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Lezioni della prima settimana

1) Breve inquadramento della filosofia di Kierkegaard, con particolare riguardo


alla tematica (psicologica) dell’angoscia e a quella (dogmatica) del peccato.
2) Su alcuni degli aspetti più rilevanti della biografia di Kierkegaard (“figlio
della vecchiaia”, maledizione paterna, morte dei fratelli, rottura del
fidanzamento con Regine Olsen).
3) Alcuni cenni sulla congiuntura storica in cui si colloca la vita e l’opera di
Kierkegaard (sul ruolo della Danimarca e della cultura danese nella prima metà
dell’Ottocento).
4) Il tema della crisi e dell’inquietudine alla base della filosofia dell’esistenza
kierkegaardiana. Brevi indicazioni sulle influenze esercitate dal pensiero di
Kierkegaard in relazione alla filosofia del Novecento, alla letteratura di stampo
esistenzialista, alla teologia e alla psicopatologia contemporanee.
5) Sul tema e sul significato della comunicazione indiretta (maschere,
pseudonimi: nel Concetto dell’angoscia, Vigilius Haufniensis).
6) Il tratto anti-intellettualistico (ma non irrazionalistico) dell’esistenzialismo
kierkegaardiano e la sua opposizione al carattere speculativo della filosofia del
“sistema” e, in particolare, al panlogismo hegeliano.
7) Sull’aspetto pluridimensionale dell’esperienza umana e sulla rilevanza
assegnata alla problematica del Singolo.
8) Su alcuni aspetti emergenti dall’esergo dell’opera (p. 9): contrapposizione
tra il “tempo della distinzione” e lo spirito del “sistema” nella sua definitiva
chiusura. Riferimento alla figura di Socrate (Kierkegaard fu denominato il
“Socrate danese”) e alla ripresa dell’insegnamento di Socrate – in età kantiana
– effettuata da Hamann (contro il razionalismo e l’illuminismo).
9) L’ironia di stampo socratico come cifra stilistica del discorso kierkegaardiano
(come emerge, ad es., nella Prefazione, p. 13 sg.).
10) Il problema del peccato e la definizione del campo epistemico relativo alla
sua indagine. Il rapporto tra psicologia e dogmatica:sul carattere propedeutico
dell’analisi psicologica in ordine alla “possibilità del peccato”.
11) L’angoscia come disposizione o tonalità emotiva (Stimmung) ovvero come
stato d’animo. Equivocità del concetto di angoscia che copre uno spettro assai
ampio di riferimenti. Distinzione tra il carattere indeterminato dell’angoscia e
quello determinato della paura (o timore).

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Lezioni della seconda settimana
1) Peccato originale e peccato ereditario (peccaminosità). Il problema di una
genesi psicologica del peccato. Il rapporto tra la reale possibilità del peccato e
la libertà dell’individuo (del Singolo). L’origine del peccato non può essere
spiegata logicamente.
2) La dogmatica tradizionale non riesce a spiegare il peccato, ma lo
presuppone solo come idea. Procedendo a ritroso dal peccato del Singolo a
quello di Adamo – attraverso il peccato ereditario – la dogmatica non riesce a
spiegare la possibilità reale del peccato, ma solo la sua possibilità ideale, e cioè
la peccaminosità dell’uomo quale condizione oggettiva della possibilità del
peccato. Per effettuare un’indagine sulla possibilità reale del peccato è
necessario, quindi, effettuare un’analisi psicologica del fenomeno dell’angoscia
come condizione soggettiva della possibilità del peccato. Di qui la necessità di
fornire una nuova lettura del terzo libro del Genesi che tenga conto anche
dell’idea moderna di libertà.
3) Il difetto di tutta la filosofia moderna consiste, per Kierkegaard, nell’aver
messo tra parentesi l’idea cristiana di fondo secondo cui l’uomo è un peccatore.
Il limite delle dogmatiche tradizionali consiste nell’aver destoricizzato la figura
di Adamo, nell’averla estrapolata dalla storia del pensiero umano, che così
finisce per avere un inizio fantastico, un preludio divino, attribuendo così
un’importanza eccessiva al peccato d’origine, alla caduta del primogenitore.
4) Sotto il profilo epistemologico, ogni indagine specifica deve fare riferimento
a un campo determinato. Hegel sembra trasgredire tale condizione laddove
sostiene – come espressione del suo panlogismo – che tutto ciò che è razionale
è reale (e viceversa). In altri termini, la ragione sembra poter includere in sé la
realtà, per cui la logica non solo coglierebbe il reale, ma s’identificherebbe con
la realtà. Per Kierkegaard, invece, il campo della realtà è distinto da quello
della logica. Il campo della logica è in qualche modo astratto rispetto a quello
della realtà, che è dunque irriducibile al pensiero.
5) Al pari delle altre scienze, la logica non può cogliere la realtà effettiva nel
suo complesso. Se così fosse, la logica esaurirebbe la realtà, rendendo perciò
impossibile qualsiasi altra scienza. Viceversa, proprio la presenza di una
molteplicità di scienze discende dal fatto che ve n’è nessuna che possa
includere in sé la realtà esistenziale nella sua interezza. La realtà, infatti, è
multiforme, per cui pretendere di unificarla (o di omologarla) sarebbe come
«trovare tra cose diverse accordi di mere parole» (p. 15). Un accordo
meramente verbale non può corrispondere, dunque, a un’effettiva armonia.
Ogni scienza rimanda per così dire a un’altra, e ognuna ha un presupposto
scientificamente indimostrabile. Nella fattispecie, sia la psicologia sia la
dogmatica manifestano la necessità del presupposto e chiariscono il senso della
sua funzione. Per Hegel, invece, non c’erano presupposti, dal momento che
ragione e realtà s’identificano. Per Kierkegaard, la filosofia e la scienza non
sono in grado di cogliere la realtà come un tutto, ovvero di coglierne la totale
identità. Dietro alla posizione di Kierkegaard si avverte la presenza della critica
kantiana della metafisica, come scienza assoluta capace di cogliere la totalità
del reale. L’identità del tutto rappresenta un’astrazione e non va interpretata
comunque come un’identità sostanziale (ovvero della sostanza). Anche il
principio d’identità (A=A) non può essere interpretato in termini
sostanzialistici, come sembra invece avvenire nella metafisica aristotelica,
intesa come prote episteme (come scienza prima). Anche Dio, come principio
assoluto, non può essere concepito come realtà identica. L’esistenza di Dio non
è dimostrabile, secondo Kierkegaard, con argomenti logici. Richiamarsi
all’identità del tutto (della realtà nella sua interezza) significa far cadere le
differenze e Hegel sembra essere incorso in questo errore, lasciando in primo
luogo cadere la differenza tra logica e realtà. Per Kierkegaard, Dio non può
essere afferrata logicamente, facendo rientrare la teologia nella metafisica.
6) Secondo Kierkegaard, Hegel non sarebbe riuscito – attraverso la dialettica –
a superare davvero il principio d’identità e la sua immediatezza. Per
Kierkegaard, la dialettica di Hegel è falsa, così come lo sono la sintesi e la
mediazione tra opposti. Riferimento (p. 15) alla terza sezione del secondo libro
della Logica di Hegel, intitolato «la realtà» (die Wirklichkeit). La parola “realtà”
non è la realtà concreta ed esistente. La categoria della realtà è una pura
forma logica. La logica è uno svolgersi di tautologie, nel senso che nelle
conclusioni si trova ciò che è già contenuto nelle premesse. La concretezza
della realtà non si configura, però, come tautologica e necessaria. Non c’è
identità tra razionale e reale, tra logico ed esistente, il che comporta anche una
differenza qualitativa irriducibile tra il campo dell’esistenza e quello della
trascendenza (Dio). Anche per questo l’uomo non può essere in comunicazione
diretta con Dio, giacché una comunicazione del genere si tradurrebbe in
identità.

Lezioni della terza settimana


1) L’errore della logica è credere che la categoria di realtà sia identica alla
realtà nella sua concretezza esistenziale. Lo stesso errore lo commette la
dogmatica quando chiama la fede l’immediato (p. 16). L’immediato è tale
perché non comporta mediazione. Al pari del principio d’identità, anche
l’immediato rappresenta un’astrazione, giacché viviamo sempre nel tempo e
nella relazione. La filosofia, come le scienze in genere, non deve però partire
dall’immediato ma da un presupposto. Dal punto di vista della filosofia
dell’esistenza kierkegaardiana il presupposto è inevitabile e non passibile di
dimostrazione. L’esistenza di cui tratta Kierkegaard, nella sua riflessione
cristiana, non è però qualcosa di unitario e privo di contrasti. Anzi, il
presupposto di tale filosofia della differenza è di natura problematica, nel senso
che comporta una situazione spezzata e angosciosa che attende di essere
esistenzialmente superata e risolta. L’esistenza non è per così dire pacificata,
in quanto ha – come presupposto contraddittorio – la condizione negativa di
essere nel peccato. Il presupposto è, quindi, la contraddizione costituita dal
peccato. La realtà non esprime un grado di perfetta conciliazione, ma si dà –
nella sua concretezza – come attraversata da un’angoscia che necessita
l’intervento salvifico della fede. Il presupposto della realtà del peccato è
indimostrabile, mentre l’errore di Hegel è consistito nel considerare la realtà
come conciliazione, ovvero come risultato di una contraddizione meramente
illusoria e non riconosciuta come tale.
2) La dogmatica ha torto quando afferma che la fede coincide con l’immediato.
In tal senso, infatti, la fede non avrebbe rapporto né con Dio, né con la
concreta rivelazione storica del logos. Iniziando dall’immediatezza, “invece di
presupporre un inizio anteriore” (p. 16), essa si sarebbe condannata ad essere
un pensiero dell’identità, incapace di porre una relazione quale condizione di un
autentico pensiero. Di qui la critica che Kierkegaard sviluppa nei confronti della
dialettica hegeliana, a partire dalla messa in discussione della “conciliazione”
(Versöhnung: che in teologia significa anche redenzione). Anche la metafisica
antica ha sempre ritenuto di poter cogliere la realtà col pensiero, riconoscendo
tra l’altro nella realtà la presenza di termini antitetici tra cui operare una
sintesi. Questa traccia dialettica, presente nella tradizione filosofica, viene
riscoperta da Hegel con piena consapevolezza. Lungo questo percorso, Kant
aveva però sollevato il dubbio circa ciò di cui la metafisica era certa: vale a
dire, la capacità del pensiero di porre la realtà. L’intervento di Hegel è
consistito nel “condurre a fondo lo scetticismo di Kant” (p. 16). Per Hegel, non
è vero pensiero quello che pone la realtà fuori di sé. Il vero pensiero, e cioè la
ragione dispiegata, è quello in cui tale dualismo viene per così dire superato. Il
vero pensiero sancisce la propria identità col reale: la realtà è razionalità e
viceversa. Hegel non fa che ristabilire la situazione anteriore alla critica
kantiana, non dando per scontata la risoluzione del problema, ma avendo
consapevolezza che occorre risolverlo.
3) Kierkegaard contesta che la soluzione di Hegel rappresenti davvero qualcosa
di nuovo. Da un lato, infatti, Hegel presenta in forma nuova qualcosa di già
presente nella filosofia antica: dall’altro, però, Hegel si spinge a voler conciliare
i termini che Kant aveva distinto (pensiero e realtà, soggetto e oggetto). In
questo modo designa come conciliazione un semplice ritorno a un’identità
prekantiana. Su questo piano, Kierkegaard non riconosce la presenza di
un’autentica conciliazione, cosicché – lungi dal costituire la soluzione di un
enigma – la posizione hegeliana sembra aver piuttosto dissolto l’enigma
stesso, non riconoscendo nemmeno i due termini da conciliare. Rispetto però al
tentativo di conciliazione operato dalla metafisica pre-kantiana, Hegel ricorre a
un concetto di “mediazione” quanto mai “ambiguo” (p. 17), proprio perché con
ciò si indica, al contempo, il “rapporto tra due termini e il risultato di tale
rapporto” (p. 17). La mediazione istituita da Hegel non intende conciliare solo
due realtà antitetiche poste dal pensiero, ma anche ciò che Kant aveva tenuto
ben distinto (pensiero e realtà, soggetto e oggetto, soggetto conoscente e
oggetto conosciuto). Nello schema hegeliano non si hanno però tre diverse
realtà in successione tra loro (tesi, antitesi e sintesi), giacché la realtà della
sintesi non sembra essere qualcosa di diverso dalla relazione di opposizione tra
tesi e antitesi. La relazione tra opposti viene prima considerata come relazione
di opposizione, ma poi come risultato dell’opposizione stessa. L’ambiguità della
mediazione hegeliana consiste, per Kierkegaard, nel fatto che la relazione tra
due termini opposti è intesa sia come relazione, sia come superamento della
relazione stessa. In altri termini, la relazione di opposizione è vista sia come
problema, sia come risoluzione del problema stesso. Da questa falsa
impostazione consegue che Hegel pretende di cogliere nella mediazione
dialettica un movimento che va dal problema alla soluzione, dall’opposizione
alla mediazione, ma – essendo la mediazione identica all’opposizione – tale
movimento non c’è, essendo al tempo stesso quiete (cfr. 17).
4) Oltre che ambigua, la mediazione hegeliana è secondo Kierkegaard illusoria,
in quanto Hegel considera opposizione ciò che a ben vedere non è tale:
presentando infatti l’opposizione tra tesi e antitesi, Hegel ha già deciso che
essa è già di per sé una sintesi, trasformando perciò in risultato quanto aveva
indicato come premessa. Di qui il carattere tautologico di un processo
puramente logico, distinto da una reale processualità storica di carattere
temporale. La logica ritrova infatti, al termine del proprio cammino, ciò che
aveva posto all’inizio, senza cioè mettere in conto quel presupposto che rende
possibile il filosofare e, in particolare, il declinarsi di una filosofia dell’esistenza.
Per sfuggire alla vuota identità, il pensiero deve sempre porsi in relazione con
qualcosa che è al di fuori di esso e che lo trascende. L’identità che Hegel
spaccia, in maniera falsa, per opposizione, o la fiducia – tipica della filosofia
prekantiana – di cogliere ed esaurire il reale con il pensiero, non soddisfano i
requisiti della filosofia dell’esistenza kierkegaardiana, che sperimenta
costantemente – nella finitudine dell’esistenza umana – una non-identità
rispetto al piano della trascendenza.
5) L’uomo si trova sempre in una situazione finita, in cui si riconosce nel
peccato: di conseguenza, il suo rapporto con la trascendenza è l’angoscia.
L’essere nel peccato, con l’angoscia che ne consegue, è il presupposto
contraddittorio nel quale l’uomo si trova. Tuttavia, il riconoscimento di tale
presupposto può darsi solo riconoscendo anche la trascendenza. La fede
rappresenta la via d’uscita rispetto a tale situazione contraddittoria. Il
superamento dl problema (proballein: gettare dinanzi per trovare una
soluzione) attraverso la fede avviene, sotto il profilo della storicità,
riconoscendo la negatività del peccato, e dunque il problema in quanto tale. A
differenza che in Hegel, per Kierkegaard tra contraddizione e soluzione – tra
tesi e antitesi, da un lato, e sintesi reale da un altro – c’è sempre il richiamo
alla trascendenza. Solo così la sintesi può configurarsi nella sua concretezza
storica. L’orizzontalità della storia s’interseca con la verticalità della fede, che
conferisce allo sviluppo storico un vero movimento. L’opposizione tra tesi e
antitesi non è più, qui, frutto di astrazione, ma diviene il presupposto, il
negativo concretamente rappresentato dal peccato. La situazione problematica,
che attende di essere risolta, crea angoscia in presenza del rapporto che
l’uomo intrattiene con l’eterno. La positività del rapporto con la fede crea
effettivamente la sintesi come soluzione concreta. L’atto di fede richiede, però,
la presenza di due movimenti. Nel primo, l’uomo – riconoscendo la situazione
negativa – tende al positivo, e cioè a quel bene (Dio) che manca nella sua
esistenza finita e contraddittoria. Di qui l’innalzamento in verticale verso la
trascendenza. Tuttavia, questo primo movimento non rappresenta di per sé la
soluzione (la sintesi), giacché non basta che l’uomo si acquieti per così dire in
Dio, dovendo invece affrontare la situazione problematica e contraddittoria che
attende di essere risolta. Di qui il ritorno sul piano dell’orizzontalità, in cui la
soluzione ottiene una concreta realizzazione storica. L’amore di Dio, privo della
possibilità di operare un’effettiva soluzione della situazione negativa, finisce
per essere amore per se stessi, mero rispecchiamento di sé in Dio. La fede
richiede sempre un’attuazione nella vita, ovvero si confronta con l’assurdità
che possa avvenire ciò che sembra impossibile. La fede, quindi, si muove verso
l’infinito per tornare al finito. Con la fede con si perde mai di vista il mondo
finito, non ci si rifugia in maniera ascetica in un altro mondo, ma si riguadagna
il mondo nella sua piena integralità. Per dare concretezza alla dialettica
hegeliana, occorre anzitutto negare l’identità tra reale e razionale; poi occorre
riconoscere un presupposto e viverlo come situazione negativa: riconoscerlo
come peccato crea uno stato di angoscia, ovvero la condizione del
superamento del peccato attraverso la fede. La fede, però, deve risolvere la
situazione negativa nel finito, poiché solo così potrà darsi una vera
conciliazione e un’effettiva mediazione.
6) Kierkegaard critica però anche una certa coloritura etica della conciliazione
hegeliana. Quando Hegel parla di contraddizione, sembra sottintendere che si
tratti di un male, per cui la sintesi si presenterebbe invece come un bene. Qui
logica ed etica tendono a confondersi, delineando un superamento in senso
logico di ciò che è male. In questo modo, però, l’uomo finirebbe per non
trovarsi mai nel peccato e per non vivere la situazione dl pentimento. Del
pentimento non si può tuttavia render conto in termini logici o etici. L’etica è la
scienza che si occupa del bene comune e che riconosce la direzione ideale
verso il bene propria dell’uomo. Il pentimento ci mette viceversa al cospetto di
un’inclinazione verso il male. Tale inclinazione non può essere però spiegata
dall’etica, che deve presupporla come peccato. se l’etica spiegasse tale
inclinazione al male finirebbe per considerare il passaggio dal male al bene
come una sorta di sviluppo logico in termini di mera consequenziarietà. L’etica
sarebbe con ciò al centro di una tensione contraddittoria, dovendo spiegare il
male e il pentimento, ma rischiando con ciò di trasfigurarne la natura in questo
tentativo di spiegazione. L’etica, come tutte le altre scienze, non può essere
una scienza senza presupposti, e segnatamente non può sussistere senza far
riferimento al peccato e dunque alla dogmatica. Anche la dogmatica però corre
il rischio di tradire il proprio statuto allorché viene assunta in un senso
hegeliano. Anche la rivelazione infatti, nella sua autenticità, necessita di un
riconoscimento trascendente. La dogmatica non può risolversi, cioè, sul piano
logico o, per converso, appiattirsi su un immediatezza di stampo storico che
comporterebbe a sua volta un’astrazione. Un fatto storico, foss’anche quello
inerente alla rivelazione del logos, richiede sempre il riconoscimento del
peccato, della fede, dell’incarnazione della trascendenza nella storia, per cui
non ha nulla d’immediato né sotto il profilo logico né sotto quello storico.
L’etica cerca la conciliazione, così come la cerca la dogmatica. Tuttavia,
l’accettazione di una comune posizione hegeliana compromette sia la posizione
dell’etica, sia quella della dogmatica, che finiscono perciò per contendersi la
conciliazione (p. 17).
7) Per Kierkegaard, la logica hegeliana è tautologia, ovvero è essenzialmente
identità. “Tutto ciò che è logico è” (p. 18): in logica, dunque, nulla diviene,
nulla è processo. Hegel vuole invece affermare la processualità della logica,
servendosi del negativo per trasformarla in un divenire. Viceversa per
Kierkegaard la logica è ferma e il suo movimento è stasi (quiete). Il vero
movimento sta fuori della logica, la trascende, decretando così l’impotenza
della logica nei confronti della realtà. In ciò sta la negatività della logica, vale a
dire il suo non poter essere reale e il non poter avere un movimento. Il
negativo, per Kierkegaard, è ciò che non è nella logica, per cui non potrebbe
essere utilizzato hegelianamente per far muovere la logica. Anzi, il negativo di
Hegel non è che un “fantasma” (p. 18). Per uscire da tale impasse il negativo
potrebbe essere interpretato come il contrario che si contrappone al contrario,
ma in questo modo – seguendo l’argomentazione del Sofista platonico – il
negativo sarebbe pur sempre qualcosa: ovvero, sarebbe qualcosa di positivo
che si contrappone a qualcos’altro di altrettanto positivo, smarrendo quindi la
sua negatività. Per questo, secondo Kierkegaard non c’è possibilità, per Hegel,
d’imprimere un movimento alla logica attraverso il negativo, così come sul
piano dell’etica hegeliana – nella quale il negativo logico si configura come il
male – fallisce il conseguente tentativo di risolvere l’etica sul piano della
logica.
8) Argomento centrale della trattazione kierkegaardiana resta, però, il legame
tra angoscia e peccato. Una volta riconosciuto il presupposto costituito dal
peccato, si prende in considerazione il superamento del peccato che, per
l’appunto, crea l’angoscia. Kierkegaard si propone, quindi, di trattare la
questione dell’angoscia sul piano psicologico. Ciò non significa, però, dare una
risoluzione psicologistica al problema del peccato, giacché in tal modo si
finirebbe per replicare l’errore di risolvere il peccato in chiave logica o in chiave
etica. Il peccato appartiene il peccato è la contraddizione, che è comica o
tragica (p. 20). Indagare il peccato da questo punto di vista vorrebbe dire,
però, sfigurarne la natura, trasportando il peccato nella sfera estetica. Il
peccato verrebbe cioè sottratto alla sua atmosfera, nel senso che il peccato
non verrebbe affrontato con lo stato d’animo che gli corrisponde – la serietà –
ma sarebbe falsificato in senso estetico (p. 20). Ogni ricerca filosofica o
indagine scientifica necessita di un certo stato d’animo, capace di conferirle
l’espressione più adeguata. Con ciò Kierkegaard non intende però proporre
un’immagine arretrata dell’indagine scientifica, nella quale troverebbe di nuovo
posto la sfera psicologica dell’emotività, quasi a inquinare il richiamo alla
neutralità e all’oggettività tipico della scienza in genere. Kierkegaard sottolinea
più volte, in vari scritti, come l’operare della scienza si accompagni a un
carattere di sobrietà. In questo contesto, Kierkegaard critica però una certa
neutralità del discorso scientifico, nel senso che l’oggetto indagato non si
contrappone in modo naturalistico al soggetto conoscente, ma intrattiene con
esso una sorta di complicità o, quantomeno, di relazione. In quanto disciplina
scientifica, alla psicologia corrisponde lo stato emotivo della curiosità (p. 20).
Tutte le discipline scientifiche si reggono del resto sulla curiosità, la quale
indirizza a un comportamento osservativo metodico e perseverante. Il peccato,
come oggetto di studio della psicologia, non è però uno stato da cogliersi
esclusivamente sotto il profilo osservativo. Tra l’altro, se così fosse, lo stato
d’animo della psicologia sarebbe una curiosità “fatta di antipatia” (20), mentre
invece lo stato d’animo giusto per affrontare il peccato è la “resistenza
coraggiosa della serietà” (p. 20). Il luogo in cui il peccato ha posto è il
colloquio, il dialogo tra un io e un tu, tra due Singoli: ovvero ciò che
Kierkegaard chiama “predica” (p. 20). Emerge, quindi, che il peccato non ha
posto in alcuna scienza, avendo invece a che fare con l’arte del predicare o,
per dirla socraticamente, con l’arte del conversare. I Sofisti sapevano parlare,
ma non sapevano conversare. Erano tecnici della parola e del linguaggio,
pagati per sostenere una determinata posizione e, quindi, capaci di dire tutto e
il contrario di tutto. Ai Sofisti mancava, però, il “segreto dello colloquio”, vale a
dire “l’approvazione” (p. 21).
9) Il peccato non ha un posto specifico in alcuna scienza, e tuttavia peccato e
fede si trovano un po’ ovunque. In ogni caso, ogni indagine inerente al peccato
rimanda, di necessità, alla dogmatica. Lo stato d’animo richiesto dal peccato è
sempre la serietà. Del peccato non si può essere semplicemente curiosi od
osservatori, più o meno interessati. Il peccato non può essere scandagliato in
termini per così dire anatomici, sviscerandone gli aspetti più minuti, o
analizzato in funzione del suo impatto sociale e di una morbosità pubblica. Dal
punto di vista teologico – privilegiato da Kierkegaard – la trattazione del
peccato non può trovar posto nella psicologia in cui, come disciplina scientifica,
prevale la curiosità e l’osservazione. La serietà necessaria ad affrontare tale
argomento sembrerebbe rimandare dunque alla metafisica, in quanto –
trattandosi, per certi versi, della scienza del tutto – essa pare idonea a ospitare
lo studio di un oggetto sui generis (il peccato) che si trova in ogni luogo.
Nondimeno, lo stato d’animo proprio della metafisica è “l’impassibilità e
l’indifferenza dialettica” (p. 20), cosicché nemmeno la metafisica può trattare
del peccato, a meno di non deformarne la natura in ragione di un’impassibilità
che lascerebbe intendere la possibilità che tutto possa essere “superato”
attraverso il pensiero e che anche il peccato, quindi, non possa resistere al
pensiero stesso. La metafisica scommette sul fatto che il pensiero possa
assimilare il proprio oggetto (come nel caso della metafisica prekantiana). In
tal senso, anche Hegel non fa eccezione, in quanto l’oggetto reale sembra
essere, per lui, solo un momento dialettico della ragione. In questo modo, il
peccato è un oggetto che il pensiero domina al pari di tutti gli altri , non
essendo più quella situazione esistenziale, quella concreta situazione
d’angoscia che dev’essere superata attraverso la fede. D’altronde, rimanere
impassibili nei confronti del peccato significherebbe farlo scomparire, e non c’è
scienza che possa indagare ciò che non vede o di cui non ha esperienza. Il
peccato è uno strano oggetto, che non si lascia ridurre a oggetto e che non
trova posto né nella metafisica, né nella psicologia. La serietà con cui si deve
affrontare il peccato impone di non essere quasi femminilmente (“come una
donna, p. 20) dominati da esso, ma di cercare di vincerlo, superandolo. Il
peccato non può essere considerato, astrattamente, uno stato mentale (o della
psiche). Essendo, viceversa, una situazione esistenziale, volerlo cogliere
logicamente attraverso concetti significa decretarne la scomparsa. Da ciò
consegue che il peccato non rientra, in senso proprio, in nessuna forma di
conoscenza, trattandosi della condizione esistenziale dell’uomo, del
presupposto per eccellenza. Anche la conoscenza, infatti, ha nel peccato la
propria situazione esistenziale, il presupposto da cui deve necessariamente
partire e dal quale non può prescindere. L’uomo non sbaglia infatti solo dal
punto di vista astrattamente conoscitivo, ma è già nella “non verità” nella
misura in cui si riconosce come peccatore. Il vero “conosci te stesso”
contempla, anzitutto, il riconoscimento di tale singolarità. L’uomo non può
quindi riconoscersi nell’astrattezza e generalità di un “io trascendentale”, né
pensare di risolvere la propria esistenza nell’universalità dei concetti o delle
forme categoriali. La singolarità e irripetibilità dell’uomo deriva dal fatto di
essere nel peccato, ma da tale riconoscimento scaturisce anche la possibilità
del dialogo, giacché l’apertura all’altro si nutre di una comune radice che ci
pone alla ricerca della verità e della salvezza.
10) Il riconoscimento del peccato conduce alla fede, al movimento verticale
della fede, e questa a sua volta rende possibile il dialogo e segnatamente il
dialogo religioso. L’incontro con la propria interiorità avviene solo riconoscendo
nel peccato la propria individualità esistenziale, storica e irripetibile. I Sofisti
sapevano parlare ma non dialogare. Al cristiano, invece, si dischiude tale
possibilità, aprendosi alla parola di Dio che – incarnandosi come Cristo nel
mondo della “non verità” – trasforma il dialogo in salvezza, togliendolo il
Singolo dal suo isolamento e riscattandolo, quindi, da tale condizione. Il
riconoscimento del peccato permette il dialogo, nel quale si rivela la presenza e
la verità di Dio. Tale presenza attua la conversione del Singolo, che può così
rinascere nel mondo dello spirito. Riconoscendosi come peccatore, l’uomo
avvia un percorso in cui potrà realizzare non un’astratta conoscenza della
verità, ma un mutamento radicale del proprio essere e un’autentica
trasformazione di sé. Per chi già esiste, non è possibile in senso stretto nascere
o rinascere: tuttavia, nel passaggio dalla non-verità e dal non-essere del
peccato all’essere dello spirito si attua propriamente il significato di una
rinascita spirituale.
11) Scartata l’ipotesi che il peccato possa trovar posto, in termini di
trattazione, nella metafisica o nella psicologia, subentra l’idea che esso possa
rientrare nell’etica quale discipline che “vuole portare l’idealità nella realtà”.
Tuttavia, anche quest’ipotesi è destinata a saltare. L’etica naufraga proprio in
rapporto al peccato e alla questione del pentimento. L’etica infatti o, meglio, la
“prima etica” non riconosce il peccato, che è invece il presupposto della
dogmatica. Questa prima etica va distinta dalla “seconda” che s’instaura invece
nel riconoscimento del peccato, e dunque a ridosso della dogmatica. Il
naufragio dell’etica contro il pentimento e “lo scoglio della peccaminosità
dell’individuo” (p. 22 e 25) deriva dalla sua sostanziale idealità, che le
impedisce di raggiungere la realtà. L’etica non “deve mercanteggiare” (p.22):
deve condannare o assolvere. In tal modo, però, il peccato come trasgressione
a una norma può essere solo rifiutato, non potendo cioè essere trattato
nell’ambito dell’etica. In ragione del suo formalismo astratto, anche l’etica
come la legge funge da “pedagogo”, nel senso che comandando condanna
senza dare vita (p. 21). Diversa la posizione dell’etica greca, e in particolare di
quella aristotelica, secondo cui la virtù da sola non è in grado di render l’uomo
felice. L’etica prima contrappone alle imperfezioni umane l’ideale di un uomo
perfetto, rendendo in qualche modo irrealizzabile la propria idealità. Qui si apre
però un dissidio che costringerà l’etica a farsi carico dell’esistenza negativa e
contraddittoria dell’uomo. L’etica deve giungere cioè a riconoscere il peccato
originario e costitutivo dell’esistenza umana. Ma con tale riconoscimento si
fuoriesce già dall’etica per accostarsi alla dogmatica. L’accoglimento nell’etica
del peccato coincide con l’eliminazione della sua idealità (riferimento ai vari
stadi dell’esistenza e a quanto sostenuto in Timore e Tremore, con lo
pseudonimo di Johannes de Silentio). S’impone il tema del salto, del
mutamento, della rinascita. Con ciò la vita dell’uomo si stacca da una certa
continuità immanente col passato per accedere, col salto, alla dimensione
verticale della fede, che comporta il rifiuto dell’esistenza finora vissuta nella
forma del riconoscimento del peccato e del conseguente pentimento.
12) L’uomo che nega la vita trascorsa non l’ha però cancellata, disponendosi
solo a ripeterla su un altro piano, a trasfigurare se stesso e il significato del
passato nell’istante della conversione. Di qui il senso della ripetizione in quanto
rinascita. Accettandosi come peccatore l’uomo sceglie per l’appunto di essere
ciò che è, entrando cioè nel mondo dello spirito per realizzarsi nella positività.
Il passaggio dal presupposto contraddittorio del peccato all’ingresso nella
dimensione della spiritualità apre la possibilità di una nuova etica (p. 25)
basata sulla realtà: sulla realtà del peccato da trasformare in salvezza
attraverso una rinascita religiosa quale autentica mediazione conciliatrice. La
vera ripetizione, come rinascita nello spirito, si differenzia da quella falsa
ripetizione che – come coazione a ripetere – scandisce la vita estetica (Diario
del seduttore).
13) Su queste basi, ci sono margini per ricondurre l’etica alla dogmatica,
ovvero alla realtà esistenziale del peccato. L’etica nuova o seconda presuppone
dunque la dogmatica, la quale non spiega astrattamente il peccato, giacché in
tal modo finirebbe per rifuggire da tale situazione esistenziale. Kierkegaard
riconosce, al riguardo, l’importanza di Schleiermacher quale fondatore non solo
dell’ermeneutica moderna ma anche di una dogmatica determinante per la
teologia protestante e, soprattutto, come grande oppositore di Hegel, in
quanto parlava “solo di ciò che sapeva” (p. 24). Tale etica deve riscoprire
dunque il presupposto del peccato originale, senza rifugiarsi in una
precettistica di carattere ideale. Né la metafisica classica né l’idealismo
hegeliano erano partiti dal presupposto. Di conseguenza, non ponendo al
centro della propria riflessione il problema della salvezza, erano rimasti
ancorati al piano orizzontale, mancando con ciò del senso dell’infinito.
Mancando di trascendenza, la metafisica tradizionale – intesa come filosofia
prima – restava consegnata all’immanenza, senza affrontare il problema della
fede, della salvezza e della rinascita. Viceversa la vera filosofia, come filosofia
seconda, non è più solo legata al piano d’immediatezza dell’essere, ma ne
attua una ripresa che porta a superare il peccato operando –come esito di
un’autentica mediazione – una negazione di ciò che è negativo sotto il profilo
esistenziale, ovvero la negazione di una negazione. Solo così la filosofia può
porsi come filosofia dell’esistenza, della trascendenza e della fede.

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Lezioni della quarta settimana
1) Una filosofia autentica è forse in grado di trasformare, dunque, sia l’etica
(prima) sia la psicologia. Quest’ultima non può avere il peccato come proprio
oggetto d’indagine, ma può comunque indagarne il presupposto, ovvero il
modo in cui il peccato sorge, in quanto è invece la teologia dogmatica a
occuparsi del fatto che esso nasca. L’oggetto di tale psicologia riformata sarà
dunque l’angoscia come “presupposto disponente” (p. 26), come elemento
costante del peccato. La psicologia studia dunque la possibilità del peccato e
non la sua realtà (il cui studio spetta invece alla dogmatica). La psicologia non
esamina in termini naturalistici l’elemento da cui di continuo nasce il peccato,
giacché non lo riconduce a una sorta di necessità causale. Del resto, il peccato
è un atto libero, è un fare che la psicologia studia dal punto di vista della sua
possibilità. La possibilità del peccato non è, infatti, la sua realtà, dal momento
che “la libertà non è mai possibile ma, appena è, è reale” (p. 26: con
riferimento a una dimostrazione dell’esistenza di Dio). Per la psicologia il
peccato non è dunque un oggetto, né un fatto, mentre l’etica lo considera
qualcosa da stigmatizzare e su cui giudicare negativamente, ma di cui solo la
rinascita nella fede e nello spirito riuscirà liberarsi. I fatti che la psicologia
studia non vengono valutati da essa: la psicologia non giudica il peccato,
giacché si tratta di una realtà che è fuori do essa, mentre è l’etica a poter
viceversa condannare il peccato, laddove solo la fede è in grado però di
assolverlo.
2) La psicologia spiega dunque come sia possibile il peccato, quale ne sia la
vera predisposizione. Si tratta di capire su che cosa però si fondi tale
possibilità. La psicologia raccoglie determinati fatti e si serve di essi, ma non
può comunque affrontare la questione di perché l’uomo sia costitutivamente un
peccatore. Per questo, nell’approfondire la possibilità del peccato, essa risulta
per così dire al servizio di un’altra scienza, nel senso che “tende verso la
dogmatica” (p. 27), la quale è in grado di continuare il lavoro della psicologia –
approfondendolo, però, su un altro piano – in quanto presuppone il peccato
originale. La dogmatica si occupa dell’effettiva realtà del peccato concepito
come peccato originale. Tale aspetto funge da fondamento anche della scienza
psicologica. Mentre la psicologia studia la possibilità reale del peccato, la
dogmatica fornisce una spiegazione del peccato originale, senza però risolverlo
sul piano del pensiero o della logica, ma individuando la “possibilità ideale” del
peccato (p. 27), e cioè il presupposto o la premessa ideale della possibilità
reale del peccato studiata dalla psicologia. La prima etica ignora il peccato,
mentre la seconda – che si ritrova ad affrontare la realtà del peccato nel
proprio ambito – non ha nulla a che vedere con la possibilità del peccato e,
soprattutto, con il peccato originale. Quanto alla realtà del peccato, la
psicologia può intervenire solo per un “equivoco” (p. 27).
3) Kierkegaard si occupa senz’altro di psicologia nella misura in cui studia la
possibilità della realtà del peccato nell’uomo. La psicologia non è vista però
come scienza autonoma, ma come disciplina che opera in funzione della
dogmatica. La possibilità del peccato ci conduce infatti a considerarlo il
presupposto esistenziale che esige salvezza. Finché la fede non ci salva però
dal peccato, ci troviamo in presenza di vari tipi di angoscia. L’angoscia non
viene cioè studiata da Kierkegaard per se stessa, ma sempre in rapporto alla
fede, alla salvezza, alla rinascita. Studiando l’angoscia in rapporto alla fede,
Kierkegaard orienta tale tema in direzione della dogmatica, che riconosce il
presupposto contraddittorio del peccato quale fondamento dell’esistenza
umana. Essendo orientata alla dogmatica la psicologia non può rientrare,
dunque, nello “spirito soggettivo” (p. 27), come voleva invece Hegel, ma si
trasforma invece nella dottrina dello spirito assoluto, che per Kierkegaard non
è lo spirito ma la fede. A differenza della prima etica, che è estranea a tutto
ciò, l’etica seconda presuppone la dogmatica (p. 27), svincolandosi al tempo
stesso dalla metafisica classica. Di qui però la necessità di ripartire dalla
dogmatica, che per prima ha indicato il presupposto del peccato.
4) A partire dal primo capitolo, Kierkegaard si propone di analizzare il
problema del peccato sottoponendo a una radicale reinterpretazione il terzo
libro del Genesi. Kierkegaard non è soddisfatto delle soluzioni che le diverse
dogmatiche tradizionali offrono riguardo al problema della genesi del peccato.
Tutte tendono a destoricizzare la figura di Adamo, sottraendolo alla storia del
genere umano, che finisce così per vedersi attribuito un inizio fantastico (p.
29). Con ciò si rischia di attribuire un significato eccessivo al peccato
commesso dal “primo uomo”, alla caduta del primogenitore. Viceversa,
l’essenza della figura di Adamo consiste nell’essere individuo e umanità al
tempo stesso. Il peccato diviene infatti possibile solo nell’incontro tra specie e
individuo. Il peccato di Adamo – che reca in sé l’umanità tutta – si ripercuote
certo sugli altri, ma non nel senso che ciascuno erediti il peccato commesso da
Adamo, alla maniera in cui si contrae un debito o, peggio ancora, una malattia.
Ogni individuo può rivivere, infatti, l’esperienza di qualunque altro uomo,
ritrovandosi nella stessa dimensione di scelta e nella stessa ambiguità tra bene
e male in cui in fondo si è trovato anche Adamo. Il problema è dunque quello
di sapere come avvenga, in una situazione angosciosa che ciascuno può
rivivere, che l’uomo commetta peccato. Il problema sarà dunque affrontato
esaminando l’angoscia nei suoi tratti relazionali, che mostrano come il peccato
entri nel mondo per mezzo di un individuo che in sé è però anche l’umanità.
5) Kierkegaard non accetta il “presupposto fantastico-dialettico” da cui muove
la dogmatica cattolica, secondo cui Adamo avrebbe ricevuto da Dio un dono
soprannaturale, consistente in una sorta d’integrità originaria perduta a seguito
del peccato. Kierkegaard non crede a tale condizione originaria, poiché essa –
spacciata per storica – finirebbe per slegare Adamo dal resto del genere
umano, quando invece è proprio la storia del peccato a cominciare da lui.
Ugualmente però egli critica la dogmatica protestante, e segnatamente gli
articoli di Smalcalda (p. 30), giacché in essa il peccato ereditario era visto
come una corruzione della natura, non comprensibile cioè dalla ragione umana.
Kierkegaard rivolge critiche anche alla cosiddetta dogmatica federale (p. 29),
che aveva fatto di Adamo il “rappresentante dell’intero genere umano2,
cosicché tutti gli uomini avrebbero potuto intrattenere un rapporto col peccato
solo in virtù della loro relazione con Adamo e non per le colpe relative ai loro
atti. Accettare quest’impostazione vorrebbe dire che il salto qualitativo del
peccato è avvenuto solo con Adamo, mentre dopo di lui si può parlare solo di
diffusione e propagazione del peccato a livello quantitativo. Sia nella tradizione
cattolica, sia in quella protestante, Adamo sarebbe stato messo fuori dalla
storia “in un modo così fantastico da essere l’unico uomo escluso dalla
redenzione” (p. 31). Il primo peccato di Adamo avrebbe perciò una valenza
qualitativa diversa rispetto a tutti gli altri peccati, per cui anche il primo
peccato di ogni altro uomo sarebbe sollevato da ogni responsabilità. Ma per
Kierkegaard non si può spiegare il peccato originale prescindendo da Adamo e
viceversa, anche perché l’individuo non è un semplice esemplare di una specie
(animale), ma ha un rapporto dialettico con il proprio genere.
6) Per Kierkegaard non può essere, dunque, che il peccato di Adamo sia la
causa del peccato degli altri uomini, che a loro volta ne sarebbero solo
condizionati. Ancora una volta, infatti, Adamo sarebbe posto al di fuori della
relazione tra individuo e umanità. Se Adamo fosse la causa del peccato, egli
rivestirebbe il ruolo particolare di unico peccatore, per cui gli altri uomini non
sarebbero responsabili di un peccato non commesso liberamente. La storia
stessa risulterebbe impedita, nel suo svolgimento, da una totale alienazione del
passato. Viceversa, il peccato non viene semplicemente ereditato, quasi che il
peccato originario di Adamo abbia prodotto una “peccaminosità” che si sarebbe
misteriosamente propagata come un’epidemia (p. 41) per tutto il genere
umano. In realtà tra gli individui non regna una continuità spiegabile in termini
causali, dato che se così fosse ogni determinazione qualitativa deriverebbe
quantitativamente dai dati in qualche modo prestabiliti, facendo sì che tra
genere e individuo s’imponga una sorta di ordine deterministico. Dal punto di
vista kierkagaardiano, ogni individuo si trova in uno stato d’innocenza e di
angoscia che può farlo ricadere nel peccato, dal momento che si cade nel
peccato per libera scelta e non per una peccaminosità ereditata. Ne consegue,
che il primo peccato o il peccato originario di ogni singolo individuo ha una sua
determinazione qualitativa, che non si lascia dedurre logicamente né spiegare
storicamente, poiché il peccato entra appunto nel mondo con la repentinità del
“salto”. Non è affatto vero, quindi, che con il peccato di Adamo la natura si
sarebbe corrotta, diventando peccaminosa, giacché in questo modo si finirebbe
per sottrarre le colpe dei singoli da una libera responsabilità individuale.
7) Tra l’innocenza e la colpa non c’è un passaggio orizzontale, ma interviene
un “salto” qualitativo. Il peccato entra nel mondo perché prima non c’era,
essendovi infatti uno stato d’innocenza. Il passaggio dall’innocenza al peccato
non può essere regolato in termini logici, attraverso categorie che non
ammettono il salto, come cioè si potesse passare dall’una all’altro mediante
una continuità logica necessaria. Ancora in polemica con Hegel, Kierkegaard
non coglie la presenza di salti nella concezione della storia hegeliana, ma solo
di una contrapposizione logica quantitativa che resta comunque illusoria,
stante che la sintesi è già per così dire presupposta nell’opposizione di tesi e
antitesi. Tra innocenza e peccato Kierkegaard coglie invece una contraddizione
di segno qualitativo, tale da spezzare – in direzione della verticalità
(trascendenza) – una dialettica altrimenti consegnata a un piano orizzontale
puramente quantitativo. Tra innocenza e peccato l’identità invece si spezza ,
cosicché l’entrata del peccato nel mondo è conseguente al perdersi
dell’innocenza. Una dialettica di tipo esistenziale comporta sempre il richiamo
alla responsabilità dell’individuo che fa entrare il peccato nel mondo. Ancora
una volta si avverte, in chiaroscuro, la distanza maturata da Kierkegaard nei
confronti della concezione hegeliana della storia in cui sembra prevalere
l’unicità dello spirito.
8) La storia umana, in quanto storia che prende le mosse dal peccato,
ricomincia sempre con la scelta di peccare propria di ciascun uomo. La realtà
del peccato presuppone come possibilità solo se stessa, e la peccaminosità –
che non è l’effetto di un processo di determinazioni quantitative (cfr. p. 34) –
entra nel mondo con il peccato di ciascun individuo, poiché se la peccaminosità
precedesse il peccato, il peccato sarebbe tolto. Contrapponendosi al “mito2 che
accompagna l’interpretazione tradizionale del terzo libro del Genesi,
Kierkegaard sostiene che anche nel caso di Adamo la peccaminosità entrò in lui
con il suo peccato d’origine. Ciò vale per ogni altro individuo. Su questa base,
si può eliminare dunque la concezione mitica di stampo intellettuale che fa
iniziare la specie con un individuo che è, di fatto, fuori di essa, ovvero che fa
iniziare il genere umano con l’unico individuo che non partecipa di tale storia.
9) L’osservazione di Kierkegaard porta a notare che il peccato non si può
spiegare ricorrendo a un presupposto che ne sia la causa logica. Tanto meno si
può pensare che la causa del peccato risieda nello stato di peccaminosità come
suo presupposto. In questo modo ci s’imbatterebbe in un’evidente circolarità,
dato che la peccaminosità sembra essere stata creata apposta per spiegare il
peccato. Ma la natura del peccato si dissolverebbe se prima di esso ci fosse
davvero la peccaminosità, dato che il peccato è tale nella misura in cui prima
c’è invece l’innocenza. Il peccato entra sempre nel mondo attraverso un salto e
non lo si può spiegare – alla maniera della logica di Hegel – facendolo
orizzontalmente discendere dalla peccaminosità (cfr. p. 33). Il peccato porta
viceversa con sé la peccaminosità. Prima di peccare l’uomo si trova in uno
stato d’innocenza che può comunque precipitarlo nel peccato. È uno stato
ambiguo in quanto, per un verso, mostra in positivo i tratti dell’innocenza,
mentre per un altro contiene la possibilità di saltare al di là dell’innocenza
stessa. Tale ambiguità è costitutiva dell’innocenza, dato che essa può saltare
nel peccato, ma può anche trattenersi dal farlo. In questa ambiguità si afferma
anche l’ambivalenza tipica dell’angoscia. A partire dal terzo paragrafo (pp. 38
sgg.), Kierkegaard ribadisce la propria differenza rispetto ad Hegel, che aveva
in qualche modo confuso l’etica con la logica. L’innocenza non è infatti
l’immediato che possa essere tolto (cfr. p. 399 come qualcosa di negativo
(sotto il profilo logico) proprio per assicurarne il superamento. Dal punto di
vista etico, l’innocenza sembrerebbe piuttosto essere qualcosa da mantenere,
anche perché se l’innocenza fosse qualcosa di negativo non le si potrebbe
contrapporre il peccato. L’innocenza non è né un mitico stato di perfezione al
quale si desidera ritornare, né uno stato d’imperfezione (qualcosa di negativo)
nel quale non si può rimanere. In base allo stesso racconto del Genesi,
l’innocenza non presenta alcuna immediatezza, essendo solo sinonimo
d’ignoranza (cfr. pp. 40 sgg.).
10) L’innocenza si perde solo col peccato, ovvero col salto qualitativo, e non
per l’accumularsi della storia del genere umano su ciascuno di noi. La perdita
dell’innocenza non è frutto di una determinazione quantitativa, ma è qualcosa
che avviene di continuo ad opera ad opera di un individuo. L’innocenza è detta
ignoranza in quanto non può conoscere il peccato. La proibizione di peccare –
ad esempio il divieto di mangiare dall’albero della conoscenza – può far sorgere
il desiderio di peccare, ma un desiderio che dovrebbe quindi ignorare il peccato
stesso. Su questo terreno, di natura senz’altro psicologica, la spiegazione
fornita dalla psicologia dovrebbe comunque mantenersi entro determinati
limiti, in quanto la psicologia non è in grado di spiegare il salto qualitativo che
determina il peccato, ma solo d’illuminare la situzione d’ambiguità che connota
lo stato d’innocenza. La caduta nel peccato non può si può dunque tradurre
nella trasgressione di un divieto, ovvero nel risveglio della concupiscentia,
poiché in questo modo la psicologia avrebbe già oltrepassato i limiti delle
proprie competenze (cfr. p. 43). Kierkegaard chiede invece alla psicologia di
mantenersi nella propria “elastica ambiguità” (43), anche perché tale disciplina
“può spiegare solo il modo di arrivare alla spiegazione”, dovendo soprattutto
“guardarsi dal voler far credere di spiegare ciò che nessuna scienza può
spiegare” (41).
11) L’innocenza – come possibilità di peccare che però è al contempo
ignoranza del peccato – si carica di angoscia. Nel paragrafo 5 (cfr. pp. 44 sgg.)
Kierkegaard inizia a lavorare sui concetti di anima, corpo e spirito.
Nell’innocenza, l’uomo è in un rapporto speciale tra anima e corpo – un
rapporto caratterizzato dal fatto che lo spirito è in stato di sogno. Il rapporto
tra anima e corpo non è ancora ben definito: la loro differenziazione è
possibile, ma non si è ancora realizzata. Lo spirito sognante non ha ancora
preso coscienza di sé. Il sognare rappresenta una posizione intermedia tra il
dormire e la veglia, costituendo un sapere di sé ancora inautentico.
Nell’innocenza non si ha ancora coscienza della distinzione tra anima e corpo.
Se tale distinzione si manifesterà in forma di opposizione (o perfino di
contraddizione) l’uomo cadrà nel peccato, sperimentando così la differenza tra
bene e male. Anche la Bibbia – a differenza delle “fantasticherie cattoliche” al
riguardo (p. 44) – nega che l’uomo conosca, nella situazione d’innocenza, la
differenza tra bene e male. Lo spirito si pone come rapporto tra anima e corpo,
laddove il rapporto richiede la differenza tra i due termini. Nello stato
d’innocenza tale differenza non è nota: in esso, anima, corpo e spirito sono
ancora indistinti, pur essendo attraversati da un presentimento di possibilità
positive e negative. In un caso (positivo), lo spirito costituirebbe una relazione
tra anima e corpo che arricchisce l’uomo in termini conoscitivi, senza fargli
smarrire l’innocenza; nell’altro (negativo), la conoscenza è ottenuta opponendo
anima e corpo nella loro differenza, dando luogo così al peccato. Il peccato
dunque insorge quando una differenziazione armonica garantita dallo spirito si
trasforma in una contrapposizione in cui i termini differenti si oppongono tra
loro alla maniera del bene e del male. Nella situazione umana in cui sono
presenti entrambe queste possibilità (positiva e negativa) non si dà però di
fatto né lotta né inquietudine, giacché si è al cospetto di un semplice nulla che
genera angoscia. Sognando, lo spirito proietta fuori sé la propria realtà, che
l’innocenza coglie però alla stregua di un nulla.
12) Nello stato d’innocenza l’uomo non ha ancora fatto il salto nel peccato,
ignorando il contenuto delle due possibilità che gli si prospettano. A tale livello
l’uomo ha solo la possibilità del possibile, senza sapere cosa potrà avvenire
quando tale possibilità indeterminata si determinerà. L’uomo non sa questo
perché è nell’innocenza: egli sente che qualcosa è possibile, ma finché non
opera il salto ciò costituirà sempre un nulla. Proprio il fatto che la possibilità
venga ignorata nel suo contenuto fa sì che l’uomo nell’innocenza sia
nell’angoscia. L’uomo proietta quindi ciò che non conosce fuori di sé, palesando
così nell’angoscia il mistero profondo dell’innocenza.
13) L’esistenza umana è segnata, per Kierkegaard, dall’angoscia, e anzi da
molteplici forme di angoscia. Nell’interpretazione del Genesi che egli delinea, lo
spirito è chiamato a sintetizzare elementi che lo caratterizzano
strutturalmente, ma che al tempo stesso confliggono (anima e corpo,
temporalità ed eternità). L’uomo si trova quindi nelle condizioni di doversi dare
un’identità precisa, e cioè di doversi scegliere, avendo però di fronte anche la
possibilità del fallimento, quale fattore che produce angoscia. Questo preciso
stato d’animo, consistente nel dover porre in relazione elementi contraddittori
che si trovano in lui ancora indistinti, è ciò che lo predispone al peccato.
14) Nello stabilire il rapporto dell’angoscia col sogno, Kierkegaard indica
l’appartenenza alla psicologia della determinazione (angoscia9 dello spirito
sognante (cfr. p. 44). Nel sogno, a differenza della veglia, ogni differenziazione
è sospesa, risultando come un nulla appena accennato. Lo spirito è rapporto
tra anima e corpo, ma nell’innocenza tale rapporto è ancora per così dire
inconsapevole (solo presagito). Il rapporto tra anima e corpo diverrà
consapevole solo a livello coscienziale. L’angoscia si pone a metà tra
l’impossibilità animale di creare tale rapporto e la possibilità umana di
determinarlo. Nello stato d’innocenza questo rapporto è possibile ma non
ancora reale, per cui lo spirito si angoscia nel tentativo di realizzare una
possibilità che si dilegua come un nulla. L’angoscia si determina, quindi, nel
momento in cui lo spirito cerca di porre la sintesi, di diventare se stesso e darsi
una configurazione definita (un’identità precisa), poiché nel momento in cui è
chiamato a porre tale relazione esso è ancora un nulla.
15) L’angoscia relativa allo stato d’innocenza è indeterminata, in quanto priva
di contenuto reale. Questo aspetto ci fa pensare alla trattazione dell’angoscia
sviluppata da Heidegger, per il quale l’angoscia è non solo mancanza di
determinazione, ma è l’impossibilità fondamentale di qualsiasi determinazione.
L’angoscia, come pura possibilità, ovvero come situazione esistenziale che
fronteggia l’infinità del possibile, si distingue dal carattere ristretto (e per così
dire mirato) della paura, può definirsi quindi come “la realtà della libertà, come
possibilità per la possibilità” (p. 44).
16) È con il salto che si passa dal possibile al reale, cadendo così nel peccato.
Al cospetto delle infinite possibilità che gli si dischiudono, l’uomo sembra
negare Dio stesso – come possibilità infinita – affermando la propria realtà
finita. Nel peccato, e dunque nella colpa, si rivela perciò già, in forma peraltro
negativa, il carattere infinito della trascendenza.
17) L’ambiguità psicologica dell’angoscia si mostra nelle sue determinazioni
dialettiche: “un’antipatia simpatica e una simpatia antipatica” (p. 44). Il
risveglio dello spirito (dal suo essere sognante) prelude al momento della
scelta, in cui il compito di determinarsi in piena libertà è avvertito dall’uomo
come segnato dal pericolo del naufragio e dall’errore. L’angoscia lo prende,
quindi, come “vertigine della libertà”, di fronte a una scelta che non avviene
mai nella pura indifferenza. La scelta di optare per il finito piuttosto che per
l’infinito avviene per il fatto che la libertà risulta a tal punto “imbrigliata
dall’angoscia” da restarne sopraffatta, quasi ridotta all’impotenza. Nell’angoscia
l’uomo presagisce la possibilità di realizzarsi nella libertà, ma al contempo di
compiere una sintesi sbagliata che determinerebbe la sua caduta o il relativo
scacco. L’ambiguità dell’angoscia passa attraverso il fatto che in essa si
presenta la possibilità dell’infinito. In un certo senso l’angoscia non è colpa,
essendo posta nell’innocenza, come appare ad esempio nel caso dei bambini,
che sono angosciati nella “ricerca dell’avventuroso, del mostruoso, del
misterioso” (p. 44). Più in generale, però, l’angoscia è caratterizzata da
ambiguità e da ambivalenza. Per un verso chi pecca è innocente in quanto
agisce in preda all’angoscia, e cioè a una potenza estranea che lo cattura. Per
un altro egli è però colpevole in quanto si è come lasciato cadere nell’angoscia,
ribellandosi all’infinito in nome del finito. Nella struttura psicologica umana
l’angoscia si configura come “amata e temuta” insieme (cfr. 45), per cui è una
forza al contempo amica e nemica. Con questa forza l’uomo si trova in una
relazione ambivalente. Ciò si ripercuote sul piano dello spirito che è unità e
distinzione di anima e corpo, per cui lo spirito è una forza ostile nel momento
in cui ostacola il rapporto tra anima e corpo, ma è una potenza amica in
quanto vuole istituire un vero rapporto tra essi (cfr. p. 45 sg.). Il rapporto
dell’uomo con tale potenza ambigua riguarda dunque anzitutto il rapportarsi
dello spirito con sé, un rapportarsi che si declina anzitutto in forma di
angoscia.
18) L’angoscia, intesa come mostrarsi della libertà nella possibilità, è un tratto
specificamente umano. Solo l’uomo può provare angoscia del nulla. L’animale,
invece, non prova angoscia in quanto nella sua naturalità non è determinato
come spirito. L’angoscia è il sintomo della contingenza dell’uomo e del suo
essere creato, nonché dell’insicurezza che segna l’esistenza umana. In quanto
però l’uomo è esposto alla libertà possibile, l’angoscia lo designa anche come
un essere più che naturale. L’angoscia presuppone, infatti, che l’uomo
esperisca la propria infinità sotto forma di eternità spirituale, per quanto ciò si
verifichi in connessione alla finitezza degli aspetti corporei e temporali di cui è
intessuta l’esistenza umana. Nell’angoscia, l’innocenza è portata al limite. Essa
non è però “brutalità animalesca” ma è “ignoranza”, in quanto determinata
dallo spirito, ed è al tempo stesso angoscia in quanto la “sua ignoranza dello
spirito ha per oggetto il nulla” (p. 44).
19) Interpretazione del passo del Genesi (cfr. 46 sg.) a partire dalla celebre
proibizione espressa da Dio con parole che Adamo non poteva però
comprendere, non essendo in grado di cogliere quella differenza tra bene e
male che, solo mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, si sarebbe
potuto cogliere. L’angoscia non sa ciò che è proibito, ma sa di poter fare
qualcosa di proibito. Kierkegaard dice, al riguardo, che “il divieto angoscia
Adamo, poiché sveglia in lui la possibilità della libertà” (p. 46). Il nulla entra
ora a far parte dell’innocenza, determinando la “possibilità angosciante di
potere”. L’angoscia è sempre espressione del rapporto che lo spirito intrattiene
con se stesso. Dopo il divieto c’è però la condanna (cfr. p. 47). Anche per
comprendere l’idea di terribile legata a tale divieto occorreva però aver
commesso il peccato. Ne risulta invece solo l’angoscia con la sua ambiguità,
che spinge l’innocenza alla situazione estrema, risultando appunto in angoscia
rispetto a ciò che è vietato e alla pena. L’innocenza non è colpevole ma sente
di essere ormai perduta. La psicologia, non potendo spiegare la caduta, ovvero
la discontinuità del salto qualitativo, non può spingersi oltre. La psicologia
rimanda sempre, infatti, alla dogmatica.
20) Alla proibizione segue la condanna (cfr. p. 47). Anche ciò non poteva però
essere compreso da Adamo prima del peccato. Tra la situazione angosciosa che
caratterizza lo stato d’innocenza e la caduta vera e propria c’è ancora un
abisso. L’innocenza manifesta angoscia rispetto al divieto, ma non è colpevole.
L’angoscia è relativa all’incipiente perdita dell’innocenza. Nell’ultimo paragrafo
(sesto) del primo capitolo, Kierkegaard ripercorre il racconto della caduta nel
Genesi, avendo in mente in primo luogo di sfatare l’idea che si tratti di un
mito. Naturalmente si parla della creazione di Adamo ed Eva. accennando al
fatto che la donna sarebbe il “sesso più debole” e, proprio per questo – senza
che ciò comporti una maggiore imperfezione rispetto all’uomo – anche più
angosciata (cfr. p. 48 n.). La problematicità del racconto consiste in primo
luogo nel fatto che Dio abbia rivolto ad Adamo delle parole che questi non può
comprendere, ma soprattutto nell’aver evidenziato – attraverso la figura del
serpente – che la tentazione viene per così dire dal di fuori. Per Kierkegaard ciò
costituisce una contraddizione sia rispetto alla Bibbia, sia passo di San
Giacomo in cui si dice che Dio non tenta nessuno e non è tentato da nessuno,
giacché ognuno è tentato da sé.
21) La psicologia non può spiegare la caduta nel peccato, in quanto si tratta di
salto qualitativo. L’analisi psicologica della genesi del peccato muove dallo
stato d’animo dell’angoscia inteso come libertà imbrigliata. Tale analisi
consente d’illustrare il presupposto della caduta senza ricorrere alla dimensione
della natura o fare riferimento all’astuzia di Satana. Dal punto di vista
psicologico la caduta si spiega con l’angoscia della libertà, in cui l’individuo si
trova di fronte contemporaneamente alla realizzazione di sé e allo scacco. Al
riguardo, le scelte degli individui non sono conseguenze di condizioni esistenti:
il salto non è perciò un passaggio ricostruibile sotto il profilo logico o razionale,
né costituisce un atto di libertà accessibile all’osservazione empirica.
22) Nessuna determinazione quantitativa può produrre un incremento
qualitativo. L’angoscia rende possibile il peccato e in qualche modo fa
propendere ad esso. Tale predisposizione non va compresa, però, in termini
biologico-genetici, essendo piuttosto un momento costitutivo della libertà. In
tal senso, è sbagliato, per Kierkegaard, parlare di un peccato originale come di
un’ereditarietà o di una strutturale peccaminosità della natura umana, poiché
ciò significherebbe mettere in questione la libertà e responsabilità dell’uomo.
La peccaminosità non s’identifica mai con la finitudine umana. Il peccato,
infatti, è il risultato di un libero rapporto del singolo con sé, poiché altrimenti
verrebbe meno sia l’imputabilità del singolo, sia la bontà della creazione.
Viceversa, il peccato è unicamente il presupposto di se stesso.
23) Nel racconto biblico si dice che il peccato entrò nel mondo e con esso fu
posto l’elemento sessuale. Kierkegaard disapprova però questa visione, in
quanto non poteva esserci differenza sessuale nello stato d’innocenza e
d’ignoranza in cui si trovava Adamo, essendo il suo spirito solo sognante.
Adamo non era infatti ancora sintesi di anima e corpo. Se nell’animale la
differenza sessuale si sviluppa per istinto, nell’uomo essa si pone invece nella
relazione tra anima e corpo garantita dallo spirito. La sessualità viene dunque
raggiunta nel momento in cui lo spirito diviene reale. Per Kierkegaard, la
peccaminosità non è la sensualità, ma “senza peccato non c’è sessualità e
senza sessualità non c’è storia” (p. 50). L’uomo è sintesi tra anima e corpo e
tale sintesi è una relazione in cui il corporeo è in rapporto con l’assoluto e
l’eterno. Con ciò, l’uomo matura la consapevolezza di essere un punto di
mediazione tra Dio e mondo. Tale consapevolezza può tradursi però in peccato
allorché il punto d’incontro s’intende unicamente costituito dalla sessualità,
mentre si trasformerà in redenzione quando l’uomo giungerà a concepirsi come
nato nello spirito. Di qui l’affermazione kierkegaardiana secondo cui la vera
nascita dell’uomo è la rinascita nello spirito, quasi che egli venisse al mondo
cioè una seconda volta.
24) Sulla problematicità del racconto biblico della seduzione e sulla figura del
serpente, nonché sulla dottrina tradizionale della concupiscenza, vale a dire in
ordine al desiderio o alla brama in special modo di piaceri sensuali. La
tentazione non può venire, secondo Kierkegaard, dal di fuori, e la
concupiscenza non restituisce il carattere specificatamente umano del peccato
e dell’ambiguità tipica dell’angoscia. Il legame tra libertà e angoscia va sempre
colto in rapporto alla concretezza della libertà. La libertà, per Kierkegaard, non
è libero arbitrio o libertà d’indifferenza. il momento della scelta non attua in
una situazione di neutralità o equidistanza tra bene e male. Una libertà
(astratta) di tal genere rappresenterebbe una mostruosità concettuale. La
libertà non precede la decisione, ma si realizza in essa. La libertà, non è mai
solo possibile: non appena è, è reale. La possibilità della realtà, che precede
l’attualizzazione della libertà stessa, non è poter scegliere, a discrezione, il
bene o il male (cfr. p. 50). Anche le Scritture non ammettono ciò. La possibilità
coincide col potere: di conseguenza la scelta è essenziale alla libertà. Laddove
non si esercita la scelta, la libertà è una mera illusione, un’astratta finzione.
Inoltre, la libertà è una facoltà legata strettamente al piano esistenziale
dell’individuo, per cui non è una facoltà che consenta di scegliere in maniera
per così dire indifferente o arbitraria. La libertà si esprime in maniera autentica
laddove l’individuo sceglie la propria realizzazione (e non il proprio fallimento).
25) L’angoscia come mediazione tra possibilità e realtà, ovvero come
“determinazione intermedia”, che non spiega però il carattere qualitativo del
“salto”, né è in grado di fornirne una giustificazione etica. L’angoscia è una
libertà vincolata, imbrigliata in se stessa e non condizionata nel senso della
necessità (cfr. p. 50). Il trapasso dalla possibilità alla realtà avviene in base a
tale determinazione intermedia, e non attraverso categorie quantitative, come
nel caso della logica dialettica hegeliana. Qui, semmai, le categorie coinvolte
sono quelle di peccato, di colpa, di trascendenza, di fede e di redenzione. Nella
sua pura possibilità, l’angoscia mostra come il peccato non sia entrato nel
mondo per mera necessità, o attraverso un atto di libero arbitrio puramente
astratto. Ciò che sta a fondamento del peccato è la “libertà di potere”, per cui
non si può spiegare attraverso la logica come il peccato è entrato a far parte
del mondo (cfr. p. 51).
26) Nessuna scienza può dunque spiegare il peccato: la psicologia può solo
descriverne la situazione predisponente. L’azione del peccare risulta, quindi,
scientificamente inspiegabile. Così come il peccato non può essere logicamente
dedotto attraverso un raziocinio logico, così l’uomo non si salva attraverso
concetti, parole o conoscenze di ordine scientifico, ma solo con un atto di fede.

Lezioni della quinta settimana


1) Il secondo capitolo inizia con la frase: con la peccaminosità fu posta la
sessualità e nello stesso momento comincia la storia del genere umano (p. 53).
La natura dell’angoscia del singolo è identica a quella di Adamo, ma sotto il
profilo quantitativo è maggiore, poiché l’angoscia si arricchisce in ogni singolo
della storia di tutti gli altri. Più c’è storia, più c’è angoscia. Ogni volta che
l’uomo rivive la storia degli altri, rivive infatti non solo la situazione angosciosa
di Adamo che precedeva il peccato, ma anche la situazione psicologica in cui si
trova il peccatore stesso. La caduta nel peccato non toglie l’angoscia, ma la
ricrea di continuo sia come angoscia che precede il peccato, sia come angoscia
che si rinnova dopo il peccato e in conseguenza del peccato stesso. L’angoscia
è lo stato psicologico che precede il peccato, pur non spiegandolo, ma è al
contempo la conseguenza del peccato, che non allude però a una generica
imperfezione. L’ambivalenza dell’angoscia consiste anche nel fatto che, da un
lato, l’angoscia è il mezzo con cui il peccato si determina, essendo la
condizione attraverso cui l’individuo pone il peccato col salto qualitativo,
mentre dall’altro essa è il ripetersi del peccato nei vari individui o in uno stesso
individuo, con l’ingresso del peccato nel mondo anche da un punto di vista
quantitativo. Tale distinzione tra l’aspetto quantitativo dell’angoscia e la
dimensione qualitativa del salto non occulta comunque il fatto che ogni
individuo diviene colpevole per sé. Cfr., p. 54 sg.), la metafora del “medico di
un manicomio”.
2) Nel primo paragrafo (cfr. pp. 56 sgg.) si parla dell’angoscia oggettiva,
ovvero dell’angoscia che non riguarda la singola persona umana, ma l’intero
mondo creato. Ciò dipende dal fatto che gli individui sono tra loro in una
relazione così stretta che ogni azione di un singolo si riflette su quella degli
altri. Il peccato interviene dunque a modificare la natura dell’intero universo
creato. Kierkegaard cita l’epistola ai Romani: “col peccato di Adamo la
peccaminosità entrò nel mondo” (p. 57). Ora la sua attenzione si sposta però
sull’importanza che il peccato ha in relazione a tutto il creato. Qui Kierkegaard
fa riferimento a San Paolo, citando però ancora l’Epistola ai Romani in ordine
all’”angosciosa attesa della creatura” (p. 58), all’ardente desiderio della
creazione che – mirando a uscire dall’angoscia e dal peccato – testimonia
appunto di ciò che manca, della trascendenza. Questa forma di travaglio
angoscioso che riguarda tutto il creato è, dunque, l’angoscia oggettiva – un
tema, quello dell’angoscia o della malinconia che permea tutta la natura – già
affrontato anche da Schelling (cfr. p. 59 n. 1).
3) Nel paragrafo successivo (pp. 60 sgg.) si tratta invece dell’angoscia
soggettiva, ovvero dell’angoscia essenzialmente dell’individuo. Anche ogni
“individuo posteriore” ad Adamo ripassa dallo stato d’innocenza e d’angoscia.
Attraverso il paragone tra angoscia e vertigine (cfr. p. 61), Kierkegaard
chiarisce la determinazione dell’angoscia come “libertà di potere”. Il peccato
non rappresenta, dunque, un banale incidente di percorso, giacché nell’essere
peccatore compare sempre la responsabilità dell’individuo, nel senso che si
pecca per libera scelta, aggrappandosi al finito e a ciò che è temporale (invece
che all’infinito e all’eterno) allorché – di fronte alla vertigine provocata
dall’abisso d’infinite possibilità – si ha l’illusione di poter trovare maggiore
sicurezza in un appiglio tangibile e immediatamente presente. L’uomo
sprofonda paradossalmente nell’illibertà e nel peccato proprio avvertendo
l’ampiezza pressoché sterminata della propria libertà. Di fronte alla libertà
come infinita possibilità di potere, come potere tutto, l’uomo si fa sopraffare
dall’angoscia che lo rende impotente nel momento della scelta, e cioè nel
momento di operare la sintesi.
4) Il peccato – come mancata scelta di sé – sembra però anche essere il luogo
dell’autentico costituirsi dell’uomo. , essendo ciò che segna l’inizio di ogni
singolo uomo e della storia del genere umano. L’angoscia è quindi indizio della
possibilità della libertà, in quanto è il “mostrarsi della libertà nella possibilità”.
L’angoscia dischiude all’uomo la possibilità della sua libertà, ma gli fa anche
scoprire nella colpa la realtà della libertà. L’angoscia è segno di una libertà
esistente, che però è già in se stessa imbrigliata, dal momento che la
possibilità angoscia “col laccio del suo dolce affanno” (p. 61). In definitiva, si fa
esperienza della libertà nel momento in cui si esperisce di non essere liberi,
scontrandoci cioè con i limiti della libertà stessa.
5) La peccaminosità come condizione è dunque il retaggio della storia del
genere umano: come tale essa influisce sull’agire del singolo come una sorta di
predisposizione al peccato, di volta in volta maggiore o minore. Tale
determinazione è tuttavia puramente quantitativa, che non elimina la
possibilità del salto qualitativo nel peccato. La storia dell’uomo si conferma
infatti essere una storia di libertà. Kierkegaard è dunque fedele all’idea di
responsabilità dell’individuo, contrastando tra l’altro con ciò la tendenza
estetica che porta a parlare del peccato sorvolando sulla colpa dell’uomo, per
soffermarsi invece – rattristandosene – sul destino ineluttabile che lo
assalirebbe (cfr. p. 62). La tendenza a voler ricondurre il peccato al carattere
patogeno di determinate strutture sociali non fa che sublimare la tendenza a
vedere la colpa sempre negli altri.
6) Il peccato ha una storia che ha avuto inizio con Adamo e che è proseguita
con i peccati commessi dagli individui che gli sono succeduti. Nell’atto di
divenire colpevoli, l’angoscia si carica di una peculiare ambiguità, trattandosi di
una sorta d’impotenza femminile in cui la libertà sfuma. Con lo svolgersi del
corso della storia, l’angoscia quantitativamente aumenta, determinandosi in
stati psicologici sempre più complessi. In ogni uomo c’è comunque uno stato
d’innocenza come quello di Adamo, ma il rapporto generazionale tipico della
concatenazione storica fa sì che nel singolo l’angoscia non sia però identica a
quella di Adamo, poiché si accresce in rapporto all’ambiente storico e diviene
anche più riflessa. In tali circostanze, il nulla che rappresenta l’oggetto
dell’angoscia si trasforma, per così dire, in qualcosa di più. Stante l’ambiguità
dell’angoscia, esso non diventa propriamente qualcosa, ma in virtù della
riflessione acquista tratti sempre più concreti, divenendo un “complesso di
presentimenti” (p. 61). Quest’angoscia riflessa è quindi una “predisposizione”
che significa il nulla prima che l’individuo diventi colpevole, ma è anche il
presupposto in cui l’individuo oltrepassa se stesso, per cui l’angoscia si
configura come premessa e conseguenza, senza che ciò si traduca in
un’imperfezione dell’uomo (cfr. p. 62).
7) L’angoscia dell’uomo diviene più grande e più riflessa in ragione del fatto
che col peccato è stata posta la sensualità, per cui con il peccato la sensualità
è divenuta peccaminosità (cfr. p. 63). L’angoscia aumenta e si fa più riflessa
allorché col peccato l’uomo prende coscienza della differenza sessuale. Lo
spirito si scopre cioè sessuato, entrando in contraddizione con se stesso. Come
conseguenza del rapporto di generazione da cui l’individuo è derivato,
l’angoscia non è più solo angoscia del nulla, ma diviene – in maniera più
determinata – angoscia del fatto di essere nato nella carne per mezzo della
sessualità. In questo modo l’angoscia rappresenta per l’uomo una
predisposizione alla caduta in cui sono incorsi coloro che l’hanno generato e
l’hanno preceduto. La sessualità predispone dunque l’uomo al peccato. Rispetto
ad Adamo, ogni uomo ha un di più di angoscia derivante dal peccato
commesso. Non si tratta dell’angoscia relativa al fatto che Adamo avrebbe
commesso – a partire da uno stato d’innocenza – un peccato originale, ma di
un’angoscia che discende dall’essere nato da una generazione. Tutto ciò
rimanda però all’individuo da cui nasce direttamente l’uomo e che incarna la
conseguenza della caduta, facendo sì che questa diventi generazione.
8) La figura di Eva è centrale nella misura in cui significa ciò che è derivato dal
peccato, ciò che nasce nella carne in conseguenza del peccato. Eva è quindi
simbolo del rapporto tra peccato e sessualità che si specifica come
generazione. Attraverso la donna, che è più sensuale dell’uomo – come attesta
la forma stessa del suo organismo – il peccato si determina, facendo quindi
aumentare l’angoscia (cfr. p. 64). Come simbolo di generazione la donna è
madre, ma è anche la compagna dell’uomo, nell’ambito di un processo di
generazione che determina la possibilità di rinnovare il peccato. IL rapporto
angoscioso si deve al fatto che l’uomo è nato dalla donna, ma non può
ritornare con la donna nello stesso rapporto che ne ha determinato la nascita
nel peccato. Tutto ciò prelude al concetto di rinascita come opposto alla nascita
nella carne. Per ricercare un rapporto armonico tra anima e corpo, lo spirito –
come principio di tale rapporto – dovrà orientarsi a cercare un padre e una
madre celesti. Tra carne e spirito c’è, infatti, un’insanabile opposizione
qualitativa che può essere superata solo dal salto nella rinascita spirituale.
9) Come dice Kierkegaard, la “sessualità non è la peccaminosità” (p. 67), ma il
peccato trasforma la sensualità in peccaminosità (cfr. p. 75). La storia della
generazione mostra come la sensualità sia divenuta peccaminosità, ma è il
salto qualitativo dell’individuo a determinare che ciò avvenga. Finché lo spirito
è sognante (nello stato d’innocenza), la coscienza della differenza sessuale –
che è solo latente – si esprime come pudore, come vergogna, ma nel pudore la
differenza animale non è posta in relazione con l’altro individuo (cfr. p. 68), per
cui in esso non compare un richiamo alla differenza sessuale. La sessualità non
è come tale la peccaminosità, ma se Adamo non avesse peccato essa non si
sarebbe mai configurata in tale veste. La differenza come impulso (come
pulsione) e la stessa differenza tra bene e male nacquero “mangiando del
frutto dell’albero della scienza” (p. 75).
10) Oltre ad aumentare dopo la caduta nel peccato, l’angoscia cresce anche in
ragione del sesso. La donna, infatti, ha più angoscia dell’uomo e ha
un’angoscia più riflessa nella misura in cui non solo è derivata dall’uomo (Eva
da Adamo), ma è anche più sensuale dell’uomo. Ciò non ha però a che fare con
la minore forza fisica della donna, dato che l’angoscia va sempre considerata in
rapporto alla libertà. Si tratta invece di un aspetto legato alla costituzione
corporea della donna, alla forma del suo organismo. Dal punto di vista estetico,
la perfezione ideale della donna è rappresentata dalla bellezza, mentre da
quello etico è rappresentata dalla procreazione, il che si traduce nel fatto che lo
spirito resta escluso dalla sintesi prodotta dalla bellezza, così come dal
concepimento e dal parto, quali aspetti fondamentali della procreazione,
cosicché la donna si dimostra essenzialmente più sensuale dell’uomo (cfr. p.
64).
11) Il fatto che l’individuo generato abbia un’angoscia maggiore e più riflessa
non dipende solo dal fatto di essere più sensuale dell’individuo originario, ma
anche dall’avere dietro di sé una storia del peccato. Con la caduta si è posta la
sessualità, ma è anche iniziata la storia del genere umano. In tutti gli individui
posteriori ad Adamo l’angoscia si determina quindi in rapporto a tutti gli altri
esseri umani, ovvero in una relazione storica. Ciò non significa però che
l’ambiente storico abbia un ruolo davvero determinante nei confronti
dell’individuo, dato che esso – essendo libero di scegliere – è responsabile di
ogni suo atteggiamento riguardante il peccato. Tra i mutamenti storici degni di
rilievo Kierkegaard annovera certamente il cristianesimo, che però non muta –
sotto il profilo della situazione angosciosa dell’uomo – il quadro che erra già
presente in ambito pagano.
12) L’individuo entra nella storia di peccaminosità del genere umano attraverso
il suo primo peccato, ma la sua angoscia non è solo il risultato delle colpe
commesse dagli individui che lo hanno preceduto, ma anche delle colpe
commesse da lui stesso. Il salto nel peccato consente di riconoscere la
sessualità come elemento che confligge con la spiritualità dell’individuo,
accrescendo così la propensione al peccato e, di conseguenza, l’angoscia. Nel
momento della decisione l’individuo avverte su di sé l’angoscia della colpa –
nell’intero spettro di situazioni che ciò può comportare – per cui è la libertà, da
non contemplare nella sua astratta indifferenza, ad apparire pregiudicata da
una determinata struttura di peccato che la condiziona (senza peraltro
determinarla), rendendola incline al peccato e facendo crescere in essa
l’angoscia di perdere di nuovo se stessa.
13) Nell’ultima parte del secondo capitolo (cfr. pp. 76 sgg.), Kierkegaard ci
mostra la sua concezione dell’individualità, della singolarità criticando,
anzitutto, il tentativo – del tutto arbitrario e assai poco scientifico – di spiegare
il peccato con il richiamo all’egoismo, anche perché in tal modo si finisce per
trascurare del tutto la distinzione, ma anche l’intreccio, tra peccato e peccato
originale. L’io è, per Kierkegaard, il luogo in cui si manifesta l’angoscia, in
quanto in esso s’incontrano eternità e temporalità, trascendenza e immanenza,
anima e corpo. Inoltre, la struttura dell’io è costituito anche dall’innocenza,
dalla libertà di potere e dunque di peccare, dalla caduta, dalla redenzione e
dalla rinascita. Tutti questi fattori sono costitutivi dell’io, che peraltro si
determina anche nel rapporto con gli altri, ovvero con l’intera generazione. L’io
si definisce non solo per l’infinità delle relazioni che lo costituiscono, ma
soprattutto per la possibilità di assumere liberamente tutte le più diverse
determinazioni in chiave storica. Da tale carattere costitutivo dipende la
possibilità dell’individuo d’indirizzarsi alla rinascita spirituale o, viceversa, di
perdersi nel peccato. L’io è quindi attraversato da un’essenziale contraddizione
che può trovare attuazioni di segno diverso. Il sapere che ogni uomo matura
su di sé sopravanza di molto quello che proviene da qualsiasi scienza, per cui
Kierkegaard auspica che il motto socratico del “conosci te stessi” non sia più
frainteso alla maniera tedesca, e cioè come “pura autocoscienza”, come
principio di un “idealismo fatto d’aria, ma venga sempre più inteso”alla greca”,
con la clausola però d’integrare nella concezione greca i “presupposti” cristiani”
che – attraverso il richiamo al salto qualitativo – fanno dell’autentica natura
dell’io un principio di fede e non di mera conoscenza.
14) In chiusura del secondo capitolo, Kierkegaard afferma in primo luogo che
la “sensualità non è la peccaminosità” (p. 78), proprio perché la sensualità
rappresenta un elemento costitutivo dell’universo umano di carattere assai più
generale. Il problema, semmai, è quello della definizione del rapporto tra
anima e corpo attraverso lo spirito. Nel momento in cui si compie il peccato, la
differenza animale – che prima, nell’innocenza, non era ancora posta come tale
– si caratterizza come impulso, dischiudendo con ciò non solo l’ambito della
differenza sessuale, ma rendendo sempre più impossibile il permanere nella
pura animalità. Di qui l’esigenza critica di realizzare una sintesi più elevata tra
anima e corpo, senza pensare di poter “astrarre dalla sensualità” e di poterla
“annientare in un senso esteriore” (p. 78). L’estrema contraddizione che si
trova a vivere l’uomo consiste nel sentire di poter oltrepassare quell’animalità
che comunque permane in lui, il che comporta la necessità di raggiungere una
sintesi organicamente superiore a quella in precedenza delineatasi. La
sensualità che appartiene all’animalità dell’individuo non è ancora peccato: lo
sarà solo quando l’uomo, nell’operare il salto che deve condurlo al di là della
propria animalità, finisce per cadere nella colpa. Nello stato di angoscia rischia
di saltare in una direzione sconosciuta (ignota), incalzato da un nulla che non
ha dissipato nessuna delle infinite possibilità. Col salto l’uomo può perdere lo
stato edenico, realizzando una sintesi in cui la sensualità animale diviene
peccato, ma può anche in seguito riscattare tale perdita ricreando un nuovo
rapporto tra corpo e anima, in modo che lo spirito “trasfiguri” la sensualità
innalzandola a una nuova sintesi (cfr. p. 78), in cui anche il corpo può
riacquisire quella pienezza che nella sua contrapposizione all’anima era invece
andata corrotta. Nella rinascita spirituale non è solo l’anima, infatti, a
completarsi in un rapporto che lega insieme mondo e trascendenza, ma è
anche il corpo ad acquisire nuovo valore sensibile, nella più piena realizzazione
della sua funzione storica. Nella realizzazione di tale sintesi rinnovata nel senso
della spiritualità, ciò che è sensibile non viene dunque negato, ma ricompreso
nel movimento della fede che innalza il mondo nella direzione verticale della
trascendenza. Raggiunto nella fede il rapporto organico tra corpo e anima, la
sessualità non è tolta ma permane nella sintesi “vittoriosa” dello spirito,
cosicché il peccato che le era corrisposto rimane solo nell’oblio.
15) Kierkegaard accenna poi, nella chiusa del capitolo, a un’ulteriore questione
riguardante il fatto che l’angoscia non è insuperabile, ma persiste nell’uomo
nella misura in cui egli si allontana dalla missione che ne qualifica la
spiritualità, rifiutandosi alla possibilità d’istituire una sintesi armonica tra corpo
e anima. D’altronde, non si può vivere come se il peccato fosse un “fatto
accaduto 6000 anni fa” (p. 79), giacché non si tratta di aver “perduto una
parte della malinconica serenità erotica”, ma di riconoscere di aver
“conquistato una determinazione dello spirito che la grecità non conobbe” (p.
78 sg.), al raggiungimento della quale ha concorso l’aumento dell’angoscia
nella sua funzione di spingere l’uomo verso quella situazione-limite da cui potrà
uscire, cristianamente, solo con la fede e l’amore.
16) Attraverso la sua nuova e originale interpretazione del terzo capitolo del
Genesi Kierkegaard ha inteso da un lato superare una concezione astratta della
libertà, sottolineandone il carattere vincolato al momento della scelta, dall’altro
però evidenziare anche i condizionamenti storici, biografici e biologici della
libertà. Ancora una volta il peccato mostra di non poter essere spiegato in
maniera logica o causale, avendo infatti lo statuto del salto e non del mero
passaggio lineare. Nel suo costituire lo stato d’animo fondamentale
dell’esistenza umana, l’angoscia è il “mostrarsi della libertà nella possibilità”.
Nel guardare l’abisso delle infinite possibilità che le si aprono dinanzi, la libertà
è presa dall’angoscia, finendo per ritrovarsi vincolata al punto di scegliere di
non scegliere o di scegliere il finito invece dell’infinito. Proprio allorché
presagisce il possibile fallimento e la perdita per così dire di sé, ma al tempo
stesso anticipa la compiuta realizzazione della libertà, l’angoscia è un
fenomeno sempre al limite tra libertà e non libertà dell’uomo, segno cioè di
un’effettiva ambiguità (simpatico/antipatico), di una libertà che è solo reale
libertà (“la libertà [...] non appena è, è reale), ma è al contempo libertà
vincolata che rischia di perdere se stessa.
17) In questo quadro, Adamo – come prototipo dell’uomo peccatore – anticipa
solo idealmente il destino dell’intero genere umano. A seguito di ciò che è stato
commesso da Adamo, il peccato diviene per ogni generazione l’orizzonte
ineludibile di ogni agire. Per questo l’angoscia non è solo lo stato che inquieta
prima del salto, ma è anche il frutto di ogni nuovo peccato commesso
successivamente, con l’esito così di una sua crescita quantitativa che pesa
come una sorta di eredità. Se prima della caduta l’angoscia era ancora
indeterminata, avendo per oggetto il nulla, dopo la caduta essa smarrisce gran
parte della sua ambiguità, diventando in qualche modo più determinata come
angoscia di qualcosa. In ogni caso, però, il surplus d’angoscia ereditato può
solo favorire il salto nel peccato, non potendo cioè determinarlo. Tale salto si
deve infatti sempre alla scelta di una libertà imbrigliata dall’angoscia, per cui si
può dire che il peccato sia il “presupposto di se stesso”.
18) Se nei primi due capitoli Kierkegaard ha basato la propria trattazione
dell’angoscia su una concezione dell’umano come rapporto spirituale tra anima
e corpo, ora nel terzo capitolo si tratta di approfondire il significato e il termine
di questa relazione. Nella storia del creato il punto critico s’incentra nella
relazione tra temporalità ed eterno. Nell’ambito del creato, l’uomo è
quell’essere che, pur costituendosi nel divenire, non può non avvertire la realtà
dell’eterno o, anche solo, la sua mancanza. Il divenire dell’uomo si
accompagna sempre a un rapporto positivo o negativo con l’eternità. Con
l’ingresso dell’uomo nella storia del mondo, questa assume un nuovo
significato, consistente nel superare un’orizzontalità legata a un mero rapporto
quantitativo tra un prima e un dopo, a un mero passaggio sul piano
orizzontale, per disporsi a una presa di posizione verticale verso la
trascendenza. Questa presa di posizione non è però scontata, in quanto può
affermare in negativo il divenire rispetto all’eternità, oppure può negare la
negazione dell’eterno, salvaguardando ogni momento del divenire in un
rapporto positivo con l’eternità. Qui entra in gioco, dunque, la nozione di
“momento” o istante, come indice dell’incontro tra temporalità e divenire.
Nell’istante si stabilisce infatti un rapporto con la trascendenza divina. che
l’uomo può scegliere di vivere nel segno del legame o della ribellione. Tale
possibilità è, ancora una volta, equivalente all’angoscia, che viene perciò
definita come un “momento nella vita individuale” (p. 81).
19) L’individuo è persona non solo nella misura in cui è consapevole del proprio
rapporto con tutto ciò che si situa nella dimensione orizzontale, ma anche del
fatto che in ogni istante vi è un incontro con la trascendenza, per quanto esso
possa essere negato. Nel fondamento dell’angoscia sembrano condensarsi,
dunque, il divenire e l’essere, ovvero il fatto che in ogni istante l’uomo porta
con sé la responsabilità della scelta tra la negazione dell’eterno o l’assunzione
del divenire in una sintesi organica. Il senso di responsabilità in cui si declina
un’esistenza libera può optare per diversi stati di vita. L’uomo può scegliere
infatti di vivere in maniera estetica, limitandosi a vivere in una successione di
attimi che non dà luogo ad alcuna acquisizione. Se ogni esperienza si traduce
in mera istantaneità, essa non può essere assunta nel suo valore permanente,
dato che non riesce mai a consolidarsi rispetto alla trascendenza. Se si sceglie
invece di vivere in maniera etica, si nega con ciò il puro divenire delle
esperienze che si succedono, nel tentativo di trasformare una delle esperienze
vissute in qualcosa di permanente in cui verrebbe a realizzarsi un valore
universale. In entrambi i casi, però, manca la fede come salto nella
trascendenza, poiché solo così il mondo del divenire può essere riconquistato –
dopo averlo negato – alla luce dell’eterno.
20) Al centro della riflessione critica di Kierkegaard c’è la categoria del
“passaggio”, di cui si fa gran uso in particolare in Hegel e nella scuola
hegeliana (cfr. p. 81). Per Kierkegaard è chiaro che nel passaggio da un
processo storico a un altro, da un momento di crisi – in cui tesi e antitesi si
contrappongono – alla sintesi, da una situazione problematica alla sua
eventuale risoluzione non c’è un vero passaggio, ma solo la ripetizione di un
problema (per così dire, la sua cronicizzazione), nel caso appunto che tra il
primo momento e il secondo non vi sia un salto nella verticalità attraverso cui
si attua una trasformazione dell’angoscia in fede. La sintesi può costituire,
infatti, il raggiungimento di un momento più alto, ad es. nella storia, se il
passaggio dialettico non si svolge in orizzontale – come accade in Hegel – ma
si dispone ad un’ascesa verticale. Tra il problema e la relativa soluzione vi è
sempre l’angoscia, ovvero vi un senso di libera responsabilità in relazione al
tema della trascendenza. In Hegel, però, anche nella concezione idealistica
della storia, non c’è traccia di discontinuità tra l’opposizione di tesi e antitesi,
da un lato, e la posizione della sintesi dall’altro. Hegel non coglie dunque quella
discontinuità con cui avrebbe potuto spezzare il fiume della storia in momenti
separati tra loro, rendendo con ciò illusoria la separazione, l’opposizione e la
stessa conciliazione tra i singoli momenti nella loro concreta temporalità.
Peraltro, il tema della temporalità non può essere nemmeno affrontato
attraverso una durata priva di soluzione di continuità, che ritiene di
contrapporsi con ciò a una concezione spazializzata del tempo.
21) Per Kierkegaard, Platone ha compreso meglio di Hegel la natura del
“momento”, pur avendolo concepito in modo puramente astratto (cfr. pp. 82
sgg.). Nel Parmenide, dialogo platonico, il momento (tò exaìphnes, avverbio
sostantivato: il repentino, il momentaneo, il subitaneo) viene posto come
punto d’incontro tra divenire e idee. Sviluppando tale riflessione, Kierkegaard
ci fa capire come il rapporto tra anima e corpo, instaurato dallo spirito, si
presenta anche come problema del “momento”, essendo sintesi tra tempo ed
eternità nel contesto della libertà costitutiva dell’uomo. Nell’istante (o
momento), la libertà passa infatti dalla possibilità all’atto. Il compito dell’uomo
è quello di saltare verso una nuova sintesi storica di stampo spirituale, laddove
il sottrarsi a tale compito o cercare di assolverlo senza fede crea angoscia,
dando così luogo a una situazione essenzialmente distruttiva.
22) In un passo assai denso (cfr. p. 84 sg.) Kierkegaard sostiene che il tempo
non è concepibile se ogni suo momento non è fondato nel rapporto con
l’eterno. Solo così, infatti, il tempo può risultare discontinuo e può avere
significato la distinzione tra passato, presente e futuro. La credenza di poter
fissare tale distinzione indipendentemente da un rapporto tra istante
(momento) ed eternità risulta, in maniera erronea, da una spazializzazione
dell’istante (cfr. 84) attraverso cui si rende astrattamente discontinua la
corrente indistinta del tempo. A questa falsa spazializzazione del tempo non va
però contrapposta una durata reale del tempo senza soluzione di continuità (à
la Bergson), ma si deve invece attuare una concreta discontinuità nel senso
kierkegaardiano. Kierkegaard chiarisce (cfr. p. 85) che se il presente non viene
fissato in una concreta discontinuità temporale esso si trasforma in uno
“svanire infinito” del tutto “privo contenuto” (p. 85). È infatti il rapporto
dell’eterno con il presente a dotare quest’ultimo di un contenuto: di
conseguenza, nella misura in cui il presente correlato all’eterno è il momento, il
momento si trova per l’appunto al centro della storia. La nozione d’istante
presenta però delle ambiguità (cfr. pp. 85 sgg.). Nello stadio estetico della
vita, L’istante – come mero divenire presente – si contrappone all’eterno. Nella
vita sensuale si dice, ad esempio, che essa è “nel momento” (p. 85). Con
momento s’intende, qui, “l’astrazione dall’eternità”, e dunque una sua
“parodia” (p. 85). Ma quando invece il rapporto con l’eterno si attua in maniera
positiva, ecco che l’eterno diviene nel presente – ovvero nell’istante –
risultando con ciò il fondamento della concretezza temporale. Del resto, se
volessimo servirci del momento per determinare il tempo – indicando con esso
il presente quale esclusione astratta del passato e del futuro – il momento così
considerato non sarebbe presente, poiché ciò che nella pura astrazione sta tra
passato e futuro non è affatto (cfr. p. 86). Il presente per altro verrebbe a
perdersi anche se optassimo per identificare la temporalità con il passato, in
ragione del fatto che la determinazione principale del tempo consiste appunto
nel passare. Il vero significato del momento si registra invece, per
Kierkegaard, allorché in esso si toccano l’eternità e il divenire temporale. In
tale accezione il momento (espressione metaforica che sta per “batter
d’occhio) non si configura più come “l’atomo del tempo”, ma come “l’atomo
dell’eternità”, ovvero come “primo riflesso dell’eternità nel tempo” (p. 87).
Tuttavia, affinché il tempo si connoti come atomizzazione dell’eternità è
necessario che il rapporto tra il divenire e l’eterno, tra il corpo e l’anima, sia
portato a sintesi dallo spirito, poiché appena è posto lo spirito c’è il momento
e, in fondo, la sintesi tra tempo ed eternità non è che l’espressione di quella tra
corpo e anima (cfr. p. 87).
23) Lo stesso concetto di temporalità viene a porsi nell’ambiguità del
momento, in cui tempo ed eternità si toccano (cfr. 88). Infatti, solo se
l’eternità penetra nel tempo, risultandone a fondamento, acquista significato la
distinzione tra passato, presente e futuro. Ma a parte ciò, il futuro matura per
Kierkegaard un significato particolare. Il futuro si presenta infatti come una
totalità di cui anche il passato è una parte, per cui nelle dimensioni del tempo
esso è una figura dell’eterno, come sembra del resto attestato dall’uso della
lingua che parla di vita futura come di vita eterna (cfr. p. 88). Ciò si riallaccia,
tra l’altro, al compito dell’uomo che consiste nel trasformare la direzione del
tempo indirizzandola a un valore spirituale, attuando cioè – nella fede – una
direzione verticale dell’istante verso l’eterno, cosicché per Kierkegaard
l’evoluzione storica consiste nell’attuare la fede nella realtà del mondo e il
futuro si presenta come una meta verso cui la vita storica si dirige in base alla
fede. Nel momento in cui , con la fede, il singolo s’innalza all’eterno, ecco che il
futuro appare come possibile attuazione nella storia del valore eterno. Il futuro
come eternità è perciò garantito a patto che l’uomo sappia attuare la fede. Ma
raggiungere il futuro come eternità non vuol dire altro che realizzare la vita
eterna. L’incarnarsi della trascendenza e del suo valore in un istante
determinato fa sì che alla storia stessa si riveli il futuro come eternità, dando
così compimento a ciò che il cristianesimo esprime col concetto di “pienezza
dei tempi” (p. 89).
24) Tali questioni hanno a che fare anche con la concezione dell’uomo inteso
come rapporto tra anima e corpo disposto dallo spirito. Nello stato d’innocenza,
con la relativa angoscia, la possibilità di un futuro come eternità non è
conosciuta ma solo sognata. Si tratta di una prima rivelazione dell’eterno in
uno spirito che è ancora solo sognante (cfr. 89). Qui si è ancora in presenza di
una “possibilità dell’eternità (della libertà), in un’individualità caratterizzata
come angoscia. Kierkegaard sottolinea, a tal riguardo, la coincidenza tra futuro
e possibile: “il possibile è, per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il
possibile” (p. 90). Si potrebbe anche dire, cioè, che il futuro sta al tempo come
il possibile sta alla libertà. Ad entrambi corrisponde, nella vita individuale,
l’angoscia. Talvolta si dice di avere angoscia per il passato, ma quando ciò
accade è perché tale passato non è trascorso veramente, per cui c’è il rischio
che si ripeta e si ripresenti nel futuro. Per avere angoscia del passato, il
passato deve trovarsi con noi in un rapporto di possibilità. Ma se abbiamo
angoscia di qualcosa di passato è perché non l’abbiamo posto in relazione
essenziale con noi come qualcosa di passato, e questo perché in fondo
impediamo a ciò di divenire passato (cfr. 90). Se qualcosa è infatti realmente
passato noi non possiamo averne angoscia, ma solo pentimento. Si ribadisce,
quindi, che l’angoscia è anzitutto lo stato psicologico che precede il peccato.
Essa è la possibilità di fronte a ciò che può essere realizzato nel futuro, è senso
di responsabilità in ogni istante verso ciò che si configura come eterno. Ed è
per questo che il futuro è la figura dell’eterno, così come lo è del possibile.
Kierkegaard conclude questa riflessione affermando che “nel momento in cui il
peccato è posto, la temporalità è peccaminosità” (p. 90). Ciò non va inteso,
però, nel senso che esse coincidano (d’altronde, anche la sessualità non è
peccaminosità), ma solo nel senso che la temporalità significa peccaminosità
(cfr. 91). Pecca, infatti, colui che vive il momento in astrazione dall’eternità,
poiché il peccato è essenzialmente ribellione nei confronti dell’eternità (e della
trascendenza), riducendosi ad assumere l’istante nella sua estraneità e
contrapposizione all’eternità stessa.
25) Il tema dell’angoscia è l’autentico sottosuolo dell’uomo. esso appare
dominante e insopprimibile, pur manifestandosi in una molteplicità di
variazioni. L’angoscia è la “possibilità della libertà” (p. 149) e serve dunque a
distruggere la finitezza delle cose, mettendo a nudo il loro carattere illusorio.
La scuola dell’angoscia, che laurea i discepoli dell’infinitezza e della possibilità,
serve dunque a scacciare dall’anima i pensieri finiti e più gretti. In questo
quadro, il momento kierkegaardiano – come incontro tra tempo ed eternità,
ovvero come concreta attuazione di una possibilità nel mondo – rappresenta
per certi versi la vera conciliazione che Hegel aveva peraltro cercato invano sul
piano della sua dialettica. L’infinito di una possibilità positivamente attuata
costituisce una verità a un tempo eterna e storica, per cui la stessa
conciliazione non si configura come un dato, come una totale attuazione del
possibile o l’identificazione hegeliana tra razionale e reale, ma solo come un
compito da realizzare. Se l’esistenza è dunque diretta verso l’attuazione di una
possibilità positiva, la sua libertà costitutiva opera nel segno della liberazione;
viceversa, come ribellione a tale possibilità, essa diviene mancanza di libertà
che genera il peccato e la disperazione.
26) L’angoscia della mancanza di spiritualità. Ponendosi al centro della storia,
la rivelazione cristiana ha sempre discriminato tra un periodo pagano e un
periodo cristiano, nel quale per l’appunto si realizza la coscienza del peccato.
Tuttavia, questa distinzione, per quanto storicamente determinata, risulta un
po’ imprecisa. , giacché all’interno del periodo cristiano può sussistere un
mondo pagano. Kierkegaard analizza anzitutto l’angoscia del pagano,
osservando che il paganesimo pecca per il fatto di non voler riconoscere il
peccato e non averne consapevolezza. Il pagano che vive in ambito cristiano è
però ancor più nel peccato dal momento che il cristianesimo ha posto il
rapporto con lo spirito. Richiamandosi a una lettera agli Efesini, Kierkegaard
dice infatti che “tanto maggiore è il valore di ciò che è perduto, tanto più miseri
sono i non curanti (apelgekotes)” (p. 92). Del resto si sa che l’angoscia si
sviluppa in maniera diretta in mancanza di consapevolezza della colpa. In tal
caso, il peccato si configura come mancanza di spiritualità ma, al contempo,
come bisogno della spiritualità che viene ad essere rifiutata. La mancanza di
spiritualità è vista, da Kierkegaard, come la condizione più terribile, poiché
comporta un rapporto con uno spirito che però è nulla. Di conseguenza, tale
mancanza precipita per così dire nelle cose, finendo per sopravvalutarle e
trasformarle in feticci o idoli. Chi manca di spiritualità può tuttavia parlare di
essa o ragionare su di essa in termini anche filosofici, senza tuttavia vivere con
ciò nella spiritualità. In tal senso, determinate verità spirituali, acquisite
unicamente per via astratta, diventano parole incapaci d’impegnare la
personalità del singolo, cosicché un uomo “privo di spirito è divenuto una
macchina parlante e non c’è nulla che gli impedisca d’imparare a mente tanto
una filastrocca di termini filosofici quanto un credo religioso e un frasario
politico” (p. 93). L’uomo è così proiettato in un mondo impersonale
contrassegnato da una dimensione esistenziale inautentica, in cui compare la
tendenza ad annullarsi nella massa e ad omologare i comportamenti. Nella
mancanza di spiritualità non c’è però angoscia, poiché essa “è troppo felice e
contenta e troppo priva di spirito” (p. 93). Il paganesimo si distingue dalla
mancanza di spiritualità proprio per il fatto di non allontanarsi dallo spirito, ma
di essere rivolto ad esso. Sotto questo profilo, il paganesimo si fa preferire, dal
momento che la mancanza di spiritualità è il “ristagno dello spirito e la
caricatura dell’idealità” (è. 93). Per la mancanza di spiritualità non esiste
autorità alcuna, ma poiché la vita mondana necessità di autorità, ecco che essa
finisce per diventare “adoratrice di feticci” (p. 94), non solo negando lo spirito,
ma distruggendo ciò di più umano c’è nell’uomo.
27) La mancanza assoluta di spiritualità non dovrebbe comportare, di fatto,
angoscia, ma ciò a ben vedere non è del tutto vero. Si può dire, infatti, che in
tale situazione – benché non presente – sia nascosta e per così dire sotto
traccia, sul punto di risvegliarsi e di rivelare così il suo vero carattere.
L’angoscia cova dunque costantemente nell’uomo che, credendo di poterla
evitare e di sfuggire con ciò a se stesso, la traveste in svariati modi
trasformandola in preoccupazioni per cose determinate, al fine di occultare il
proprio rifiuto della spiritualità. “Si può immaginare che un debitore riesca a
sfuggire al suo creditore o ad accontentarlo di chiacchiere, , ma c’è un
creditore che non si lascia ingannare mai, ed è lo spirito” (p. 94).
28) All’inizio del secondo paragrafo (cfr. pp. 94 sgg.), Kierkegaard riprende il
tema dell’angoscia nel paganesimo, che dovrebbe dirsi sprofondato
nell’angoscia più ancora che nel peccato. Malgrado non riesca a instaurare con
lo spirito un rapporto positivo, esso è comunque in rapporto con lo spirito
“come qualcosa di estrinseco” (p. 95). L’oggetto dell’angoscia è il nulla, per cui
l’angoscia è appunto indeterminata, essendo angoscia del possibile in generale.
Per i pagani, e in particolare nel mondo greco, l’angoscia si presentava nella
figura del destino (p. 95). Per Kierkegaard i Greci non avevano una coscienza
profonda del peccato, peccando quindi d’immaturità spirituale. Nel
riconoscimento del destino si esprimeva il riconoscimento di qualcosa che
sfuggiva al controllo dell’individuo, che era in tal senso un nulla di cui
occorreva però tener conto. Di qui anche i temi, legati al destino, della
premonizione e degli annunci derivanti da un’alterità trascendente. Nel
paganesimo, il nulla dell’angoscia è rappresentato dal destino che può essere
eliminato, come maschera dell’angoscia, solo riconoscendo che ciò che accade
all’uomo va messo in conto non già al destino, quanto alla sua libertà e
responsabilità. Infatti, posto lo spirito, anche l’angoscia è tolta, quantomeno
quella che non riguarda la propria colpa – angoscia che invece subentra nel
caso dell’ebraismo, che sostituisce al superficiale richiamo pagano al destino la
pregnanza del concetto di colpa. Il concetto di destino è ambiguo in quanto
unisce in sé, e per certi versi confonde, caso e necessità (cfr. p. 95).
L’ambiguità del destino si caratterizza per il fatto di mascherare il nulla
dell’angoscia, che può essere tolto solo accettando la libertà e il salto nella
fede, ovvero riconoscendo che gli avvenimenti assumono un senso
provvidenziale in base a cui nulla può essere più fatale (casuale). Quanto
all’ambiguità del destino, il paganesimo lo carica di ulteriore angoscia
mettendolo in rapporto con l’oracolo. Qui si registra la profonda tragicità del
paganesimo che non consiste tanto nel carattere delle dichiarazioni
dell’oracolo, quanto nel fatto di non poter rinunciare a consultarlo (cfr. p. 95
sg.).
29) A partire da p. 96, Kierkegaard prende in esame l’angoscia del genio.
All’interno del cristianesimo, l’angoscia del paganesimo – rivolta al destino – si
trova ovunque lo spirito, pur essendo presente, non sia posto però
essenzialmente come spirito. Tale fenomeno può essere in particolare
osservato nell’uomo di genio. Il genio è una “soggettività soverchiante”, in
perenne scoperta del destino. La sempre più approfondita scoperta del destino
mostra la “forza primitiva” del genio, ma al tempo stesso la sua “impotenza”
(p. 97). La provvidenza può porsi però solo nel peccato, per cui il genio – che è
un “in sé onnipotente” (p. 97) tale da scuotere il mondo – deve lottare
strenuamente per raggiungerla, risultando così il campo privilegiato per poter
studiare a fondo il destino. L’esistenza del genio “è come una favola” e si
esercita a contatto delle cose del mondo, ma comporta però il rischio, e
fors’anche la certezza, di soccombere al destino e di distruggere comunque il
proprio sé (cfr. 97). Con riferimento in particolare a Napoleone, Kierkegaard
nota come l’agire del genio politico possa facilmente entrare in uno stato
d’angoscia ma, non volendo il genio instaurare un rapporto di ordine spirituale,
egli finisce per mascherare l’angoscia attraverso un misterioso colloquio col
destino o col timore di situazioni insignificanti, che potrebbero però
sconvolgere anche il piano più accurato. Per questo motivo il genio si angoscia
più per le piccole cose che per le grandi, ma soprattutto si angoscia in un
tempo diverso da quello degli uomini comuni, giacché non si angoscia – come
tutti – nel momento del pericolo, ma piuttosto nel momento precedente o in
quello successivo, allorché cioè entra in colloquio “con quel grande sconosciuto
che è il destino” (p. 98). Il fatto che il genio resti col destino in un rapporto
d’angoscia fa sì che esso non possa assumere un atteggiamento religioso,
smarrendo perciò ogni contatto con il peccato e la provvidenza.
30) Nel paragrafo 3 (cfr. pp. 100 sgg.) Kierkegaard prende in esame l’angoscia
dell’ebraismo, ovvero quella posizione dialettica dell’angoscia orientata verso la
colpa. L’angoscia del paganesimo si esprime soprattutto nelle forme di vita
estetica e politica, mentre nell’ebraismo essa riguarda essenzialmente la vita
etica, coinvolgendo le categorie di colpa e di pentimento. L’ebraismo “giace
nell’angoscia”, ma in questo caso l’espressione “angosciarsi di (o per) niente”
risulta quanto mai paradossale poiché la colpa è certamente qualcosa (cfr. p.
100). Nell’ebraismo il nulla dell’angoscia cambia di segno, in quanto non si
tratta più del destino, ma della legge rispetto alla quale, nella sua alterità, ci si
sente colpevoli (cfr. p. 101). Questo punto rappresenta comunque un
avanzamento dell’ebraismo rispetto alla grecità. A parte il passaggio dal
destino alla colpa, nell’ebraismo al posto dell’oracolo pagano subentra il
sacrificio (cfr. p. 101), intorno a cui si concentra l’angoscia della moralità
ebraica. Nel sacrificio sembra essere contenuto il rapporto più profondo tra
l’umano e il divino, tra il divenire e l’eterno. Nel mondo ebraico, il sacrificio si
pone come espiazione della colpa, anche se si avverte che l’uomo non è in
grado col sacrificio di redimere se stesso. Kierkegaard osserva, quindi, che
“l’ebreo cerca rimedio nel sacrificio, ma non gli giova” (p. 101). Difatti, il
subentrare dell’angoscia conduce addirittura alla ripetizione quantitativa del
sacrificio, laddove il suo valore consisterebbe invece nel salto qualitativo verso
la fede e nella corrispondente carità del trascendente nei confronti dell’umano.
Il rimedio all’angoscia della colpa che l’ebreo cerca nel sacrificio non gli giova
perché ciò che invece potrebbe aiutarlo sarebbe togliere il rapporto
dell’angoscia con la colpa e istituire il “rapporto reale del peccato” (p. 101),
poiché altrimenti il sacrificio dev’essere ripetuto. Infatti, solo col peccato si
pone anche la redenzione e la stessa provvidenza, esentando così l’uomo dal
ricorrere nuovamente al sacrificio. La provvidenza non è fondata sulla
necessità, ovvero su una reiterazione deterministica, bensì sulla libertà e
dunque sulla possibilità in positivo.
31) Al paganesimo che, affermando la necessità dell’essere, la possibilità
assume le forme del destino, l’ebraismo risponde facendo della colpa la
controfigura della possibilità. La colpa, però, non sarebbe tale, se non fosse il
frutto della scelta dell’uomo, che avrebbe anche potuto non scegliere o
scegliere diversamente. Da un lato quindi l’ebraismo afferma la colpa, come
condizione inseparabile dell’esistenza umana, asserendo il carattere
assolutamente necessario della legge divina, ma dall’altro il riconoscimento
della colpa lo porta di fatto a riconoscere la stessa possibilità. Qui s’insinua, nel
discorso kierkegaardiano, il primato di un cristianesimo che colga in Dio
l’infinita possibilità dell’amore e nel sacrificio di Cristo l’unica via per togliere
davvero l’angoscia in un contesto di rinnovamento spirituale e di redenzione.
32) Lo stadio religioso dell’esistenza è quello in cui gli altri (estetico ed etico)
non vengono negati, ma salvati dal punto di vista religioso e dunque ripresi
nella loro positiva e vera funzione. Nel mondo ebraico la giustificazione della
vita era affidata al sacrificio e questo veniva ripetuto proprio perché – secondo
Kierkegaard – non era colto l’autentico significato della vita. Ma la ripetizione
del sacrificio non può essere la soluzione dell’angoscia che promana dallo
sperimentare piani di vita contraddittori, giacché ciò finisce per incrementare il
vanificarsi del divenire nella sua corsa verso il nulla. Una mera ripetizione
quantitativa del divenire non consente infatti di entrare in contatto con
l’eterno: tale contatto è possibile, invece, solo nell’istante della fede e nel
passaggio allo stadio religioso. In questo quadro, la ripetizione diviene ripresa
degli altri stati di vita, una volta che questi siano stati negati nella loro
mondanità. Su questa via si potrà avere anche la sensazione di essere
disperati e di perdere tutto ma, se si saprà perseverare, si guadagnerà tutto.
“Coraggio, figlio mio! va’ pure avanti, perché chi perde tutto vince tutto” (p.
104). Di qui il presentarsi di una rinascita nello spirito, che presuppone la
negazione della nascita nella carne e della conseguente vita mondana. La fede
guadagnerà tutto perché nella ripresa avrà anche la vita mondana. Esemplare,
al riguardo, è la storia di Abramo – descritta in Timore e tremore – a cui la
fede restituirà il figlio Isacco.
33) Nello scoprire la libertà, l’individuo sente che l’angoscia del peccato grava
su di lui nello stato della possibilità. La libertà in questione non va considerata
però alla stregua dell’ostinazione o dell’egoismo, nel senso che il suo opposto
non è la necessità. In quanto “possibilità di potere” o “possibilità del possibile”,
la libertà ha come opposto la colpa (cfr. p. 105 sg.), in quanto una volta
caduto nel peccato l’uomo non ha più di fronte a sé l’intero spettro delle infinite
possibilità, ma solo quella possibilità concessagli dal mondo finito nel quale,
peccando, ha finito per rinchiudersi. La libertà non teme la colpa per il fatto di
dovere in tal senso riconoscersi colpevole, ma perché teme di diventare
colpevole. Del resto, una volta che la colpa sia posta la libertà torna in qualità
di pentimento, cosicché la rinascita non è altro che riconquista di una libertà
perduta. Ne consegue che il “rapporto tra libertà e colpa è angoscia, perché la
libertà e la colpa sono ancora una possibilità” (p. 106). Prima di peccare
l’uomo, entrando in rapporto con la colpa possibile, cade inevitabilmente
nell’angoscia. Tuttavia, c’è angoscia anche dopo aver commesso il peccato,
ovvero in conseguenza del peccato stesso. E proprio nell’angoscia che segue al
peccato – vale a dire nell’individuo posteriore (ad Adamo) – più la libertà
scopre in profondità i propri limiti (e con ciò la colpa), più grande sarà il “genio
religioso” (cfr. p. 106), capace di vivere su tale piano un rapporto di assoluta
intensità con Dio, riconquistando con la fede anche se stesso.

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Lezioni della sesta settimana
1) Nel quarto capitolo (cfr. pp. 109 sgg.) Kierkegaard esamina l’angoscia che
scaturisce dal peccato nel singolo, in cui ora l’oggetto dell’angoscia è qualcosa
di determinato, giacché – essendo stata posta la differenza tra bene e male –
l’angoscia ha smarrito la sua ambiguità dialettica. Il peccato nasce dalla
vertigine della possibilità allorché, nella libertà assoluta della scelta, l’uomo
propende per il negativo. Nelle condizioni di possibilità assoluta l’uomo è del
tutto libero e si trova al cospetto dell’eterno. Nello svolgimento storico, l’uomo
si muove però in una dimensione orizzontale in cui ogni passo – che non è
frutto di una concatenazione meccanica – viene posto mediante un salto,
poiché il peccato “entra nel mondo sempre a questo modo” (p. 109).
Kierkegaard torna a sottolineare il carattere non astratto della libertà, che non
va concepita allo stregua di un generico libero arbitrio o, per così dire, di una
libertà d’indifferenza, anche perché la “libertà è infinita e sorge dal nulla” (p.
110). Nella prospettiva delineata da Kierkegaard, scegliere nuovamente di
peccare significa aggravare la situazione, poiché il peccato si rinnova e si
potenzia in ogni nuova situazione di possibilità. A causa del peccato, nessuna
situazione storica mostra di avere un valore assoluto, nel senso che nessuna
verità umana può coincidere con l’assoluto. Se così fosse, infatti, il divenire
storico sarebbe la “pienezza dei tempi”, trasformando così la storia
nell’incarnazione dell’assoluto. Viceversa, solo nell’incarnazione del bene in una
situazione storica ciò può avvenire, e segnatamente attraverso l’incarnazione
di Dio in Cristo.
2) Nel primo paragrafo Kierkegaard introduce la questione riguardante
l’angoscia del male. Rispetto alla libertà perduta che – come possibilità
assoluta – era anche libertà del bene – il peccato appare in questo caso come
qualcosa di negativo, come una “possibilità tolta” e una “realtà ingiustificata”
(p. 111). Essere nel peccato significa però riconoscere che non bisognerebbe
essere in tale situazione, per cui esso andrebbe negato per riconquistare la
libertà. Il peccato, proprio perché è tale, ha costretto colui che pecca, l’ha
condizionato al male – così come la statua del Commendatore tiene prigioniero
Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart (cfr. p. 111). Per un verso dunque
il peccato è prigioniero di se stesso, ma per un altro non vuole esserlo. Il
peccato è una realtà ingiustificata e un male per così dire abusivo sia per le
eventuali conseguenze future del male commesso, sia per la possibilità di
commettere di nuovo un male già commesso. “Per quanto sia profonda la
caduta dell’individuo, esso può cadere ancora più in basso e questo ‘può’ è
l’oggetto dell’angoscia” (p. 111). L’angoscia ha quasi il compito di negare tale
realtà ingiustificata e di tenere viva la coscienza del peccato, impedendo ad
esso di mettere “radici nell’individualità” (p. 111). Ne consegue che, data che
sua funzione in parte positiva, non è auspicabile liquidare l’angoscia in maniera
incondizionata.
3) Da un lato l’uomo ama il peccato, dall’altro però vorrebbe essere libero,
senza essere cioè imprigionato dal peccato. Su questo piano inizia una sorta di
sofistica in difesa del peccato, attraverso cui l’uomo cerca varie giustificazioni
per il suo voler al contempo peccare e non peccare, ovvero per amare il
peccato senza riconoscerlo però come tale. Tale sofista del peccato o, per
meglio dire, questo “sofisma del pentimento” (cfr. p. 113 sg.), in base al quale
ci si vorrebbe giustificare del peccato senza peraltro rinunciare ad esso, può
esser vinto solo da una maieutica dell’angoscia che lascia libera all’uomo solo
la via della fede. Al riguardo Kierkegaard afferma che l’angoscia sorge anche
dalle conseguenze del peccato. Tuttavia, finché l’angoscia nasce, l’individuo
può sempre sperare di salvarsi. L’individuo non sarebbe angosciato se non gli
mancasse qualcosa, e più precisamente il bene che ha perso. Sotto questo
profilo, l’angoscia è un indice positivo, nel senso che più il peccatore è tale, più
l’angoscia è debole, non essendovi un’effettiva preoccupazione per la
situazione peccaminosa.
4) A partire da p. 112, Kierkegaard descrive il sottile gioco dell’angoscia,
consistente nel fatto che il peccatore matura una coscienza del peccato, ma al
tempo stesso cerca di spiegare in altro modo il peccato per non essere
costretto a riconoscerlo. Spesso il peccatore evoca, ad esempio, delle
determinazioni quantitative, come quando si riconosce di aver fatto qualcosa di
negativo, ma che in definitiva ciò che si è commesso è quasi nulla. Il peccato
non è quantità ma qualità, per cui una volta posto esso dev’essere solo tolto.
ponendo al suo posto qualcosa di qualitativamente altro. Per questo motivo,
togliere il peccato significa saltare dal piano della quantità e della finitezza a
quello della qualità e dell’infinito proprio della fede.
5) Nella sua più profonda realizzazione, la coscienza del peccato che si esprime
nel pentimento è però cosa rara. Tra l’altro, nella sfera religiosa non di deve
parlare di genialità come nelle altre sfere (politica, estetica o filosofica).
Nessun uomo può essere responsabile, infatti, di non mostrare genialità ad es.
in campo artistico, mentre ogni uomo è responsabile di peccare, proprio perché
invece può non voler commettere peccato. Il problema sorge quando l’angoscia
sfocia in una forma di pentimento inautentica, e cioè in un senso di colpa che si
rattrista in maniera puramente estetica per il peccato commesso e le
conseguenze che ne derivano, senza che ciò si accompagni a un vero
cambiamento di vita. Un pentimento segnato dall’angoscia segue il peccato
“passo per passo, ma è sempre in ritardo di un istante” (p. 112), cosicché
invece di togliere il peccato, ne risulta direttamente al servizio. Da un lato, un
pentimento inautentico riconosce il peccato per ciò che è – ovvero come una
realtà giustificata – ma da un altro non prende sul serio il male compiuto, non
riuscendo perciò di fatto a reintegrare la libertà. In tal senso, un pentimento
così concepito non può eliminare il peccato, ma solo rattristarsene, giacché la
contrizione in quanto tale non serve a liberare l’uomo. In questo modo si attua
solo un meccanismo di difesa con cui si cerca di tenere a bada l’angoscia,
risparmiando cioè nell’elaborazione della colpa a fronte di un atteggiamento
che lascia intendere di soffrire terribilmente per essa. L’angoscia che
accompagna tale pentimento non è più orientata al futuro, risultando – non
senza un ripiegamento vittimistico – la punizione naturale per il peccato
commesso. Tale forma di pentimento non riesce perciò a trovare una via
d’uscita e l’individuo che si pente in maniera inautentica tende a giustificare le
proprie scelte, assolvendosi in parte e non considerandosi comunque del tutto
responsabile per le conseguenze del male commesso. Di qui il rischio di
divenire preda di una catena irresolubile di sensi di colpa, che lo trascinano
ancor più nel peccato, in assenza di un vero cambiamento. Così facendo,
l’uomo rischia anche l’assuefazione al peccato, fino a far quasi scomparire
l’angoscia del male.
6) A p. 112 Kierkegaard descrive due casi di angoscia. Nel primo, l’angoscia
opera perché l’uomo si rende conto che il peccato dev’essere tolto, per cui
“l’angoscia si fa sentire di più” quanto più si sente la necessità di eliminare il
peccato. Nel secondo caso l’uomo si angoscia perché sente di aver intrapreso
un cammino nel quale il peccato diventa sempre più grave. Se in questo caso
l’angoscia diminuisce, significa che l’uomo non si angoscia più per il fatto di
peccare e che la “conseguenza del peccato trionfa” (p. 112). Nel primo caso
l’angoscia c’è perché c’è il peccato, anche se il peccatore non vuole confessare
la presenza del peccato stesso, interpretando in qualche modo il proprio
angosciarsi come un tentativo di cancellarlo. Nel secondo caso, la realtà
dell’angoscia è invece essenzialmente rivolta “alla possibilità esteriore del
peccato”, con un ulteriore allontanamento da un percorso di liberazione dalla
situazione peccaminosa. C’è poi una forma ancor più grave di angoscia, che
Kierkegaard descrive citando un verso del Re Lear di Shakespeare: “O
capolavoro della natura distrutto” (p. 112). Re Lear si duole di sé, ma non ha
la forza per mutare il proprio destino. Come nel caso del pentimento
inautentico, anche qui il peccato – considerato nelle sue conseguenze – viene
visto come una sorta di punizione, quasi cioè che le conseguenze del peccato
possano punirlo col pentimento che fanno sorgere nel peccatore. È chiaro però
che in questo quadro l’individuo si pente, ma si lascia però cadere nuovamente
nel peccato e vincere dal dolore per il peccato commesso. “Qui l’angoscia è al
suo culmine. Il pentimento è uscito di senno e l’angoscia è elevata alla potenza
del pentimento. [...] Il peccato vince. L’angoscia si getta disperatamente nelle
braccia del pentimento” (p. 112 sg.). Il sofisma che il “pentimento impazzito
può generare” consiste nel far ritenere al peccatore di peccare al fine di
pentirsi, e non di pentirsi per aver peccato. Da questo circolo sofistico si può
uscire, secondo Kierkegaard, solo con il salto nella fede. Questa ha infatti la
forza per condannare la follia del pentimento, riconoscendo che il pentimento –
in tale accezione – costituirebbe a sua volta un nuovo peccato. “L’angoscia
dissangua il pentimento, lo priva della sua forza, gli fa venire il capogiro” (p.
113), per cui è solo la fede che può realizzare l’estinzione dell’angoscia,
portandola a rovesciarsi nel suo contrario e dunque a far nascere ciò che è in
grado di cancellare il peccato attraverso il progressivo consumarsi dell’angoscia
e l’avvento della fede che ne prende il posto. Queste forme di angoscia
appartengono, secondo Kierkegaard, all’angoscia del male, ovvero
dell’angoscia provata da colui che, trovandosi nel male, soffre però di esso
avendo bisogno del bene. In tal senso, l’angoscia di cui si parla qui non
rappresenta una chiusura totale al bene, né un suo rifiuto radicale.
7) Nel paragrafo 2 (cfr. pp. 115 sgg.) s’inizia a trattare dell’angoscia del bene,
ovvero del fenomeno del demoniaco. L’elemento demoniaco si trova al fondo di
ogni uomo e costituisce una forma precipua d’angoscia e di disperazione. Il
demoniaco viene descritto da Kierkegaard come uno spirito chiuso in se stesso,
avvolto nella propria individualità: più in particolare, è l’uomo non libero che
intende chiudersi nella propria non libertà, a dimostrazione che tale non libertà
è ancora un fenomeno della libertà (cfr. p. 119 sg.). Se l’angoscia del male
nasce in ragione di un male commesso, quella del bene nasce – in un individuo
che è comunque immerso nel male – per il bene che è al di fuori lui e che per
questo lo angoscia. Questa situazione è demoniaca perché colui che vi si trova
si rifiuta di riconoscere il bene, vuol negare il bene al punto da non volere che
esistesse. L’indemoniato si chiude in se stesso proprio perché vuole il proprio
male, vuole essere tormentato da ciò che è negativo proprio perché non è
buono. Se la libertà si qualifica per la sua espansione e per il senso di apertura
che promana da essa, la non libertà dell’indemoniato è invece prigioniera di sé,
rifiutandosi a ogni forma di contatto e di comunione. L’angoscia del bene si
qualifica dunque per indurre l’individuo a restare nella condizione di colpa,
opponendosi ad ogni cambiamento. Il rifiuto di accettare qualsiasi aiuto od
offerta di salvezza porta l’indemoniato a restare centrato su di sé, cercando
delle sicurezze nella dimensione del finito, nel tentativo disperato di restare
centrato su di sé nelle forme della chiusura totale, dell’assenza di
comunicazione e di un atteggiamento taciturno.
8) Per caratterizzare la condizione degli indemoniati Kierkegaard si richiama
ripetutamente alla condizione in cui il male non vuole avere nulla in comune col
bene, chiudendosi in sé proprio per separarsi dal bene il più possibile. Tanto
più è decisa questa volontà di separazione, tanto più grande è l’angoscia
nell’indemoniato. Il voler essere a tutti i costi altro rispetto al bene
contrassegna l’essenza del comportamento demoniaco. La volontà di
rinchiudersi nella propria solitudine, di ripiegarsi su di sé, di non comunicare e
di negare ogni aspetto relazionale dell’esistenza si traduce, nel demoniaco, in
un’idolatria di sé, in una sorta di feticismo e di affermazione del proprio essere
indemoniato. La distinzione tra angoscia del male e angoscia del bene viene
ribadita da Kierkegaard dicendo che non basta la “schiavitù del peccato” per
caratterizzare la situazione demoniaca (cfr. p. 115 sg.), la quale si verifica
allorché l’individuo non è più libero di fronte al bene, per cui ogni suo
movimento si rivolge al male. In questo quadro s’inscrivono gli accenni ai tratti
fisiognomici – mimica bestiale, ghigno animalesco – che l’angoscia demoniaca
lascia sulla figura e sul volto del demoniaco (cfr. p. 115).
9) In primis, il demoniaco viene considerato dal punto di vista estetico-
metafisico, nel senso che esso viene visto in relazione al problema metafisico
del male (cfr. 116 sg.). Su questo piano i pensieri che il demoniaco suscita non
devono essere però estetici, cioè non devono essere mere espressioni di dolore
o rappresentazioni drammatiche riguardanti il destino. La critica di Kierkegaard
si rivolge qui a quella forma di compassione superficiale che compatisce senza
alcune partecipazione al dolore, per quanto un misterioso rapporto con esso ci
debba pur essere. In quanto superficiale, tale compassione è ben lungi dal fare
il bene di chi soffre, servendo solo da riparo per l’egoismo di chi la attua. Con
questo genere di compassione si tenta infatti di sfuggire dal porre il misterioso
problema del male che l’uomo avverte in maniera tormentosa. Al riguardo, la
fuga assume anzitutto una veste estetica, riducendosi – in una sorta di messa
in scena – a espressione puramente sentimentale del dolore nel rifiuto di ogni
autentica partecipazione.
10) La considerazione del demoniaco dal punto di vista etica (cfr. pp. 117 sgg.)
si fonda invece sul principio che se qualcuno è indemoniato o dà segni di
squilibrio, significa che è colpa sua, avendo appunto commesso qualcosa di
male. Sotto questo profilo, potrebbero essere considerate alla stregua di colpe
molte manifestazioni psicologiche anormali o devianti. Secondo Kierkegaard, la
severità e anche la crudeltà riservata a tali casi di demoniaco andrebbero
salutati come espressione di serietà. Questa concezione priva di umana pietà
sembra inscriversi nella tradizione delle superstizioni e delle torture medievali,
dimenticandosi del tutto dell’atteggiamento cristiano che cura attraverso
l’amore. Il tratto illiberale di questi pensieri torbidi e della stessa severità
medievale viene erroneamente attribuito da Kierkegaard a sant’Agostino (cfr.
p. 118), quando si tratta invece di posizioni riconducibili a Tertulliano. Tale
concezione, assai più che paradossale, viene però ritrattata da Kierkegaard
qualche pagina dopo. D’altronde, non sarebbe bastato, al riguardo, rifugiarsi
dietro all’identità dello pseudonimo, di cui non è necessario condividere tutti i
punti di vista.
11) Se dal punto di vista estetico-metafisico il demoniaco viene considerato
come un destino incomprensibile, che non dev’essere però affrontato in termini
di atteggiamento compassionevole tipico di chi si limita a commiserare il dolore
altrui sulla base del desiderio inconfessato di allontanare da sé la sofferenza,
dal punto di vista etica il demoniaco è visto invece come una colpa da
condannare in maniera dura. Quest’approccio rappresenta per Kierkegaard un
deciso passo avanti, nel senso che prende sul serio la persona nella sua
dimensione etica, aprendo così a una concreta possibilità di liberazione (dal
male e dall’angoscia). In questo senso anche la severità della punizione poteva
essere riscattata come una sorta di purificazione, ben distante dal
sentimentalismo compassionevole tipico della società moderna. In ogni caso,
Kierkegaard stabilisce che non si può venire a capo del demoniaco in chiave
naturalistica con mezzi meramente scientifici, ma anche ricorrendo a interventi
sociali.
12) L’angoscia della colpa può anche rivelarsi però in manifestazioni di ordine
psicopatologico che rende il demoniaco “oggetto di trattamento medico” (p.
118). Il farmacista e il medico si alleano per isolare il paziente, in modo che gli
altri non s’impressionino. Ma poiché si tratta di un’angoscia conseguente al
peccato, è evidente che non può bastare un estrinseco trattamento medico.
Occorre ricondurre infatti il fenomeno all’unitarietà dell’uomo, essendo questi
una sintesi di corpo e anima effettuata dallo spirito, nell’ambito della quale
ogni alterazione di una delle componenti si riflette sul carattere organico
dell’esistenza umana. Nell’approccio medico al problema demoniaco si
riverbera un certo ideale illuministico, che si nutre di una fede forse eccessiva
nelle capacità terapeutiche della medicina, in cui però prevale un rapporto col
malato fatto d’insincerità e ipocrisia. “Nel nostro tempo coraggioso non si osa
avvertire il malato che sta per morire; non si osa chiamare il sacerdote, per
paura che egli muoia dallo spavento; non si osa dire a un paziente che negli
stessi giorni è morto uno della stessa malattia” (p. 118). Da qui la malintesa
benevolenza con cui si isola il malato, nel quadro di una sostanziale mancanza
di sincerità. I medici tendono spesso a coprire la loro incapacità con
atteggiamenti compassionevoli, che tradiscono però inumanità e cinismo.
Citando una novella di Hoffmann, Kierkegaard dice che un atteggiamento del
genere si manifesta ad esempio quando il medico curante, conscio dei propri
limiti, dopo aver esclamato in maniera pomposa: “questo è un affare serio”, si
dilegua mostrando di considerare il malato come u caso clinico da trattare solo
in maniera statistica (cfr. p. 118).
13) Kierkegaard passa poi a sviluppare la propria personale analisi psicologico-
esistenziale del demoniaco, cercando di determinare in maniera più accurata
tale nozione. S’inizia dicendo che “nell’innocenza non si può parlare di
demoniaco” (p. 119), ma ciò non va certo legato all’idea fantastica di un “patto
col male”. A tale altezza, Kierkegaard corregge il tiro rispetto alle posizioni
sostenute in precedenza, osservando che la crudeltà esercitata nei confronti
del demoniaco è di fatto contraddittoria, in quanto nell’assunto della punizione
si presume che chi viene punito abbia la capacità di piegare la punizione in
senso positivo, indirizzandola alla salvezza. Il demoniaco, per Kierkegaard, può
determinarsi in varie situazioni. La possibilità del demoniaco è infatti implicita
nella possibilità in generale, ovvero nella libertà che – una volta perduta – si fa
sentire come angoscia del bene. Il demoniaco è, in generale, la condizione in
cui può “prorompere, in ogni momento, la “singola azione peccaminosa” (p.
119). Il demoniaco è “l’angoscia del bene”, Nell’innocenza, l’angoscia interna
ad essa è in funzione di una libertà non ancora posta, di cui sono presenti le
infinite possibilità. Trasposta sul piano della libertà, l’innocenza – nell’infinito
delle possibilità – può anche peccare. Ma se pecca, in essa si produrrà
l’angoscia per il male in cui è caduta la libertà, e tale angoscia servirà a
ricondurre l’uomo all’innocenza, ovvero a riconquistare un’innocenza che è più
dell’innocenza non ancora persa. La riconquista dell’innocenza comporta
dunque la vittoria sul peccato, orientando alla salvezza. Nell’angoscia del bene,
invece, non si aspira più all’infinito della libertà, come nell’innocenza, e cioè a
un infinito che contiene di fatto anche il bene. Nel demoniaco il rapporto è
inverso a quello che si registra nello stato d’innocenza. In esso, infatti, che è
caratterizzato dall’angoscia del bene, c’è il rifiuto per così dire programmatico
della salvezza. La libertà è posta qui “come non libertà, perché la libertà è
perduta” (p. 119). Il demoniaco, nella sua essenza, funge da limitazione del
possibile. Nell’infinita possibilità tutto è possibile – sia il bene, sia il male – ma
il demoniaco parte negando la possibilità, finendo quindi per convincersi che
l’uomo scelga necessariamente il male. Chi crede che il male costituisca l’unica
realtà, è già di fatto catturato dal male nella misura in cui, considerandolo la
sola possibilità, gli conferisce un valore quale fondamento del mondo e della
vita. Tuttavia, il progetto del demoniaco sembra incontrare degli ostacoli, dal
momento che negare la libertà non è mai del tutto possibile e l’angoscia – che
l’uomo non è riuscito a dominare – appare il segno del bisogno della libertà
negata. Peraltro, la non libertà esercita sempre sull’uomo una notevole
seduzione, giacché per converso la libertà è sinonimo di rischio, d’inquietudine
spirituale, di una consapevolezza spesso dolorosa, cosicché per lo più si tende
ad evitarla. La libertà sembra essere infatti gravata da un eccessivo senso di
responsabilità e gli uomini sembrano per lo più soffrire per una libertà che li
precipita in uno stato d’inquietudine, che ci si affretta ad anestetizzare
ricorrendo a concezioni dogmatiche o mitiche.
14) Kierkegaard dice che il demoniaco è “la non libertà che vuole chiudersi in
se stessa” (p. 119), senza però riuscire a farlo davvero, restando sempre esso
“in un certo rapporto col bene” (p. 119). In ogni caso si tratta di un
atteggiamento di chiusura liberamente voluto, attraverso cui ci si chiude
solipsisticamente in sé. La caratterizzazione essenziale del demoniaco si
traduce nel suo essere taciturno (il demoniaco non spiccica parola,
monologizza, parla con se stesso), per cui tale fenomeno si manifesta con il
rifiuto di ogni forma di comunicazione (cfr. p. 120). L’angoscia del bene e della
libertà si qualifica perciò per essere soprattutto angoscia della comunicazione,
poiché l’individuo demoniaco può uscire dalla propria solitudine e chiusura solo
laddove gli viene rivolta una parola che lo invita a ravvedersi.
15) Con la parola “il fascino dell’incantesimo scompare. Perciò il sonnambulo si
sveglia quando è chiamato per nome” (p. 123). In tal senso la parola assume il
significato di una rivelazione, anzi di una prima forma di liberazione ed
espressione di salvezza. Il demoniaco, infatti, ha piacere nell’isolarsi, nel
crogiolarsi nella propria illibertà, proprio perché l’angoscia che prova riguarda il
giungere a cogliere ciò che davvero egli è. Per questo rifiuta di comunicare,
privilegiando il silenzio e la menzogna alla stessa verità (cfr. p. 120). A ben
vedere, però, il demoniaco non può sciogliere tutte le relazioni e i legami con
l’esterno, giacché se anche solo proferisce parola entra in contraddizione con
se stesso. La parola è per essenza comunicazione, essendo di fondamento
relazionale: è il primo segno che l’uomo non vuole essere solo e, se dichiara di
volerlo essere, per il solo fatto di esprimere tale volontà egli si pone in un
rapporto comunicativo con qualcosa di altro. La parola è quindi prova della
falsità di ogni solipsismo, vale a dire è la prova che qualcosa trascende il
pensiero e l’ordine simbolico del discorso. Il carattere significativo delle parole
rimanda non solo a fatti, cose o persone, ma all’intera sfera delle possibilità
non ancora realizzatesi. Anche se l’indemoniato parla contro il bene, le parole
testimoniano del fatto che egli vuole ancora il bene, pur simulando di non
volerlo. La parola è ciò che può salvare, quindi, l’indemoniato. L’indemoniato si
chiude infatti in se stesso, provando angoscia del bene, proprio perché capisce
paradossalmente di essere inevitabilmente in rapporto con ciò che vorrebbe
negare, liberandosene. Proprio tale dialettica lo rende però sempre più aperto
alla possibilità. Del resto, “la taciturnità è la rivelazione involontaria” (p. 125).
La stessa tortura del silenzio imposta a un “delinquente ostinato”, che non
vuole confessare, riesce a “finalmente a far prorompere, involontariamente, la
confessione” (p. 121). Per Kierkegaard, “nessun uomo che abbia una cattiva
coscienza può sopportare il silenzio” (p. 121), e ciò costituisce la prova di come
al fondo di ogni uomo che ha deciso di chiudersi nella taciturnità vi sia il
bisogno di comunicare, giacché “tutta la disperazione, tutti gli orrori del male
compresi in una sola parola non destano lo spavento che può suscitare il
silenzio”. Certamente, l’indemoniato continuerà a sostenere di non aver nulla
in comune con il bene, ma dice ciò perché vuole negare quella comunione che
sente comunque di avere. Di qui tra l’altro l’affinità, che Kierkegaard non poté
negare, tra la categoria del demoniaco e quella hegeliana del negativo. Ciò che
emerge da questo contesto, è che la parola significa rivolgersi già al bene, non
importa se in maniera diretta o indiretta. Di conseguenza, il linguaggio
sembrare trovare un fondamento religioso, in quanto sembra tradursi nella
fede in un messaggio di salvezza e nella possibilità stessa dell’amore.
16) Il ritorno a comunicare rappresenta, dunque, la vittoria sul demoniaco che
è negazione della parola e affermazione contraddittoria del silenzio. Come
logos, la parola è incarnazione del divino nel mondo. Nell’affermare che la
parola è, a un tempo, testimonianza e possibilità della fede, Kierkegaard rileva
tra l’altro l’importanza che “il fanciullo sia educato sul’esempio della taciturnità
nobile e preservato da quella fraintesa” (p. 122). Ma ritornando a trattare
dell’essenza del demoniaco, la continuità di tale fenomeno sembra innanzitutto
consistere nella sua mancanza di contenuto, e dunque nella noia e nella
monotonia, come del resto sembra attestato dal fatto che il “diavolo impiegò
3000 anni a riflettere per trovare il modo di far cadere l’uomo” (p. 127).
L’individuo demoniaco si contrae in sé proprio in ragione suo vuoto interiore e
della mancanza assoluta di contenuto. Tuttavia, va rimarcato che l’illibertà del
demoniaco è il risultato di un opporsi volontariamente al cambiamento, per cui
– come dice Kierkegaard – “la non libertà è un fenomeno della libertà e non si
può spiegare con le categorie della natura [...in quanto] in essa c’è sempre una
volontà che è più forte del desiderio” (p. 130 nota). Ricercando la radice ultima
dell’atteggiamento demoniaco, ci s’imbatte in due modi in cui un individuo può
arrivare a perdere la libertà o in cui, per così dire, la libertà si trasforma –
rovesciandosi – in illibertà.
17) Il primo modo di perdita della libertà è quello somatico-psichico (cfr. p.
131 sg.). Esso si manifesta quando la libertà – congiurando contro se stessa –
si unisce al corpo nel tentativo di ribellarsi all’anima e allo spirito, producendo
uno stato di abbruttimento e di perdizione bestiale, in cui l’individuo finisce per
accettare la propria condizione di miseria e di disperazione. Il secondo modo è
invece quello “pneumatico” (cfr. pp. 132 sgg.), che si ha quando il rapporto tra
verità e libertà porta a uno scollamento di stampo conoscitivo, per cui subentra
il rifiuto da parte dell’individuo di lasciarsi compenetrare dalla verità anche sul
piano dell’azione e dell’esistenza tutta. La perdita somatico-psichica della
libertà può assumere “sfumature innumerevoli”, così “impercettibili” da potersi
scoprire solo con “l’osservazione microscopica”, ma anche altre così dialettiche
da poter essere ricondotte sotto la propria categoria solo attraverso un uso di
essa assai elastico (cfr. p. 131 sg.). Al livello più basso si registra comunque
quella condizione di abbruttimento che determina, nell’individuo, il sottrarsi ad
ogni contatto col bene. La stranezza è però che anche un individuo siffatto ha
bisogno tuttavia di unirsi a individui in preda alla stessa angoscia del bene e
della libertà, con l’esito così di dar luogo a quella “socialità dell’angoscia” (p.
132), che sembra assai più forte di una semplice forma di amicizia.
18) Il demoniaco è espressione, quindi, della perdita della libertà e del rifiuto
nei confronti di essa ma, più in generale, del rifiuto dell’amore e di riconoscere
il valore della parola che è il corrispettivo della perdita della fede. La fede,
infatti, è quel principio di armonia che rende l’uomo organicamente congiunto
in sé, nella sintesi tra corpo e anima realizzata dallo spirito. Si capisce, perciò,
che l’uomo diviene persona non in ragione della propria realtà biologica o di
una struttura psicologica comunque legata al corpo, ma in virtù di una
spiritualità armonica raggiungibile attraverso il salto nella fede. Già
nell’analizzare lo stato d’innocenza, Kierkegaard aveva colto come non si
trattasse di una pura immediatezza, e cioè di un dato semplice ed elementare.
Fin dall’inizio è presente infatti una relazione tra elementi costitutivi, a partire
da quella tra tempo ed eternità. Ogni fondamento della relazione è dialettico,
contemplando cioè un rapporto tra possibilità e attualità in un istante dato o,
per meglio dire, l’ambiguità dell’angoscia stretta tra libertà e non libertà.
L’assetto relazionale messo a punto dallo spirito è ciò che costituisce l’uomo
come unità mai identica, dal momento che la relazione tra termini non si
svolge, per Kierkegaard, nel solco di una dialettica tautologica che determina la
relazione come sintesi. Lo spirito realizza tra anima e corpo una sintesi di
ordine storico e temporale – una sintesi che puà però entrare a sua volta in
crisi al cospetto di un regno di possibilità infinite, in cui è possibile optare per
una sintesi più armonica o scegliere viceversa il peccato e l’esistenza
demoniaca. La fede è ciò che consente di non disperare e di conquistare di
continuo la libertà, confidando in un grado di comunicazione e di amore
sempre più elevati. La perdita della libertà può avvenire, quindi, sia ad opera
del corpo (fisica) sia dell’anima (psichica), ma può derivare anche dallo spirito
(pneumatica), cosicché solo la fede è deputata a riconquistare un tutto che si è
smarrito nella perdita delle rispettive parti.

Lezioni della settima settimana


1) Kierkegaard esamina il tema della verità (cfr. pp. 133 sgg.), non
considerata però in senso astratto o intellettualistico, ma come attività
interiore dell’uomo che lo impegna in tutto se stesso, penetrando cioè in tutto
il suo essere. In quanto attività e interiorità, la verità e libertà spirituale al
servizio della personalità umana, trovandosi appunto al centro di essa e
impedendo ogni deriva nell’ermetismo e nell’assenza di comunicazione. L’uomo
libero – l’unico ad essere se stesso – è quello che non si chiude alla liberta,
situazione nella quale scaturisce invece l’angoscia per la possibilità infinita. Da
ciò consegue che la forma più alta di educazione dev’essere ispirata dalla
possibilità, poiché solo un’educazione del genere prepara ad accettare le
conseguenze dei propri atti. L’educazione dev’essere dunque sempre in
funzione del possibile e non del reale, nel senso che si deve operare rimanendo
fedeli alle proprie scelte che non dovranno essere calibrate sulla dimensione
finita delle cose. Chi agisce invece sul piano della possibilità, agisce al cospetto
di qualsiasi evenienza, cosicché la sua fede risulterà indifferente a qualsiasi
risultanza proveniente dal mondo storico.
2) Il problema della verità, esistenzialmente concepito, porta con sé quello
della certezza e dell’interiorità, che sono tra l’altro il “criterio per stabilire se
l’individuo sia demoniaco o no” (p. 133). Tutti i fenomeni negati mancano
infatti di certezza, in quanto “giacciono nell’angoscia del contenuto” (p. 133).
La mancanza di certezza e d’interiorità equivale, per Kierkegaard, a una
mancanza di serietà. Se l’interiorità è infatti ciò che ci collega alla fede,
legandoci alla vita eterna, la serietà può dirsi ciò che sgorga da tale sorgente.
La serietà è il culmine di un interesse soggettivo, di una partecipazione intensa
all’interiorità, che non ha nulla però del carattere astratto e intellettualistico
dell’io fichteano (“Il filosofo dice Ich-Ich, finché egli stesso non diventa la cosa
più ridicola del mondo”, p. 146). La serietà è l’espressione più profonda della
natura dell’animo umano e la soggettività di cui parla Kierkegaard – e di cui
rivendica la necessaria ipertrofia – non è il soggetto astratto dei filosofi, ma la
personalità umana nella sua individualità, nella libertà e responsabilità della
scelta. La coscienza è seria quando conserva intatto il senso della propria
responsabilità e della propria liberta: ovvero, quando non si abbandona
all’abitudine. A proposito di come sia tremenda la perdita della serietà,
Kierkegaard cita un passo dal Macbeth di Shakespeare: “Da quell’istante, non
c’è più nulla di serio nella vita mortale [...] il vino della vita è spillato
(esaurito)” (p. 140). La serietà si ha solo laddove l’io fa di sé l’oggetto precipuo
del proprio interesse, lasciando che la sua concreata esistenza sia permeata
dall’eternità. Quando manca l’interiorità (di cui certezza, personalità e serietà
sono termini equivalenti) lo spirito è finito, proprio perché l’interiorità non è
altro che l’eternità, vale a dire la determinazione di ciò che è eterno nell’uomo.
La serietà corrisponde allo sguardo di Dio che si posa sull’uomo, ma è al
contempo l’essere davanti a Dio, ovvero considerare le cose in quella luce che
è riflesso dell’eterno.
3) Il vino della vita si esaurisce, dunque, quando l’uomo si rifiuta al rapporto
con l’eterno. La vita che vuole essere in rapporto con l’eterno, vuole – nella
continuità – riprendere se stessa nella sua totalità, giacché la “ripetizione è la
serietà dell’esistenza” (p. 142 nota). Il vero rinnovamento e l’autentica serietà
della vita si ottengono perciò solo con la fede e nella rinascita di ordine
spirituale. La negazione dell’eterno, a cui Kierkegaard allude, è quella che
contrappone all’eternità dell’attimo il gusto estetico della vita. Ma c’è anche
una negazione razionalistica dell’eterno che tenta di ridurre filosoficamente
l’eternità nelle forme del discorso logico. Al contempo, Kierkegaard considera
una negazione dell’eterno – e dunque un venir meno della serietà – anche
l’idea di un Dio concepito come principio o il tentativo di dimostrare l’esistenza
di Dio con argomenti logico-razionali, senza far appello invece all’amore e
all’interiorità. Lungi dal dimostrarne l’esistenza, in tal modo l’uomo finirebbe
invece per negarlo (cfr. p. 141).
4) In conclusione del quarto capitolo, Kierkegaard fornisce anche una sorta di
breve tipologia della negazione dell’eterno, costituita da quattro casi particolari
(cfr. p. 145 sg.). In primo luogo, si nega l’eterno nell’uomo, legandosi in
qualche modo all’istante, e cioè rafforzando l’elemento temporale. “ Se si pone
l’eterno, il presente è diverso da ciò che si desidera. Di questo si ha paura e
così si è nell’angoscia del bene” (p. 145). Tuttavia, negare l’eterno – per il fatto
che lo si considera un elemento destabilizzante degli aspetti funzionali
dell’esistenza – non vuol dire però che si riesca a sbarazzarci definitivamente di
esso, anche perché “l’angoscia dell’eterno riduce il momento a un’astrazione”
(p. 145). In secondo luogo, l’eterno viene concepito in maniera del tutto
astratta, trasformandolo così in un orizzonte in finitamente distante a cui non
ci si può avvicinare, per cui rischia di sottrarsi alla vista. In questo modo
l’eterno viene ridotto a confine estremo di una vita che rientra del tutto nel
piano dell’immanenza: in questa sua realtà di limite puramente esteriore,
l’eterno è come le montagne azzurre, è il limite della temporalità, ma colui che
vive vigorosamente non arriva al limite” (p. 145). In altri termini, gli individui
vivono entro un orizzonte d’eternità, senza però poterlo includere nella propria
esistenza. In terzo luogo, “si trascina l’eternità nel tempo come spettacolo per
la fantasia” (p. 145). In questo modo lo si trasfigura in chiave poetica, con
perdita di ogni serietà, facendo dell’eterno – alla maniera romantica – un tema
della riflessione artistico-letteraria, che non funge da anticipazione della vita
eterna ma opera da rimozione dell’eterno in senso demoniaco. In quarto luogo,
infine, l’eternità viene intesa dal punto di vista metafisico, finendo per
equivocare sia sull’idea d’immortalità, sia sul rapporto tra eterno e temporalità.
Qui Kierkegaard rilancia la sua polemica con la grande metafisica tedesca
contemporanea (Fichte e Hegel, in particolare: cfr. p. 146). Queste filosofie
appaiono demoniache in quanto divinizzano l’uomo, ponendo al posto della
trascendenza l’eternità astratta dello spirito assoluto, dell’”io puro, dell’eterna
autocoscienza” (p. 146), con il che l’io smarrisce la sua concretezza personale,
la singolarità fatta di responsabilità e libertà. Al riguardo, Kierkegaard – che
pur rivendica il ruolo ipertrofico della soggettività – contrasta il carattere
mondano di un’epoca informata dalla filosofia hegeliana della storia e da uno
spirito oggettivo che fungeva da trascrizione di una società massificata e di una
democrazia borghese del tutto immemore della serietà cristiana. Kierkegaard
rappresenta perciò un fenomeno di reazione paradossale nei confronti delle
tendenze dominanti, incentrate su un sapere astratto e su una religiosità
superficiale.
5) In definitiva, l’angoscia demoniaca del bene, che si manifesta – sotto il
profilo fenomenologico – nel ripiegarsi su di sé e nel rifuggire ogni forma di
comunicazione, si configura come l’effetto di una mancanza strutturale di
certezza, d’interiorità e di serietà: ovvero discende dal rifiuto di dar seguito alla
verità nell’azione, di riprendere con serietà ciò che è l’oggetto autentico della
serietà medesima, vale a dire la posizione del singolo di fronte all’eterno. In tal
senso, l’angoscia demoniaca del bene è angoscia dell’eterno. In una società
che rimuove la presenza dell’eterno dalla propria dimensione collettiva, anche
l’individuo sembra non accogliere più la sfida alla propria esistenza derivante
dal pensiero dell’eterno, per cui l’uomo stenta – anche per non incrinare
un’esistenza borghese stabilizzata da una cornice demoniaca – a far risuonare
nella propria esistenza temporale la presenza costante dell’eternità.
6) Il quinto e ultimo capitolo si apre con un accenno a una favola dei Grimm in
cui si parla di un “ragazzo che andò in cerca di avventure per imparare a
sentire l’angoscia” (p. 149). Questo incipit chiarisce il significato da attribuire
alla personalità umana, che deve appunto imparare a provare angoscia. La
possibilità fa sì che l’uomo possa volere ciò che vuole, ma fa anche sì che
l’uomo – nell’infinito delle possibilità – viva nell’angoscia. L’angoscia è tuttavia
la prova che la vera via per l’uomo è quella della spiritualità, in cui si delinea il
cammino verso il bene. Peraltro, Dio non vuole che l’uomo sia costretto a
scegliere il bene, ma vuole che l’uomo sia libero di farlo. Il richiamo dell’infinito
che l’uomo sente dentro di sé equivale, del resto, a un richiamo del bene.
Naturalmente, tanto più si sente tale richiamo, tanto più cresce l’angoscia di
fronte alla totale possibilità di rispondere positivamente ad esso. L’angoscia
che qui si manifesta non è dunque un’angoscia esteriore, ma quella che
l’individuo produce per così dire in proprio. Kierkegaard riconosce che
l’angoscia non è una prerogativa solo dell’uomo, ma anche Dio può essere
angosciato e, per meglio dire, può esserlo Gesù Cristo, ovvero Dio in quanto
uomo. (Nel Vangelo di Matteo si dice che Cristo fu angosciato fimo alla morte;
“Quello che fai fallo presto”; “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”,
cfr. p. 149). L’angoscia divina nasce dall’amore di Dio per l’uomo, dal desiderio
che l’uomo si salvi scegliendo liberamente il bene, e proprio per questo Dio si
fa uguale agli uomini soffrendo con loro. L’angoscia di Dio nasce anche
dall’incomprensione degli uomini che non hanno colto fino in fondo il tema
dell’amore e del dolore divino, ma nasce anche dal timore di non poter salvare
tutti e di dover assistere a una perdizione generale.
7) Dopo aver definito l’angoscia “possibilità della libertà” (p. 149), Kierkegaard
torna a ribadire l’importanza della categoria della possibilità in ordine a tutta la
filosofia dell’esistenza. La filosofia della realtà, a cui si contrappone la filosofia
della possibilità, è quella hegeliana. Per Kierkegaard, solo chi si è formato alla
scuola della possibilità, si è formato secondo la propria infinità, in quanto la
“possibilità è la più pesante di tutte le categorie” (p. 150), anche se molto
spesso si sente dire il contrario. Coloro che parlano di una possibilità così lieve,
hanno in mente un’invenzione fallace rappresentata dalla “possibilità di felicità,
dalla possibilità di fortuna” ecc., non avendo infatti mai “saputo cosa sia la
possibilità” ed essendosi invece dimostrati “buoni a nulla” proprio in rapporto a
quella realtà da essi così glorificata nella sua pesantezza (cfr. p. 150). Il
riferimento polemico alla scuola della realtà è costituito, naturalmente, dalla
posizione hegeliana, per la quale la storia costituiva la vera realtà del mondo e
l’unico giudizio autentico su di esso, laddove la possibilità rappresentava una
dimensione di pura vanità. In verità, per Kierkegaard, nella possibilità tutto
può darsi allo stesso modo, per cui chi segue questo tipo di formazione è stato
in grado di comprendere i lati terribili e piacevoli dell’esistenza, “sapendo,
meglio di un bambino il suo abbiccì, ch’egli dalla vita non può pretendere
assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento
abitano con ogni uomo porta a porta, e se ha tratto profitto dall’esperienza che
l’angoscia, di cui egli si angosciava, lo assalì nel momento seguente, allora
darà alla realtà un’altra spiegazione,; esalterà la realtà e, anche quando essa
pesa grave sopra di lui, si ricorderà che essa è molto più leggera di quanto non
fosse la possibilità” (p. 150).
8) L’uomo è libero di scegliere, ma le conseguenze della sua scelta entrano nel
mondo e camminano con le loro gambe. Il momento decisivo per l’uomo è
quello in cui ha la possibilità di decidere: in quell’istante, infatti, egli è di fronte
all’eterno e la decisione presa in tali momenti dà significato e importanza a
tutta la sua esistenza. Il momento rappresenta quella dimensione di ambiguità
in cui tempo ed eternità si toccano, in cui la trascendenza e l’immanenza
vengono in contatto, segnando il prevalere dell’elemento eterno e
trascendente. Per questo Kierkegaard sostiene che il momento non è un atomo
di tempo ma di eternità, giacché in esso si riflette la presenza dell’eterno nel
tempo. L’uomo libero è colui che sceglie di poter indirizzare la sua vita futura
all’insegna di una suprema possibilità di scelta e, in tal senso, la sua scelta non
potrà essere per il peccato e la dimensione demoniaca dell’esistenza, quali
situazioni che negano alla radice la libertà. In questo quadro, l’eventuale
presenza del peccato potrà essere comunque riscattata dalla costante
possibilità di optare per liberarsi da esso.
9) La “certezza interiore che anticipa l’infinito” (p. 150 sg.) è quella di chi
sente, in anticipo, che tutto può accadere – comprese le cose negative – e che
tuttavia non perde per questo la fede, scegliendo l libertà dell’amore. Chi si
dispone a vivere in questo modo non si lascia dunque dominare dalla finitezza
delle cose del mondo, ma agisce liberamente anche se il mondo gli mostrasse
una certa contrarietà. Da qui si profila il senso di un’esperienza religiosa basata
sulla libertà nella fede, laddove ogni negazione della libertà si traduce in
angoscia. Negare la libertà è, quindi, l’anticamera dell’angoscia che –
auspicando un destino preordinato – comporta anche la negazione di sé.
10) Il discepolo del possibile, che ha frequentato con profitto tale scuola, fa
riferimento dunque alla realtà di ciò che potrebbe accadere, accettando che
anche il male potrebbe in qualche modo educarlo alla vita. Di fronte alle infinite
possibilità, la scelta che si determina però come bene è opera per così dire
della fede, ovvero di una riconquista del mondo che passa attraverso la
possibilità. La fede, con ciò, si qualifica come scelta nell’infinito, come istanza
che opta per una vita non giocata solo sul piano orizzontale dell’esistenza, ma
trasvalutata semmai – anche in questa dimensione – dopo il salto nell’eternità
della fede stessa. Se “l’individuo inganna la possibilità dalla quale dev’essere
formato” (p. 151), non arriverà mai alla fede, privilegiando così il mondo della
finitezza e un atteggiamento di prudenza. Ma se costui non inganna la
possibilità che vuole istruirlo e salvarlo, ecco che potrà risalire dall’abisso in cui
era sprofondato (cfr. p. 152), ottenendo in restituzione non solo una realtà
ancor più grande di quella acquisibile da un uomo della realtà, ma ottenendo
addirittura l’infinito.
11) L’educazione del finito si basa dunque sulla casualità delle cose del mondo
e sulla dispersione del loro accadere. Quella dell’infinito, invece, s’inspira alla
visione della possibilità e all’angoscia che – educando alla fede – riconcilia
l’uomo con il bene e con l’idea di salvezza. L’angoscia si conferma svolgere
dunque un ruolo formativo nella vita dell’individuo, a patto che questi non si
lasci ingannare dalle “sue innumerevoli mistificazioni” (p. 152), imparando ad
angosciarsi cioè in maniera autentica, vale a dire del finito, pentendosi e
ravvedendosi fino a cambiar vita. Diversamente, egli si affiderebbe al destino
(cfr. p. 153), cadendo al contempo vittima della disperazione (della malattia
per la morte) come ultimo punto di fuga dell’angoscia e del tentativo illusorio
di trovare fondamento in se stessi. Nell’ottica cristiana di Kierkegaard, l’opera
dell’educazione non può essere sciupata col richiamo banale al finito,
attraverso meccanismi di protezione tesi a garantire solo sicurezza e prestigio,
ma deve servirsi dell’angoscia come si conviene, poiché solo questa è in grado
di svelare l’inconsistenza della sfera mondana e di ogni tentativo di affidarsi
inconsapevolmente al destino. Nella funzione propedeutico-formativa
d’introdurre alla fede, l’angoscia dischiude all’uomo la dimensione dell’eterno,
giacché “chi ha imparato in verità a essere in angoscia può andare per una sua
strada quasi danzando” (p. 155).
12) Dalla problematica dell’angoscia a quello della disperazione. Questi due
libri, Il concetto dell’angoscia e La malattia per la morte, rappresentano per
molti aspetti i punti focali della riflessione filosofica di Kierkegaard. La loro
peculiarità, che si pone nell’alveo della trattazione riguardante i cosiddetti
pensieri edificanti”, recupera molti dei temi che, in epoca patristica e
medievale, si erano incentrati sulle miserie dell’esistenza umana e sui tormenti
delle anime che peccano, sottraendosi al confronto con l’eternità e la
trascendenza. Su questo piano matura l’estraneità della filosofia dell’esistenza
kierkegaardiana rispetto al trascendentalismo e all’idealismo tedesco, ma
anche il suo rifiuto anticipato del feticismo positivistico che avrebbe
gradatamente preso piede a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Già dal
titolo di quest’opera si coglie il rimando a una malattia che spinge verso la
morte, senza però portare alla morte, configurandosi quindi come una malattia
alquanto sui generis. Nel sottotitolo, invece, compare già l’indicazione del
legame che stringono i temi della filosofia cristiana a quelli dell’esistenza,
attraverso il richiamo al carattere edificante di tale opera. [“Un’analisi di
psicologia cristiana per edificazione e risveglio”]. La ripresa del “carattere
edificante” (in tedesco erbaulich) va messa in relazione con la netta
affermazione di Hegel – contenuta tra l’altro nella Prefazione alla
Fenomenologia dello spirito – secondo cui la filosofia dovrebbe tenersi distante
dall’essere per l’appunto edificante.
13) La malattia per la morte è stata pubblicata cinque anni dopo Il concetto
dell’angoscia, e dunque nel 1849, anche se il manoscritto della stesura
originaria era già stato ultimato a metà dell’anno precedente. A partire dal
1843 Kierkegaard aveva iniziato a pubblicare i cosiddetti Discorsi edificanti,
relativi al perfezionamento dell’uomo nel suo tendere verso Dio. Tra l’opera del
1844 e quella del 1849 cambia, tra le altre cose, lo pseudonimo utilizzato da
Kierkegaard come propria maschera. Nella prima era Vigilius Haufniensis, nella
malattia per la morte è invece Anti-Climacus. In quest’opera Kierkegaard
riserva a sé il ruolo di curatore e, per certi versi, di editore. Questo libro fa
parte delle opere del compimento (insieme all’Esercizio del cristianesimo e alla
Neutralità armata), che avrebbero dovuto segnare un definitivo distacco
rispetto a un cristianesimo istituzionale e borghese, al fine d’introdurre il
cristianesimo nella cristianità.
14) Lo pseudonimo di cui si serve Kierkegaard in quest’opera è Anti-Climacus,
che si presenta come un “cristiano straordinario”, e cioè di rango assoluto. Il
1848 – al di là delle questioni riguardanti la congiuntura storica – fu un anno
cruciale per la parabola di pensiero kierkegaardiana. Kierkegaard disse infatti
di essersi sentito, in quell’anno, potenziato ma anche schiantato in senso
religioso, poiché Dio l’aveva per così dire “fiaccato a forza di correre”. Il nodo
problematico che si rivela in particolare in quell’anno riguarda l’opposizione tra
rassegnazione e fede. Kierkegaard stesso si riconosce nella figura del
rassegnato, sottolineando di poter diventare un uomo nuovo, ma
accontentandosi in questo libro di essere solo un profeta di una rinnovata
umanità e di lasciare quindi anticipare l’avvento di tale figura allo pseudonimo
designato. Ma perché la scelta di tale pseudonimo e a cosa esso si
contrappone? Briciole di filosofia (1844) e Postilla conclusiva non scientifica alle
Briciole di filosofia (1846) avevano avuto come maschera Johannes Climacus.
Johannes Klimax o San Giovanni Climaco era il nome dato a un teologo
bizantino del VI secolo, nella cui opera principale (La scala di Giacobbe o La
scala del paradiso) venivano descritti i gradi della perfezione morale. Climax e
Anti-climax sono le due facce contrapposte della figura retorica detta per
l’appunto gradazione, la quale consiste nel disporre parole o gruppi di parole o
locuzioni in un ordine d’intensità concettuale crescente o decrescente. Anti-
Climacus e Climacus sono dunque contrapposti tra loro e gli stessi pseudonimi
di Kierkegaard sono stati posti da lui in rapporto con i termini climax e anti-
climax. In una lettera a Rasmus Nielsen del 4 agosto 1849 (cfr. p. 197 sg.),
Kierkegaard che la caratteristica dell’intera modernità è stato quello di
“confondere un climax con un anti-climax, ritenere cioè un climax quello che è
un anti-climax [...] Per tutto ciò che va oltre – e tutto il moderno va certo oltre
– è richiesto che si salga con un anti-climax [...per cui] si arriva...salendo a ciò
che è più basso” (ad es.: dalla fede al sistema, dal singolo alla comunità, dalla
soggettività all’oggettività).
15) Nell’economia del discorso kierkegaardiano, ciò che conta è dunque il
rapporto tra questi due pseudonimi contrastanti o forse solo complementari
(Climacus e Anti-Climacus). Quest’ultimo è un “diavolo di spiritello” ed è
l’antagonista di Johannes Climacus, il quale è un socratico, impegnato a
combattere la speculazione hegeliana. Il suo impegno è però limitato e opera
comunque al riparo dello humour. Anche la sua difesa del cristianesimo è
oscillante, ma soprattutto non è un cristiano. Anti-Climacus, invece, che
condivide con lui quasi tutto, è il cristiano per eminenza e di gran lunga il
cristiano più straordinario. Johannes Climacus si pone così in basso da dirsi
perfino non cristiano, mentre l’Anti-Climacus è un cristiano davvero
straordinario che assume una posizione tetica, formulando un preciso atto di
accusa nei confronti del cristianesimo mondanizzato. Per un verso, proprio
perché scambia se stesso con l’idealità, Anti-Climacus manifesta un lato quasi
demoniaco, ma Kierkegaard s’inchina comunque davanti a lui, ponendosi più in
alto di Climacus ma più in basso di Anti-Climacus. Tra questi due pseudonimi
esistono affinità, ma si tratta di estremi opposti che si avvicinano fino a certo
punto per poi respingersi. Entrambi, peraltro, sono in cerca della stessa cosa: e
cioè di essere semplicemente un vero cristiano.
16) Se nell’assumere la maschera di Climacus, nemmeno Kierkegaard è
dunque cristiano, nel senso che non raggiunge il grado di religiosità
paradossale del cristianesimo puro, ora invece nel passare alla maschera di
Anti-Climacus la situazione è diversa. Kierkegaard, infatti, non è più – per
interposta persona – un umorista che critica le labilità della vita umana,
cogliendo – con vago atteggiamento scettico – la vanità e la contingenza delle
cose finite, ma è qualcuno che si affaccia alla sfera della vita religiosa,
oltrepassando cioè lo stadio della critica ironica e umoristica di tutto ciò che
regna sul piano della cosiddetta immediatezza. Kierkegaard aveva in mente
d’intitolare diversamente La malattia per la morte, pensando di conferire a tale
opera il titolo “La dottrina del peccato”. Tale titolo, per nulla fuori luogo,
avrebbe in certo modo chiarito ancora meglio il passaggio dal Concetto
dell’angoscia – in cui si tratta del peccato originale – a un libro riguardante il
peccato attuale (quello che l’uomo compie per sua libera volontà), rispettando
così la partizione dogmatica tra peccato originale e peccato attuale. Ma
soprattutto, il rapporto che intercorre tra questi due lavori è quello che c’è tra
angoscia e disperazione. Nel Concetto dell’angoscia, si attuava una riflessione
psicologica sul problema dogmatico del peccato originale, laddove la psicologia
poteva però condurre la comprensione fino a un certo punto, oltre il quale si
schiudeva una zona di mistero. Il mistero è rappresentato dal peccato che,
colmando l’abisso tra l’uomo e Dio, apre la porta d’accesso al cristianesimo.
Attraverso il peccato nasce, inoltre, lo spirito, che lega in qualche modo cielo e
terra, anima e corpo. Ma di qui sorge anche il tema dell’angoscia, che
Kierkegaard paragona a una vertigine della libertà che si manifesta quando lo
spirito sta per porre una sintesi e la libertà – guardando giù nell’infinito delle
proprie possibilità – afferra il finito per trovarvi un punto di appoggio.
L’angoscia testimonia dunque l’impossibilità di adeguare l’infinito al finito,
mostrando che ogni sintesi raggiunta contiene la possibilità implicita di una
sintesi più armonica. Poiché lo spirito si presenta nella relazione tra corpo e
anima, l’angoscia nasce appunto in tale relazione, giacché a fronte di una
relazione data c’è sempre la possibilità di attuare una relazione più elevata. Ciò
allude all’esistenza di una gradualità di relazioni e a una costante dialettica tra
le relazioni date.
17) Per Kierkegaard, chi diviene colpevole nell’angoscia lo diviene in modo
ambiguo. Come atto di natura esistenziale, l’angoscia rivela il presupposto che
spezza ogni forma di tautologia e d’intellettualismo astratto. L’angoscia si dà
nella situazione, nel momento in cui l’eterno è presente come possibilità
infinita. La dialettica, nel senso kierkegaardiano, è relazione tra tempo ed
eternità nel momento, ovvero tra una situazione temporale determinata e la
possibilità infinita di un’armonia dello spirito che l’eterno esprime. L’angoscia è
dunque relazione e non identità. L’errore commesso da Hegel non tanto nella
Scienza della logica, ma nelle Linee fondamentali di filosofia del diritto, è stato
quello d’interpretare la presenza dell’infinito nella finitezza del processo storico
come un’identificazione tra infinito e finito, tra l’assoluto e il dato storico. Per
Hegel, ogni filosofia è filosofia del proprio tempo e il compito del pensiero è di
collocare la filosofia nel pieno della realtà. Viceversa in Kierkegaard si afferma
la relazione tra il piano esistenziale e l’infinita perfettibilità in cui si risolve
l’eterno. Il carattere della dialettica kierkegaardiana non insegue quindi il
miraggio di un’identità astratta, ma si basa sempre su un presupposto e di una
direzione. Il presupposto è costituito dall’attuarsi di una relazione, mentre
l’aspetto direzionale – che conferisce senso alla dialettica stessa – consiste
nella possibile attuazione di una relazione ancor più armonica. Il presupposto,
per Kierkegaard, è sempre nel tempo, non essendo cioè qualcosa di assoluto e
di atemporale; inoltre, esso non è qualcosa di semplice, atomico o elementare,
ma rappresenta la possibilità di apertura al futuro. Il carattere temporale di ciò
che è attuale fa sì che lo spirito si nutra di possibilità e libertà (e non di essere
e necessità). Anche risalendo il passato non si giunge mai a individuare un
principio ultimo, per cui il senso di un presupposto ineliminabile mostra che di
fronte all’esistenza finisce per naufragare la pretesa idealistica di dedurre la
situazione storica da un principio logico e sovratemporale. Se sul piano
intellettualistico, l’impossibilità di cogliere un principio generatore appare come
uno scandalo, Kierkegaard afferma in positivo lo scandalo di un’esistenza
sottratta per così dire alla logica, e cioè richiama a un’esistenza non più
trasparente a se stessa, poiché ciò comporterebbe l’eliminazione totale di ogni
possibilità e il porsi deterministico dell’esistenza come necessità dell’essere,
come tentativo di trovare in se stessa il proprio fondamento. Per Hegel, il
presupposto doveva essere posto per poter poi essere tolto, ma se un
presupposto è tale è perché non può essere posto, e se lo spirito deve togliere
il presupposto, esso non sarà mai pienamente attuato, senza cioè un
presupposto da togliere, presentandosi quindi come possibilità infinita. In
senso kierkegaardiano, la possibilità ha senso solo in presenza di un
presupposto e la situazione storica non ha come condizione un principio
assoluto, ma si limita ad attenderlo. La storia esprime sempre una direzione
temporale e la complessa relazionalità, che Kierkegaard ricerca nel momento,
reca i tratti dell’orizzontalità e della verticalità. Secondo Kierkegaard, proprio
perché l’assoluto va concepito nel segno della possibilità e non della necessità,
il processo storico non può avere un carattere deterministico.

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Lezioni dell’ottava settimana
1) Nel Concetto dell’angoscia, Kierkegaard fa vedere come l’angoscia sia
sempre legata, in maniera invisibile, alla trascendenza. Essa si lega, in altri
termini, a ciò che è altro: nel paganesimo si tratta del destino, come atmosfera
indeterminata; nell’ebraismo si tratta della legge, come ostacolo costante e
pressoché generalizzato, infine, nel cristianesimo ciò che altro s’interiorizza,
finendo per coincidere con il peccato.
2) Con La malattia per la morte si assiste a una ripresa di “quello scavo
originale lasciato allo stato grezzo” rappresentato dal Concetto dell’angoscia. In
quell’opera del 1844, Kierkegaard non aveva ancora ben delineato tutti i
problemi posti sul tappeto, per cui le sue idee – esposte in maniera un po’
troppo dogmatica – erano rimaste alquanto sfuocate. La sua stessa volontà di
prendere congedo dalle ristrettezze del sistema di pensiero idealistico era
rimasta a metà del guado, nel senso che i temi centrali della sua trattazione
restavano ancora in odore di idealismo. In un diario del 1850, Kierkegaard
infatti dice: “Oh, lo stolto hegeliano che ero”. Di conseguenza, Anti-Climacus
riceve il testimone da Vigilius, delineando con migliore definizione i rapporti
sussistenti tra angoscia, libertà, peccato, colpa e fede. In particolare, però, al
centro della problematica kierkegaardiana vi sono i rapporti che intercorrono
tra angoscia e disperazione, essendo quest’ultima un altro nome della malattia
per la morte. L’angoscia è preparazione al peccato (è il “presupposto
disponente”), ma non si è ancora approfondita nella disperazione in cui l’uomo
sceglie se stesso. L’angoscia si caratterizza per la sua generalità, mentre la
disperazione è l’individuale. Nell’angoscia l’uomo sceglie il nulla, come altro da
lui. La disperazione è un atto maschile, mentre l’angoscia assomiglia a uno
“svenimento femminile”. L’idea del peccato sembra effeminare lo spirito,
generando l’angoscia, mentre quella della morte ne tratteggia la virilità, in
quanto la disperazione è un atto decisionale in cui l’uomo si pone davanti a
Dio. Disperare fa tutt’uno con l’esistenza, trattandosi della volontà di disperare,
e cioè di ribellarsi a Dio e al riconoscimento del suo amore infinito. La volontà
di ribellarsi all’armonia che conseguirebbe dall’accettare il rapporto con la
trascendenza divina, connota l’esistenza come malattia per la morte. Da ciò si
evince che, per diventare coscienti del significato eterno della propria
esistenza, per Kierkegaard è necessario disperare. L’unica via per ritrovare ciò
che di eterno vi è in noi è quella della disperazione. Ma per disperare occorre
forza, concentrazione e serietà. Il significato della vita può essere conosciuto a
fondo solo disperando, ma non per qualcosa di particolare. Chi si butta nel
mare della disperazione trova infatti l’assoluto. Come già per l’angoscia, anche
in questo caso occorre in certo modo scegliere di disperare, ovvero scegliere se
stessi ma non nella propria scontata immediatezza, bensì ricercando il
significato eterno della propria persona.
3) Mentre il dubbio ha a che fare con il pensiero, per cui comporta una
destabilizzazione solo parziale, la disperazione afferra la personalità umana
nella sua interezza. Kierkegaard è critico dell’intellettualismo che individua nel
pensiero l’intero valore della personalità, laddove si tratta viceversa di
riconoscere il carattere universale della disperazione, in cui può essere
immerso anche l’uomo più insignificante e privo di doti particolari. La Malattia
per la morte fu scritta negli ultimi anni della vita di Kierkegaard e dunque nella
fase più matura e meglio definita del suo pensiero. Il sottotitolo dell’opera
mette a fuoco e circoscrive il significato dell’opera: si tratta di un’”analisi di
psicologia cristiana per edificazione e risveglio”. Il saggio figura come opera di
Anti-Climacus (maschera indossata da Kierkegaard in soli due casi), ultimo
degli pseudonimi utilizzati. In questa maschera traspare, in maniera definitiva,
la vera fisionomia religiosa di Kierkegaard, il vero volto di un cristiano che –
pur professandosi senza autorità – vuole restituire alle categorie cristiane il
loro valore più autentico. Le opere con intento edificante presentano la
problematica del cristianesimo col proposito di contrapporlo al fenomeno
involutivo e degenerato di una cristianità ufficiale, in cui avevano attecchito
atteggiamenti conformistici espressione di grettezza, spersonalizzazione e
attitudine filistea. Kierkegaard è un critico rigoroso di una cristianità
benpensante, piccolo borghese e incline ai compromessi, in cui era prevalso un
registro di cristianità privo essenzialmente di fede e di coscienza del peccato.
In parallelo alla sconfessione diretta o indiretta delle categorie cristiane, la
riflessione speculativa aveva tra l’altro avanzato – sulla scorta di Hegel – un
recupero in chiave laica del pensiero cristiano, privo di richiami all’esperienza
straordinaria di Cristo.
4) Come specificato dal sottotitolo, l’opera si propone di approfondire la
psicologia del cristiano, in vista di un’edificazione. Nella Malattia per la morte
compare una breve trattazione di alcune tra le principali categorie cristiane
(peccato, disperazione e fede). Il motivo del peccato e della colpa sono temi
centrali anche di quest’opera, nella quale si dice che non vi è altro aspetto che
distanzi maggiormente l’uomo da Dio di quello per cui ci si riconosce come
peccatori di fronte a Dio stesso. Come peccatore, l’uomo è separato da Dio
dall’abisso qualitativamente più profondo. Sulla base di ciò, questo testo si può
dire che contenga in nuce anche il senso più radicale dell’antropologia e della
teologia dialettica. Il filosofo Kierkegaard e il cristiano Anti-Climacus si
ritrovano uniti nella dialettica esistenziale della disperazione, che è
autenticamente filosofica in quanto autenticamente cristiana. La categoria
dell’edificante (cfr. p. 5) – propriamente disprezzata da Hegel – qualifica la
prerogativa dell’esperienza cristiana e traccia per così dire il confine tra
l’inautenticità del discorso scientifico (basato sull’indifferenza e la curiosità
inumana) e l’autenticità propria di un discorso filosofico-religioso all’altezza dei
requisiti imposti da Kierkegaard. La Malattia per la morte è uno scritto di
cristianesimo edificante (e in larga parte militante), ma è anche un frammento
di antropologia filosofica. Se Hegel aveva in qualche modo tenuto insieme, nel
suo sistema, ciò che è speculativo e ciò che è scientifico, Kierkegaard contrasta
invece tale spirito di sistema, contrapponendo alla speculazione, alla scienza e
al cristianesimo di Hegel la propria vocazione cristiana. L’esposizione edificante
dev’essere rigorosa, ma qualitativamente diversa da quella del discorso
scientifico, poiché ogni “contenuto cristiano deve [...] somigliare al discorso di
un medico al capezzale del malato, [in quanto] anche se lo comprende solo
l’esperto di medicina, non si deve però mai dimenticare che lo si tiene al
capezzale di un malato” (p. 5). In tal senso Kierkegaard sembra sottolineare
anche il versante etico del cristianesimo, su cui non deve mai venire meno il
legame tra vita e realtà cristiana. La conoscenza autenticamente cristiana non
si basa infatti solo sul rigore della forma in cui è espressa, ma deve rivolgersi
al fenomeno della “preoccupazione”, ovvero a ciò che edifica nel segno della
“serietà”, istituendo un rapporto con la vita e la realtà della persona (cfr. 6).
Nel concludere la prefazione, Kierkegaard sottolinea il carattere dialettico della
disperazione (che è malattia e non mezzo di guarigione), individuando così
nella morte “l’espressione della massima miseria spirituale”, anche se la
guarigione “è proprio morire, morire a” (p. 6).
5) L’opera è divisa in due parti: la malattia per la morte è la disperazione e la
disperazione è il peccato (cfr. 7 sg.). La prima ha un carattere
prevalentemente filosofico, mentre la seconda presenta un tenore più
teologico. Le due parti sono però strettamente unite dalla serietà
dell’esperienza esistenziale della disperazione. L’antropologia filosofica di
Kierkegaard ha il suo nucleo metafisico e religioso nell’idea di un io che è
sintesi di finito e infinito, temporalità ed eternità, possibilità e necessità. Ma
una sintesi è anche un rapporto, e un rapporto deve porlo un tertium che è
appunto l’io in quanto consapevole di se stesso, del suo porsi nel mondo, della
sua vocazione a voler essere se stesso e a fondarsi, con trasparenza, nella
potenza che l’ha posto. In una tradizione inequivocabilmente cristiana, le
categorie di responsabilità, colpa, disperazione e sofferenza sono strettamente
solidali con quelle di singolo, di libertà e personalità.
6) La dignità dell’uomo consiste, per Kierkegaard, nell’inquietudine spirituale
che rende l’uomo consapevole di una vita interiore in cui si svela la vocazione
religiosa. In quest’opera Kierkegaard indica che occorre morire un po’
all’immediatezza della vita quotidiana al fine di scoprire, in sé, il richiamo
dell’assoluto. Di fronte a Dio la vita naturale dell’uomo subisce una scossa e un
turbamento profondo, anche perché al cospetto di Dio non si può comparire in
massa – al riparo degli altri – ma invece come singoli che manifestano la
propria responsabilità. Di fronte a Dio ci si pone dopo aver percorso il sentiero
difficile della disperazione. Attraverso la disperazione, l’uomo si mette infatti in
rapporto con se stesso, fino a fondarsi nella potenza che l’ha posto e che ha
posto lo stesso rapportarsi del rapporto a sé medesimo. Nel chiedersi se la
disperazione sia un vantaggio o una mancanza (cfr. 16 sg.), Kierkegaard
riconosce che dal punto di vista astratto si tratta addirittura di un “vantaggio
infinito”, giacché la possibilità di tale malattia costituisce la peculiarità
dell’uomo rispetto all’animale, trattandosi di una caratteristica che indica
l’essere infinitamente eretto dell’uomo e cioè il fatto che l’uomo è
essenzialmente spirito.
7) Al centra della malattia per la morte vi è dunque la categoria della
disperazione, nella sua articolata esperienza fenomenologica e dialettica. Per
quanto Kierkegaard, nella versione definitiva dell’opera, abbia negato ciò, la
disperazione appare però al contempo come malattia e come salvezza, nel
senso che è solo attraverso tale viaggio che l’io giunge a recuperare la propria
identità perduta. L’uomo che rifiuta, infatti, ogni forma di angoscia e di
disperazione è quello che punta a continuare a vivere in una falsa quiete di
ordine dogmatico, al riparo da ogni colpa e da ogni responsabilità. Ma il fatto
stesso di non sentirsi responsabile di nulla e di dichiararsi refrattario al
sentimento di colpa o impermeabile a qualsiasi responsabilità, costituisce
invece la maggiore forma d’irresponsabilità. Nella riscoperta della persona
umana nel suo valore universale e inalienabile Kierkegaard vede appunto il
richiamo della voce della coscienza o, per così dire, l’affermarsi del senso di
responsabilità.
8) Il titolo dell’opera è una citazione dal Vangelo di Giovanni: “Questa malattia
non è per la morte” (p. 9). Si tratta dell’episodio della morte di Lazzaro e di ciò
che ne conseguì. Le varie versioni italiane della Bibbia più accreditate, ma
anche quella danese del 1918 utilizzata ai tempi di Kierkegaard, riportano il
passo in maniera pressoché univoca: “All’udire questo Gesù disse: questa
malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa
il Figlio di Dio sia glorificato”. Di conseguenza, se il tutolo è una citazione, la
formulazione “malattia per la morte” si fa certamente preferire. Mentre in
greco e latino si usano preposizioni diverse per introdurre i termini in
questione, alimentando in qualche modo l’ambiguità tra il senso direzionale e
quello finale, in italiano e in danese l’ambiguità tende a scomparire per via
dell’utilizzo di una sola preposizione. Inoltre, il significato di entrambe le
espressioni (“per la morte” e “per la gloria di Dio”) trova una sua stabile
accezione finale grazie alla subordinata conclusiva: “affinché per mezzo di
essa...”. Come dice Kierkegaard nell’incipit, a malattia era dunque mortale, ma
non era per la morte, Causò la morte di Lazzaro, ma non ebbe come fine la
morte, bensì la gloria di Dio. Il miracolo non consistette nel fatto di allungare di
qualche anno la vita di Lazzaro, in quanto è l’esistenza di Cristo a far sì che la
malattia di Lazzaro e, più in generale, ogni malattia non sia per la morte.
Compresa dal punto di vista cristiano, “perfino la morte non è la ‘malattia per
la morte’” (p. 10), e ancor meno lo sono tutto ciò che fa parte della “sofferenza
terrena e temporale”. Il cristiano, infatti, ha imparato a conoscere un’altra
morte di fronte alla quale la prima non è che uno “scherzo”. Una morte che
non è solo distruzione della vita, ma lo è soprattutto dello spirito. Il cristiano
ha fatto conoscenza, cioè, di una malattia che non è mortale come tutte le
altre, ma che è al servizio di un altro tipo di morte, di cui fa per così dire il
gioco. Questa malattia per la morte non è altro che la disperazione.
9) Solo a un primo sguardo, quindi mortale e “per la morte” possono risultare
sinonimi (cfr. p. 19 sg.). La malattia per la morte è sempre nella morte,
avendo la morte come suo luogo naturale. La morte biologica è invece
passaggio alla vita, è per la vita, soprattutto se – come sostiene il
cristianesimo – c’è una vita eterna. Kierkegaard sviluppa poi le proprie
argomentazioni dicendo che la malattia per la morte, ovvero la disperazione,
non fa morire, in quanto in questo caso la “morte non è il termine ultimo” (p.
19). La disperazione non termina infatti con la morte fisica, giacché la
disperazione comporta il tormento, “la non speranza di non poter nemmeno
morire” (p. 20). Per questo, essa assomiglia più a una continua agonia, che
non porta però alla morte. Nella disperazione è assente ogni orizzonte di
speranza, e anzi in essa non c’è neanche l’ultima speranza, che è quella di
morire. La disperazione è, per Kierkegaard, una malattia dello spirito o,
meglio, di ciò che egli chiama propriamente “sé”. Il sé è l’elemento eterno
dell’uomo, per cui la disperazione provoca un tormento senza fine nella misura
in cui l’io non può smettere di rapportarsi a sé, di essere presente a sé. Al
riguardo, non c’è dunque né la speranza né la possibilità di potersi staccare da
sé. Come il “pugnale non può uccidere i pensieri, così la disperazione non può
consumare l’eterno, il sé, che sta a fondamento della disperazione” (p. 20).
Nella disperazione, servendo in qualche modo la morte e trovandosi ad essere
per la morte, non si può nemmeno godere del conforto che la morte può dare.
Il morire della disperazione “si converte continuamente in un vivere”, per cui la
condanna di chi dispera è “vivere la morte”, è nutrirsi di tale esperienza
vissuta. Il dramma della disperazione è di essere quindi “un’autoconsunzione
impotente che non riesce a fare ciò che essa stessa vuole” (p. 20). Non potersi
disfare di se stesso e non potersi annullare, fa sì che il disperato muoia alla
possibilità di morire, essendo già nella morte e dunque condannato a un vivere
che consiste in un perdurare nella morte.
10) All’inizio dell’opera Kierkegaard introduce la propria definizione di spirito o
di sé, in sostituzione della nozione di soggetto (o di soggettività) utilizzata
nella Postilla conclusiva non scientifica. Il sé rappresenta la parte più
importante dell’uomo, ma ne costituisce anche l’aspetto più problematico,
giacché è ciò induce l’uomo alla disperazione. L’uomo è spirito e lo spirito è sé.
L’uomo è sempre una sintesi di tre coppie di opposti: infinito e finito,
temporale ed eterno, libertà e necessità. Il sé non è dunque qualcosa di
semplice e nemmeno qualcosa di dato, ma è “un rapporto che si rapporta a se
stesso, oppure è questo nel rapporto: che il rapporto si rapporta a se stesso”
(p. 15). Il sé non è quindi un rapporto, la sua semplice presenza, ma si
definisce in un ulteriore momento riflessivo costituito da un rapportarsi a se
stesso. Di qui la natura processuale del sé, da intendersi come un progredire
nella coscienza di sé, che si discosta però dalla dialettica hegeliana
dell’autocoscienza, giacché per Kierkegaard al posto della mediazione subentra
la svolta, il salto, la decisione e la svolta. Con il sé s’intende dunque che l’uomo
può comprendersi come un rapporto che si rapporta a sé. Oltre a non essere
qualcosa che esiste nella semplice modalità del rapporto, il sé non è nemmeno
quel terzo che esiste come “unità negativa” nel rapporto tra due (come ad es.
nel caso di corpo e anima), ma è un “terzo positivo” consistente in un
“rapporto che si rapporta a se stesso” e che, a questo livello di riflessione, può
essersi posto da sé o, viceversa, esser stato posto da un altro (cfr. p. 15).
L’alternativa che si pone è dunque quella tra l’autosufficienza del sé o la
dipendenza da ciò che lo ha posto. Come “terzo positivo”, Kierkegaard
sottolinea come il sé dell’uomo sia un “rapporto derivato [...] che si rapporta a
se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro” (p. 15). L’io
sembra essere strutturato, quindi, su tre livelli: 1) quello del rapporto tra due
opposti (finito e infinito, tempo ed eternità, possibilità e necessità); 2) quello
del rapportarsi a sé del rapporto stesso; 3) quello del rapportarsi a un altro nel
rapportarsi a sé del rapporto. L’io kierkegaardiano è dunque una sintesi che si
costituisce in un doppio rapporto all’interno di un rapporto ulteriore. L’io o, per
meglio dire, il sé è un terzo positivo che non si aggiunge a una triplice coppia
di elementi tra loro opposti, ma è ciò che si dà nell’atto stesso in cui il rapporto
si rapporta con se stesso. L’io non può attuarsi quindi in se stesso, ma può
raggiungere tale realizzazione solo mettendosi, oltre che in rapporto con sé, in
rapporto con l’altro che ha posto tale rapporto, ossia riflettendosi nel rapporto
con la potenza che l’ha posto. Sotto questo profilo, l’io di Kierkegaard è sempre
il frutto di una pluralità di rapporti, e dunque come tale ben distante dalla
fisionomia dell’Io fichteano, ritenuto in possesso di un’attività autocreatrice,
libera, assoluta e infinita.
11) La Malattia per la morte contiene dunque un’analisi dei rapporti squilibrati
o distorti che si verificano nei vari livelli del sé, poiché la disperazione è il
“rapporto squilibrato in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso” (p.
17). La sintesi, peraltro, non è il rapporto squilibrato, ma ne è solo la
possibilità. Se sul piano dell’angoscia la vertigine rappresenta uno squilibrio tra
i momenti dello psichico e del corporeo, nel caso della disperazione lo squilibrio
non riguarda questi due estremi, ma l’uomo nella sua interezza, anche perché
l’uomo – nella sua composizione strutturale – può essere in equilibrio solo nel
rapporto con l’altro che ha posto il rapporto stesso. La disperazione s’insinua,
dunque, in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso. A prescindere
dalla differenza di ordine qualitativo, la disperazione ha “molto in comune con
la vertigine, perché questa è, sotto la determinazione dell’anima, ciò che la
disperazione è sotto la determinazione dello spirito” (p. 18).
12) L’uomo è dunque sintesi di infinito e finito, di necessità e libertà (o
possibilità), di temporale ed eterno, anche se i termini di tale sintesi non hanno
tutti uguale valore. Difatti, sorge sempre un conflitto o una disarmonia quando
nella sintesi prevale l’elemento finito, necessario e temporale, poiché in tale
evenienza è lo stesso elemento umano a scolorirsi e a disperdersi. Fin
dall’inizio di tale opera, Kierkegaard sottolinea la tesi spiritualista che la
governa, col rischio di dar luogo anche un orientamento troppo antiumanistico.
Ma a parte ciò, Kierkegaard è stato certamente il primo a descrivere l’esistenza
di una coscienza dispersa nella banalità del mondo quotidiano, incapace cioè di
assumere il rischio di una decisione personale, di un’opinione che non si allinei
all’estrema superficialità dell’opinione pubblica. Le riflessioni di Kierkegaard
sulle inquietudini della coscienza e sul ritrarsi dell’individuo in una solitudine
che rifugge le forme di un’esistenza inautentica, sono state ad esempio riprese
– pur nel venir meno del loro vertice di religiosità – dalle analisi heideggeriane
analisi heideggeriane sul mondo della quotidianità e su un’esistenza condotta
nel segno dell’impersonalità, nonché dalle considerazioni sartriane in ordine
alla malafede.
13) Il sé dunque non è un rapporto, ma è il rapportarsi a sé di tale rapporto.
Come terzo positivo, il sé è a sua volta un rapporto che si mette in rapporto
con ciò che ha posto tale rapporto nella sua interezza. Per questo il terzo, che
è lo spirito o il sé, è sempre in rapporto con ciò che l’ha posto come rapporto.
Il fragile equilibrio, la cui rottura fa precipitare il rapporto in una stasi spirituale
pregna di disperazione, si mantiene quindi finché il rapporto che si rapporta a
se stesso, si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto. La disperazione
interviene allorché vengono recisi i legami con l’altro che ha posto l’io come
rapporto. Ma l’io che mantiene invece solidi legami con l’altro che l’ha posto
come rapporto, si fonda in maniera trasparente nella potenza che lo ha posto,
assumendo la propria esistenza in un continuo rapporto di apertura all’altro,
non negando così in alcun modo il senso di trascendenza che gli appartiene.
14) Nel vivere nell’immediatezza delle cose mondane, l’uomo matura il sapere
della propria finitezza ma, al contempo, scopre il tentativo più autentico di
superarsi in direzione di quell’alterità originaria che lo chiama. Chiuso nel suo
rapporto col finito, l’uomo vive a ridosso di tale immediatezza, mentre chi si
apre al pensiero di ogni possibilità e della morte stessa, si dispone a indagare il
rapporto con la potenza che l’ha posto in tale condizione di apertura. In tal
senso, nulla è propriamente causa della disperazione, se non l’uomo stesso che
la vive, avvertendo come vertiginosa la distanza che separa la possibilità
dall’essere disperato. Per questo, l’uomo è la causa della propria disperazione.
15) Analizzando la struttura stratificata di rapporti in cui consiste l’io,
Kierkegaard mostra (p. 16) come da essa possano sorgere due forme di
disperazione in senso proprio – il che non potrebbe verificarsi se l’uomo si
fosse posto da sé. Si tratta del “non voler essere disperatamente se stesso” e
del “voler essere disperatamente se stesso” (cfr. p. 22). A partire da p. 33,
Kierkegaard analizza le varie figure della disperazione, dovute al fatto di
privilegiare uno degli opposti tra cui operare una sintesi. questa sezione
rappresenta la parte per così dire statica di quella forma di squilibrio in cui
consiste la disperazione, mentre la sezione successiva (pp. 45 sgg.) si occupa
dell’aspetto dinamico di tale rapporto di squilibrio. In questa sezione si prende
in esame, infatti, il rapportarsi a sé del rapporto e il grado di coscienza che si
ha in relazione a questo rapportarsi. Kierkegaard afferma, al riguardo, che
maggiore è la coscienza di sé e di che cosa sia la disperazione e più profonda
risulterà la disperazione stessa. Proprio il continuo crescere della disperazione
nell’atto dinamico di rapportarsi a sé si tradurrà in una galleria di figure della
disperazione, ovvero in una fenomenologia dello spirito disperato.
16) Kierkegaard sottolinea che anche quando uno stato di disperazione diviene
manifesto, l’uomo “può continuare a vivere bene, ad essere un uomo nelle
apparenze”, e come tale occupato nella dimensione mondana della temporalità
(cfr. 36). L’uomo può continuare cioè nella propria vita, senza nemmeno
notare che “gli manca un sé”. Del resto, Kierkegaard ha più volte sottolineato
come l’io sia la cosa di cui nel mondo ci si occupa meno, giacché per l’uomo
può essere anche rischioso mostrare di possederlo. Nel mondo può passare
addirittura sotto silenzio il pericolo di perdere se stesso, la qual cosa invece
non capita per qualsiasi altra forma di perdita.
17) Disperazione del finito è mancare d’infinito (pp. 37 sgg.). L’uomo chiuso
nella considerazione mondana delle cose manca d’infinità. Mondanità significa,
infatti, attribuire alle cose prive d’importanza un valore infinito. In tal senso la
considerazione mondana “si aggrappa sempre alla differenza tra uomo e uomo
e non ha comprensione per la sola cosa necessaria”: non ha cioè comprensione
di quella “grettezza e ottusità che significa aver perduto se stesso” (p. 37).
Rendersi completamente finiti vuol dire non essere diventati un sé, ma “una
cifra, un uomo in più, una ripetizione in più di questo perpetuo Einerlei
[monotonia, uniformità]” (p. 37). La grettezza disperata è privarsi della propria
originarietà, della propria “primitività”, ed equivale ad “essersi evirati in senso
spirituale” (p. 37). L’io ha un indole primitiva a essere un io, è determinato
cioè a divenire se stesso. Ma perché ciò avvenga, l’io – che in origine è una
pietra grezza – dev’essere per così dire “sfaccettato” e non semplicemente
“levigato2, come capita invece quando l’uomo si smarrisce nel finito e omologa
il proprio io negli altri. Contornato dalla folla e immerso in ogni affare
mondano, l’uomo finisce per dimenticare se stesso e dimentica ciò che di divino
e di eterno c’è in lui, non osando più credere in se stesso e trovando perfino
rischioso esserlo, giacché è più facile ripararsi dietro agli altri nell’anonimato
della folla. La mondanità, per Kierkegaard, è costituita da uomini che “hanno
fatto un patto con il mondo” (p. 39), che hanno cioè venduto al mondo la loro
anima, rinunciando ad essere se stessi e a conquistare la spiritualità di un io
con cui poter porsi davanti a Dio.
18) La disperazione è dunque una determinazione dello spirito che si rapporta
all’elemento eterno che è nell’uomo (cfr. 19 sg.). Dell’eterno l’uomo non si può
sbarazzare facilmente, essendo invece obbligato a convivere con tale
dimensione. Non è possibile, infatti, respingere l’eterno per sempre, giacché in
qualunque modo si realizzi tale tentativo l’eterno è destinato invariabilmente a
ritornare. Ciò significa che, in ogni momento di disperazione. è l’uomo a
tirarsela addosso, in quanto la disperazione non deriva da un rapporto
squilibrato o falso, ma dal rapporto che si rapporta a se stesso, e di tale
rapporto l’uomo non può liberarsi, così come non può farlo del proprio io.
Trattandosi di una determinazione dello spirito, a differenza di ciò che si può
dire per una malattia in senso fisico, ogni momento reale della disperazione va
ricondotto alla possibilità. In altri termini, è l’uomo disperato a tirarsi addosso
in ogni istante la disperazione, e precisamente restando ancorato al momento
presente. La disperazione insiste [Ricoeur ha affermato che l’angoscia tende
verso, mentre la disperazione risiede. Ovvero, l’angoscia ex-siste, mentre la
disperazione in-siste] nel movimento di rimozione dell’eterno, vale a dire di
quell’aspetto che segna la natura trascendentale dell’uomo, ponendolo
essenzialmente come libertà. L’uomo è dunque possibilità per l’eterno, ma non
potendo distogliere l’eterno e allontanarlo da sé, tale movimento di rimozione
non ha fine, per cui l’insistere in esso diviene disperante.
19) L’uomo esiste in virtù del proprio modo di essere, che consiste
nell’apertura e nell’essere costantemente “fuori” (ex-sisto). Per lo più, l’uomo
si rapporta però al proprio essere nei modi della fuga, nel senso che fugge la
possibilità che è, realizzando una fuga resa possibile dal fatto che l’uomo
esiste. Insistendo nella fuga, l’esistenza finisce per arenarsi nella realtà
fattuale, sostando perciò in maniera rassicurante presso le cose. Attraverso la
fuga, l’uomo distoglie lo sguardo da ogni mistero, disimparando anche a
confrontarsi con la morte, che non rappresenta un evento fortuito, ma la
possibilità più autentica di ciascun uomo, quella che ne prefigura infatti la
possibilità estrema. Per chi vive al riparo dal possibile, la morte non
rappresenta solo il collasso di ogni possibilità terrena, ma soprattutto il punto
di rottura della sicurezza ricercata nella quotidianità. Occultando di continuo la
morte come possibilità temuta, l’uomo mostra di non essere più in grado di
sostenere la morte, cercando protezione in una dimensione mondana che
inganna la possibilità.

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Lezioni della nona settimana
1) Chi sa confrontarsi con la morte si espone alla più pericolosa delle malattie:
la malattia per la morte. Tutto ciò che è letale presuppone una fine, e cioè una
morte che la sancisca. Ma se per il cristiano non c’è una malattia terrena che
sia davvero mortale, in quanto per il credente la morte determina il passaggio
a miglior vita, nella sua vita fa però la sua comparsa anche una malattia
disperante che porta a una fine senza morte o, se si preferisce, a una morte
senza fine. La disperazione infatti, come tramonto di ogni speranza, è la
malattia dell’io (o dello spirito) che consiste nel morire in eterno, nel “morire
eppure non morire”, nel “morire la morte” (p. 20). In questo continuo morire
che non trova fine, la disperazione insidia l’eterno che è in ogni uomo,
intaccando ciò che sta a fondamento della disperazione stessa. Per chi dispera
la morte non è quindi la fine della malattia, ma è una fine che si protrae di
continuo.
2) Chi dispera, dispera solo in apparenza per qualcosa. In realtà, ci si dispera
sempre perché non si sopporta di essere ciò che si è. A fronte di un ventaglio
di possibilità che avrebbero potuto orientare il nostro divenire, è insopportabile
riconoscere di essere quell’io che non è appunto divenuto tale, ovvero che ha
fallito nel cogliere una determinata possibilità. Per questo, s’insiste nel
tentativo disperato di liberarsi di sé, separandoci dalla potenza che ha posto il
rapporto in cui si costituisce il nostro io. La presenza però nell’uomo di un
senso di eternità è ciò che impedisce alla disperazione di distruggere l’io,
determinando così il carattere contraddittorio che contrassegna la
disperazione. Nel chiudersi in sé, ovvero nel privarsi di quella libertà che si
nutre di possibilità, l’uomo ha già di fatto obliato se stesso, abdicando al
compito di essere o divenire se stesso.
3) A p. 15, introducendo la malattia per la morte come una malattia dello
spirito, Kierkegaard dice che la disperazione può assumere una triplice veste.
Oltre alle due forme proprie di disperazione, su cui si regge strutturalmente
tale opera (e cioè: disperatamente non voler essere se stesso e
disperatamente voler essere se stesso), c’è però anche una forma impropria di
disperazione che consiste nella non consapevolezza di avere un io, e quindi nel
fare di tutto per prendere coscienza della propria disperazione. Nella
morfologia della disperazione che Kierkegaard descrive si parte dal grado più
basso di tale malattia, dal suo grado zero. Nell’interiorizzazione dialettica che
prelude all’unità spirituale dell’io, la disperazione sembra comunque
rappresentare il culmine di tale organizzazione spirituale, potendosi di volta in
volta tradurre in una rinuncia alla vita spirituale, in uno slancio di rivolta nei
confronti della potenza che ha posto il rapporto che si rapporto a se stesso, ma
anche in una crisi salutare a partire dalla quale si giunge a cogliere il profondo
legame da istituire tra immanenza e trascendenza. Di qui la possibilità, per
Kierkegaard, di definire l’autentica natura dell’uomo in vista della sua
realizzazione. Il nostro io si caratterizza, infatti, come un essere spirituale che
si costituisce all’interno di un rapporto posto da Dio.
4) Nella categoria della disperazione rientra ogni sforzo tendente a distruggere,
in maniera sistematica, l’equilibrio vitale su cui deve reggersi l’io. Essendo
l’uomo una sintesi tra diverse coppie di opposti, ne discende che vi saranno
diversi modi d’intaccare la complessità dell’io, a seconda che siano rivolti a uno
solo dei suoi elementi o alla sintesi nel suo insieme. In ragione di ciò,
Kierkegaard dipana una fenomenologia delle varie forme di disperazione (cfr.
pp. 25 sgg. e 33 sgg.).
5) La prima forma di disperazione – quella inautentica – è una sorta di
disperazione virtuale che consiste nel non aprirsi all’infinito, rifiutando di
partecipare alla tensione interiore in cui consiste la vera dignità dell’uomo. Tale
forma di disperazione non è solitamente compresa nella sua effettiva gravità,
dal momento che per l’opinione comune la disperazione dovrebbe
accompagnarsi sempre a una maschera tragica. Nondimeno, tale disperazione
riguarda una moltitudine sterminata di persone, in preda a una disperazione
larvata, priva di sintomi tipici, e dunque tale da rendere tali persone
inconsapevoli della natura di tale patologia. Si tratta di un affievolimento dello
spirito, di un’anemia spirituale che non provoca alcun malessere, conferendo al
contrario una sorta di sicurezza esteriore e di astratta innocenza. Tale
disperazione, che rappresenta il tratto universale della malattia, riposa su un
fondo di angoscia, come tutto ciò che perso coscienza delle proprie finalità
essenziali. Nelle persone che tendono a garantirsi da ogni rischio esistenziale vi
è infatti un’inquietudine che non fa cogliere loro il richiamo della vita, di cui
pure avvertono il fremito. Come sempre Kierkegaard allude ai comportamenti
filistei e piccolo borghesi che, nel rifiutare ingenuamente la disperazione,
precipitano gli uomini nella totale inconsapevolezza circa la propria
destinazione spirituale. Si tratta dunque di una disperazione preliminare che,
nella sua universalità, cova nello spirito dell’uomo, proprio come il medico
parla di malattie che covano nel corpo umano.
6) L’universalità di tale forma di malattia porta a dire che non ci sia un solo
uomo che non sia almeno un po’ disperato, che non porti in sé un turbamento
o un inquietudine del genere. Anche per questo non si può contare sulla
considerazione comune della disperazione, poiché essa ritiene che il singolo
sappia sempre da sé se è disperato o no – escludendo quindi di esserlo quando
non si crede tale – mentre invece una forma insidiosa di disperazione è proprio
quella di non avere coscienza di essere disperato. D’altronde, qualcosa del
genere si registra anche sul piano della malattia fisica, in quanto il medico sa
bene che non vale definirsi sano per esserlo davvero. Anche lo psicologo non
può fare affidamento sulle affermazioni del singolo individuo, dal momento che
non sono nemmeno sempre disperati coloro che dicono di esserlo. Come
determinazione dello spirito, la disperazione può essere spesso scambiata con
forme di disagio transitorie, che non conducono però fino alla disperazione. Ma
soprattutto alla considerazione comune sfugge il peculiare carattere dialettico
di tale malattia, che le deriva dall’essere una malattia dello spirito. Infatti,
mentre nell’istante in cui il medico constata la presenza di una malattia, è
lecito ritenere che l’uomo potesse in precedenza essere in saluto, per ciò che
attiene alla disperazione è chiaro che quando essa si manifesta, l’uomo era già
disperato (cfr. p. 27).
7) Questo primo genere di disperazione si caratterizza dunque per il fatto che
l’uomo non ha coscienza di essere disperato, e ciò avviene quando l’uomo non
è nemmeno cosciente del proprio sé. Peraltro, il fatto di non avere coscienza
del rapporto sproporzionato in cui ci si trova, ovvero della profonda disarmonia
della propria esistenza, determina che sia simulare di essere disperati, sia
negare di esserlo, siano essenzialmente forme di disperazione. La particolare
dialettica che attiene a tale malattia dello spirito fa sì che il non essere
disperato possa anche significare di esserlo, per cui tra essere disperato ed
essere malato non c’è alcuna identità di significato, dal momento che il non
essere disperato può indicare il contrario e che la presenza di uno stato di
disperazione può accompagnarsi al non aver mai sentito un determinato
malessere. Se la salute fisica, infatti, diviene dialettica solo nello stato della
malattia – allorché s’inizia cioè a parlare di crisi – nel campo dello spirito non
c’è mai una salute immediata, cosicché in esso è critica sia la salute sia la
malattia.
8) Proprio in ragione della sua natura dialettica la disperazione rappresenta
quella malattia “di cui si deve dire che non averla mai avuta è la sorte più
infelice” (p. 29), anche se si tratta della malattia più pericolosa e difficile da
debellare, qualora non si voglia appunto guarire da essa. Ciò differenzia il caso
della disperazione da tutti quelli in cui è una fortuna guarire da una malattia,
dato che la “sfortuna è la malattia stessa” (p. 29). In questa generalità così
diffusa, la disperazione è la condizione in cui gli uomini vivono senza essere
consapevoli della loro determinazione spirituale, per cui in ragione di essa si
finisce per negare disperatamente il proprio sé, rivestendo una larvata
disperazione con un’apparente tranquillità esistenziale che però è la spia più
evidente di una presenza disperante. Nell’angoscia della disperazione ogni
comportamento dell’uomo sembra segnato da vacuità e assenza di significato,
all’insegna cioè di una debolezza, di una viltà e di un’impotenza tipiche di chi
non ha il coraggio di accollarsi il peso della propria esistenza, fino a lasciarsi
così trascinare nel vortice dell’angoscia. Di fronte a tale incombente evenienza,
il richiamo di Kierkegaard è a non sprecare la disperazione, imparando cioè ad
attraversare tale stato per disporsi a prendere atto della propria spiritualità.
Solo così, realizzando di poter conquistare l’infinità tramite la disperazione, l’io
riuscirà a porsi davanti a Dio.
9) Le varie figure della disperazione si possono ottenere, per astrazione, in
termini riflessivi, partendo dai singoli momenti in cui l’io si compone come
sintesi (cfr. p. 33). L’io ad esempio è formato da infinito e finito, ma tale
sintesi è un rapporto e per di più un rapporto che si rapporta a se stesso: è
così che scaturisce infatti il carattere di libertà che anima l’io e che si traduce,
dialetticamente, nelle determinazioni di possibilità e necessità. L’essere della
libertà obbliga per così dire l’io alla non-necessità, lasciando aperta la
possibilità di rapportarsi al proprio fondamento o di svincolarsi dalla potenza
che posto la struttura del sé, incorrendo nella disperazione. L’io manifesta la
libertà di trovare il fondamento in se stesso, senza riferimento a un altro, ma
anche quella di riconoscersi come un rapporto posto da un altro. In ciò si
palesa il paradosso della libertà, consistente nel suo essere legata alla
necessità. La libertà è tale che, per sua essenza, solo rapportandosi all’infinità
del fondamento divino si mantiene integra. In altri termini, solo nel rapporto
con l’altro a cui deve la sua libertà l’uomo può ritrovare la sua autentica
indipendenza. Nel rapporto che si rapporta a se stesso, rapportandosi al
contempo a un altro, la libertà dell’uomo manifesta un vincolo ontologico con il
fondamento che ha posto lo stesso rapportarsi dell’io. L’io, perciò, si realizza
nella propria libertà solo scegliendo il legame che è in grado di renderlo libero.
In tal senso, solo la scelta rischiosa dell’infinito consente all’uomo di sottrarsi
alla costrizione delle cose finite. In altri termini, la decisione di scegliere
l’assoluto è ciò rende assolutamente liberi. Da qui il tenore paradossale della
filosofia kierkegaardiana, secondo cui la possibilità di scegliere – ovvero la
libertà di scelta – si dà in ragione del non dover scegliere, poiché libertà è
costretta per così dire a scegliere liberamente il fondamento che l’ha posta in
essere. Il riconoscimento dell’infinito, dunque, sembra essere ciò che rende
possibile all’uomo di scegliere, essendo cioè la condizione trascendentale della
scelta stessa. Non c’è quindi libertà di scegliere il principio della libertà di
scelta, giacché lo si deve per l’appunto scegliere, pena per l’uomo la perdita
della propria libertà. Se ne evince che l’uomo deve in qualche modo rendere a
Dio la propria libertà per non rischiare di perderla, dal momento che la
possibilità di scegliere è data all’uomo dalla necessità di optare per ciò che gli
ha dato la possibilità di farlo.
10) Nella dialettica del sé si nota dunque il passaggio, nel movimento descritto
dalla libertà, da un mantenersi in una possibilità vuota e perciò stesso sterile, a
un costituirsi nella piena necessità dell’assoluto, per cui la libertà – che non
appena è, è reale – è reale nella misura in cui si rapporta alla necessità. Come
sostiene in effetti Kierkegaard, la libertà è il movimento dialettico nelle
determinazioni di possibilità e necessità. Il passaggio dalla possibilità alla realtà
della scelta costituirsi l’attuarsi della libertà. Una cosa è la scelta, un’altra la
libertà di scelta: l’uomo infatti può scegliere liberamente, ma non è libero di
scegliere se mantenersi nella libertà. La libertà di scelta risulta infatti
necessitata, se l’uomo vuole essere autenticamente libero. Per questo, la
dipendenza necessaria dal fondamento divino è funzionale a mantenere
un’indipendenza di scelta del tutto libera. Kierkegaard descrive quindi un
fondamento trascendentale della libertà basato sul riferirsi alla trascendenza da
parte dell’io. Chi è disperato, lo è dunque perché, non scegliendo Dio, ha scelto
di non essere libero, giacché una libertà senza Dio equivale infatti alla malattia
per la morte, ovvero a autentica disperazione.
11) Come determinazione dello spirito, il disperarsi è dunque in rapporto con
l’eterno è nell’uomo. La disperazione deriva dal rapporto che si mette in
rapporto con se stesso, e da tale rapporto non ci si può svincolare. La
disperazione non deriva semplicemente, però, da un rapporto falso o mal
posto, da un fraintendimento banalmente occorso che ha determinato una
sintesi squilibrata: al contrario, il disperarsi dipende per intero dall’uomo, che
non è una mera sintesi, ma comporta un sovrappiù di riflessione. L’angoscia e
la disperazione nascono entrambe in seno alla libertà, ma con la differenza che
la vertigine di cui sono preda in una caso riguarda l’anima, mentre nell’altro lo
spirito. La malattia della morte mette in luce – oltrepassando la problematica
trattata nel Concetto dell’angoscia – come la disperazione nasca dalla libertà di
decidersi o no per il fondamento che l’ha posta in essere. Mentre nella prima
opera l’angoscia era paragonata a un deliquio, a uno svenimento femminile di
fronte al nulla rappresentato dalle infinite possibilità da attuare, ora invece la
disperazione è maggiormente radicata nel tessuto della libertà, riguardando
cioè la costituzione dell’i (o del sé). Si è liberi per il fatto stesso di poter
scegliere, ma con l’eventuale rifiuto rispetto a ciò non si annulla solo il
fondamento costituito dal rapporto con l’altro, ma direttamente il proprio sé in
quanto libertà.
12) L’io si manifesta nella libertà, che può essere però caratterizzata anche
dalla possibilità di non riconoscere il vincolo con l’eternità e la
trascendenza,portando l’io a pensare di potersi svincolare dalla potenza che
l’ha posto e a cadere così nella disperazione. Ma la libertà, come segno di ciò
che è eterno nell’io, vincola in eterno l’io a se stesso, impedendogli con ciò di
liberarsi dall’eterno. Per Kierkegaard sarebbe infatti una contraddizione
pensare di liberarsi dall’eterno, poiché il senso stesso di tale libertà ci proviene
dall’eterno. Proprio il ritorno perenne dell’eterno lega l’io in maniera
indissolubile alla sua libertà, di modo che questa diviene per l’io la necessità di
scegliere la potenza che l’ha posto, abbandonandosi così alla fede. La
disperazione e la fede sono perciò due maschere che l’io può indossare per
interpretare, in maniera, differente, la trama del nulla costituita dall’assenza di
Dio, che – per dirla con Kierkegaard – avendo fatto l’uomo per il rapporto, se
lo è quasi lasciato andare dalla sua mano (cfr. p. 18).
13) L’infinito può essere scelto o rifiutato solo perché l’uomo è ancorato per
così dire all’infinito. In tal senso – in linea con la paradossalità tipica del modo
di procedere kierkegaardiano – anche la negazione dell’infinito si traduce nella
conferma del vincolo che l’uomo ha con l’eterno, per cui il rifiuto stesso
dell’infinito pone la libertà a rischio di dissoluzione, nel momento stesso in cui
l’io “disperatamente non vuole essere se stesso”. Il passaggio da una forma
impropria ancorché universale di disperazione a una disperazione autentica si
dà nel divenire coscienti del proprio sé. Per giungere a una vera disperazione è
necessaria, dunque, una presa di coscienza, dato che “la coscienza è l’aspetto
decisivo” (p. 33). La coscienza è ciò a cui in progressione si lega una sorta di
“autocoscienza” , nella quale si manifesta propriamente l’io nella sua essenza
più dispiegata. La libertà di cui l’io diviene cosciente è al tempo stesso
coscienza di una responsabilità infinita. Il divenire consapevoli della natura del
proprio sé si accompagna anche alla coscienza della disperazione, ma tale
percorso – pur nei rischi che esso comporta – rappresenta anche l’unica
possibilità da attuare.
14) Tutti gli uomini sono quindi disperati, anche se per riconoscere ciò occorre
consapevolezza. Chi afferma di essere disperato è più vicino alla guarigione,
per quanto tale malattia dello spirito aumenti d’intensità in relazione alla
consapevolezza che si ha di tale disagio. Il pregio della disperazione è la sua
possibilità. Al riguardo Kierkegaard rovescia, a proposito della disperazione, il
primato che Aristotele ha riconosciuto all’atto rispetto alla potenza. Di solito si
pensa alla realtà come “possibilità annullata” (p. 17). Secondo la metafisica
classica l’essere sarebbe infatti più in alto rispetto al poter essere, per cui il
passaggio al gradino superiore rappresenterebbe un’ascesa. Riguardo invece
alla disperazione, “l’essere si rapporta al poter essere come a una caduta
[...per cui nel caso della disperazione] l’ascesa è il non essere disperato” (p.
17). L’essere realmente disperati rappresenta infatti la vera caduta del
fenomeno esistenziale della disperazione, mentre la sua mera possibilità
rappresenta la sua più grande vittoria. In rapporto alla disperazione, la sua
realtà rappresenta dunque una negazione, ovvero la “possibilità impotente,
annullata” (p. 17). Sia essere disperati che non esserlo preludono comunque
alla possibilità di aprirsi alla disperazione più autentica che – in qualità di
malattia dello spirito – si rapporta all’eterno che è nell’uomo.
15) L’io è innanzitutto sintesi e questa implica la possibilità di un rapporto non
riuscito o distorto. La disperazione consiste in un rapporto squilibrato realizzato
da libero atto dell’io. L’origine della disperazione va colta, dunque, nel
movimento delineato dalla libertà dell’uomo, all’interno del vuoto che lascia il
ritrarsi della mano di Dio. Chiunque non raggiunga o non ottenga ciò che si era
proposto, non è essenzialmente disperato per tale fallimento, ma perché non
tollera più il proprio io: vorrebbe cioè sbarazzarsi di sé, ma capisce anche di
non poterlo fare, poiché l’eterno che è in lui non può essere messo a tacere. La
disperazione ha a che fare, quindi, col fatto che ciò che vuole disperatamente
essere è un io che non corrisponde a ciò che egli di fatto è. Il fraintendimento
che sta alla base della disperazione riguarda la mancata accettazione, da parte
dell’uomo, della sua natura di essere derivato, ovvero di esser stato posta da
Altro. Per questo l’uomo vuole disperatamente separare il proprio io dalla
potenza che lo ha posto. Da qui nasce lo squilibrio, la mancanza di una vera
sintesi, e il conseguente svanire della speranza che si traduce appunto in
disperazione.
16) A questo punto l’uomo cerca da un lato d’inseguire l’infinito attraverso
l’illusione del pensiero e della fantasia, negandosi alla dimensione del finito
(cfr. disperazione dell’infinito, pp. 34 sgg.); dall’altro opta per buttarsi invece a
capofitto nella temporalità e nel finito, sottraendosi ad ogni prospettiva di
trascendenza e ad ogni richiamo d’infinità (cfr. disperazione del finito, pp. 37
sgg.). L’alternativa o, per meglio dire, la dialettica che così si attua è quella di
vivere al di fuori della realtà, in una possibilità illusoriamente dipinta come
infinito, o sottostare viceversa al giogo della necessità, risultando incline al
fatalismo e al determinismo. In ogni caso si conferma, per Kierkegaard, che la
disperazione per “non voler essere se stessi” e quella per “voler essere se
stessi” come assoluti padroni di sé sono le due forme autentiche di un’identica
malattia.

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Lezioni della decima settimana
1) Per Kierkegaard, l’io è una sintesi di finito e infinito, la quale si pone in
rapporto con se stessa, realizzando però il compito di tradursi in un rapporto
equilibrato solo nel momento in cui ci si rapporta con Dio. Il non riuscire a
divenire se stessi, ovvero a costituire un proprio sé armonicamente definito,
comporta disperazione, a prescindere che si sia consapevoli o no di tale
fallimento. Ma riguardo al divenire in cui si attua la determinazione del sé, non
intervengono solo i momenti dell’infinito e del finito, ma anche quelli della
possibilità e della necessità. Rispetto a quanto sostenuto da Hegel nella Logica,
per Kierkegaard non è la necessità a costituire l’unità di possibilità e realtà, ma
è piuttosto la realtà a costituire l’unità possibilità e necessità. Di conseguenza,
anche l’attualità del sé non può che conseguire da una sintesi riuscita tra
questi due aspetti modali (possibilità e necessità). Come detto, però, l’io
rappresenta sempre una sintesi di stampo dialettico, per cui ogni forma di
disperazione può essere colta e per così dire determinata solo approfondendo
la forma contrastante o contraria. Ad esempio, quella forma di disperazione
che crede di essersi posta come infinita, o che più semplicemente vuole essere
tale, si abbandona alla fantasia che conduce verso l’illimitato, di modo che
l’uomo è trattenuto in questo slancio fantastico dal ritornare a sé (o in sé),
smarrendo sempre di più il senso della propria persona e distaccandosene in
maniera quasi irreversibile. Ma se l’uomo annulla la propria dimensione di
finitezza, non avvertendo più il peso che corrisponde alla necessità, in base alla
dialettica kierkegaardiana esso perde la concretezza che ne rappresenta uno
dei momenti costitutivi. Proprio perché l’io deve realizzare una sintesi tra finito
e infinito, la mancanza di finito non può che dar luogo a ciò che
hegelianamente si può definire come una “falsa infinità”.
2) Quando un uomo perde il senso della realtà, non aderendo più al mondo
naturale e storico in cui vive, la personalità dell’individuo rischia di dissolversi.
Il modo in cui l’uomo s’invola con la fantasia verso l’infinito, finisce per fargli
prendere congedo da sé. La stessa conoscenza e il sentimento risultano un po’
fine a se stessi, sprecando per così dire l’io dell’uomo. Nel condurre quindi
un’esistenza fantastica in un’infinità astratta, l’io si isola sempre più dalla
dimensione reale. D’altra parte, però, è fonte di disperazione anche la
mancanza d’infinità, che determina una ristrettezza di orizzonti davvero
disperante. Kierkegaard è particolarmente sensibile a questo tipo di mancanza
che consiste nel perdersi nel finito. L’individuo soggetto a questa forma di
disperazione continua a svolgere la sua vita nella maniera più normale,
immerso nella corrente temporale della mondanità. Di conseguenza, tale tipo
di disperazione passa quasi sempre inosservata , senza che si colga cioè
l’aspetto terribile del dileguarsi del sé nella moltitudine. Mancare dell’infinità
significa aver smarrito il senso della possibilità, rimanendo così rinchiusi in un
modo meccanico soffocato dalla necessità, in cui la libertà del possibile è di
fatto interdetta.
3) Qualcosa di analogo avviene riguardo alla disperazione che attiene alla
possibilità e alla necessità (ovvero alla loro auspicabile sintesi). Così come il
finito opera una limitazione nei confronti dell’infinito, così la necessità trattiene
rispetto alla possibilità – meglio, a quell’eccesso di possibilità, veicolato dalla
fantasia, che travolge in qualche modo la necessità. In questi casi l’io
(disperazione della possibilità), non avendo più nulla di necessario a cui far
ritorno, si “sfianca” nella mera possibilità, ma “non si muove dal posto né
giunge in alcun posto”, configurandosi appunto come un “movimento sul
posto” (p. 39). Il dilatarsi della possibilità riduce i margini di possibilità dell’io,
per cui quando tutto diviene possibile l’io è per così dire risucchiato nell’abisso.
Nel suo sfrenato tendere verso il possibile, all’io manca ogni ancoraggio, la
capacità di sapersi piegare alla necessità da cui pure è costituito, ovvero non è
ha più quella sponda che gli consente di riconoscere i propri limiti. Vivendo,
infatti, sospesi in una possibilità che travolge la necessità in una fantasmagoria
di immagini fantastiche, l’io si svuota di realtà divenendo quasi un miraggio.
4) Da tale situazione di squilibrio scaturiscono essenzialmente due forme di
smarrimento. La prima è quella “desiderante e anelante, l’altra quella
melanconico-fantastica” (cfr. p. 41). In un caso, invece di riportare la
possibilità alla necessità, offrendole un appiglio, si corre sempre più dietro ad
essa, non trovando più la strada per ritornare a sé; nell’altro, l’uomo persegue,
in modo melanconico, la “possibilità dell’angoscia” (o di una speranza), che lo
strappa da sé, in modo così da “perire nell’angoscia o da perire in ciò in cui
aveva angoscia di perire” (p. 41, tr. adattata).
5) Il caso della disperazione della necessità risente di una carenza di
possibilità. Qui Kierkegaard prende di mira ogni comportamento filisteo e ogni
forma di vita caratterizzata da una decadenza piccolo-borghese. In altri
termini, Kierkegaard critica l’uomo che non rischia e non problematizza,
preferendo rinchiudersi in un orizzonte meschino fatto di ovvietà e di
esperienze triviali. In tale chiusura, l’uomo non è più aperto quindi al mondo
della possibilità e della fede, ovvero al credere come mondo della fantasia e
della libertà (cfr. pp. 41 sgg.). Il filisteismo, del resto, si qualifica per l’assoluta
mancanza di spiritualità e per la propensione ad acquietarsi in un fatalismo
deterministico. Alla “saggezza pappagallesca dell’esperienza triviale”, tipica del
conformismo, manca anzitutto la “possibilità della fede”, e con ciò la
“possibilità per distendere e lenire, per temperare la necessità” (p. 45). In tale
condizione non c’è più modo di dare una possibilità al disperato, che crede
peraltro di poter disporre a piacimento della possibilità, imprigionandola nella
“gabbia delle probabilità” (p. 45). Il filisteo è l’uomo che non è mai toccato
dall’inquietudine spirituale, essendo interamente immerso nel sonno di una vita
sensibile. Egli è dominato cioè dalle categorie del sensibile (“il piacevole e lo
spiacevole”), al punto da non arrischiare più di vivere nello spirito e nella verità
(cfr. p. 46). È come un inquilino che preferisca vivere nel sottofondo di uno
scantinato anche se la casa è tutta di sua proprietà e gli altri piani sono a sua
completa disposizione (cfr. 46 sg.). Si tratta di un uomo abituato a vivere nella
dimensione della mera sensibilità, non volendo perciò saperne di disperazione
e angoscia, che egli infatti considera alla stregua di invenzioni fantastiche. Al di
sotto però di tale non consapevolezza cova l’angoscia dell’assenza di
spiritualità, con la relativa disperazione che – latente nella profondità –
riemerge quando l’incanto dei sensi cessa di esercitare il suo inganno.
D’altronde, la disperazione è sempre direttamente proporzionale al grado della
coscienza (cfr. 45), poiché anche ignorare la disperazione non è prova della
sua non esistenza.
6) Colui che ignora tale forma di disperazione, vivendo perciò in maniera
estetica come i pagani o come l’uomo naturale, nutre in sé una contraddizione
che lo divora (cfr. p. 48 sg.). Un’esistenza condotta sulla base di ideali
puramente estetici è del resto disperante, e solo una determinazione etico-
religiosa dell’esistenza consente di ovviare all’assenza di spiritualità e alla
disperazione che ne consegue. La disperazione di chi vive a ridosso
dell’immediatezza del mondo sensibile è per lo più inconsapevole, avendo tale
uomo smarrito il proprio io e aver perduto il contatto con l’eterno. Si tratta, al
riguardo, della disperazione di voler essere un altro, anche perché l’io che è in
preda a tale disperazione si conosce solo a partire dalla propria esteriorità. Per
Kierkegaard, l’atteggiamento spirituale è tendenzialmente anti-mondano, per
cui la sua realizzazione necessita di un cambiamento così radicale da tradursi
nella simultanea consapevolezza dell’eterno e dell’io. Mentre l’atteggiamento
mondano si lega di volta in volta a qualcosa di ben definito, la salvezza
proviene dal distacco da ciò che è mondano, passando attraverso alla
disperazione quale malattia preposta alla conquista della fede.
7) L’uomo che manca di possibilità è un uomo per così dire prosaico, privo cioè
di spiritualità, d’idealità e di poeticità. È un uomo che, al contrario del
credente, non si affida a Dio, poiché con crede che “a Dio tutto è possibile” (p.
45). L’uomo a cui manca la dimensione della possibilità si accorge del possibile
allorché, di fronte a situazioni estremamente problematiche, la vita stessa
risulta soffocante. Se l’uomo resta senza possibilità è come se gli mancasse
l’aria: la “personalità è infatti una sintesi di possibilità e necessità” (p. 43) e l’io
del determinista non può respirare per il fatto che non si può respirare
esclusivamente la necessità (cfr. p. 45). Il fatalista però non ha alcun Dio, né
alcun sé, avendo elevato la necessità a proprio Dio. Al riguardo, Kierkegaard fa
un po’ il verso a Hegel, abusando della dialettica, quando afferma: “a Dio tutto
è possibile, così Dio è questo: che tutto è possibile” (p. 44). Il rischio che
Kierkegaard corre, lungo tutta La malattia per la morte, per il fatto di servirsi
di una dialettica a tratti spericolata, è in questo caso quello di far rientrare
nelle infinite possibilità divine anche tutte le possibilità non propriamente
positive. Ma a parte tali considerazioni, il senso che Kierkegaard ci comunica è
che il massimo di disperazione prova comunque che l’io resta in rapporto con
Dio anche quando sembra esserne più distante. L’io non è in grado perciò di
negare tale relazione con la divinità, per cui lo stesso demoniaco non può
realizzarsi in un’assoluta autonomia, ovvero come realtà separata. Il
demoniaco soffre infatti nel porsi come tale, e in questa sofferenza traspare la
consapevolezza dell’opposizione a Dio e all’amore, e quindi – indirettamente –
la dimostrazione della realtà dell’amore. La disperazione prova, quindi, la
realtà di ciò che è eterno nell’uomo, anche se è discutibile che l’unica
possibilità di mostrare l’amore passi attraverso il massimo grado della
disperazione – che tra l’altro Kierkegaard equipara al peccato.
8) Come possibilità infinita, Dio è la stessa condizione del pregare, poiché
essendo la volontà divina il possibile nel suo senso più pregnante, ciò consente
appunto di pregare: se la volontà di Dio fosse infatti qualcosa di necessario,
l’uomo finirebbe per restare muto. In tal senso la possibilità si riafferma come
l’antidoto nei confronti della disperazione e la salvezza della fede risolve ogni
tipo di contraddizione, dal momento che mancare di possibilità significa che
tutto è diventato necessario o che tutto è divenuto mera banalità.
9) Peraltro, la relazione tra uomo e Dio è garantita dal loro dualismo
incolmabile (assunto poi ripreso dalla teologia dialettica). Tale dualismo non
può infatti essere colmato, giacché per farlo occorrerebbe identificare
l’esistenza con l’intelletto (col pensiero) – avendo la pretesa di dimostrare
l’esistenza di Dio – oppure identificare Dio e l’uomo, finendo per divinizzare in
qualche modo l’essere umano e non riconoscere perciò il peccato in quanto
tale. D’altro canto, Dio non può rivelarsi all’uomo nella propria realtà, giacché
in questo modo la libertà dell’uomo risulterebbe compromessa. Dio deve quindi
abbassarsi fino all’uomo, ma coprendo il volto. Cristo è infatti rivelazione e al
contempo mistero. L’atto di amore di Dio consiste nel rivelarsi nascondendosi,
facendo sì che l’uomo – lasciato nella sua libertà – possa scegliere nella fede il
bene, in quanto credere nella possibilità è credere.
10) Nella fede l’uomo esce dalla generalità indistinta, costituendosi come
persona. In tal modo nasce alla vita spirituale, ovvero rinasce. La possibilità
diviene quindi, per il tramite della fede, la forma di determinazione della
concretezza. Da qui si evince che libertà e fede non possono essere separate. Il
rapporto tra realtà e libertà non è più posto, come nella filosofia hegeliana, nei
termini di una relazione astratta che trasforma la possibilità in necessità e la
concretezza esistenziale dell’uomo in genericità: infatti, la libertà, per
Kierkegaard, è l’atto concretamente responsabile attraverso cui l’uomo sceglie
il bene, senza garanzie divine o speciali rapporti d’autorità.
11) Il rapporto tra il rapporto in cui consiste l’uomo e colui che ha posto il
rapporto si allenta nell’attimo in cui l’uomo sprofonda nella disperazione.
L’uomo può essere consapevole della propria disperazione, ma può anche
ignorarla; può avere una cognizione esatta di cosa sia la disperazione o averne
invece un’opinione errata. In ogni caso, c’è un legame assai stretto – quasi di
crudele reciprocità – tra coscienza (consapevolezza) e disperazione. Non solo
un eccesso di coscienza, ma qualsiasi coscienza rappresenta di per sé una
malattia di ordine spirituale. La malattia si manifesta, alla superficie,
emergendo dal fondo oscuro dell’anima. Kierkagaard dice che la “situazione del
disperato è per lo più una semioscurità sul proprio stato, a sua volta
variamente sfumata. In qualche modo egli sa dentro di sé per un certo grado
di essere disperato, lo nota in sé, come uno nota in sé di avere una malattia
latente nel corpo, ma non vuole davvero ammettere di quale malattia si tratti”
(p. 51). Resta però che al crescere della consapevolezza s’intensifica la
disperazione. Nondimeno, chi non sa della propria disperazione non si sottrae
di fatto ad essa, essendo invece con essa in un rapporto insincero. Ignorare la
disperazione finisce per aggiungere allo smarrimento l’errore. Inoltre, se non si
è consapevoli della propria natura spirituale e se non si è consapevoli di essere
davanti a Dio in questa veste, ecco che l’ignoranza si qualifica come la forma
peggiore di disperazione. L’ignoranza getta l’io nell’oscurità, offuscando il
rapporto stesso con Dio. Perdendo, quindi, i suoi legami originari, l’uomo si
disperde nel mondo precipitando nel peccato.
12) Anche chi è però consapevole della propria disperazione, non sempre è
capace di cogliere cosa sia la disperazione, per cui accade che spesso egli
decida di nasconderne il vero significato. Nella mancata ammissione della
propria malattia c’è la volontà inconfessata di sottrarsi ad essa. Costui sa, ma
finge di non sapere, non avendo cioè il coraggio di dire ciò che sa. Non volendo
andare fino in fondo nella verità che lo riguarda così da vicino, un disperato di
tal genere inganna dunque se stesso, essendo propriamente in malafede, non
volendo riconoscere la malattia che lo ha cacciato in quello stato di
disperazione che pur rileva.
13) “in ogni oscurità e ignoranza c’è, insomma, un gioco dialettico di
conoscenza e volontà” (p. 52). La disperazione non può essere dunque
analizzata solo sotto l’aspetto della conoscenza o quello della volontà. Infatti,
vi sono sempre diversi gradi di consapevolezza che investono sia il “cosa” sia il
“chi” della disperazione. Il disperato che è consapevole d’insistere nella
disperazione – che non vuole liberarsi di essa, non avendone un’idea esatta –
non vuol sapere cos’è la disperazione e cosa lo fa in realtà disperare.
14) Laddove la disperazione è consapevole c’è un uomo che insiste
volontariamente in essa. In tal caso, il disperato è tale perché “disperatamente
non vuol essere se stesso” o, viceversa, “disperatamente vuol essere se
stesso” (cfr. pp. 53 sgg.). La prima disperazione è quella femminile, detta della
debolezza; l’altra è quella maschile, ovvero dell’ostinazione. Tra le due, la
differenza è solo relativa, in quanto anche nella disperazione massimamente
ostinata è presente una qualche debolezza. Nel caso di chi non vuole
disperatamente essere se stesso si possono riconoscere due tipi umani: a) in
un caso abbiamo l’uomo immediato (cfr. p. 54 sg.) che, rinchiudendosi nel
cerchio della temporalità e della mondanità, dispera per ciò che è terreno,
dando luogo alla forma più universale e comune di disperazione (cfr. p. 60 e
63); b)vi è poi anche la figura dell’uomo per così dire taciturno che, disperando
della propria debolezza rispetto al finito, dispera per se stesso e per l’eterno
che ha perduto (cfr. pp. 63 sgg.).
15) Riguardo al voler essere disperatamente se stesso (cfr. pp. 69), si possono
fare alcune distinzioni. In primo luogo, l’ostinazione ha a che fare con un io
attivo (cfr. p. 71 sg.) che, nel divinizzare se stesso, “non riconosce nessuna
potenza sopra di sé” (p. 71), realizzando la volontà di staccarsi da Dio. C’è
però anche l’ostinazione di un io passivo che, offeso per così dire dall’esistenza,
piegato dalle sofferenze e dalle difficoltà in cui ha urtato, nega la possibilità di
potersi liberare dalla propria “croce”, fino a ribellarsi con forza a Dio per farsi
testimone del cattivo operato divino (cfr. p. 72 sg.). A differenza della
disperazione cosiddetta della debolezza, qui ci troviamo dunque al cospetto di
una disperazione che ha assunto i tratti dell’ostinazione. In questi casi la
disperazione non consiste più in un patire per ciò che proviene dall’esterno, ma
è qualcosa che scaturisce direttamente dall’io, avendo il suo fondamento nel
fatto di volersi costituire interamente da sé il proprio io, non puramente come
compito da realizzare, ma in ragione della propria riconosciuta infinità.
Kierkegaard dice, infatti, che per voler essere disperatamente se stesso “ci
dev’essere coscienza di un sé infinito” (p. 70), anche se poi questo sé infinito è
solo la “forma più astratta” e la “più astratta possibilità del sé”, per cui volendo
essere disperatamente proprio questo sé, si viene a strappare il sé da ogni
rapporto con la potenza che l’ha posto.
16) Col richiamo a tale forma infinita il sé vuole creare se stesso, vuole
disporre di sé, vuol fare di sé ciò che vuol essere, decidere come dev’essere
costituita la propria concretezza. In tal senso, l’io si predispone a rifiutare ogni
aiuto, anche quello che per assurdo potrebbe provenire da Dio. Entrambe le
forme autentiche di disperazione verranno identificate da Kierkegaard, nella
seconda parte, come peccato, poiché il peccato – in quanto disperazione –
consiste sempre nel fatto che l’io non vuole essere fondato da Dio, riferendosi
unicamente a sé. Su questo piano emergerà, quindi, che il concetto contrario
del peccato non è la virtù ma la fede. È la fede, infatti, a contenere la decisione
paradossale – contraria alla ragione – di far sì che il proprio sé sia fondato in
Dio, pur volendo però continuare ad essere se stesso.
17) Nel caso l’io si ponga in forza di sé, siamo nella figura della disperazione in
cui ci si vuole liberare di sé e in cui l’io consiste in un rapporto squilibrato nel
quale esso si rifiuta di rapportarsi all’assoluto; Nel caso, invece, in cui l’io si
riconosce come un rapporto derivato, e cioè come posto da un altro, ecco che
la disperazione consiste nel voler essere se stesso. Al di sopra del livello
contrassegnato dalla sintesi di coppie di termini opposti vi sono dunque due
piani: il primo consiste nel rapportarsi a sé del rapporto; il secondo consiste
nel rapportarsi a un altro, nel mentre si rapporta a sé. L’intricata struttura
della disperazione mostra come ciascuna delle due forme autentiche possa
essere ricondotta all’altra, a seconda che si privilegi il rapportarsi all’altro o il
rapportarsi a sé. Fin dall’inizio (cfr. p. 16) Kierkegaard afferma che la “seconda
forma di disperazione (voler essere disperatamente se stesso) designa tanto
poco una peculiare specie di disperazione, che al contrario ogni forma di
disperazione può essere infine risolta e ricondotta ad essa”. Questa forma di
disperazione rappresenta tra l’altro un privilegio immenso, poiché la sua stessa
possibilità rappresenta la peculiarità dell’uomo nei confronti dell’animale,
definendone infatti la spiritualità ma, al contempo, istituendo un discrimine tra
cristiano e pagano. Nell’ambito dell’esperienza cristiana, è questa dunque la
forma tipica di disperazione che l’uomo può estirpare solo passando attraverso
la consapevolezza di fondarsi, in maniera trasparente, nella potenza che l’ha
posto. Sotto questo profilo, anche la disperazione che consiste nel non voler
essere se stesso può essere ricondotta all’altra figura della disperazione, nella
misura in cui anche in essa – in modo però non sempre consapevole – si
avanza il rifiuto di rapportarsi a un altro, ma appunto nelle forme di un
rapportarsi a un altro in maniera negativa.
18) Da un altro lato, però, Kierkegaard sembra contraddire ciò quando afferma
che “disperare per se stesso, disperatamente volersi disfare di se stesso, è la
formula di ogni disperazione, perciò l’altra forma della disperazione,
disperatamente voler essere stesso, può essere ricondotta alla prima [...]” (p.
22). Qui il carattere dialettico dello stato della disperazione raggiunge il suo
culmine. Se è vero, infatti, che chi vuole essere disperatamente se stesso non
vuole certo sbarazzarsi di sé, voler essere l’io che si è non corrisponde però qui
all’esatto contrario della disperazione. Difatti, l’uomo che in questo caso vuole
disperatamente essere se stesso, vuole essere proprio quell’io che esso non è,
ovvero vuol separare il proprio io dalla potenza che l’ha posto, non volendo
cioè essere quell’io che invece è chiamato ad essere (cfr. p. 22). L’io che
intende assolutizzare se stesso nega il rapporto con l’assoluto e in tal modo
cade nella disperazione. Anche il solo pensare di potersi svincolare dal rapporto
con l’assoluto è una pura illusione, in quanto si può scegliere di farlo solo sulla
base di quel rapporto fondativo da cui deriva la libertà del singolo. L’uomo che
non vuole disperatamente essere quell’io che si rapporta all’assoluto, decide
liberamente per tale negazione solo in quanto fondato nella potenza che gli dà
possibilità di scegliere, e paradossalmente contro la potenza stessa.
Kierkegaard al riguardo conclude che, per quanto il disperato possa ritenere di
aver perso del tutto il proprio io, il senso di eternità continuerà invece a tenerlo
legato ad esso, mostrandogli così che il pensiero di essere riuscito a
sbarazzarsene era solo un’illusione, anche “perché avere un sé, essere un sé è
la massima, l’infinita concessione che è fatta all’uomo, ma insieme la richiesta
che l’eternità gli fa” (p. 23).
19) La finezza dell’analisi psicologica di Kierkegaard si rivela nell’esser riuscito
a indagare e a tipizzare nella loro sintomatologia le varie forme della
disperazione – da quelle latenti a quelle palesi e portatrici di tormento. Tale
malattia dello spirito ha tratti benefici, nella misura in cui risulta essere il
viatico per l’eternità, ma è pur sempre una crisi in un duplice aspetto: da un
lato, come rottura rispetto all’immediatezza della vita naturale e come
turbamento del vivere quotidiano, dall’altro, come consapevolezza che da tale
condizione si potrà comunque ripristinare la salute, tramite un aiuto
sovrannaturale. La disperazione incrina la sicurezza dell’uomo immediato,
altera la fiducia che egli nutre nella natura, facendogli così scorgere i propri
limiti, disponendolo ad abbandonare Dio. Tale abbandono è compiuto dall’uomo
sempre con le proprie forze. Scegliendo di morire per eccesso di spontaneità e
immediatezza, l’uomo nutre però anche il fine di una rinascita spirituale. Il
piano della vita spirituale non è ancora, tuttavia, quello dell’eterno, poiché
quest’ultimo irrompe in modo misterioso e, a tratti, perfino assurdo. Dopo una
prima rottura che si consuma col mondo dell’immediatezza, si apre una crisi
ancor più acuta che solo Dio può sanare. Di qui l’insistenza kierkegaardiana sul
fatto che la disperazione – proprio per la sua natura dialettica – è una malattia
che è meglio contrarre, per quanto sia anche la più difficile da debellare.
20) La critica che Kierkegaard rivolge agli atteggiamenti di vita filistei è sempre
incisiva e colpisce senz’altro nel segno, ma a tratti pare un po’ compiaciuta
nello sconfessare ogni rapporto positivo con la realtà naturale, come se la vita
che non passa attraverso l’angoscia e la disperazione fosse di fatto sprecata.
La vita è infatti, per Kierkegaard, seduzione e inganno, per cui “quando un
giorno la clessidra, la clessidra della temporalità, sarà trascorsa; quando sarà
ammutolito il rumore della mondanità, e il daffare inesausto e inconcludente
avrà fine [...] l’eternità chiederà a te, e a ciascun singolarmente di questi
milioni e milioni, solo una cosa, se tu abbia vissuto o no disperato [...]” (p.
30). Di fronte al pensiero di Kierkegaard, soprattutto di quello esposto nelle
opere cosiddette edificanti, ci si trova in una situazione ambivalente: da un lato
ci si sente attratti dalle critiche ad ogni forma di conformismo e di grettezza,
risultando così partecipi del suo tormento religioso; dall’altro, invece, si stenta
ad accettare l’idea che la natura debba essere vista attraverso un velo di colpa
e che la materia comporti una costante ribellione nei confronti dello spirito, di
modo che la presenza di Dio sarebbe resa possibile solo dall’assenza del
mondo. Supposto che la felicità non rappresenti una determinazione dello
spirito e che l’uomo si trovi sempre in uno stato critico al limite della malattia,
l’inquietudine – come arricchimento della nostra conoscenza emozionale
mediante la scoperta di sempre nuove dimensioni – non può limitarsi però a
rincorrere solo se stessa, in un gioco acrobatico che si affaccia sull’abisso di un
nulla che essa stessa ha creato. Nella prefazione alla Malattia per la morte (cfr.
p. 5 sg.), Kierkegaard si richiama però unicamente all’eroismo cristiano,
consistente “nell’osare diventare fino in fondo se stesso, un uomo singolo,
questo determinato uomo singolo, solo di fronte a Dio [...] (p. 5). In altri
termini egli si appella a una conoscenza da condurre con “preoccupazione”, in
linea cioè con la serietà che edifica. Se Hegel aveva nutrito dunque grande
disprezzo per la filosofia edificante, Kierkegaard – alzando il tiro – sostiene che
tutto dev’essere edificante, per cui tale edificazione deve risolversi nel
guardare la vita dal punto di vista della morte, anche perché la guarigione della
malattia che colpisce lo spirito “è proprio morire, morire a” (p. 6).

Lezioni dell’undicesima settimana


1) Per Kierkegaard l’uomo è sempre una sintesi finitezza e infinità, per cui
l’uomo non deve a tutti i costi spogliarsi del suo carattere finito. Anche di
fronte a Dio la persona umana deve presentarsi nella sua realtà e concretezza,
accettando di essere ciò che si è. Nondimeno, anche in opere come Aut-Aut, la
realtà umana – propria della finitezza storica – dev’essere però accettata come
una colpa di cui ci facciamo carico, come qualcosa da redimere nel pentimento.
Nella Malattia per la morte Kierkegaard esaspera ancor più tale tendenza, che
consiste in una sostanziale rottura con il mondo dell’immediatezza. L’io
autentico è infatti quello che si conquista astraendo da ogni esteriorità,
dismettendo cioè i panni in cui si trova a proprio agio nel mondo esterno.
Essendo di norma rivolto a ciò che accade fuori di lui, l’uomo evita di attuare
quel tipo di riflessione che farebbe emergere, dal fondo della sua anima, tutto
ciò che attiene alla coscienza del peccato. Il passaggio dalla prima alla seconda
parte di questo trattato è scandito dal fatto che mentre nella parte precedente
si era fatto esclusivo riferimento a una “gradazione nella coscienza del sé”
ancora interna alla determinazione del “sé umano” – ovvero in cui la “misura”
era ancora rappresentata dall’uomo – ora invece il sé di cui si parla è un “sé
teologico”, in quanto “sta direttamente davanti a Dio” (cfr. p. 81).
2) Tale considerazione fa pensare che il baricentro della prima parte di tale
opera s’incentri nella figura dell’io che disperatamente non vuole essere se
stesso, e per il quale il rapporto con Dio è ancora di là da venire (o è stato
posto, comunque, solo in maniera negativa o indiretta). Nella seconda parte
dell’opera l’uomo ottiene invece una diversa qualificazione, che Kierkegaard
non esita a definire teologica. L’uomo diviene infatti consapevole di sé in
quanto colpevole, e ciò si registra per il fatto di porsi ora davanti a Dio. Nel
contempo l’io diviene però cosciente anche della propria infinità, con la
conseguenza che la disperazione di voler essere se stesso si traduce nel
tentativo di sfidare Dio, che non è qualcosa di esterno nello “stesso senso di un
poliziotto” (p. 82). Più l’io scende nella propria intimità, più si rende
consapevole di sé, scoprendo al tempo stesso la potenza infinita di Dio. “Solo
quando un sé, in quanto questo singolo determinato, è cosciente di esistere
davanti a Dio, solo allora esso è il sé infinito; e questo sé pecca dunque
davanti a Dio” (p. 82). Essere al cospetto di Dio significa, dunque, scoprirsi
peccatore, ovvero prender atto dell’abisso qualitativo che c’è tra l’umano e il
divino. Tutto ciò che non è presenza davanti a Dio è privo di valore: meglio, è
finitezza e colpa. Riprendendo un passo dell’Epistola ai Romani, Kierkegaard
afferma che l’opposto del peccato è appunto la fede (cfr. p. 84). A differenza di
ciò che pensano i pagani, ovvero gli uomini che vivono nell’immediatezza, il
contrario del peccato non è la virtù ma la fede, giacché tutto ciò che distoglie
dalla concentrazione richiesta dalla fede è appunto peccato. Tale posizione
risulta assurda per chi, sotto il profilo speculativo, voglia rendersi ragione del
peccato restando all’interno delle maglie del pensiero, ma non per chi accetti
invece il principio della differenza qualitativa tra Dio e uomo. Per costui, anche
il solo fatto di voler persistere nella sfera dell’umano costituisce una colpa
irrimediabile. Kierkegaard dice infatti che la “dottrina sul peccato “disgrega
incondizionatamente la massa, rafforza la differenza qualitativa tra Dio e uomo
così a fondo come mai prima è stata rafforzata” (cfr. p. 123). Non c’è un altro
aspetto in cui l’uomo sia così diverso da Dio come quello appunto di essere
peccatore, e di esserlo davanti a Dio: in questo modo, infatti, gli opposti sono
accostati senza potersi separare reciprocamente, ma proprio per questo essi
fanno risaltare ancor più la loro differenza (come nel caso dei colori, cfr. p.
123). Il peccato è perciò l’unico predicato che non si può attribuire a Dio.
3) L’uomo è dunque separato da Dio dal profondo abisso della qualità (cfr. p.
127). Una dottrina che non consideri tale differenza è una “bestemmia”, pura
blasfemia. La via che l’uomo percorre verso l’intimità, ritraendosi dalla
dispersione del mondo, è la stessa lungo la quale riconoscerà la propria natura
di peccatore, ovvero di uomo imperfetto e finito. Kierkegaard giunge dunque al
riconoscimento della finitezza dell’essere umano, nonché del suo carattere
angosciato e colpevole, non sulla base della mera speculazione o di un
pensiero di ordine logico, ma di una chiarificazione esistenziale di tipo
essenzialmente emotivo.
4) Kierkegaard distingue, fondamentalmente, tra una disperazione che ignora,
ovvero una disperazione che si presenta nella forma dell’inconsapevolezza
dell’io come custode dell’eterno, e la disperazione consapevole caratterizzata
dalla volontà ottusa di rimanere nella disperazione attraverso una libera scelta
di rifiuto. Il pensiero kierkegaardiano si regge sul principio secondo cui la
consapevolezza di sé sarebbe il criterio decisivo dell’io, in quanto l’elevazione a
potenza dell’io e della stessa disperazione si ha con il grado di coscienza che
l’io manifesta nei confronti di stesso, dal momento che tale consapevolezza
accresce la volontà e il potere di scelta dell’io (cfr. p. 52). Al grado di
consapevolezza corrisponde però anche quello della disperazione: l’intensità di
quest’ultima sarà tanto più elevata quanto l’io risulterà consapevole della
propria disperazione. E soprattutto ciò si registrerà allorché l’io sarà
consapevole della propria disperazione davanti al fondamento che l’ha posto
come rapporto che si rapporta a se stesso. La disperazione varierà, quindi, dal
grado più basso dell’innocenza (o, più propriamente, dell’ignoranza) a quello
più elevato del demoniaco. La tonalità della disperazione cresce, dunque, da un
minimo di chiarezza a un massimo di trasparenza: e cioè, dalla situazione in
cui c’è ancora ignoranza della disperazione a quella in cui si è diradata ogni
oscurità che potrebbe eventualmente fungere da attenuante. In un caso la
disperazione è inconsapevolmente ridotta al minimo, nell’altro essa deflagra in
un’ostinazione assoluta. In due luoghi (cfr. p. 52 e 132) Kierkegaard afferma
che l’opposto della disperazione è rappresentato dal credere, ovvero da quella
condizione in cui non ci si dispera di nulla e che equivale alla fede. La
concezione kierkegaardiana della fede si riconferma come diversa da quella
hegeliana citata nel Concetto dell’angoscia (fede come conciliazione di
opposti), essendo infatti la fede lo stato in cui (nel rapportarsi a se stesso e
nell’essere se stesso il sé si fonda in modo trasparente nella potenza che lo ha
posto” (p. 132).
5) La disperazione che ignora si presenta nella forma dell'inconsapevolezza
dell'io come custode dell'eterno, mentre la disperazione consapevole (che è
cosciente di essere tale perché l'uomo sa di avere un io che presenta tratti di
eternità) è caratterizzata da una volontà ottusa di rimanere nella disperazione
attraverso una libera scelta di rifiuto. Le figure che rientrano nella modalità
della disperazione consapevole oscillano tra il non voler essere se stesso e il
volerlo essere – ovvero, per dirla con Kierkegaard, tra la disperazione della
debolezza e quella dell'ostinazione, tra una disperazione tipicamente femminile
e una che ha connotati di virilità. Kierkegaard distingue, anzitutto, tra lo stato
di colui che dice di essere disperato e la consapevolezza interiore di cosa sia
realmente per lui la disperazione, dato che le due cose non vanno sempre di
pari passo. Una persona può avere infatti consapevolezza di essere disperata,
ma ignorare al contempo il chiaro significato di tale parola, dal momento che lo
stato del disperato è una sorta di penombra contornata da varie sfumature. Al
disperato si richiede però al riguardo una certa chiarezza per poter cogliere di
trovarsi in una situazione in cui s'illude di conoscere il proprio stato di
disperazione – uno stato che però è solo intravisto, conducendo egli una vita
nella semioscurità. Per avere consapevolezza di ciò, occorre avere un''idea
della disperazione, ovvero dev'essere chiaro – per chi dispera – che il suo
vivere nella penombra è motivato, in particolare, proprio dalla sua
disperazione. Dal momento in cui l'uomo diviene consapevole della propria
disperazione, questa si eleva sempre più quanto a potenza. Dalla
consapevolezza della disperazione Kierkegaard fa scaturire due forme distinte
(debolezza e ostinazione), sottolineando però come i contrasti tra le due siano
solo relativi, poiché ogni forma di disperazione – anche quella della debolezza
– presenta un tratto di ostinazione (che traspare nella sua stessa formulazione.
"non voler essere"), così come d'altro canto voler ostinatamente insistere sulla
volontà di essere se stesso è indice d'indubbia cdebolezza. Debolezza e
ostinazione si implicano dunque a vicenda, tanto che si può parlare, riguardo
alla disperazione, di un'ostinata debolezza e di una debole ostinazione.
6) Il tipo di disperazione più comune è quello dell'immediatezza,
dell'estemporaneità, di una disperazione subita. In questo caso non c'è
consapevolezza dell'infinità del proprio io (cfr. p. 54), per cui la disperazione si
traduce in un patire, in un soccombere sotto la pressione esteriore. È come,
cioè, se al disperato capitasse – in maniera accidentale – qualcosa che lo porta
alla disperazione: da qui il carattere di disperazione subita, caratterizzata da
un'assoluta impersonalità. Si può crollare nella disperazione per i motivi più
svariati, ma in questo tipo di disperazione si constaterà solo la mancata
ripetizione di ciò che è immediato. L'uomo cosiddetto immediato, che vive cioè
nella cerchia delle cose mondane, si dispera per il finito, caratterizzandosi per
un atteggiamento passivo nei confronti di sé e del mondo. L'uomo immediato
non riesce a varcare la porta che gli sta di fronte, la quale peraltro costituisce
un ingresso destinato a lui. In tal senso, è l'uomo della porta finta o della
"porta cieca sullo sfondo della sua anima, dietro la quale non c'è nulla" (p. 59),
giacché la propria condizione gli rimane oscura o inintelligibile. In altri termini,
costui sa di essere disperato, ma pensa che la causa di tale situazione sia nelle
cose esteriori che gli sono state tolte, mentre invece disperarsi è perdere
l'eterno e questo tipo di perdita egli non è in grado nemmeno d'immaginarselo.
"È come se uno volgesse le spalle al municipio e al tribunale, puntasse il dito
proprio davanti a sé e dicesse: lì stanno il municipio e il tribunale; quell'uomo
ha ragione, stanno lì...quando si volterà" (p. 55). Ciò che quest'uomo dice è in
un certo senso vero, ma non lo è nel modo in cui lui lo intende. La sua
posizione è in qualche modo rovesciata, nel senso che ciò che lui dice va inteso
all'inverso, dal momento tra l'altro che la disperazione lo coglie alle spalle a
sua insaputa. Si tratto di un uomo certamente disperato, ma sulla base di una
motivazione sbagliata, per cui quando le cose sembrano nuovamente mutare di
segno in direzione della positività, egli crede di essere guarito dalla
disperazione. Per questo non realizza la vera complessità della disperazione,
non facendosi nemmeno carico del compito assegnatogli di divenire un io, di
formarsi in quanto persona. La formula di tale disperazione è: "disperatamente
non voler essere se stesso, oppure al livello ancora più basso: disperatamente
non voler essere un sé, oppure al livello infimo: disperatamente voler essere
un altro da se stesso, desiderare un nuovo sé" (p. 56), ovvero cambiare
identità.
7) Quest'uomo vorrebbe dunque essere un altro, vorrebbe cambiare il proprio
destino così come s'indossa un altro vestito, laddove la tragicomicità della sua
situazione consiste nel voler essere un altro, pur non essendo ancora stato in
grado di diventare quell'io che è stato chiamato a essere e che peraltro non
desidera nemmeno divenire. Questo io che vive consapevolmente
nell’immediatezza, manca però di una riflessione interiore che gli consentirebbe
d’intuire che la disperazione non accade ma è azione, attività dell’io. Egli non
sospetta minimamente che a farlo disperare sia l’insistere al di qua
dell’apertura del campo di possibilità che gli è assegnato – ovvero è l’insistenza
tra le cose, nelle abitudini e nella sicurezza mondana, giacché è proprio la
mancata relazione con l’eterno a farlo precipitare in un cieco disperare.
Disperdendosi tra le cose che gli sono esterne, evitando ogni momento di
riflessione interiore, a costui manca quindi “un’autoriflessione o riflessione
etica”, nel senso che esso non ha coscienza di un sé che si conquista mediante
“l’astrazione infinita da tutto ciò che è esterno”, di un io che – lungi dall’essere
vestito dell’immediatezza – è la forza motrice del “processo attraverso cui un
sé coglie illimitatamente il proprio sé effettivo con le sue difficoltà e i suoi
vantaggi" (p. 58).
8) Così concepito, l’io non intende però piegarsi sotto i colpi della necessità che
il reale sembra infliggergli, cadendo del tutto nella disperazione. Esso rinuncia
all’idea ridicola di voler essere un altro, mantenendo quel rapporto col proprio
io, avviato attraverso la riflessione. Esso si limita tuttavia ad aspettare che la
disperazione passi, anche se ciò costituirà un’attesa del tutto vana, priva di
compimento, per cui tale uomo finirà per comportarsi come colui che disprezza
la propria casa ma, invece di abbandonarla e andare a vivere in un’altra, esce
di casa sperando che la situazione si trasformi, giacché considera pur sempre il
luogo in cui vive come casa sua. Al riguardo Kierkegaard dice che il disperato
dell’immediatezza, segregato in una speranza del tutto illusoria, sarà sempre
comunque ospite di se stesso, nel senso che il suo io resterà confinato a quella
porta cieca dietro a cui egli non riesce a cogliere la presenza del nulla.
9) Mentre questo tipo di disperazione è in ragione di ciò che la determina, vale
a dire riguarda qualcosa di terreno, nella seconda forma di disperazione –
sempre relativa al non voler disperatamente essere se stesso – la disperazione
riguarda ciò che potrebbe liberare dalla disperazione stessa, in quanto si tratta
appunto di disperazione dell'eterno. Quest’altra forma di disperazione riguarda
l’uomo cosiddetto taciturno o chiuso, il tipo per così dire introverso, che dà
molta importanza al mondo esterno e che, proprio per questo, tende a
ripiegarsi su di sé. Tuttavia, più il suo io tenta di staccarsi da ciò che disprezza,
più egli sente di legarsi ad esso, ed è questa debolezza che lo fa disperare.
Anche costui soffre di quella malattia dello spirito che si precisa in un
“disperante non voler essere se stesso”. Ad accomunare queste due forme di
disperazione è in ogni caso l’io, che resta dialettico, e riguardo al quale si dice
che ci si dispera per e di se stessi. La disperazione di ciò che è terreno è
mancanza dell’eterno, mentre quella dell’eterno è mancanza di ciò che è
terreno. Nel primo caso la disperazione è “della debolezza”, nel secondo ci si
dispera invece “per la propria debolezza” (p. 64). Nondimeno, anche se ora si
comprende che disperarsi per ciò che è terreno rappresenta una debolezza,
“anziché svoltare davvero via dalla disperazione verso la fede, umiliandosi
davanti a Dio sotto la propria debolezza, egli s’immerge nella disperazione e
dispera per la propria debolezza” (p. 64).
10) Kierkegaard osserva che tale forma di disperazione costituisce un
progresso considerevole rispetto all’altra, poiché se l’uomo immediato si
dispera per il finito, ed è questa la sua debolezza, l’uomo taciturno e chiuso in
sé comprende che è debolezza aver attribuito al terrestre tanta importanza, di
modo che ora la sua disperazione si eleva a potenza, disperando egli per aver
“perduto l’eterno e se stesso” (p. 64). La disperazione assume così un
andamento ascendente. In questa forma di disperazione c’è infatti anche un
aspetto positivo, in quanto ci si può disperare dell’eterno solo nella
consapevolezza di avere un io abitato da qualcosa di eterno. Tuttavia, tale
uomo non supera la propria condizione, malgrado abbia individuato cosa lo
tormenta e sappia – nel suo insistere presso il finito – che è l’eterno a
sfuggirgli, facendolo così disperare. Costui non è capace di guardarsi senza una
certa riprovazione, essendo infatti persuaso di aver perduto l’eterno, e in tal
senso non si riconosce quasi più, non volendo disperatamente essere se
stesso. Egli non volge però i propri passi verso l’eterno, ma sceglie di chiudersi
in sé, disperandosi proprio per se stesso. Qui, la disperazione, pur restando
sempre confinata nella passività a motivo di debolezza, è però indirizzata al
proprio io, non essendo cioè semplicemente un patire, come nel caso dell’altra
forma di disperazione dai tratti marcatamente femminili. Proprio perché più
intensa, questa disperazione è per così dire più vicina alla salvezza, anche se
resta però irrimediabilmente consegnata al “non voler essere se stesso”.
Kierkegaard dice, al riguardo, che al pari di un padre che disereda un figlio, l’io
non vuole riconoscere se stesso dopo essere stato così debole. Disperato, esso
“non può dimenticare questa debolezza, in qualche modo odia se stesso, non
vuole, credendo, umiliarsi sotto la propria debolezza per riacquistare se stesso,
no, per così dire, disperatamente non vuole ascoltare nulla su di sé, nulla vuol
sapere di sé” (p. 65).
11) L’io non può però liberarsi di se stesso e non può liberarsi dell’eterno verso
cui si sente disperato, così come il padre non può ripudiare il figlio con un
gesto di mera esteriorità, pena il fatto di far crescere il legame ancora di più. Il
disperato non può allora far altro che tacere. Mentre in precedenza, il
disperato, giungeva fino alla porta cieca dell’immediatezza, ora egli si trova
accovacciato dietro a una “porta reale, ma chiusa con grande accuratezza” (p.
65), dietro la quale il sé si siede trascorrendo il suo tempo silenziosamente,
non volendo “essere se stesso” ma essendo abbastanza consapevole di sé “da
amare se stesso”. Il cammino della disperazione si è approfondito nella
consapevolezza di sé, giungendo così al confine dell’ultima figura di disperato:
quello che ostinatamente vuol essere se stesso. Qui l’io è però ancora troppo
debole per voler fino in fondo essere se stesso, per cui preferisce rimanere
braccato nel suo silenzio. Nel suo aspetto esteriore è un uomo del tutto
realizzato, ma dentro di sé è schiacciato sotto il peso del “segreto del proprio
io”. Si tratta di un uomo solitario, che fugge la chiacchiera, rifugiandosi nella
propria intimità, per il quale la necessità di solitudine diviene una necessità che
svela la profondità del suo essere eterno. Kierkegaard dice, infatti, che il
bisogno di solitudine è sempre segno che in un uomo c’è spirito (cfr. p. 66). E
tuttavia, quest’uomo disperato resta sotto scacco del proprio io, resta cioè
pericolosamente ancorato alla propria disperazione – “nella chiusura marcia sul
posto” (p. 68) – correndo un pericolo immenso. La strada intrapresa è quella
giusta, perché si deve passare attraverso la disperazione dell’io per giungere
all’io, ma egli sosta troppo a lungo nel tratto della sua debolezza, rimanendone
immancabilmente schiacciato, e per questo si dispera. Il pericolo più grande
che quest’uomo corre è il suicidio, che consiste nel il guadagno di sé come
incapacità di guadagnare il fondamento del proprio sé. Il suicidio sembra
essere dunque una soluzione per smorzare la propria debolezza, ma sarebbe
del tutto evitabile se invece di resistere nel silenzio, quest’uomo si aprisse a un
altro (spalancasse cioè le porte della sua taciturnità a un confidente). Ma anche
per un poeta – dice Kiekegaard (cfr. p. 69) – sarebbe un bel compito mostrare
la contraddizione penosa che travaglia l’io di un demoniaco, e che consiste nel
non poter fare a meno di un confidente, ma di non potere al contempo averne
uno. Le vie per poter uscire da questo stato di debolezza sono due: o
proiettarsi verso l’esterno, e cioè rituffarsi a capofitto nel mondo, cercando di
far tacere il tormento interiore attraverso un’intensa attività mondana e un
ritorno all’immediatezza della sensualità; o elevare ulteriormente il grado della
disperazione verso il vertice costituito dall’ostinazione, e cioè dal voler essere
disperatamente se stessi.
12) Quando il disperato si rende conto perché non vuol essere se stesso, ecco
che la situazione si capovolge e si manifesta l’ostinazione, per cui costui ora
vuole disperatamente essere se stesso. In ciò egli raggiunge un maggior grado
di consapevolezza, dato che chi vuol essere disperatamente se stesso sa che la
disperazione non giunge dal di fuori, non accade dall’esterno, non è un patire
sotto la pressione dell’esteriorità, bensì un’azione che viene direttamente
dall’io: è una nuova qualificazione della disperazione sotto la determinazione
dello spirito, è l’ostinazione di fronte alla disperazione della propria debolezza.
Come dice assai bene Kierkegaard, “è disperazione con l’aiuto dell’eterno” (p.
69), è l’abuso disperato dell’eterno, che è nell’io, per voler disperatamente
essere se stesso. Essendo in virtù dell’eterno, tale forma di disperazione è più
vicina alla verità perché sembra aver raggiunto l’oggetto della ricerca, che è
appunto l’eterno; d’altro canto ne è, però, più lontana, perché l’io si pone come
creatore di se stesso, sradicandosi da ciò che lo costituisce: per essere se
stesso, egli non vuole infatti perdere se stesso in ragione dell’eterno, ma vuole
disperatamente essere se stesso, negando il fondamento che l’ha posto.
Questa forma di disperazione non riconosce, cioè, i limiti dell’io, non conosce
né determinatezza né concretezza: una simile disperazione rappresenta uno
slancio ostinato verso un’immagine e, per così dire, un progetto: il disperato,
infatti, vuol farsi un io (vuol farsi farsi io) a prescindere da chi l’ha posto come
rapporto e a prescindere dal finito che, nel rapporto dell’io con sé stesso, si
rapporta con quell’infinito che orienta il suo ostinato errare.
13) Voler essere se stessi implica la coscienza di un io infinito, ma questo io
infinito è solo la sua forma (o la possibilità) più astratta, dal momento che l’io è
sintesi di finito e infinito, e il finito rivela la concretezza della sua necessità
creaturale. L’io è condannato così alla disperazione perché desidera essere un
io astratto, infinito, strappando via da sé i limiti della propria realtà finita e
svestendosi di ogni carattere di concretezza. Ma se l’io è attivo, la sua corsa
per sostituirsi a Dio – per quanto insistente – non lo conduce da nessuna parte.
Ciò che egli costruisce è un involucro rigonfio di nulla e di sterile volontà. Pur
con i suoi sforzi disperati di voler essere se stesso, egli realizza esattamente il
contrario, e cioè non diventa in fondo nessun io, “non diventa in senso proprio
un sé” (p. 71), Anzi, come dice Kierkegaard, “egli è un re senza terra, in fondo
regna sul nulla; la sua condizione, il suo dominio soggiace alla dialettica per cui
è la rivolta a costituire in ogni istante la legittimità. Infatti quest’ultima riposa
alla fin fine arbitrariamente nello stesso sé” (p. 71). In un proibitivo sforzo
prometeico di autofondazione e di assolutizzazione di sé, l’uomo così disperato
finisce col negare il rapporto con il fondamento, con l’assoluto e – non
realizzando in tal modo se stesso – cade rovinosamente in uno stato di
disperazione. Quest’io che nega attivamente Dio, è il medesimo io che rifiuta
ostinatamente se stesso come corporeità, finitezza, necessità e temporalità.
Per mezzo di un io infinito che nega un io finito, l’uomo pretende dunque di
svincolarsi dal rapporto con la potenza che l’ha posto, decidendo per così dire
da sé cosa vuole o non vuole essere nel suo io concreto.
14) Si tratta dell’uomo che nel principio (come dice Kierkegaard a p. 70, con
allusione all’incipit del Genesi: In principio Dio creò il cielo e la terra) nega il
suo principio, un io che non è col principio ma nel principio, un io che vuole se
stesso. Un io che “non vuole indossare il proprio sé, non vuole vedere nel sé
che gli è stato dato il proprio compito, lo vuole costruire da sé grazie all’essere
la forma infinita” (p. 70). Un io, quindi, che vuole crearsi da sé, che vuole
godersi disperatamente la soddisfazione di essere l’artefice di se stesso, un io
prometeico che manca di serietà, un io ipotetico che è immagine di se stesso,
un io che negando la relazione col proprio fondamento perde se stesso, perché
non riconosce di essere sintesi (derivata) posta da altro, e che volendo
disperatamente essere se stesso finisce in realtà per non diventare nessun io:
in altri termini, un io la cui volontà è un arbitrio, una cattiva volontà. Si tratta
cioè di un io paragonabile a un re senza regno, a un sovrano che effettua il
passaggio dall’essere al nulla, riuscendo a fare qualcosa di segno contrario a
ciò che invece fa Dio, che crea l’essere ex nihilo.
15) Se l’io disperato è attivo, esso non si rapporta però che a se stesso, non
riconoscendo al di sopra di sé alcuna potenza. Al riguardo non c’è però solo un
io attivo, ma c’è n’è anche uno passivo che – diversamente da quello – non
vuole diventare Dio, non vuole sostituirsi ad esso in virtù di un’assoluta volontà
di esercitare la propria potenza, ma – riconoscendo Dio – gli si rivolta contro.
Siamo giunti così alla forma più potenziata di disperazione, alla sua massima
intensità, e cioè al demoniaco, inteso come massima consapevolezza di sé,
come massima volontà di affermare se stesso, addirittura come opposizione
voluta al proprio fondamento: come negazione assoluta dell’assoluto (cfr. p. 72
sgg.). L’io passivo che disperatamente vuol essere se stesso rifiuta Dio –
l’infinito – nella misura in cui è inchiodato alla propria determinatezza – al
finito. È un io che si scontra con la realtà, con i disastri che attraversano il
mondo; è un io offeso dalla vita, che coglie l’assurdo dell’esistenza e, non
potendo sperare in alcuna possibile liberazione, dubita della bontà di Dio, che
avrebbe permesso ai suoi occhi che la croce fosse piantata ogni giorno sulla
terra: in tal senso egli si fa portavoce della protesta, impersonando la creatura
che si ribella al creatore.
16) Il demoniaco è superbo è non vuol umiliarsi domandando aiuto, perché ciò
vorrebbe dire rinunziare ad essere se stesso. Per ostinazione non vuol essere
consolato, perché ciò significherebbe credere nella possibilità di una salvezza,
implicherebbe cioè una relazione con colui per il quale nulla è impossibile,
ristabilendo quindi la relazione di assoluta relatività al cospetto dell’altro che è
il vero assoluto. Chiuso disperatamente nel tugurio del proprio io taciturno, il
demoniaco vuole essere se stesso in quel tormento che è diventata la sua
passione frenetica (la sua frenesia demoniaca). In tal senso, egli respinge ora
ogni tipo di cura. Un tempo egli avrebbe dato di tutto per sbarazzarsi di quel
tormento, mentre ora la cosa più importante per lui è avere sempre a portata
di mano il proprio tormento (cfr. p. 74). È un uomo risentito che ha in odio
tutta l’esistenza, che ha fatto della stabilità del proprio tormento la prova
inconfutabile del fatto che non è vero che a Dio sia tutto possibile. Di
conseguenza, egli non vuol essere liberato da quel pungolo che esiste per lui
come un segno che contrasta con l’eterna possibilità di Dio, e non vuol essere
consolato in quella miseria, perché tale consolazione comporterebbe il venir
meno di sé come demoniaco, alla stregua di un errore che venga cancellato (e
corretto) dal suo scrittore (cfr. p. 75 sg.). Più la disperazione si accresce e più
l’interiorità si sprofonda in un mondo chiuso in sé, per il quale l’esteriorità
diventa tra l’altro sempre più insignificante.
17) Con il passaggio alla seconda parte del trattato Kierkegaard dà
compimento alla sua fenomenologia della disperazione, spiegando le ragioni
del sottotitolo di tale scritto: Saggio di psicologia cristiana per edificazione e
risveglio. Nella prima parte, termini come Cristo non compaiono mai, e lo
stesso contenuto cristiano viene esplicitato – all’interno della polemica
dogmatica che Kierkegaard conduce – solo in quest’ultima parte. La stessa
psicologia della disperazione, costruita con le fitte analisi che abbiamo fin qui
osservato, trova una sua stabile conclusione (dottrinaria) in una teologia del
peccato. L’uomo che disperatamente non vuole essere se stesso, perché non
sa arrischiarsi nel fondo della propria anima o perché, giunto di fronte alla
propria anima, dispera per la debolezza che gli impedisce di stringersi nel
rapporto con chi l’ha posto come rapporto, è un peccatore. Ma è peccatore
anche l’uomo che vuol essere disperatamente se stesso, dal momento che
insegue ostinatamente l’infinito che custodisce in sé nel tentativo di farsi
assoluto, o perché – spinto dall’odio per un’esistenza gravida di sofferenze e
sconvolta dall’assurdo – si scontra con violenza contro chi l’ha posto come
rapporto. Qui la disperazione – sia quella della debolezza sia quella
dell’ostinazione – diventa peccato, che è il potenziamento della disperazione,
non appena questa è posta davanti a Dio. Anzi, come dice Kierkegaard (cfr. p.
79), è la “rappresentazione di Dio” a fare del peccato (sotto il profilo dialettico,
etico e religioso) una sorta di “disperazione qualificata” (linguaggio giuridico
che fa riferimento a un’aggravante). Se nella prima parte K. ha preso in esame
la gradazione evidenziabile nella coscienza del proprio io, avendo come misura
di tale determinazione l’uomo, ora il fatto che quest’io sia posto
deliberatamente di fronte a Dio, ne fa qualcosa di non più meramente umano,
trasformandolo in un “io teologico”, che non ha più come misura se stesso, ma
la cui misura è appunto Dio (cfr. p. 81). Per trovare la misura dell’io occorre
chiedersi, infatti, che cos’è ciò al cui cospetto esso è un io (o un sé). Il peccato
in cui la disperazione qui si trasforma consiste dunque nel farsi distanti da Dio,
giacché il peccato – come dice Kierkegaard (cfr. capitolo terzo, pp. 97 sgg.) –
non è una negazione ma una posizione.
18) L’uomo si fa scivolare di mano Dio – invertendo il verso di quell’immagine
che Kierkegaard riprende, con tutta probabilità, dalla Confessione Augustana,
opera di Melantone del 1530 – sia quando non vuole disperatamente essere se
stesso, sia quando vuole disperatamente esserlo. E la disperazione dice che si
è nel peccato, e questo a sua volta ci dice che c’è un rapporto compromesso
tra l’uomo e chi l’ha posto come rapporto. La colpevolezza di tale rapporto
compromesso non può essere peraltro addossata a chi ha posto il rapporto, ma
è colpevole chi sceglie di non rapportarsi con chi l’ha posto come rapporto.
Solo l’uomo, quindi, è colpevole, e lo è di fronte a Dio. Nondimeno, vi sono due
gradi distinti di colpevolezza (o di disperazione qualificata). In quanto rapporto
compromesso con chi l’ha posto come rapporto, vi è il peccato di chi ignora
Dio, ossia di chi ignora cosa sia il peccato, di chi ignora il rapporto stesso. Ma
c’è poi anche il peccato di chi non ignora cos’è il peccato – giacché conosce Dio
– ma che insiste ostinatamente nel peccato. Nel primo caso abbiamo a che fare
con l’uomo naturale, con il pagano, mentre nel secondo a peccare è
essenzialmente il cristiano. Il peccatore cristiano è quindi il più disperato tra i
disperati, è colui che dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione divina,
che cos’è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuol essere se stesso o,
disperatamente, vuol essere se stesso. La distanza scellerata che il disperato
cristiano pone tra sé e Dio, la posizione disperante di fronte a questo, misura la
sua incapacità di accogliere la rivelazione tramite la fede. Se la possibilità dello
scandalo testimonia la distanza infinita che corre tra Dio e l’uomo, il peccato
dello scandalo fissa, disperatamente, il posizionamento di tale distanza. Infatti,
la disperazione più profonda, la malattia per la morte, piega il cristiano che –
avendo conosciuto Cristo – non sa però resistere allo scandalo del Dio-uomo.
Di conseguenza disperato è l’uomo che china la testa e che abbandona
debolmente la mano quando Cristo gli tende la propria.
19) Il peccato è essere disperati “davanti a Dio” (giacché ogni singolo uomo
esiste davanti a Dio), e in questa definizione è contenuta la possibilità stessa
dello scandalo, del paradosso, dell’assurdo, ovvero di tutto ciò che
contrassegna in positivo il Cristianesimo a fronte di ogni speculazione. Qui
entra in gioco, naturalmente, il momento della fede. Il salto nella fede si
compie sempre in solitudine, quando cioè tacciono i rumori del mondo. Il
bisogno di solitudine è un segno di spiritualità, mentre gli uomini che non
fanno altro che chiacchierare non sentono questo tipo di richiamo. Mentre,
infatti, la socievolezza si nutre di buon senso, si rafforza nella gioia di trovarsi
sempre d’accordo, la solitudine e il silenzio sono l’atmosfera in cui avviene il
dialogo tra l’uomo e Dio. Come insinua Kierkegaard (cfr. p. 88), la Summa
summarum di ogni sapienza umana è costituita da quella regola aurea
(all’“aureo”, riferimento alle Odi di Orazio) che si richiama al ne quid nimis
(nulla di troppo), ovvero a un equilibrio pavido (né troppo poco né troppo) in
cui si ha sempre paura di essersi spinti troppo oltre. Viceversa, nel silenzio
della solitudine ci si lancia nell’assurdo, oltre cioè la sapienza filistea del “nulla
di troppo”, e ha inizio così l’avventura e lo scandalo della fede. Kierkegaard
accentua sotto questo profilo l’aspetto paradossale del cristianesimo, il suo
essere appunto religione della croce, dello scandalo (skandalon: ostacolo,
insidia), della contraddizione, per opporre questo cristianesimo eroico e
sofferente alla religione meschina e gretta della sua epoca. A tal riguardo, a
proposito del rapporto tra cristianesimo e scandalo, e circa il fatto che la
possibilità dello scandalo sia per così dire implicita nella definizione cristiana
del peccato, si veda ciò Kierkegaard dice a p. 92 sg.
20) Per Kierkegaard, l’abisso tra la dispersione della vita quotidiana e la
concentrazione spirituale, che richiede un atteggiamento davvero religioso, si
approfondisce sempre di più. Non è un caso che la stessa definizione di peccato
che lui promuove – l’unica conforme alla Scrittura (cfr. p. 83) – sia tutta nel
segno della spiritualità, giacché il peccato è una determinazione dello spirito.
L’originalità della riflessione di Kierkegaard sta proprio in questa sua capacità
di legare i temi dell’angoscia e della disperazione a quelli della colpa, del
peccato e della possibile redenzione (o liberazione) dal peccato stesso. Per
Kierkegaard, tutte le possibili forme di malvagità e di disperazione dipendono
da un rapporto sbagliato dell’uomo con se stesso. Il peccato è dunque l’esito
del tentativo disperato di porre fine all’angoscia che l’uomo ha di sé e della sua
libertà, ovvero al gioco tormentoso delle possibilità che contraddistingue la sua
condizione. Ogni volta che l’uomo si risveglia e prende coscienza di sé, scopre
il suo essere non-necessario, la sua contingenza, e il problema diviene quello
di sopportare questa sua condizione. La vergogna che egli prova per la sua
conclamata nullità si trasforma, paradossalmente, nel voler diventare Dio –
una volontà che produce necessariamente una condizione conflittuale, in cui
l’individuo tende a oscillare tra svalutazione di sé e sopravalutazione di sé. Se,
dunque, è l’angoscia che spinge l’uomo ad allontanarsi da Dio e a fondarsi su di
sé, tale condizione di distacco da Dio è per Kierkegaard liberamente voluta
dall’individuo, e come tale può essere legittimamente definita una condizione di
peccato. Il termine peccato va quindi inteso – nell’accezione kierkegaardiana,
ma anche biblica – non in senso etico, e cioè come mancanza rispetto alla
legge morale universale, bensì in quello religoso-esistenziale di atteggiamento
di vita fondato volontariamente sul distacco da Dio. Insomma, l’origine del
male sta nel distacco da Dio indotto dall’angoscia, e questo distacco da Dio è il
peccato per antonomasia.
21) Questa condizione di peccato, indotta dall’angoscia, non si limita però a
produrre altra angoscia, accrescendola a dismisura, ma è anche all’origine della
disperazione, che non è uno stato d’animo accidentale e passeggero, ma è un
modo errato di elaborare la propria angoscia, una forma distorta, unilaterale,
decurtata dell’esistenza, che consegue da una presa di posizione sbagliata, da
un rapporto sbagliato con sé e con l’altro che ha posto il rapporto, per cui ad
ogni passo si riconferma che l’uomo è la causa della sua disperazione. Da tutto
ciò scaturisce quello che K. afferma basandosi, tra l’altro, sull’Epistola ai
Romani (cfr. p. 84), e cioè che dal punto di vista cristiano la vera alternativa
non è quella tra il peccato e la virtù, ma tra il peccato e la fede, tra la fede e la
disperazione, dal momento che l’equilibrio interiore non lo si può raggiungere
per via etica. Il rifugiarsi nell’etico costituirebbe infatti una via di fuga
dall’angoscia, dal momento che per diventare un singolo, l’individuo deve
rinunciare a identificarsi con la massa e a disperdersi in essa. Ciò può avvenire
invece solo in forza della fede, che mettendo l’io in rapporto con un Tu assoluto
(con l’altro), lo riporta al suo essere autenticamente se stesso, facendogli
riconoscere il suo peccato, consistente in un’avversione a Dio (in un girarsi
dall’altra parte), alla quale si può rimediare tramite una conversione al proprio
stato di creatura.
22) Il cristianesimo è però soprattutto scandalo (cfr. pp. 84 sgg.). Ci si
scandalizza cioè per il cristianesimo, e questo avviene perché esso è un
atteggiamento religioso un po’ troppo cupo e oscuro, fondamentalmente troppo
rigido, ma soprattutto perché esso mira troppo in alto, dato che non ha scelto
come misura l’uomo, ma vuol fare dell’uomo qualcosa di così straordinario da
superare ogni mente umana. E Kierkegaard osserva, al riguardo, che è stato
miope pensare di difendere il cristianesimo eliminando lo scandalo, dato che è
lo stesso insegnamento di Cristo che ha attirato l’attenzione su di esso,
mettendoci in guardia nei suoi confronti e considerandolo un elemento
eternamente essenziale del cristianesimo, per cui la pretesa di difendere il
cristianesimo a prescindere dallo scandalo rivela una scarsa conoscenza
dell’animo umano e declassa la religione cristiana a fenomeno di fatto
meschino. Ma per comprendere tale aspetto, occorre fare un passo indietro.
Quando Kierkegaard parla di una possibilità che amplia l’orizzonte chiuso della
necessità, non c’interessa tanto la polemica che egli conduce contro il mondo
umanistico del sapere o a favore di una fede sopramondana, quanto la
denuncia – che Kierkegaard ha avuto il merito di condurre – del carattere
limitato di una cultura che ha relegato nel mondo dell’edificazione tutto ciò che
non rientrava nei propri quadri o ciò che essa non aveva la forza o la capacità
di illuminare criticamente. Viceversa, insistere sul carattere di problematicità e
di pluridimensionalità dell’esperienza umana esprime l’insofferenza per quelle
posizioni dogmatiche che eliminano i problemi senza averli neppure affrontati.
La possibilità per Kierkegaard è una formula polemica (oltre che la più pesante
delle categorie) quando invita l’uomo a “perdere l’intelletto”, ma si trasforma in
un principio critico quando la si interpreta come una sollecitazione a perdere i
limiti dell’intelletto, a disperderne i dogmi, per scoprire nuovi orizzonti e nuove
dimensioni: quasi cioè un invito a ristabilire una circolazione tra pensiero e
vita, a uscire dall’incoerenza di un pensiero a cui non corrisponde, né può
corrispondere una realtà di vita. Ma ciò che gli uomini temono meno di tutto –
mostrando di non atteggiarsi con ciò in maniera socratica – è l’essere in errore,
è “l’errare” (p. 47). Al riguardo, K. fa la parodia del pensatore classico (dietro
al quale si nasconde ovviamente l’idealista hegeliano), dicendo che “un
pensatore innalza una costruzione immensa, un sistema, un sistema che
abbraccia l’intera esistenza e l’intera storia mondiale, e via di seguito; ma se si
osserva la sua vita personale, si scopre con stupore qualcosa di orrendo e di
ridicolo: che egli stesso non abita di persona questo in questo immenso
palazzo che s’inarca alto nel cielo, ma in un fienile lì accanto, o nel canile o al
massimo nell’appartamento del portinaio. Se ci si permettesse, pur con una
sola parola, di attirare l’attenzione su questa contraddizione, egli si
offenderebbe. Perché non teme di errare, se solo gli riesce di finire il sistema…
grazie a un errore” (p. 47).
23) Questa satira del pensatore che costruisce il sistema non vale però solo
contro Hegel, ma contro ogni forma di speculazione che esclude dal proprio
ambito la problematicità del possibile. Come arma contro la speculazione
Kierkegaard si serve in chiave destabilizzante del cristianesimo, interpretato
come paradosso, come scandalo, come assurdo. Come abbiamo visto, per
Kierkegaard il cristianesimo scandalizza l’uomo perché rappresenta una
posizione spirituale troppo alta, che vuol fare dell’uomo qualcosa che non può
essere accolto dalla mente umana. Del resto, “l’angustia di cuore dell’uomo
naturale non può concedere a se stesso di godere dello straordinario che Dio
gli ha destinato, dunque si scandalizza” (p. 87). Per il cristianesimo, il singolo
esiste sempre davanti a Dio, Ed è per amore di quest’uomo che Dio è venuto
nel mondo (si è fatto Cristo), supplicandolo quasi di accettare l’amore che gli
viene offerto. Ma ciò – come dice Kierkegaard – fa quasi uscire di senno,
soprattutto se non si possiede quel coraggio umile che osa credere in ciò. Se
questo coraggio manca, se l’uomo non è indotto cioè “a umiliarsi sotto lo
straordinario adorandolo” (p. 87), si determina allora lo scandalo, che è
“ammirazione infelice”, ovvero è una forma d’invidia che l’uomo rivolge contro
se stesso. L’invidia è infatti un’ammirazione nascosta. Ma mentre
l’ammirazione felice consiste nel rinunciare a se stessi, l’invidia consiste in
un’ammirazione di sé, ma del tutto infelice, essendo il risultato della scelta di
invidiare ciò che si ammira. Ecco, quindi, che il rapporto uomo-Dio è
riconducibile, sotto il profilo dello scandalo indotto dal cristianesimo, a un
rapporto di ammirazione-invidia. Chi si limita a difendere il cristianesimo, è
segno che non vi ha mai creduto; viceversa, l’entusiasmo della fede decreta il
trionfo del credente.
24) Questa è tra l’altro la Scuola del Cristianesimo, l’altra opera di natura
edificante, che riprende in qualche misura il tema delle Briciole di filosofia e
della Postilla, e che è stata scritta da Kierkegaard con lo pseudonimo di Anti-
Climacus, e dunque con la stessa maschera della Malattia per la morte.
L’imitazione di Cristo costituisce la vera scuola di cristianesimo, ma di un Cristo
paradossale e per certi versi ambiguo, che può essere imitato solo nella sua
miseria, nella sua sofferenza, nella sua morte. Ma in che cosa consiste davvero
questa scuola? Significa, secondo Kierkegaard, accettare per fede ciò che,
senza la fede, è impossibilità, scandalo, assurdo. Significa purificare le
categorie religiose da ogni contaminazione, a prescindere che si possano poi
raggiungere le vette della fede. Il fedele, cioè, non si scandalizza (malgrado
non manchino certo i motivi di scandalo), per cui la differenza tra lui e
l’incredulo non consiste nel riconoscimento obiettivo e storico che la realtà di
Cristo è paradossale. Che il divino scenda nel mondo sotto la veste miserabile
di servo, che patisca le offese più umilianti, lo scherno, le percosse, gli sputi, la
croce dei malfattori, è certo motivo di scandalo. Lo stesso fedele, che crede
alla divinità del Cristo, trova assurdo e scandaloso che la maestà di Dio finisca
nell’abiezione e nell’infamia; ma egli ricorre alle categorie della fede, che non
sono quelle della ragionevolezza e passa indenne attraverso il paradosso:
ovvero, non si scandalizza. D’altra parte, lo scandalo si presenta anche in
forma capovolta: e cioè che un uomo, nato da una donna, figlio di un
falegname, cresciuto in mezzo a un popolo come tutti gli altri uomini, si
proclami figlio di Dio e qualifichi come divini se stesso e il suo operato. Nella
Scuola del Cristianesimo si analizza a fondo la fenomenologia dello scandalo, in
particolare nella seconda parte intitolata: “Beato chi non si scandalizza di me”.
Al paradosso, allo scandalo, all’assurdo non si sfugge: a questo bivio giungono
fedeli e increduli e ognuno fa la propria scelta, assumendosi la responsabilità e
il rischio che deriva da essa. La scelta dell’incredulo lo riconcilia con la ragione,
con la tradizione e le leggi, con il mondo finito, con l’ordine costituito dello
stato o della chiesa. Viceversa, la scelta del fedele è un atto d’insubordinazione
individuale, che spezza un universo chiuso e consolidato nella sua struttura. E
nella storia, gli uomini hanno la tendenza a divinizzare l’ordine costituito e a
considerare sovversivo ed eretico ogni atteggiamento individuale di
indipendenza, di critica o di lotta.
25) Di qui, la critica che Kierkegaard sviluppa nel secondo capitolo della
seconda parte in ordine alla concezione socratica del peccato, secondo la quale
si peccherebbe infatti solo per ignoranza, ossia per difetto di conoscenza. A
prescindere dal fatto che la definizione socratica presenta per Kierkegaard il
limite di non chiarire in modo determinato cosa s’intenda per ignoranza, e
soprattutto quale ne sia l’origine, la questione affrontata è però un’altra e
riguarda il tentativo di precisare, in ordine al peccato, il rapporto tra
conoscenza e volontà. Per Kierkegaard speculazione e democrazia
rappresentano una pericolosa alleanza all’insegna di un umanismo in cui egli
ravvisa il vero nemico dello spirito. Egli opera quindi una sorta di sconfessione
dell’intelletto, della scienza, e di quello che in definitiva potremmo chiamare
l’uomo euclideo. Per lui, del resto, l’uomo non può comprendere il “contenuto
cristiano” (p. 99), dato che si tratta di un fenomeno che desta scandalo. Il
cristianesimo dev’essere creduto. La comprensione contiene infatti la possibilità
dell’uomo riguardo all’umano, ma il rapporto dell’uomo col divino sta nella
fede. Il cristianesimo è dunque, per Kierkegaard, qualcosa che gli uomini non
possono capire, un messaggio paradossale che non promette né benefici
materiali, né pace dello spirito. In Kierkegaard si è determinata quindi una
rottura col piano dell’umanità quotidiana e il cristianesimo è una realtà che la
comprensione umana non penetra né illumina. Per questo bisogna lasciare il
principio cristiano alla fede, ovvero lasciar decidere “alla fede se uno voglia
credere o no” (p. 99). Tutti i tentativi di capire sono d’altronde contraddittori e
voler capire ciò che non può essere capito è un controsenso insolente (cfr. p.
99 sg.).
26) L’insufficienza della concezione socratica del peccato, e della sua stessa
definizione, consiste nell’averlo legato a filo doppio alla conoscenza. Socrate è
il fondatore dell’etica e la sua impostazione è di tipo intellettualistico e
concettuale. Egli inizia dall’ignoranza, anzi si può dire che miri all’ignoranza (al
sapere di non sapere), ma proprio per questo – non essendo un pensatore
etico-religioso (e ancor meno dogmatico) – resta a distanza dall’idea cristiana
del peccato. Se infatti il peccato si configurasse come uno stato d’ignoranza, il
peccato stesso scomparirebbe, non esisterebbe più, dal momento che per
Socrate non si può dare che un uomo, conoscendo il bene, faccia il male, o che
addirittura sapendo che una cosa è male, si accinga comunque a farla.
Viceversa, per il cristianesimo ciò appartiene esattamente all’ordine delle cose,
e costituisce la base del concetto cristiano di peccato, che lo differenzia
qualitativamente dal paganesimo (che secondo Kierkegaard non sa infatti cosa
sia il peccato). La determinazione del peccato fornitaci da Socrate manca del
richiamo decisivo alla volontà e all’ostinazione. Del resto, la mentalità greca
era troppo intellettuale, troppo felice, troppo estetica, troppo ironica per
comprendere che un uomo, deliberatamente, possa tralasciare di fare il bene
o, per l’appunto, conoscendolo, si assuma volontariamente la responsabilità di
fare il male. Con la solita capacità dialettica Kierkegaard s’incarica di mostrare
come in base alla definizione socratica il peccato scomparirebbe e tale
concezione si caricherebbe di effetti comici. Infatti, per essa, il fatto che uno
non faccia il bene è da attribuirsi alla circostanza che non lo ha compreso, o
che al massimo s’illude di averlo fatto. Se l’avesse compreso, costui si sarebbe
infatti immediatamente disposto a farlo. Ma l’errore sta proprio nella mancanza
di determinazione dialettica nel passaggio tra comprendere e fare, laddove il
cristianesimo inizia proprio da tale passaggio, giungendo attraverso ciò a
mostrare come il peccato si nutra di volontà e a porre quindi in rilievo il
concetto di ostinazione. Il peccato s’installa nello iato tra comprendere e fare,
che sfugge del tutto alla spiegazione naturale e alla dialettica della filosofia
hegeliana per la quale il passaggio dal concetto al reale, dalla speculazione
all’azione è in qualche modo necessitato. D’altronde per Kierkegaard
l’ignoranza di cui anche Socrate parla è qualcosa di acquisito e, per così dire, di
meritato, se è vero – come Kierkegaard sostiene (cfr. p. 90) – che essa si lega
a un’attività, presente al fondo di noi, con la quale operiamo in modo
chiaramente cosciente per oscurare la nostra conoscenza – il che dimostra,
appunto, che il peccato non consiste nella conoscenza, ma nella volontà. Per il
pensiero greco (ma non per Socrate), non c’era alcuna difficoltà nel passare
dalla comprensione intellettuale all’agire, e in fondo anche la filosofia moderna
conserva il primato del razionalismo, quanto meno nella sua declinazione
cartesiana. Ma nel mondo della realtà, dove Kierkegaard incentra la figura del
singolo, questo tipo di passaggio dal comprendere al fare è assai meno lineare,
per cui nella vita spirituale “non c’è uno stato di quiete” (p. 95) – e se una
persona non fa il bene nel momento stesso in cui lo ha conosciuto, significa che
il fuoco della conoscenza in lui si sta affievolendo, e che la volontà sta
incominciando a scavare, determinando i primi effetti di un oscuramento della
conoscenza che si realizzerà gradualmente.
27) La visione cristiana oltrepassa quindi il mero insegnamento socratico, che
sembra (al pari di tutta la grecità) non avere il coraggio sufficiente per dire che
un uomo possa fare consapevolmente ciò che non è giusto, ovvero che
conoscendo il bene non possa scegliere di fare il male. Il Cristianesimo va oltre
Socrate, nel momento in cui richiede sia necessaria una rivelazione divina per
chiarire l’essenza del peccato e per gettare nuova luce sulla disperazione. Per
Socrate chi non fa il bene, è perché non l’ha compreso, mentre il cristianesimo
risale alle spalle di tale pensiero, affermando che in tale evenienza forse non
l’ha voluto comprendere, e se è così è perché di fatto non l’ha voluto. La
dottrina cristiana del peccato non tende quindi a edulcorare quella nozione di
peccato, la cui rivelazione è in funzione della gloria di Dio, così come lo è la
disperazione in quanto malattia per la morte. Per questo essa insegna che un
uomo può fare il male anche se comprende il bene, o comunque tralasciare di
farlo pur comprendendolo, In tal senso, la dottrina cristiana formula un’accusa
nei confronti dell’uomo: essa è “pura accusa contro l’uomo […] che il divino
come pubblico ministero si permette di depositare contro l’uomo” (p. 96). Da
tutto ciò si evince che il peccato è fortemente radicato nella volontà, e non
nella conoscenza, e che per mostrarne l’essenza c’è bisogno di una rivelazione
divina che fa tutt’uno con la possibilità dello scandalo. Da qui l’esigenza, dal
punto di vista cristiano, di completare la definizione del peccato data in
precedenza, inserendo a fianco del “davanti a Dio” una clausola che sottolinea
come l’uomo abbia saputo cos’è il peccato tramite una rivelazione divina (cfr.
p. 97).
28) La tesi che Kierkegaard sostiene si oppone tra l’altro, in linea con la
dogmatica classica, a quella definizione del peccato – in chiave panteistica
(Toland 1705, Dio come natura del mondo) – per la quale il peccato
rappresentava qualcosa di negativo, riducendolo quindi a debolezza, a
sensualità, a finitezza, a ignoranza. Ma se così fosse, il cristianesimo
risulterebbe insostenibile, laddove sono invece paradosso, fede e dogma a
formare il baluardo più consistente nei confronti di ogni paganesimo. Il peccato
non è negazione, così come il pentimento non è negazione della negazione
(togliere cioè, hegelianamente, il negativo). Ma a parte ciò, il peccato – nella
sua positività – non può essere compreso concettualmente, ma solo creduto in
ragione del suo rivelarsi paradossale. Il fatto però che il peccato sia una
determinazione positiva, non significa che sia impossibile toglierlo di mezzo:
anzi, è proprio il cristianesimo – unendo la sua concezione del peccato allo
scandalo e all’assurdo – a stabilire le condizioni più radicali per la sua
eliminazione. Come Socrate, Kierkegaard non ha un sapere già formato da
diffondere, ma esercita la sua maieutica nel tentativo di rianimare quel
cristianesimo che giaceva assopito nel grembo dell’epoca ne quale egli viveva.
Il problema di cui K. si fa carico è la difesa del principio d’interiorità, contro
una sua dissoluzione in uno spirito oggettivo, ovvero l’affermazione della
persona come identità di pensiero e vita e la rottura della sintesi opportunistica
che si era all’epoca determinata, tra spirito borghese e spirito cristiano. Il
cristianesimo non è, per Kierkegaard, obiettivamente comunicabile, in quanto
non fa appello alla ragione dell’uomo. Oltre che vissuto soggettivamente, esso
può essere però trascritto nel linguaggio della poesia. Tale trascrizione
indiretta e per molti versi immaginifica non è una comunicazione deformata,
ma almeno ha il vantaggio di conoscere la propria imperfezione, di non
presumere di essere il vero cristianesimo o, addirittura, un’edizione riveduta e
corretta del cristianesimo, come presume di essere il pensiero speculativo.
Kierkegaard ammonisce di continuo di non potersi dire cristiano, che il suo è
un cristianesimo poetico e che il cristianesimo è un sentiero così angusto e
impervio che nemmeno lui – che per tutta la vita ha lottato per affermarlo – è
capace di percorrerlo. Questa vetta religiosa, che nessuno sembra capace di
attingere, è l’idea limite della religiosità, e cioè la religiosità nella sua purezza
categoriale, nella sua autonomia.
29) Contro l’ottimismo umanistico della cultura liberale, contro la comicità del
pensiero sistematico che si autodefinisce teocentrico, che proietta l’assoluto nel
relativo, il divino nell’umano, creando un’eccessiva familiarità tra l’uomo e Dio,
Kierkegaard afferma l’assoluto paradosso, il paradosso dell’abisso qualitativo
esistente tra le sfere dell’uomo e di Dio. Il suo insistere sulla follia, sulla
singolarità, sull’eccezionalità di essere un cristiano, è la spina che Kierkegaard
vorrebbe mettere nella carne dell’epoca in cui viveva. Fin che vive nel tempo,
l’uomo è un esistente e non può astrarre dalla propria esistenzialità che lo
immerge nei limiti del mondo finito e storicamente condizionato. Il paradosso è
invece la misteriosa convivenza del tempo e dell’eterno o, meglio, la
disponibilità del tempo per l’eterno: ma questo rapporto è appunto l’assurdo
che non può essere trascritto in termini speculativi. Ogni tentativo di
spiegazione razionale dissolve, col paradosso, il cristianesimo stesso. Il
cristianesimo borghese e speculativo è, nel giudizio di Kierkegaard, ritorno al
paganesimo, confusione panteista, mollezza edonistica, amore conformista del
quieto vivere. Il cristianesimo è invece scomodo, è timore e tremore, perdita
dell’intelletto, disposizione al martirio, testimonianza della propria fede contro
il mondo. Il malinteso nei rapporti tra speculazione e cristianesimo si scopre
con l’incompatibilità tra sistema ed esistenza. Al riguardo, Kierkegaard si sente
un po’ come un cavaliere della fede, mandato sulla terra per lottare contro la
speculazione e gli abbagli del mondo finito. Egli è chiamato a scoprire il
malinteso della connivenza tra speculazione e cristianesimo, a ristabilire la
distanza infinita tra uomo e Dio. Con Dio non vi sono né vi possono essere
rapporti immediati. In primo luogo, occorre quindi rompere ogni immediatezza
pagana nel rapporto in questione, e tale rottura costituisce il primo atto
dell’interiorità, la prima pietra per costruire l’edificio della propria religiosità.
Dio, peraltro, non si rivela all’improvviso, come qualcosa che impressioni la
fantasia o richiami l’attenzione in maniera clamorosa. Nel silenzio,
nell’interiorità, nella faticosa dialettica dell’intimità che conquista se stessa
negandosi al mondo, Dio scende nell’anima, che non è mai però sicura di
possederlo. Tra maestro e discepolo – come sapeva Socrate, maestro di etica e
d’interiorità – non esiste un rapporto diretto. Ogni comunicazione diretta, ogni
possesso immediato della verità è malinteso, perché rende immanente la verità
nell’uomo e lo illude di essere il depositario della verità, l’illuminato a cui Dio si
è rivelato. L’unica conoscenza che abbiamo di Dio è negativa, intraducibile in
parole, incomunicabile agli altri, misteriosamente presente nell’intimità
dell’esistenza.
30) La fede non ha quindi nulla a che vedere con l’estetica, con l’etica, con la
speculazione. La fede è una sfera a sé, che non ammette malintesi o
mistificazioni di sorta. Nella fede tutto è incertezza, rischio, sconvolgimento dei
criteri di validità del mondo oggettivo. Solo nella dimensione della fede si
sfaldano, per Kierkegaard, le strutture umanistiche della logica e della moralità
obiettiva. Solo il rapporto con Dio rende precario l’universo costruito dall’uomo.
Se si toglie il rapporto assoluto e paradossale con Dio, se l’eterno come potere
supremo e indecifrabile per l’uomo, come possibilità di sconvolgere qualsiasi
calcolo umano non esistesse, avrebbero ragione i “professori dell’obiettività” e
non vi sarebbe alcuna possibilità di ricorrere contro le sentenze del tribunale
della ragione umana. In un mondo che la logica (e con essa la scienza) vuol
ridurre a necessità, il possibile irrompe quasi beffardo, in maniera ironica o
tragica. Contro lo spirito del sistema, la verità per Kierkegaard consiste
nell’audacia di scegliere ciò che obiettivamente è incerto con la passione
dell’infinità. Del resto, senza rischio non v’è fede, e la fede è appunto la
contraddizione tra l’infinita passione dell’interiorità e l’incertezza obiettiva. Se
possiamo cogliere Dio in maniera obiettiva, significa che non crediamo. Ma la
fede si paga, e si paga a caro prezzo col venir meno di ogni sicurezza obiettiva.
L’audacia consiste dunque nel salto in quella zona inquietante che è l’assurdo.
La speculazione, da parte sua, tenta di rendere tale zona sempre meno
inquietante, sempre meno assurda, volendo insieme aver fede e mettersi al
sicuro. Ma qui comincia appunto la commedia. Per mettersi al sicuro (o per
sentirsi al sicuro) si tenta, con approssimazioni e considerazioni obiettive, di
trasformare l’assurdo nel probabile, nel sempre più probabile, in un probabile
che quasi confina con la certezza. Ma con ciò la fede se n’è andata,
confondendosi col suo opposto, il sapere. La fede è invece tenere distinte le
categorie sul piano logico e riconoscere che la logica umana deve saltare nel
paradosso e nell’assurdo per accettare il mistero dell’esistenza. E l’esistere è
essere nel tempo come creatura finita e colpevole, ma al contempo essere
misteriosamente aperti a una realtà eterna e infinita, incommensurabile con
noi. Il paradosso naturalmente è Cristo, con la sua assurda vicenda mondana,
il paradosso è che la verità eterna è esistita nel tempo. Se prima il soggetto
trovava nel peccato l’impedimento a riconquistare se stesso per l’eternità, ora
non ha più bisogno di preoccuparsi, giacché ora la verità eterna sta dinanzi al
soggetto, per cui l’individuo può appropriarsene nell’esistenza.
31) Al cristianesimo ci si avvicina, dunque, in un atto di fede, che è anche un
atto d’amore, ma allo stesso modo com’è ridicolo chiedere a un innamorato la
dimostrazione logica del suo amore (p. 104), così è ridicolo che i poeti facciano
l’apologia del cristianesimo ed elenchino le ragioni per cui dev’essere creduto.
Il concetto non riesce infatti a penetrare la posizione etica più profonda del
cristianesimo: e cioè lo stato di peccato. Il peccato rinnega il concetto, e
questo dovrebbe ammetterlo la speculazione stessa, che però non si accorge
che nel rapporto col peccato c’entra l’etica che giudica sempre all’inverso della
speculazione e ad ogni passo si muove nella direzione opposta, perché l’etica
non astrae dalla realtà, ma si approfondisce nella realtà, operando
essenzialmente con la categoria trascurata e disprezzata dalla speculazione:
vale a dire, la singolarità (cfr. p. 120). Il peccato è infatti una “determinazione
del singolo” (p. 121). Come Kierkegaard dice in maniera immaginifica, il
cristianesimo si fa il segno di croce davanti alla speculazione, giacché la serietà
del peccato sta nella sua realtà, nel singolo: si tratta cioè di me o di te;
viceversa, nella speculazione si deve prescindere dal singolo, il che vuol dire
che dal punto di vista speculativo si può parlare di peccato solo con leggerezza.
La dialettica del peccato è diametralmente opposta a quella della speculazione.
E qui interviene appunto il cristianesimo, con la dottrina del peccato e perciò
col singolo (cfr. p. 121).
32) La via d’uscita dalla disperazione – che s’identifica col peccato – consiste
nella decisione eterna del credere: con questa decisione l’io si fonda in
trasparenza nella potenza che l’ha posto. Il singolo, il sé davanti a Dio; è
questa la conquista dell’infinità che si raggiunge solo attraverso la
disperazione. La disperazione è un fatto vissuto nella coscienza, cresce
qualitativamente con il crescere di questa. Quanto più il singolo è cosciente
della propria disperazione, tanto più è vicino a Dio e insieme però consapevole
della propria lontananza da esso. Ma alla soglia della decisione infinita, c’è il
passaggio attraverso l’accettazione del paradosso, di ciò che precisamente
ripugna al pensiero. Per Kierkegaard, l’idea della filosofia è la mediazione,
mentre quella del cristianesimo è il paradosso. Cristo stesso è l’eterno venuto
nel tempo, l’istante che è pienezza del tempo. Ma che l’eternità si faccia tempo
in qualcosa di esistente è una contraddizione che il pensiero non può accettare.
La non accettazione del paradosso è lo scandalo: la vera ragione per cui l’uomo
si scandalizza del cristianesimo è che esso è troppo alto. L’uomo, da solo, non
può nulla: non può che essere peccato e disperazione infinita, se Dio non si
muove per amore a colmare l’abisso. Dio si abbassa in Cristo verso l’uomo,
diviene maestro, redentore, riconciliatore; viene in incognito e viene come
servo; è dono gratuito di salvezza e insieme possibilità dello scandalo.
Scandalizzarsi è non accettare l’assurdo che il peccato dell’uomo possa
interessare Dio. Scandalizzarsi è non accettare il rischio, l’incertezza della fede,
che nessuna prova storica può togliere. La cristianità, riducendo il cristianesimo
a dottrina, la filosofia, pretendendo di comprendere tale dottrina, hanno voluto
abolire la possibilità dello scandalo, facendo del cristianesimo un paganesimo di
ordine sentimentale. Cristo non è però un momento di mediazione, ma un
segno di contraddizione, un segno che risveglia, attraverso la contraddizione
che lui stesso manifesta, l’attività di chi lo riceve in direzione della verità.
33) La fenomenologia del potenziamento della disperazione (e quindi del
peccato) è articolata in tre figure: a) la prima riguarda il chiudersi in sé del
peccato, assicurandosi che il bene non possa infiltrarsi da nessuna parte (cfr.
pp. 111 sgg.); b) la seconda riguarda il disperare del perdono: meglio, lo
scandalizzarsi di quel perdono di cui Cristo è portatore (scandalizzarsi per la la
cosiddetta “remissione dei peccati”, cfr. pp. 115 sgg.); la terza riguarda “il
salire dalla difensiva all’offensiva”: e cioè il peccato di abbandonare il
Cristianesimo (respingerne il contenuto fatto di alterità e peccato) in modo
positivo e affermativo (modo ponendo), dichiarandolo appunto una falsità (cfr.
pp. 126 sgg.). Ciascuna di queste forme si relazione a uno dei momenti della
Trinità. Questa tripartizione s’incrocia con la distinzione più volte segnalata tra
il voler e il non voler essere se stesso. La seconda parte dell’opera è sotto la
determinazione del voler essere disperatamente se stessi: il che significa
essere se stesso nella determinazione dell’essere peccatore, e dunque se
stesso nella determinazione della propria imperfezione. In questo senso il
crescere della disperazione nelle diverse figure del peccato raffigura un sé
disperato che diventa “sempre più decisamente se stesso” (p. 126), giungendo
a essere quasi perfetto nella disperazione. Il primo stadio, quello del disperare
per il proprio peccato, può essere posto sotto il segno del non voler essere se
stesso. Il sé non vuole avere nulla a che fare col bene, per cui si assicura
contro ogni possibilità di esserne contaminato e contro ogni pentimento
possibile. Il sé non vuole essere se stesso, (anche) perché ha perduto se
stesso. Nella seconda figura, ci si dispera per il perdono, e in essa sono
presenti entrambe le determinazioni. Il sé si ostina a non voler essere se
stesso, ovvero ad essere peccatore, ma – non riconoscendosi come tale – vuol
fare a meno del perdono (e della conseguente remissione). Infine, nell’ultima
forma, quella in cui si abbandona il cristianesimo, decretandone la falsità e la
menzogna, si giunge all’apoteosi del voler essere sé, per attaccare e in qualche
modo distruggere l’alterità. Lo scandalo della Croce viene cancellato, oppure
Cristo diviene addirittura un’invenzione del diavolo, per cui non c’è bisogno di
un uomo nuovo, di alcun paradosso, giacché tutto può essere compreso e
giustificato, e l’alterità – se dovesse persistere a volersi dare nella forma della
rivelazione paradossale – si qualificherebbe senz’altro come menzogna.

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