gli artefici del cattivo funzionamento del
mondo, togliendo cosi a Dio l’attribuzione a essere creatore del male, seppur dovrebbe comunque
un controllo su di essi.
Se non lo fa è perché o egli non è onnipotente, o per la sua distanza dal mondo non gli permette di
conoscere cosa accade nel mondo, o non è buono perché non intende intervenire.
In entrambi i casi il risultato è comunque la dissociazione dei due attributi divini tradizionalmente
connessi nella fede ebraica ortodossa.
Lo gnosticismo arriva alla conclusione che il Dio che appare incapace di controllare le potenze
angeliche non è il vero Dio, ma un Dio minore, un Dio secondo, che è l’autentico responsabile del
male! Il vero Dio è il Dio prima di Dio (Marcione). Un Dio buono e un Dio cattivo, ma
assolutamente diverso dal mondo nella sua natura.

Secondo questa lettura, il DUALISMO, è uno schema concettuale che si origina dal tentativo di
risolvere i problemi del monismo.
Il fascino perenne che il dualismo ha esercitato nel corso della cultura occidentale è dovuto al fatto
che esso prende sul serio l’esistenza del male e prima facie offre una soluzione intuitiva del suo
enigma. Se Dio è buono, egli non può volere il male, ma se il male esiste è evidente che egli non
può eliminarlo e quindi è evidente che esiste qualcosa o qualcuno che si contrappone con successo a
Dio. Da ciò il dualismo conclude che il male sia una potenza attiva come ambito che sta totalmente
sotto il dominio del male. Tesi discutibile. Vero che esiste il male ma esiste anche tanto il bene.
Di fronte a coloro che enfatizzano i mali presenti in natura, come catastrofi o malattie ereditarie
sono inferiori rispetto alla normalità e quotidianità (Maimonide)
Rosmini afferma che non bisogna lasciarsi impressionare dal mali, poiché “i casi irregolari, seppur
rari, fanno una maggiore impressione dei casi secondo natura”.
Non bisogna parlare però di ottimismo di Maimonide e Rosmini, per minimizzare il male nel
mondo ma, vogliono sottolineare che se la teoria dualistica fosse vera in esso regnerebbe il caos,
mentre si constata una regolarità degli eventi.
Proprio basandosi su questa teoria Hulme respingerà l’ipotesi dualista, come anche Mill
affermando che il teismo, fra le rappresentazioni religiose, sia l’unica coerente con l’osservazione
scientifica della natura.

Il male naturale

La soluzione del dualismo appare implausibile proprio per la sua inadeguatezza al concetto
razionale di Dio. Si va a pensare a un Dio come quintessenza della perfezione ontologica e morale e
quindi dotato di bontà e della onnipotenza.
Il problema della teodicea emerge propriamente soltanto a partire dal confronto con questo concetto
di Dio e a tal riguardo occorre ammettere che questa condizione la si trova nelle religioni
monoteiste, perché in altri contesti religiosi il problema della teodicea o non trova soluzione teorica
oppure troviamo delle ambiguità
Per esempio il Buddhismo, che non si fonda sull’idea che il mondo non sia creato da un essere
perfetto; in effetti non vi è interrogazione sulle cause del male, bensì la natura umana implica
l’esperienza della sofferenza sia un ascesi; in più afferma che dalla sofferenza ci si possa liberare.
Nel Buddhismo esiste un problema della sofferenza, ma non un problema di teodicea.
Non vi è dunque risposta.
Secondo esempio nell’induismo.Ci troviamo difronte alla dottrina della reincarnazione; che con
questa dottrina riesce a dare una risposta razionale al problema del male e addirittura, come
sottolineava Max Weber, forse è la risposta più razionale delle religioni mondiali. Io nella vita
precedente sono stato malvagio e in questa soffro!
La risposta che l’ induismo da al problema del male naturale è che esso è una coscienza non ancora
sviluppata e quindi incapace di cogliere il significato reale e quindi rappresenta uno stimolo alla
ricerca della verità. In questa religione è difficile dare una risposta alla domanda: se Dio sia
sottoposto al Karma o se invece lo governi.

Nella teodicea cristiana, specie nelle riflessioni di Agostino e Tommaso il motivo della perfezione
della creazione è assolutamente connesso a quello dei gradi di perfezione delle realtà create ovvero
il “principio della pienezza”. Ogni essere creato ha un certo grado di misura, forma e di ordine che
va da un grado infinito (Dio) a uno infimo (materia inorganica) e che determina il suo livello di
intensità ontologico. Tale differenza tra gli enti creati non implica alcun male nel senso di una
privazione dell’essere.
Resta pero il fianco scoperto del perché in un mondo limitato, ma pur sempre buono, si introduce la
privazione.
La teodicea cristiana a tale riguardo, fin età patristica, ci dice: con il male commesso dall’uomo su
istigazione di un essere spirituale che prima di lui ha fatto un cattivo uso della libertà.
Male naturale deriva da un atto malvagio umano!

Domanda:
 che cosa ha a che fare la responsabilità morale dell’uomo con eventi naturali come
terremoti, inondazioni o malattie provocate da agenti esterni all’uomo?
 che cosa ha a che fare la responsabilità morale dell’uomo con la sofferenza degli animali?

Motivare con il libero arbitrio che il male presente in natura ha la funzione di sgravare Dio, buono e
onnipotente, dall’accusa di esserne artefice non può creare un mondo dove ci sia morte e la
sofferenza.

Prima Atanasio e poi in Agostino troviamo l’idea che l’uomo sia stato creato in uno stato di
perfezione originaria. Ireneo di Lione ridimensiona la gravità del peccato originale, perché
considera il primo uomo come “un bambino che non aveva ancora l’uso perfetto delle sue facoltà”
“Così fu facilmente ingannato dal seduttore”
Tesi di Ireneo: un bene concesso da Dio che non implichi uno sforzo da parte dell’uomo, e una certa
misura di sofferenza, sarebbe privo di valore.
La sua tesi è rimasta minoritaria all’interno della teologia occidentale, perché è risultata meno
coerente con i presupposti del teismo. Nella modernità, si affievolisce la visione teista e il profilarsi
d’interpretazione del peccato originale che vede in esso un evento che permette l’affermazione
dell’autonomia umana rispetto a Dio.
Sarà Hick a riprendere questa tesi. Se Dio “sceglie di creare esseri che sono destinati prima o poi a
cadere (con qualcosa procurato dall’esterno) non può ragionevolmente lamentarsi del fatto che
cadano.
Si entra cosi in contraddizione con la teodicea agostiniana.
Secondo Hick occorre sviluppare un modello alternativo di teodicea dove la fragilità della
condizione umana è esattamente voluta da Dio in funzione della “formazione dell’anima”, con lo
sviluppo di qualità morali per arrivare ad un perfezionamento stesso.
Come si arriva a ciò? Come si arriva a tale crescita? Arriva mediante la risposta a delle sfide; che in
paradiso tutto ciò non sarebbero.
Tale crescita è solo possibile attraverso i mali naturali che Dio ha previsto in un ordine a questo
fine.
Anche un autore come Swinburne, nella sua teodicea sostiene la tesi dell’inevitabilità dei mali
naturali in ordine all’acquisizione di certi beni.
Fra essi vi è il male della morte, come un grande potere dato da Dio che ha l’uomo come quello di
far morire un proprio simile. Permette all’uomo di sacrificare se stesso fino in fondo e di conferire
alla propria azione morale un’incondizionata serietà sia nel procreare e in ultimo mettere alla
propria sofferenza. Concepire, come era già presente in Ireneo, la morte non come punizione, ma
come il limite posto da Dio alla condizione peccaminosa dell’uomo.

Il pensiero post-moderno contemporaneo come appena visto ove la prospettiva di un’immortalità


terrena seppur potrebbe essere anche coerente filosoficamente, però pone la domanda:
Un Dio buono e onnipotente può concepire la morte con la mole di sofferenza che esso implica e
che non sempre da luogo a beni più grandi, come la condizione naturale dell’uomo?

Anselmo d’Aosta afferma che è “contro la sapienza e la giustizia di Dio costringere colui che è
stato creato giusto in vista dell’eterna beatitudine a subire la morte per non avendo peccato”

La tesi che la morte appartenga alla natura originaria dell’uomo suscita tensioni nella teodicea
cristina, perché contrasta con affermazioni bibliche che negano Dio sia creatore della morte mentre
relativizza il significato dell’incarnazione di Cristo e della sua morte. Se la morte è qualcosa che
Dio stesso ha voluto nel piano della creazione, non si vede perché egli ci dovrebbe liberare da essa
mediante la morte del Figlio. Nel quadro di questa teodicea il significato di quest’ultima si riduce
dalla compartecipazione della sofferenza umana da parte di Dio per alleviare le sofferenze umane,
essa non è sufficiente; poiché da un Dio buono e onnipotente ci si aspetta la liberazione della
sofferenza e dalla morte e non soltanto la sua partecipazione.

Il male morale

L’esito della discussione sul male naturale è stato quello di considerare come sua causa originaria
una colpa morale dell’uomo e come dice Inwagen, “ il male naturale è una categoria speciale del
male morale”
Se questo è vero la teodicea è chiamata a rispondere perché Dio abbia creato l’uomo in modo tale
che egli possa scegliere il male

Per i dualisti Dio, buono e onnipotente, che avrebbe avuto il dovere di creare un uomo che non
fosse capace di scegliere il male, viene scusato del male se l’uomo che egli ha creato è in grado di
compiere il male. Secondo la prospettiva teista la posizione dell’uomo nel cosmo è diversa dagli
essere viventi, perché l’uomo è l’unico dotato di spirito a presentare le caratteristiche della
razionalità e della libertà, che lo rendono una persona e che ne giustificano la somiglianza con Dio.

Nel contesto attuale delle discussioni della teodicea la “difesa del libero arbitrio” è considerata da
molti come un elemento determinante per la risposta al problema del male morale. Tale concetto lo
si può denominare “libertario, termine usato in ambito angloamericano.
L’uomo è libero nel senso che è in grado di determinare in modo autonomo la propria volontà
inaugurando nel mondo nuove catene casuali per mezzo delle proprie azioni.
Così concepito la si potrebbe chiamare “filosofia della mente” di tipo dualistico che ammette
nell’uomo una sostanza spirituale, per esempio l’anima, che è eterogenea alla materia (il corpo) pur
interagendo con essa.

La concezione “libertaria” del libero arbitrio non va in contrasto solo con il determinismo
( negazione delle libertà) ma anche con il compatibilismo (posizione di mezzo) ove si ammette una
libertà dell’uomo delle azioni, ma non quella della volontà. Per i compatibilisti l’uomo sarebbe
libero di fare quello che vuole, ma non di volere quello che vuole. Il termine volontà però diviene
problematico; più corretto parlare di: desideri, preferenze.
Però in una visione appena enunciata avremmo difficoltà e ci potremmo porci il quesito: se l’uomo
non fosse libero, nessuno potrebbe rimproverare a qualcuno una certa azione come se non l’avesse
dovuta compiere, e se questo non è possibile non si vede come evitare la conclusione che la
moralità sia un’illusione.
Anche in ambito teologico la logica libertaria è scontata. Non mancano autori che sostengono un
determinismo e più ancora un compatibilismo che affermano un universale dominio di Dio sulle
azioni a umane, senza negare la libertà dell’uomo.

L’uomo è libero tanto di fare il bene quanto di fare il male. Rosmini ci dice che il libero arbitrio è
da identificare nell’uomo con quel “principio attivo, o interiore energia di poter muovere sé stesse
tanto al bene che al male”. Viene cosi naturale la domanda: ma in una creazione buona come ci si
può decidere per il male, se in essa è presente alcun male?
Genesi attribuisce al serpente come simbolo di un essere spirituale non intrinsecamente malvagio,
ma divenuto malvagio per un atto di ribellione. Nella caduta umana l’elemento determinante non è
la tentazione del serpente, ma la trasgressione del divieto da parte di Dio di mangiare il frutto.
Divieto= messa alla prova della libertà umana.
E’ proprio nel divieto che ci sembra sussistere la condizione di possibilità di un esercizio
moralmente significativo del libero arbitrio.
Trasgressione al divieto porta con sé la tentazione alla sua trasgressione e la tentazione è
necessaria affinchè il libero arbitrio possa essere inteso con serietà.

San Tommaso d’Aquino nella caduta dell’uomo afferma che “peccare non è nient’altro che venir
meno al bene che spetta alla propria natura.
Per Agostino il cattivo uso della libertà fatto dal primo uomo è stato ricondotto a un atto di
egoismo.

 Al fine dell’utilizzazione della teoria del libero arbitrio nell’ambito della teodicea si dovrà
dire che la creazione da parte di Dio di esseri razionali non poteva che implicare la
possibilità del male, che questa possibilità è stata realizzata dall’uomo e che, seppur non
gradita da Dio questa realizzazione è stata permessa perché non farlo, significherebbe
andare contro la natura dell’uomo.

Non permettendo il male, Dio sarebbe entrato in contraddizione con se stesso, l’averlo permesso
comporta a una violazione dello spazio di libertà concesso all’uomo che implica la possibilità della
sofferenza per se stesso e per i propri simili.

Spazio di libertà=espressione dell’amore di Dio che come dice Sartre: “ chi vuol essere amato,
non desidera di asservire l’essere amato.

Nasce una ulteriore domanda: Se Dio ha permesso ad Adamo di peccare, perché Dio non è ha
soprasseduto sopra a questa mancanza tanto da punirlo con la perdita della sua condizione
originaria? Dio in fondo è buono.. perché non perdonare?
L’esistenza di un autentico libero arbitrio implica la capacità di produrre un nuovo stato di cose:
positivo o negativo!!

Da un atto malvagio deriva un nuovo stato di cose che è negativo. Se questo è vero, allora la perdita
della condizione originaria da parte dell’uomo e la sofferenza che l’uomo sperimenta non sono da
intendere come castigo che un Dio irato commina a chi ha attentato al suo onore, ma come l’effetto
prodotto dalla scelta dell’uomo. Il castigo divino è da intendere come un lasciar l’uomo a se
stesso.
Privazione della relazione con Dio.
La sofferenza e la morte costituiscono la conseguenza dell’autonomizzazione dell’uomo da
Dio, attestando nello stesso tempo che la bontà di Dio non è una costante fisica impersonale,
ma la disposizione permanente di una persona con la quale si sta in relazione e che si può
conservare o perdere.

Ammesso che l’uomo è responsabile del male morale, che Dio per perseverare il libero arbitrio
rimane da chiedersi: se la corruzione della natura umana e la sofferenza sperimentata dall’uomo
risultino dei dati definitivi e intrascendenti.
Per il teismo la reimposta è negativa. È uno status che appare superabile in linea di principio;
l’esercizio del libero arbitrio rivolto al bene
Per i noi Cristiani è sempre legato l’esercizio umano del libero arbitrio a un aiuto soprannaturale
che si manifesta in molte maniere ed è compiuta nella incarnazione di Dio in Gesù e nella sua morte
e resurrezione.
La vittoria sulla morte e la conseguente riabilitazione della natura umana dal peccato che
porta speranza in un destino eterno di gloria. Incorruttibilità e liberazione della sofferenza
che segnerà la fine dei tempi.
Una reintegrazione della natura originaria dell’uomo e della vita eterna, e di una redenzione finale

Kreiner afferma che: “il senso del male non risiede, in primo luogo, nelle esperienze del soffrire ma
nelle attività che si intraprendono per superarle”

Kreiner sostiene dunque che la sofferenza da mali naturali e morali, permessi da Dio, è uno
strumento mendicante il quale l’uomo può rendersi migliore.
Dubbi a riguardo!
Perché cosi si potrebbe sostenere che un Dio buono e onnipotente permette il male nel mondo al
fine di rendere possibile anche quelle azioni umani che tendono al suo superamento.

Il tema della sofferenza intesa come male subito (dolore, sofferenza, violenza) si interseca con
quello del male agito (male morale, colpa, peccato) e del cosiddetto male «metafisico» (condizione
umana finita e mortale). È un nesso importante che condensa le tesi e le difficoltà dell’intera
questione.

In tutte queste forme pur così diverse si può individuare una costante: il mistero o l’enigma della
sofferenza è sempre collegata con una comprensione del tutto (il ‘divino’, il mondo fisico o ideale,
l’inizio delle cose e la loro fine, l’essenza della realtà, il piano dell’universo o della storia ecc.). La
sofferenza talvolta è ‘spiegata’ a partire da questo sfondo, altre volte ne è l’iniziazione
fondamentale alla comprensione. In ogni caso, il modo di guardare alla realtà è strettamente
congiunto a quello del comprendere o no, accettare o no, la sofferenza.

Nel nostro mondo – modellato dal punto di vista del sentire comune dai mezzi di comunicazione di
massa e improntato dal modello fondamentalmente edonistico della società dei consumi − come c’è
stata una specie di scotomizzazione della morte, così se ne può dare una simile della sofferenza, ma
in forma contraddittoria: da un lato la spettacolarizzazione della sofferenza è quotidiana; dall’altra è
continuamente disinnescato il confronto reale. Di fatto si è sempre più soli nel dolore – secondo gli
schemi dell’individualismo vigente, con il mito di una tecnica salvifica che si avventura nei progetti
del trans-umanesimo.
Abbiamo bisogno di essere richiamati a non distogliere lo sguardo, nella consapevolezza che qui è
in gioco sia la nostra umanità sia, per i credenti, la fede.

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