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Lezioni della seconda settimana
1) Peccato originale e peccato ereditario (peccaminosità). Il problema di una
genesi psicologica del peccato. Il rapporto tra la reale possibilità del peccato e
la libertà dell’individuo (del Singolo). L’origine del peccato non può essere
spiegata logicamente.
2) La dogmatica tradizionale non riesce a spiegare il peccato, ma lo
presuppone solo come idea. Procedendo a ritroso dal peccato del Singolo a
quello di Adamo – attraverso il peccato ereditario – la dogmatica non riesce a
spiegare la possibilità reale del peccato, ma solo la sua possibilità ideale, e cioè
la peccaminosità dell’uomo quale condizione oggettiva della possibilità del
peccato. Per effettuare un’indagine sulla possibilità reale del peccato è
necessario, quindi, effettuare un’analisi psicologica del fenomeno dell’angoscia
come condizione soggettiva della possibilità del peccato. Di qui la necessità di
fornire una nuova lettura del terzo libro del Genesi che tenga conto anche
dell’idea moderna di libertà.
3) Il difetto di tutta la filosofia moderna consiste, per Kierkegaard, nell’aver
messo tra parentesi l’idea cristiana di fondo secondo cui l’uomo è un peccatore.
Il limite delle dogmatiche tradizionali consiste nell’aver destoricizzato la figura
di Adamo, nell’averla estrapolata dalla storia del pensiero umano, che così
finisce per avere un inizio fantastico, un preludio divino, attribuendo così
un’importanza eccessiva al peccato d’origine, alla caduta del primogenitore.
4) Sotto il profilo epistemologico, ogni indagine specifica deve fare riferimento
a un campo determinato. Hegel sembra trasgredire tale condizione laddove
sostiene – come espressione del suo panlogismo – che tutto ciò che è razionale
è reale (e viceversa). In altri termini, la ragione sembra poter includere in sé la
realtà, per cui la logica non solo coglierebbe il reale, ma s’identificherebbe con
la realtà. Per Kierkegaard, invece, il campo della realtà è distinto da quello
della logica. Il campo della logica è in qualche modo astratto rispetto a quello
della realtà, che è dunque irriducibile al pensiero.
5) Al pari delle altre scienze, la logica non può cogliere la realtà effettiva nel
suo complesso. Se così fosse, la logica esaurirebbe la realtà, rendendo perciò
impossibile qualsiasi altra scienza. Viceversa, proprio la presenza di una
molteplicità di scienze discende dal fatto che ve n’è nessuna che possa
includere in sé la realtà esistenziale nella sua interezza. La realtà, infatti, è
multiforme, per cui pretendere di unificarla (o di omologarla) sarebbe come
«trovare tra cose diverse accordi di mere parole» (p. 15). Un accordo
meramente verbale non può corrispondere, dunque, a un’effettiva armonia.
Ogni scienza rimanda per così dire a un’altra, e ognuna ha un presupposto
scientificamente indimostrabile. Nella fattispecie, sia la psicologia sia la
dogmatica manifestano la necessità del presupposto e chiariscono il senso della
sua funzione. Per Hegel, invece, non c’erano presupposti, dal momento che
ragione e realtà s’identificano. Per Kierkegaard, la filosofia e la scienza non
sono in grado di cogliere la realtà come un tutto, ovvero di coglierne la totale
identità. Dietro alla posizione di Kierkegaard si avverte la presenza della critica
kantiana della metafisica, come scienza assoluta capace di cogliere la totalità
del reale. L’identità del tutto rappresenta un’astrazione e non va interpretata
comunque come un’identità sostanziale (ovvero della sostanza). Anche il
principio d’identità (A=A) non può essere interpretato in termini
sostanzialistici, come sembra invece avvenire nella metafisica aristotelica,
intesa come prote episteme (come scienza prima). Anche Dio, come principio
assoluto, non può essere concepito come realtà identica. L’esistenza di Dio non
è dimostrabile, secondo Kierkegaard, con argomenti logici. Richiamarsi
all’identità del tutto (della realtà nella sua interezza) significa far cadere le
differenze e Hegel sembra essere incorso in questo errore, lasciando in primo
luogo cadere la differenza tra logica e realtà. Per Kierkegaard, Dio non può
essere afferrata logicamente, facendo rientrare la teologia nella metafisica.
6) Secondo Kierkegaard, Hegel non sarebbe riuscito – attraverso la dialettica –
a superare davvero il principio d’identità e la sua immediatezza. Per
Kierkegaard, la dialettica di Hegel è falsa, così come lo sono la sintesi e la
mediazione tra opposti. Riferimento (p. 15) alla terza sezione del secondo libro
della Logica di Hegel, intitolato «la realtà» (die Wirklichkeit). La parola “realtà”
non è la realtà concreta ed esistente. La categoria della realtà è una pura
forma logica. La logica è uno svolgersi di tautologie, nel senso che nelle
conclusioni si trova ciò che è già contenuto nelle premesse. La concretezza
della realtà non si configura, però, come tautologica e necessaria. Non c’è
identità tra razionale e reale, tra logico ed esistente, il che comporta anche una
differenza qualitativa irriducibile tra il campo dell’esistenza e quello della
trascendenza (Dio). Anche per questo l’uomo non può essere in comunicazione
diretta con Dio, giacché una comunicazione del genere si tradurrebbe in
identità.
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Lezioni della quarta settimana
1) Una filosofia autentica è forse in grado di trasformare, dunque, sia l’etica
(prima) sia la psicologia. Quest’ultima non può avere il peccato come proprio
oggetto d’indagine, ma può comunque indagarne il presupposto, ovvero il
modo in cui il peccato sorge, in quanto è invece la teologia dogmatica a
occuparsi del fatto che esso nasca. L’oggetto di tale psicologia riformata sarà
dunque l’angoscia come “presupposto disponente” (p. 26), come elemento
costante del peccato. La psicologia studia dunque la possibilità del peccato e
non la sua realtà (il cui studio spetta invece alla dogmatica). La psicologia non
esamina in termini naturalistici l’elemento da cui di continuo nasce il peccato,
giacché non lo riconduce a una sorta di necessità causale. Del resto, il peccato
è un atto libero, è un fare che la psicologia studia dal punto di vista della sua
possibilità. La possibilità del peccato non è, infatti, la sua realtà, dal momento
che “la libertà non è mai possibile ma, appena è, è reale” (p. 26: con
riferimento a una dimostrazione dell’esistenza di Dio). Per la psicologia il
peccato non è dunque un oggetto, né un fatto, mentre l’etica lo considera
qualcosa da stigmatizzare e su cui giudicare negativamente, ma di cui solo la
rinascita nella fede e nello spirito riuscirà liberarsi. I fatti che la psicologia
studia non vengono valutati da essa: la psicologia non giudica il peccato,
giacché si tratta di una realtà che è fuori do essa, mentre è l’etica a poter
viceversa condannare il peccato, laddove solo la fede è in grado però di
assolverlo.
2) La psicologia spiega dunque come sia possibile il peccato, quale ne sia la
vera predisposizione. Si tratta di capire su che cosa però si fondi tale
possibilità. La psicologia raccoglie determinati fatti e si serve di essi, ma non
può comunque affrontare la questione di perché l’uomo sia costitutivamente un
peccatore. Per questo, nell’approfondire la possibilità del peccato, essa risulta
per così dire al servizio di un’altra scienza, nel senso che “tende verso la
dogmatica” (p. 27), la quale è in grado di continuare il lavoro della psicologia –
approfondendolo, però, su un altro piano – in quanto presuppone il peccato
originale. La dogmatica si occupa dell’effettiva realtà del peccato concepito
come peccato originale. Tale aspetto funge da fondamento anche della scienza
psicologica. Mentre la psicologia studia la possibilità reale del peccato, la
dogmatica fornisce una spiegazione del peccato originale, senza però risolverlo
sul piano del pensiero o della logica, ma individuando la “possibilità ideale” del
peccato (p. 27), e cioè il presupposto o la premessa ideale della possibilità
reale del peccato studiata dalla psicologia. La prima etica ignora il peccato,
mentre la seconda – che si ritrova ad affrontare la realtà del peccato nel
proprio ambito – non ha nulla a che vedere con la possibilità del peccato e,
soprattutto, con il peccato originale. Quanto alla realtà del peccato, la
psicologia può intervenire solo per un “equivoco” (p. 27).
3) Kierkegaard si occupa senz’altro di psicologia nella misura in cui studia la
possibilità della realtà del peccato nell’uomo. La psicologia non è vista però
come scienza autonoma, ma come disciplina che opera in funzione della
dogmatica. La possibilità del peccato ci conduce infatti a considerarlo il
presupposto esistenziale che esige salvezza. Finché la fede non ci salva però
dal peccato, ci troviamo in presenza di vari tipi di angoscia. L’angoscia non
viene cioè studiata da Kierkegaard per se stessa, ma sempre in rapporto alla
fede, alla salvezza, alla rinascita. Studiando l’angoscia in rapporto alla fede,
Kierkegaard orienta tale tema in direzione della dogmatica, che riconosce il
presupposto contraddittorio del peccato quale fondamento dell’esistenza
umana. Essendo orientata alla dogmatica la psicologia non può rientrare,
dunque, nello “spirito soggettivo” (p. 27), come voleva invece Hegel, ma si
trasforma invece nella dottrina dello spirito assoluto, che per Kierkegaard non
è lo spirito ma la fede. A differenza della prima etica, che è estranea a tutto
ciò, l’etica seconda presuppone la dogmatica (p. 27), svincolandosi al tempo
stesso dalla metafisica classica. Di qui però la necessità di ripartire dalla
dogmatica, che per prima ha indicato il presupposto del peccato.
4) A partire dal primo capitolo, Kierkegaard si propone di analizzare il
problema del peccato sottoponendo a una radicale reinterpretazione il terzo
libro del Genesi. Kierkegaard non è soddisfatto delle soluzioni che le diverse
dogmatiche tradizionali offrono riguardo al problema della genesi del peccato.
Tutte tendono a destoricizzare la figura di Adamo, sottraendolo alla storia del
genere umano, che finisce così per vedersi attribuito un inizio fantastico (p.
29). Con ciò si rischia di attribuire un significato eccessivo al peccato
commesso dal “primo uomo”, alla caduta del primogenitore. Viceversa,
l’essenza della figura di Adamo consiste nell’essere individuo e umanità al
tempo stesso. Il peccato diviene infatti possibile solo nell’incontro tra specie e
individuo. Il peccato di Adamo – che reca in sé l’umanità tutta – si ripercuote
certo sugli altri, ma non nel senso che ciascuno erediti il peccato commesso da
Adamo, alla maniera in cui si contrae un debito o, peggio ancora, una malattia.
Ogni individuo può rivivere, infatti, l’esperienza di qualunque altro uomo,
ritrovandosi nella stessa dimensione di scelta e nella stessa ambiguità tra bene
e male in cui in fondo si è trovato anche Adamo. Il problema è dunque quello
di sapere come avvenga, in una situazione angosciosa che ciascuno può
rivivere, che l’uomo commetta peccato. Il problema sarà dunque affrontato
esaminando l’angoscia nei suoi tratti relazionali, che mostrano come il peccato
entri nel mondo per mezzo di un individuo che in sé è però anche l’umanità.
5) Kierkegaard non accetta il “presupposto fantastico-dialettico” da cui muove
la dogmatica cattolica, secondo cui Adamo avrebbe ricevuto da Dio un dono
soprannaturale, consistente in una sorta d’integrità originaria perduta a seguito
del peccato. Kierkegaard non crede a tale condizione originaria, poiché essa –
spacciata per storica – finirebbe per slegare Adamo dal resto del genere
umano, quando invece è proprio la storia del peccato a cominciare da lui.
Ugualmente però egli critica la dogmatica protestante, e segnatamente gli
articoli di Smalcalda (p. 30), giacché in essa il peccato ereditario era visto
come una corruzione della natura, non comprensibile cioè dalla ragione umana.
Kierkegaard rivolge critiche anche alla cosiddetta dogmatica federale (p. 29),
che aveva fatto di Adamo il “rappresentante dell’intero genere umano2,
cosicché tutti gli uomini avrebbero potuto intrattenere un rapporto col peccato
solo in virtù della loro relazione con Adamo e non per le colpe relative ai loro
atti. Accettare quest’impostazione vorrebbe dire che il salto qualitativo del
peccato è avvenuto solo con Adamo, mentre dopo di lui si può parlare solo di
diffusione e propagazione del peccato a livello quantitativo. Sia nella tradizione
cattolica, sia in quella protestante, Adamo sarebbe stato messo fuori dalla
storia “in un modo così fantastico da essere l’unico uomo escluso dalla
redenzione” (p. 31). Il primo peccato di Adamo avrebbe perciò una valenza
qualitativa diversa rispetto a tutti gli altri peccati, per cui anche il primo
peccato di ogni altro uomo sarebbe sollevato da ogni responsabilità. Ma per
Kierkegaard non si può spiegare il peccato originale prescindendo da Adamo e
viceversa, anche perché l’individuo non è un semplice esemplare di una specie
(animale), ma ha un rapporto dialettico con il proprio genere.
6) Per Kierkegaard non può essere, dunque, che il peccato di Adamo sia la
causa del peccato degli altri uomini, che a loro volta ne sarebbero solo
condizionati. Ancora una volta, infatti, Adamo sarebbe posto al di fuori della
relazione tra individuo e umanità. Se Adamo fosse la causa del peccato, egli
rivestirebbe il ruolo particolare di unico peccatore, per cui gli altri uomini non
sarebbero responsabili di un peccato non commesso liberamente. La storia
stessa risulterebbe impedita, nel suo svolgimento, da una totale alienazione del
passato. Viceversa, il peccato non viene semplicemente ereditato, quasi che il
peccato originario di Adamo abbia prodotto una “peccaminosità” che si sarebbe
misteriosamente propagata come un’epidemia (p. 41) per tutto il genere
umano. In realtà tra gli individui non regna una continuità spiegabile in termini
causali, dato che se così fosse ogni determinazione qualitativa deriverebbe
quantitativamente dai dati in qualche modo prestabiliti, facendo sì che tra
genere e individuo s’imponga una sorta di ordine deterministico. Dal punto di
vista kierkagaardiano, ogni individuo si trova in uno stato d’innocenza e di
angoscia che può farlo ricadere nel peccato, dal momento che si cade nel
peccato per libera scelta e non per una peccaminosità ereditata. Ne consegue,
che il primo peccato o il peccato originario di ogni singolo individuo ha una sua
determinazione qualitativa, che non si lascia dedurre logicamente né spiegare
storicamente, poiché il peccato entra appunto nel mondo con la repentinità del
“salto”. Non è affatto vero, quindi, che con il peccato di Adamo la natura si
sarebbe corrotta, diventando peccaminosa, giacché in questo modo si finirebbe
per sottrarre le colpe dei singoli da una libera responsabilità individuale.
7) Tra l’innocenza e la colpa non c’è un passaggio orizzontale, ma interviene
un “salto” qualitativo. Il peccato entra nel mondo perché prima non c’era,
essendovi infatti uno stato d’innocenza. Il passaggio dall’innocenza al peccato
non può essere regolato in termini logici, attraverso categorie che non
ammettono il salto, come cioè si potesse passare dall’una all’altro mediante
una continuità logica necessaria. Ancora in polemica con Hegel, Kierkegaard
non coglie la presenza di salti nella concezione della storia hegeliana, ma solo
di una contrapposizione logica quantitativa che resta comunque illusoria,
stante che la sintesi è già per così dire presupposta nell’opposizione di tesi e
antitesi. Tra innocenza e peccato Kierkegaard coglie invece una contraddizione
di segno qualitativo, tale da spezzare – in direzione della verticalità
(trascendenza) – una dialettica altrimenti consegnata a un piano orizzontale
puramente quantitativo. Tra innocenza e peccato l’identità invece si spezza ,
cosicché l’entrata del peccato nel mondo è conseguente al perdersi
dell’innocenza. Una dialettica di tipo esistenziale comporta sempre il richiamo
alla responsabilità dell’individuo che fa entrare il peccato nel mondo. Ancora
una volta si avverte, in chiaroscuro, la distanza maturata da Kierkegaard nei
confronti della concezione hegeliana della storia in cui sembra prevalere
l’unicità dello spirito.
8) La storia umana, in quanto storia che prende le mosse dal peccato,
ricomincia sempre con la scelta di peccare propria di ciascun uomo. La realtà
del peccato presuppone come possibilità solo se stessa, e la peccaminosità –
che non è l’effetto di un processo di determinazioni quantitative (cfr. p. 34) –
entra nel mondo con il peccato di ciascun individuo, poiché se la peccaminosità
precedesse il peccato, il peccato sarebbe tolto. Contrapponendosi al “mito2 che
accompagna l’interpretazione tradizionale del terzo libro del Genesi,
Kierkegaard sostiene che anche nel caso di Adamo la peccaminosità entrò in lui
con il suo peccato d’origine. Ciò vale per ogni altro individuo. Su questa base,
si può eliminare dunque la concezione mitica di stampo intellettuale che fa
iniziare la specie con un individuo che è, di fatto, fuori di essa, ovvero che fa
iniziare il genere umano con l’unico individuo che non partecipa di tale storia.
9) L’osservazione di Kierkegaard porta a notare che il peccato non si può
spiegare ricorrendo a un presupposto che ne sia la causa logica. Tanto meno si
può pensare che la causa del peccato risieda nello stato di peccaminosità come
suo presupposto. In questo modo ci s’imbatterebbe in un’evidente circolarità,
dato che la peccaminosità sembra essere stata creata apposta per spiegare il
peccato. Ma la natura del peccato si dissolverebbe se prima di esso ci fosse
davvero la peccaminosità, dato che il peccato è tale nella misura in cui prima
c’è invece l’innocenza. Il peccato entra sempre nel mondo attraverso un salto e
non lo si può spiegare – alla maniera della logica di Hegel – facendolo
orizzontalmente discendere dalla peccaminosità (cfr. p. 33). Il peccato porta
viceversa con sé la peccaminosità. Prima di peccare l’uomo si trova in uno
stato d’innocenza che può comunque precipitarlo nel peccato. È uno stato
ambiguo in quanto, per un verso, mostra in positivo i tratti dell’innocenza,
mentre per un altro contiene la possibilità di saltare al di là dell’innocenza
stessa. Tale ambiguità è costitutiva dell’innocenza, dato che essa può saltare
nel peccato, ma può anche trattenersi dal farlo. In questa ambiguità si afferma
anche l’ambivalenza tipica dell’angoscia. A partire dal terzo paragrafo (pp. 38
sgg.), Kierkegaard ribadisce la propria differenza rispetto ad Hegel, che aveva
in qualche modo confuso l’etica con la logica. L’innocenza non è infatti
l’immediato che possa essere tolto (cfr. p. 399 come qualcosa di negativo
(sotto il profilo logico) proprio per assicurarne il superamento. Dal punto di
vista etico, l’innocenza sembrerebbe piuttosto essere qualcosa da mantenere,
anche perché se l’innocenza fosse qualcosa di negativo non le si potrebbe
contrapporre il peccato. L’innocenza non è né un mitico stato di perfezione al
quale si desidera ritornare, né uno stato d’imperfezione (qualcosa di negativo)
nel quale non si può rimanere. In base allo stesso racconto del Genesi,
l’innocenza non presenta alcuna immediatezza, essendo solo sinonimo
d’ignoranza (cfr. pp. 40 sgg.).
10) L’innocenza si perde solo col peccato, ovvero col salto qualitativo, e non
per l’accumularsi della storia del genere umano su ciascuno di noi. La perdita
dell’innocenza non è frutto di una determinazione quantitativa, ma è qualcosa
che avviene di continuo ad opera ad opera di un individuo. L’innocenza è detta
ignoranza in quanto non può conoscere il peccato. La proibizione di peccare –
ad esempio il divieto di mangiare dall’albero della conoscenza – può far sorgere
il desiderio di peccare, ma un desiderio che dovrebbe quindi ignorare il peccato
stesso. Su questo terreno, di natura senz’altro psicologica, la spiegazione
fornita dalla psicologia dovrebbe comunque mantenersi entro determinati
limiti, in quanto la psicologia non è in grado di spiegare il salto qualitativo che
determina il peccato, ma solo d’illuminare la situzione d’ambiguità che connota
lo stato d’innocenza. La caduta nel peccato non può si può dunque tradurre
nella trasgressione di un divieto, ovvero nel risveglio della concupiscentia,
poiché in questo modo la psicologia avrebbe già oltrepassato i limiti delle
proprie competenze (cfr. p. 43). Kierkegaard chiede invece alla psicologia di
mantenersi nella propria “elastica ambiguità” (43), anche perché tale disciplina
“può spiegare solo il modo di arrivare alla spiegazione”, dovendo soprattutto
“guardarsi dal voler far credere di spiegare ciò che nessuna scienza può
spiegare” (41).
11) L’innocenza – come possibilità di peccare che però è al contempo
ignoranza del peccato – si carica di angoscia. Nel paragrafo 5 (cfr. pp. 44 sgg.)
Kierkegaard inizia a lavorare sui concetti di anima, corpo e spirito.
Nell’innocenza, l’uomo è in un rapporto speciale tra anima e corpo – un
rapporto caratterizzato dal fatto che lo spirito è in stato di sogno. Il rapporto
tra anima e corpo non è ancora ben definito: la loro differenziazione è
possibile, ma non si è ancora realizzata. Lo spirito sognante non ha ancora
preso coscienza di sé. Il sognare rappresenta una posizione intermedia tra il
dormire e la veglia, costituendo un sapere di sé ancora inautentico.
Nell’innocenza non si ha ancora coscienza della distinzione tra anima e corpo.
Se tale distinzione si manifesterà in forma di opposizione (o perfino di
contraddizione) l’uomo cadrà nel peccato, sperimentando così la differenza tra
bene e male. Anche la Bibbia – a differenza delle “fantasticherie cattoliche” al
riguardo (p. 44) – nega che l’uomo conosca, nella situazione d’innocenza, la
differenza tra bene e male. Lo spirito si pone come rapporto tra anima e corpo,
laddove il rapporto richiede la differenza tra i due termini. Nello stato
d’innocenza tale differenza non è nota: in esso, anima, corpo e spirito sono
ancora indistinti, pur essendo attraversati da un presentimento di possibilità
positive e negative. In un caso (positivo), lo spirito costituirebbe una relazione
tra anima e corpo che arricchisce l’uomo in termini conoscitivi, senza fargli
smarrire l’innocenza; nell’altro (negativo), la conoscenza è ottenuta opponendo
anima e corpo nella loro differenza, dando luogo così al peccato. Il peccato
dunque insorge quando una differenziazione armonica garantita dallo spirito si
trasforma in una contrapposizione in cui i termini differenti si oppongono tra
loro alla maniera del bene e del male. Nella situazione umana in cui sono
presenti entrambe queste possibilità (positiva e negativa) non si dà però di
fatto né lotta né inquietudine, giacché si è al cospetto di un semplice nulla che
genera angoscia. Sognando, lo spirito proietta fuori sé la propria realtà, che
l’innocenza coglie però alla stregua di un nulla.
12) Nello stato d’innocenza l’uomo non ha ancora fatto il salto nel peccato,
ignorando il contenuto delle due possibilità che gli si prospettano. A tale livello
l’uomo ha solo la possibilità del possibile, senza sapere cosa potrà avvenire
quando tale possibilità indeterminata si determinerà. L’uomo non sa questo
perché è nell’innocenza: egli sente che qualcosa è possibile, ma finché non
opera il salto ciò costituirà sempre un nulla. Proprio il fatto che la possibilità
venga ignorata nel suo contenuto fa sì che l’uomo nell’innocenza sia
nell’angoscia. L’uomo proietta quindi ciò che non conosce fuori di sé, palesando
così nell’angoscia il mistero profondo dell’innocenza.
13) L’esistenza umana è segnata, per Kierkegaard, dall’angoscia, e anzi da
molteplici forme di angoscia. Nell’interpretazione del Genesi che egli delinea, lo
spirito è chiamato a sintetizzare elementi che lo caratterizzano
strutturalmente, ma che al tempo stesso confliggono (anima e corpo,
temporalità ed eternità). L’uomo si trova quindi nelle condizioni di doversi dare
un’identità precisa, e cioè di doversi scegliere, avendo però di fronte anche la
possibilità del fallimento, quale fattore che produce angoscia. Questo preciso
stato d’animo, consistente nel dover porre in relazione elementi contraddittori
che si trovano in lui ancora indistinti, è ciò che lo predispone al peccato.
14) Nello stabilire il rapporto dell’angoscia col sogno, Kierkegaard indica
l’appartenenza alla psicologia della determinazione (angoscia9 dello spirito
sognante (cfr. p. 44). Nel sogno, a differenza della veglia, ogni differenziazione
è sospesa, risultando come un nulla appena accennato. Lo spirito è rapporto
tra anima e corpo, ma nell’innocenza tale rapporto è ancora per così dire
inconsapevole (solo presagito). Il rapporto tra anima e corpo diverrà
consapevole solo a livello coscienziale. L’angoscia si pone a metà tra
l’impossibilità animale di creare tale rapporto e la possibilità umana di
determinarlo. Nello stato d’innocenza questo rapporto è possibile ma non
ancora reale, per cui lo spirito si angoscia nel tentativo di realizzare una
possibilità che si dilegua come un nulla. L’angoscia si determina, quindi, nel
momento in cui lo spirito cerca di porre la sintesi, di diventare se stesso e darsi
una configurazione definita (un’identità precisa), poiché nel momento in cui è
chiamato a porre tale relazione esso è ancora un nulla.
15) L’angoscia relativa allo stato d’innocenza è indeterminata, in quanto priva
di contenuto reale. Questo aspetto ci fa pensare alla trattazione dell’angoscia
sviluppata da Heidegger, per il quale l’angoscia è non solo mancanza di
determinazione, ma è l’impossibilità fondamentale di qualsiasi determinazione.
L’angoscia, come pura possibilità, ovvero come situazione esistenziale che
fronteggia l’infinità del possibile, si distingue dal carattere ristretto (e per così
dire mirato) della paura, può definirsi quindi come “la realtà della libertà, come
possibilità per la possibilità” (p. 44).
16) È con il salto che si passa dal possibile al reale, cadendo così nel peccato.
Al cospetto delle infinite possibilità che gli si dischiudono, l’uomo sembra
negare Dio stesso – come possibilità infinita – affermando la propria realtà
finita. Nel peccato, e dunque nella colpa, si rivela perciò già, in forma peraltro
negativa, il carattere infinito della trascendenza.
17) L’ambiguità psicologica dell’angoscia si mostra nelle sue determinazioni
dialettiche: “un’antipatia simpatica e una simpatia antipatica” (p. 44). Il
risveglio dello spirito (dal suo essere sognante) prelude al momento della
scelta, in cui il compito di determinarsi in piena libertà è avvertito dall’uomo
come segnato dal pericolo del naufragio e dall’errore. L’angoscia lo prende,
quindi, come “vertigine della libertà”, di fronte a una scelta che non avviene
mai nella pura indifferenza. La scelta di optare per il finito piuttosto che per
l’infinito avviene per il fatto che la libertà risulta a tal punto “imbrigliata
dall’angoscia” da restarne sopraffatta, quasi ridotta all’impotenza. Nell’angoscia
l’uomo presagisce la possibilità di realizzarsi nella libertà, ma al contempo di
compiere una sintesi sbagliata che determinerebbe la sua caduta o il relativo
scacco. L’ambiguità dell’angoscia passa attraverso il fatto che in essa si
presenta la possibilità dell’infinito. In un certo senso l’angoscia non è colpa,
essendo posta nell’innocenza, come appare ad esempio nel caso dei bambini,
che sono angosciati nella “ricerca dell’avventuroso, del mostruoso, del
misterioso” (p. 44). Più in generale, però, l’angoscia è caratterizzata da
ambiguità e da ambivalenza. Per un verso chi pecca è innocente in quanto
agisce in preda all’angoscia, e cioè a una potenza estranea che lo cattura. Per
un altro egli è però colpevole in quanto si è come lasciato cadere nell’angoscia,
ribellandosi all’infinito in nome del finito. Nella struttura psicologica umana
l’angoscia si configura come “amata e temuta” insieme (cfr. 45), per cui è una
forza al contempo amica e nemica. Con questa forza l’uomo si trova in una
relazione ambivalente. Ciò si ripercuote sul piano dello spirito che è unità e
distinzione di anima e corpo, per cui lo spirito è una forza ostile nel momento
in cui ostacola il rapporto tra anima e corpo, ma è una potenza amica in
quanto vuole istituire un vero rapporto tra essi (cfr. p. 45 sg.). Il rapporto
dell’uomo con tale potenza ambigua riguarda dunque anzitutto il rapportarsi
dello spirito con sé, un rapportarsi che si declina anzitutto in forma di
angoscia.
18) L’angoscia, intesa come mostrarsi della libertà nella possibilità, è un tratto
specificamente umano. Solo l’uomo può provare angoscia del nulla. L’animale,
invece, non prova angoscia in quanto nella sua naturalità non è determinato
come spirito. L’angoscia è il sintomo della contingenza dell’uomo e del suo
essere creato, nonché dell’insicurezza che segna l’esistenza umana. In quanto
però l’uomo è esposto alla libertà possibile, l’angoscia lo designa anche come
un essere più che naturale. L’angoscia presuppone, infatti, che l’uomo
esperisca la propria infinità sotto forma di eternità spirituale, per quanto ciò si
verifichi in connessione alla finitezza degli aspetti corporei e temporali di cui è
intessuta l’esistenza umana. Nell’angoscia, l’innocenza è portata al limite. Essa
non è però “brutalità animalesca” ma è “ignoranza”, in quanto determinata
dallo spirito, ed è al tempo stesso angoscia in quanto la “sua ignoranza dello
spirito ha per oggetto il nulla” (p. 44).
19) Interpretazione del passo del Genesi (cfr. 46 sg.) a partire dalla celebre
proibizione espressa da Dio con parole che Adamo non poteva però
comprendere, non essendo in grado di cogliere quella differenza tra bene e
male che, solo mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, si sarebbe
potuto cogliere. L’angoscia non sa ciò che è proibito, ma sa di poter fare
qualcosa di proibito. Kierkegaard dice, al riguardo, che “il divieto angoscia
Adamo, poiché sveglia in lui la possibilità della libertà” (p. 46). Il nulla entra
ora a far parte dell’innocenza, determinando la “possibilità angosciante di
potere”. L’angoscia è sempre espressione del rapporto che lo spirito intrattiene
con se stesso. Dopo il divieto c’è però la condanna (cfr. p. 47). Anche per
comprendere l’idea di terribile legata a tale divieto occorreva però aver
commesso il peccato. Ne risulta invece solo l’angoscia con la sua ambiguità,
che spinge l’innocenza alla situazione estrema, risultando appunto in angoscia
rispetto a ciò che è vietato e alla pena. L’innocenza non è colpevole ma sente
di essere ormai perduta. La psicologia, non potendo spiegare la caduta, ovvero
la discontinuità del salto qualitativo, non può spingersi oltre. La psicologia
rimanda sempre, infatti, alla dogmatica.
20) Alla proibizione segue la condanna (cfr. p. 47). Anche ciò non poteva però
essere compreso da Adamo prima del peccato. Tra la situazione angosciosa che
caratterizza lo stato d’innocenza e la caduta vera e propria c’è ancora un
abisso. L’innocenza manifesta angoscia rispetto al divieto, ma non è colpevole.
L’angoscia è relativa all’incipiente perdita dell’innocenza. Nell’ultimo paragrafo
(sesto) del primo capitolo, Kierkegaard ripercorre il racconto della caduta nel
Genesi, avendo in mente in primo luogo di sfatare l’idea che si tratti di un
mito. Naturalmente si parla della creazione di Adamo ed Eva. accennando al
fatto che la donna sarebbe il “sesso più debole” e, proprio per questo – senza
che ciò comporti una maggiore imperfezione rispetto all’uomo – anche più
angosciata (cfr. p. 48 n.). La problematicità del racconto consiste in primo
luogo nel fatto che Dio abbia rivolto ad Adamo delle parole che questi non può
comprendere, ma soprattutto nell’aver evidenziato – attraverso la figura del
serpente – che la tentazione viene per così dire dal di fuori. Per Kierkegaard ciò
costituisce una contraddizione sia rispetto alla Bibbia, sia passo di San
Giacomo in cui si dice che Dio non tenta nessuno e non è tentato da nessuno,
giacché ognuno è tentato da sé.
21) La psicologia non può spiegare la caduta nel peccato, in quanto si tratta di
salto qualitativo. L’analisi psicologica della genesi del peccato muove dallo
stato d’animo dell’angoscia inteso come libertà imbrigliata. Tale analisi
consente d’illustrare il presupposto della caduta senza ricorrere alla dimensione
della natura o fare riferimento all’astuzia di Satana. Dal punto di vista
psicologico la caduta si spiega con l’angoscia della libertà, in cui l’individuo si
trova di fronte contemporaneamente alla realizzazione di sé e allo scacco. Al
riguardo, le scelte degli individui non sono conseguenze di condizioni esistenti:
il salto non è perciò un passaggio ricostruibile sotto il profilo logico o razionale,
né costituisce un atto di libertà accessibile all’osservazione empirica.
22) Nessuna determinazione quantitativa può produrre un incremento
qualitativo. L’angoscia rende possibile il peccato e in qualche modo fa
propendere ad esso. Tale predisposizione non va compresa, però, in termini
biologico-genetici, essendo piuttosto un momento costitutivo della libertà. In
tal senso, è sbagliato, per Kierkegaard, parlare di un peccato originale come di
un’ereditarietà o di una strutturale peccaminosità della natura umana, poiché
ciò significherebbe mettere in questione la libertà e responsabilità dell’uomo.
La peccaminosità non s’identifica mai con la finitudine umana. Il peccato,
infatti, è il risultato di un libero rapporto del singolo con sé, poiché altrimenti
verrebbe meno sia l’imputabilità del singolo, sia la bontà della creazione.
Viceversa, il peccato è unicamente il presupposto di se stesso.
23) Nel racconto biblico si dice che il peccato entrò nel mondo e con esso fu
posto l’elemento sessuale. Kierkegaard disapprova però questa visione, in
quanto non poteva esserci differenza sessuale nello stato d’innocenza e
d’ignoranza in cui si trovava Adamo, essendo il suo spirito solo sognante.
Adamo non era infatti ancora sintesi di anima e corpo. Se nell’animale la
differenza sessuale si sviluppa per istinto, nell’uomo essa si pone invece nella
relazione tra anima e corpo garantita dallo spirito. La sessualità viene dunque
raggiunta nel momento in cui lo spirito diviene reale. Per Kierkegaard, la
peccaminosità non è la sensualità, ma “senza peccato non c’è sessualità e
senza sessualità non c’è storia” (p. 50). L’uomo è sintesi tra anima e corpo e
tale sintesi è una relazione in cui il corporeo è in rapporto con l’assoluto e
l’eterno. Con ciò, l’uomo matura la consapevolezza di essere un punto di
mediazione tra Dio e mondo. Tale consapevolezza può tradursi però in peccato
allorché il punto d’incontro s’intende unicamente costituito dalla sessualità,
mentre si trasformerà in redenzione quando l’uomo giungerà a concepirsi come
nato nello spirito. Di qui l’affermazione kierkegaardiana secondo cui la vera
nascita dell’uomo è la rinascita nello spirito, quasi che egli venisse al mondo
cioè una seconda volta.
24) Sulla problematicità del racconto biblico della seduzione e sulla figura del
serpente, nonché sulla dottrina tradizionale della concupiscenza, vale a dire in
ordine al desiderio o alla brama in special modo di piaceri sensuali. La
tentazione non può venire, secondo Kierkegaard, dal di fuori, e la
concupiscenza non restituisce il carattere specificatamente umano del peccato
e dell’ambiguità tipica dell’angoscia. Il legame tra libertà e angoscia va sempre
colto in rapporto alla concretezza della libertà. La libertà, per Kierkegaard, non
è libero arbitrio o libertà d’indifferenza. il momento della scelta non attua in
una situazione di neutralità o equidistanza tra bene e male. Una libertà
(astratta) di tal genere rappresenterebbe una mostruosità concettuale. La
libertà non precede la decisione, ma si realizza in essa. La libertà, non è mai
solo possibile: non appena è, è reale. La possibilità della realtà, che precede
l’attualizzazione della libertà stessa, non è poter scegliere, a discrezione, il
bene o il male (cfr. p. 50). Anche le Scritture non ammettono ciò. La possibilità
coincide col potere: di conseguenza la scelta è essenziale alla libertà. Laddove
non si esercita la scelta, la libertà è una mera illusione, un’astratta finzione.
Inoltre, la libertà è una facoltà legata strettamente al piano esistenziale
dell’individuo, per cui non è una facoltà che consenta di scegliere in maniera
per così dire indifferente o arbitraria. La libertà si esprime in maniera autentica
laddove l’individuo sceglie la propria realizzazione (e non il proprio fallimento).
25) L’angoscia come mediazione tra possibilità e realtà, ovvero come
“determinazione intermedia”, che non spiega però il carattere qualitativo del
“salto”, né è in grado di fornirne una giustificazione etica. L’angoscia è una
libertà vincolata, imbrigliata in se stessa e non condizionata nel senso della
necessità (cfr. p. 50). Il trapasso dalla possibilità alla realtà avviene in base a
tale determinazione intermedia, e non attraverso categorie quantitative, come
nel caso della logica dialettica hegeliana. Qui, semmai, le categorie coinvolte
sono quelle di peccato, di colpa, di trascendenza, di fede e di redenzione. Nella
sua pura possibilità, l’angoscia mostra come il peccato non sia entrato nel
mondo per mera necessità, o attraverso un atto di libero arbitrio puramente
astratto. Ciò che sta a fondamento del peccato è la “libertà di potere”, per cui
non si può spiegare attraverso la logica come il peccato è entrato a far parte
del mondo (cfr. p. 51).
26) Nessuna scienza può dunque spiegare il peccato: la psicologia può solo
descriverne la situazione predisponente. L’azione del peccare risulta, quindi,
scientificamente inspiegabile. Così come il peccato non può essere logicamente
dedotto attraverso un raziocinio logico, così l’uomo non si salva attraverso
concetti, parole o conoscenze di ordine scientifico, ma solo con un atto di fede.
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Lezioni della sesta settimana
1) Nel quarto capitolo (cfr. pp. 109 sgg.) Kierkegaard esamina l’angoscia che
scaturisce dal peccato nel singolo, in cui ora l’oggetto dell’angoscia è qualcosa
di determinato, giacché – essendo stata posta la differenza tra bene e male –
l’angoscia ha smarrito la sua ambiguità dialettica. Il peccato nasce dalla
vertigine della possibilità allorché, nella libertà assoluta della scelta, l’uomo
propende per il negativo. Nelle condizioni di possibilità assoluta l’uomo è del
tutto libero e si trova al cospetto dell’eterno. Nello svolgimento storico, l’uomo
si muove però in una dimensione orizzontale in cui ogni passo – che non è
frutto di una concatenazione meccanica – viene posto mediante un salto,
poiché il peccato “entra nel mondo sempre a questo modo” (p. 109).
Kierkegaard torna a sottolineare il carattere non astratto della libertà, che non
va concepita allo stregua di un generico libero arbitrio o, per così dire, di una
libertà d’indifferenza, anche perché la “libertà è infinita e sorge dal nulla” (p.
110). Nella prospettiva delineata da Kierkegaard, scegliere nuovamente di
peccare significa aggravare la situazione, poiché il peccato si rinnova e si
potenzia in ogni nuova situazione di possibilità. A causa del peccato, nessuna
situazione storica mostra di avere un valore assoluto, nel senso che nessuna
verità umana può coincidere con l’assoluto. Se così fosse, infatti, il divenire
storico sarebbe la “pienezza dei tempi”, trasformando così la storia
nell’incarnazione dell’assoluto. Viceversa, solo nell’incarnazione del bene in una
situazione storica ciò può avvenire, e segnatamente attraverso l’incarnazione
di Dio in Cristo.
2) Nel primo paragrafo Kierkegaard introduce la questione riguardante
l’angoscia del male. Rispetto alla libertà perduta che – come possibilità
assoluta – era anche libertà del bene – il peccato appare in questo caso come
qualcosa di negativo, come una “possibilità tolta” e una “realtà ingiustificata”
(p. 111). Essere nel peccato significa però riconoscere che non bisognerebbe
essere in tale situazione, per cui esso andrebbe negato per riconquistare la
libertà. Il peccato, proprio perché è tale, ha costretto colui che pecca, l’ha
condizionato al male – così come la statua del Commendatore tiene prigioniero
Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart (cfr. p. 111). Per un verso dunque
il peccato è prigioniero di se stesso, ma per un altro non vuole esserlo. Il
peccato è una realtà ingiustificata e un male per così dire abusivo sia per le
eventuali conseguenze future del male commesso, sia per la possibilità di
commettere di nuovo un male già commesso. “Per quanto sia profonda la
caduta dell’individuo, esso può cadere ancora più in basso e questo ‘può’ è
l’oggetto dell’angoscia” (p. 111). L’angoscia ha quasi il compito di negare tale
realtà ingiustificata e di tenere viva la coscienza del peccato, impedendo ad
esso di mettere “radici nell’individualità” (p. 111). Ne consegue che, data che
sua funzione in parte positiva, non è auspicabile liquidare l’angoscia in maniera
incondizionata.
3) Da un lato l’uomo ama il peccato, dall’altro però vorrebbe essere libero,
senza essere cioè imprigionato dal peccato. Su questo piano inizia una sorta di
sofistica in difesa del peccato, attraverso cui l’uomo cerca varie giustificazioni
per il suo voler al contempo peccare e non peccare, ovvero per amare il
peccato senza riconoscerlo però come tale. Tale sofista del peccato o, per
meglio dire, questo “sofisma del pentimento” (cfr. p. 113 sg.), in base al quale
ci si vorrebbe giustificare del peccato senza peraltro rinunciare ad esso, può
esser vinto solo da una maieutica dell’angoscia che lascia libera all’uomo solo
la via della fede. Al riguardo Kierkegaard afferma che l’angoscia sorge anche
dalle conseguenze del peccato. Tuttavia, finché l’angoscia nasce, l’individuo
può sempre sperare di salvarsi. L’individuo non sarebbe angosciato se non gli
mancasse qualcosa, e più precisamente il bene che ha perso. Sotto questo
profilo, l’angoscia è un indice positivo, nel senso che più il peccatore è tale, più
l’angoscia è debole, non essendovi un’effettiva preoccupazione per la
situazione peccaminosa.
4) A partire da p. 112, Kierkegaard descrive il sottile gioco dell’angoscia,
consistente nel fatto che il peccatore matura una coscienza del peccato, ma al
tempo stesso cerca di spiegare in altro modo il peccato per non essere
costretto a riconoscerlo. Spesso il peccatore evoca, ad esempio, delle
determinazioni quantitative, come quando si riconosce di aver fatto qualcosa di
negativo, ma che in definitiva ciò che si è commesso è quasi nulla. Il peccato
non è quantità ma qualità, per cui una volta posto esso dev’essere solo tolto.
ponendo al suo posto qualcosa di qualitativamente altro. Per questo motivo,
togliere il peccato significa saltare dal piano della quantità e della finitezza a
quello della qualità e dell’infinito proprio della fede.
5) Nella sua più profonda realizzazione, la coscienza del peccato che si esprime
nel pentimento è però cosa rara. Tra l’altro, nella sfera religiosa non di deve
parlare di genialità come nelle altre sfere (politica, estetica o filosofica).
Nessun uomo può essere responsabile, infatti, di non mostrare genialità ad es.
in campo artistico, mentre ogni uomo è responsabile di peccare, proprio perché
invece può non voler commettere peccato. Il problema sorge quando l’angoscia
sfocia in una forma di pentimento inautentica, e cioè in un senso di colpa che si
rattrista in maniera puramente estetica per il peccato commesso e le
conseguenze che ne derivano, senza che ciò si accompagni a un vero
cambiamento di vita. Un pentimento segnato dall’angoscia segue il peccato
“passo per passo, ma è sempre in ritardo di un istante” (p. 112), cosicché
invece di togliere il peccato, ne risulta direttamente al servizio. Da un lato, un
pentimento inautentico riconosce il peccato per ciò che è – ovvero come una
realtà giustificata – ma da un altro non prende sul serio il male compiuto, non
riuscendo perciò di fatto a reintegrare la libertà. In tal senso, un pentimento
così concepito non può eliminare il peccato, ma solo rattristarsene, giacché la
contrizione in quanto tale non serve a liberare l’uomo. In questo modo si attua
solo un meccanismo di difesa con cui si cerca di tenere a bada l’angoscia,
risparmiando cioè nell’elaborazione della colpa a fronte di un atteggiamento
che lascia intendere di soffrire terribilmente per essa. L’angoscia che
accompagna tale pentimento non è più orientata al futuro, risultando – non
senza un ripiegamento vittimistico – la punizione naturale per il peccato
commesso. Tale forma di pentimento non riesce perciò a trovare una via
d’uscita e l’individuo che si pente in maniera inautentica tende a giustificare le
proprie scelte, assolvendosi in parte e non considerandosi comunque del tutto
responsabile per le conseguenze del male commesso. Di qui il rischio di
divenire preda di una catena irresolubile di sensi di colpa, che lo trascinano
ancor più nel peccato, in assenza di un vero cambiamento. Così facendo,
l’uomo rischia anche l’assuefazione al peccato, fino a far quasi scomparire
l’angoscia del male.
6) A p. 112 Kierkegaard descrive due casi di angoscia. Nel primo, l’angoscia
opera perché l’uomo si rende conto che il peccato dev’essere tolto, per cui
“l’angoscia si fa sentire di più” quanto più si sente la necessità di eliminare il
peccato. Nel secondo caso l’uomo si angoscia perché sente di aver intrapreso
un cammino nel quale il peccato diventa sempre più grave. Se in questo caso
l’angoscia diminuisce, significa che l’uomo non si angoscia più per il fatto di
peccare e che la “conseguenza del peccato trionfa” (p. 112). Nel primo caso
l’angoscia c’è perché c’è il peccato, anche se il peccatore non vuole confessare
la presenza del peccato stesso, interpretando in qualche modo il proprio
angosciarsi come un tentativo di cancellarlo. Nel secondo caso, la realtà
dell’angoscia è invece essenzialmente rivolta “alla possibilità esteriore del
peccato”, con un ulteriore allontanamento da un percorso di liberazione dalla
situazione peccaminosa. C’è poi una forma ancor più grave di angoscia, che
Kierkegaard descrive citando un verso del Re Lear di Shakespeare: “O
capolavoro della natura distrutto” (p. 112). Re Lear si duole di sé, ma non ha
la forza per mutare il proprio destino. Come nel caso del pentimento
inautentico, anche qui il peccato – considerato nelle sue conseguenze – viene
visto come una sorta di punizione, quasi cioè che le conseguenze del peccato
possano punirlo col pentimento che fanno sorgere nel peccatore. È chiaro però
che in questo quadro l’individuo si pente, ma si lascia però cadere nuovamente
nel peccato e vincere dal dolore per il peccato commesso. “Qui l’angoscia è al
suo culmine. Il pentimento è uscito di senno e l’angoscia è elevata alla potenza
del pentimento. [...] Il peccato vince. L’angoscia si getta disperatamente nelle
braccia del pentimento” (p. 112 sg.). Il sofisma che il “pentimento impazzito
può generare” consiste nel far ritenere al peccatore di peccare al fine di
pentirsi, e non di pentirsi per aver peccato. Da questo circolo sofistico si può
uscire, secondo Kierkegaard, solo con il salto nella fede. Questa ha infatti la
forza per condannare la follia del pentimento, riconoscendo che il pentimento –
in tale accezione – costituirebbe a sua volta un nuovo peccato. “L’angoscia
dissangua il pentimento, lo priva della sua forza, gli fa venire il capogiro” (p.
113), per cui è solo la fede che può realizzare l’estinzione dell’angoscia,
portandola a rovesciarsi nel suo contrario e dunque a far nascere ciò che è in
grado di cancellare il peccato attraverso il progressivo consumarsi dell’angoscia
e l’avvento della fede che ne prende il posto. Queste forme di angoscia
appartengono, secondo Kierkegaard, all’angoscia del male, ovvero
dell’angoscia provata da colui che, trovandosi nel male, soffre però di esso
avendo bisogno del bene. In tal senso, l’angoscia di cui si parla qui non
rappresenta una chiusura totale al bene, né un suo rifiuto radicale.
7) Nel paragrafo 2 (cfr. pp. 115 sgg.) s’inizia a trattare dell’angoscia del bene,
ovvero del fenomeno del demoniaco. L’elemento demoniaco si trova al fondo di
ogni uomo e costituisce una forma precipua d’angoscia e di disperazione. Il
demoniaco viene descritto da Kierkegaard come uno spirito chiuso in se stesso,
avvolto nella propria individualità: più in particolare, è l’uomo non libero che
intende chiudersi nella propria non libertà, a dimostrazione che tale non libertà
è ancora un fenomeno della libertà (cfr. p. 119 sg.). Se l’angoscia del male
nasce in ragione di un male commesso, quella del bene nasce – in un individuo
che è comunque immerso nel male – per il bene che è al di fuori lui e che per
questo lo angoscia. Questa situazione è demoniaca perché colui che vi si trova
si rifiuta di riconoscere il bene, vuol negare il bene al punto da non volere che
esistesse. L’indemoniato si chiude in se stesso proprio perché vuole il proprio
male, vuole essere tormentato da ciò che è negativo proprio perché non è
buono. Se la libertà si qualifica per la sua espansione e per il senso di apertura
che promana da essa, la non libertà dell’indemoniato è invece prigioniera di sé,
rifiutandosi a ogni forma di contatto e di comunione. L’angoscia del bene si
qualifica dunque per indurre l’individuo a restare nella condizione di colpa,
opponendosi ad ogni cambiamento. Il rifiuto di accettare qualsiasi aiuto od
offerta di salvezza porta l’indemoniato a restare centrato su di sé, cercando
delle sicurezze nella dimensione del finito, nel tentativo disperato di restare
centrato su di sé nelle forme della chiusura totale, dell’assenza di
comunicazione e di un atteggiamento taciturno.
8) Per caratterizzare la condizione degli indemoniati Kierkegaard si richiama
ripetutamente alla condizione in cui il male non vuole avere nulla in comune col
bene, chiudendosi in sé proprio per separarsi dal bene il più possibile. Tanto
più è decisa questa volontà di separazione, tanto più grande è l’angoscia
nell’indemoniato. Il voler essere a tutti i costi altro rispetto al bene
contrassegna l’essenza del comportamento demoniaco. La volontà di
rinchiudersi nella propria solitudine, di ripiegarsi su di sé, di non comunicare e
di negare ogni aspetto relazionale dell’esistenza si traduce, nel demoniaco, in
un’idolatria di sé, in una sorta di feticismo e di affermazione del proprio essere
indemoniato. La distinzione tra angoscia del male e angoscia del bene viene
ribadita da Kierkegaard dicendo che non basta la “schiavitù del peccato” per
caratterizzare la situazione demoniaca (cfr. p. 115 sg.), la quale si verifica
allorché l’individuo non è più libero di fronte al bene, per cui ogni suo
movimento si rivolge al male. In questo quadro s’inscrivono gli accenni ai tratti
fisiognomici – mimica bestiale, ghigno animalesco – che l’angoscia demoniaca
lascia sulla figura e sul volto del demoniaco (cfr. p. 115).
9) In primis, il demoniaco viene considerato dal punto di vista estetico-
metafisico, nel senso che esso viene visto in relazione al problema metafisico
del male (cfr. 116 sg.). Su questo piano i pensieri che il demoniaco suscita non
devono essere però estetici, cioè non devono essere mere espressioni di dolore
o rappresentazioni drammatiche riguardanti il destino. La critica di Kierkegaard
si rivolge qui a quella forma di compassione superficiale che compatisce senza
alcune partecipazione al dolore, per quanto un misterioso rapporto con esso ci
debba pur essere. In quanto superficiale, tale compassione è ben lungi dal fare
il bene di chi soffre, servendo solo da riparo per l’egoismo di chi la attua. Con
questo genere di compassione si tenta infatti di sfuggire dal porre il misterioso
problema del male che l’uomo avverte in maniera tormentosa. Al riguardo, la
fuga assume anzitutto una veste estetica, riducendosi – in una sorta di messa
in scena – a espressione puramente sentimentale del dolore nel rifiuto di ogni
autentica partecipazione.
10) La considerazione del demoniaco dal punto di vista etica (cfr. pp. 117 sgg.)
si fonda invece sul principio che se qualcuno è indemoniato o dà segni di
squilibrio, significa che è colpa sua, avendo appunto commesso qualcosa di
male. Sotto questo profilo, potrebbero essere considerate alla stregua di colpe
molte manifestazioni psicologiche anormali o devianti. Secondo Kierkegaard, la
severità e anche la crudeltà riservata a tali casi di demoniaco andrebbero
salutati come espressione di serietà. Questa concezione priva di umana pietà
sembra inscriversi nella tradizione delle superstizioni e delle torture medievali,
dimenticandosi del tutto dell’atteggiamento cristiano che cura attraverso
l’amore. Il tratto illiberale di questi pensieri torbidi e della stessa severità
medievale viene erroneamente attribuito da Kierkegaard a sant’Agostino (cfr.
p. 118), quando si tratta invece di posizioni riconducibili a Tertulliano. Tale
concezione, assai più che paradossale, viene però ritrattata da Kierkegaard
qualche pagina dopo. D’altronde, non sarebbe bastato, al riguardo, rifugiarsi
dietro all’identità dello pseudonimo, di cui non è necessario condividere tutti i
punti di vista.
11) Se dal punto di vista estetico-metafisico il demoniaco viene considerato
come un destino incomprensibile, che non dev’essere però affrontato in termini
di atteggiamento compassionevole tipico di chi si limita a commiserare il dolore
altrui sulla base del desiderio inconfessato di allontanare da sé la sofferenza,
dal punto di vista etica il demoniaco è visto invece come una colpa da
condannare in maniera dura. Quest’approccio rappresenta per Kierkegaard un
deciso passo avanti, nel senso che prende sul serio la persona nella sua
dimensione etica, aprendo così a una concreta possibilità di liberazione (dal
male e dall’angoscia). In questo senso anche la severità della punizione poteva
essere riscattata come una sorta di purificazione, ben distante dal
sentimentalismo compassionevole tipico della società moderna. In ogni caso,
Kierkegaard stabilisce che non si può venire a capo del demoniaco in chiave
naturalistica con mezzi meramente scientifici, ma anche ricorrendo a interventi
sociali.
12) L’angoscia della colpa può anche rivelarsi però in manifestazioni di ordine
psicopatologico che rende il demoniaco “oggetto di trattamento medico” (p.
118). Il farmacista e il medico si alleano per isolare il paziente, in modo che gli
altri non s’impressionino. Ma poiché si tratta di un’angoscia conseguente al
peccato, è evidente che non può bastare un estrinseco trattamento medico.
Occorre ricondurre infatti il fenomeno all’unitarietà dell’uomo, essendo questi
una sintesi di corpo e anima effettuata dallo spirito, nell’ambito della quale
ogni alterazione di una delle componenti si riflette sul carattere organico
dell’esistenza umana. Nell’approccio medico al problema demoniaco si
riverbera un certo ideale illuministico, che si nutre di una fede forse eccessiva
nelle capacità terapeutiche della medicina, in cui però prevale un rapporto col
malato fatto d’insincerità e ipocrisia. “Nel nostro tempo coraggioso non si osa
avvertire il malato che sta per morire; non si osa chiamare il sacerdote, per
paura che egli muoia dallo spavento; non si osa dire a un paziente che negli
stessi giorni è morto uno della stessa malattia” (p. 118). Da qui la malintesa
benevolenza con cui si isola il malato, nel quadro di una sostanziale mancanza
di sincerità. I medici tendono spesso a coprire la loro incapacità con
atteggiamenti compassionevoli, che tradiscono però inumanità e cinismo.
Citando una novella di Hoffmann, Kierkegaard dice che un atteggiamento del
genere si manifesta ad esempio quando il medico curante, conscio dei propri
limiti, dopo aver esclamato in maniera pomposa: “questo è un affare serio”, si
dilegua mostrando di considerare il malato come u caso clinico da trattare solo
in maniera statistica (cfr. p. 118).
13) Kierkegaard passa poi a sviluppare la propria personale analisi psicologico-
esistenziale del demoniaco, cercando di determinare in maniera più accurata
tale nozione. S’inizia dicendo che “nell’innocenza non si può parlare di
demoniaco” (p. 119), ma ciò non va certo legato all’idea fantastica di un “patto
col male”. A tale altezza, Kierkegaard corregge il tiro rispetto alle posizioni
sostenute in precedenza, osservando che la crudeltà esercitata nei confronti
del demoniaco è di fatto contraddittoria, in quanto nell’assunto della punizione
si presume che chi viene punito abbia la capacità di piegare la punizione in
senso positivo, indirizzandola alla salvezza. Il demoniaco, per Kierkegaard, può
determinarsi in varie situazioni. La possibilità del demoniaco è infatti implicita
nella possibilità in generale, ovvero nella libertà che – una volta perduta – si fa
sentire come angoscia del bene. Il demoniaco è, in generale, la condizione in
cui può “prorompere, in ogni momento, la “singola azione peccaminosa” (p.
119). Il demoniaco è “l’angoscia del bene”, Nell’innocenza, l’angoscia interna
ad essa è in funzione di una libertà non ancora posta, di cui sono presenti le
infinite possibilità. Trasposta sul piano della libertà, l’innocenza – nell’infinito
delle possibilità – può anche peccare. Ma se pecca, in essa si produrrà
l’angoscia per il male in cui è caduta la libertà, e tale angoscia servirà a
ricondurre l’uomo all’innocenza, ovvero a riconquistare un’innocenza che è più
dell’innocenza non ancora persa. La riconquista dell’innocenza comporta
dunque la vittoria sul peccato, orientando alla salvezza. Nell’angoscia del bene,
invece, non si aspira più all’infinito della libertà, come nell’innocenza, e cioè a
un infinito che contiene di fatto anche il bene. Nel demoniaco il rapporto è
inverso a quello che si registra nello stato d’innocenza. In esso, infatti, che è
caratterizzato dall’angoscia del bene, c’è il rifiuto per così dire programmatico
della salvezza. La libertà è posta qui “come non libertà, perché la libertà è
perduta” (p. 119). Il demoniaco, nella sua essenza, funge da limitazione del
possibile. Nell’infinita possibilità tutto è possibile – sia il bene, sia il male – ma
il demoniaco parte negando la possibilità, finendo quindi per convincersi che
l’uomo scelga necessariamente il male. Chi crede che il male costituisca l’unica
realtà, è già di fatto catturato dal male nella misura in cui, considerandolo la
sola possibilità, gli conferisce un valore quale fondamento del mondo e della
vita. Tuttavia, il progetto del demoniaco sembra incontrare degli ostacoli, dal
momento che negare la libertà non è mai del tutto possibile e l’angoscia – che
l’uomo non è riuscito a dominare – appare il segno del bisogno della libertà
negata. Peraltro, la non libertà esercita sempre sull’uomo una notevole
seduzione, giacché per converso la libertà è sinonimo di rischio, d’inquietudine
spirituale, di una consapevolezza spesso dolorosa, cosicché per lo più si tende
ad evitarla. La libertà sembra essere infatti gravata da un eccessivo senso di
responsabilità e gli uomini sembrano per lo più soffrire per una libertà che li
precipita in uno stato d’inquietudine, che ci si affretta ad anestetizzare
ricorrendo a concezioni dogmatiche o mitiche.
14) Kierkegaard dice che il demoniaco è “la non libertà che vuole chiudersi in
se stessa” (p. 119), senza però riuscire a farlo davvero, restando sempre esso
“in un certo rapporto col bene” (p. 119). In ogni caso si tratta di un
atteggiamento di chiusura liberamente voluto, attraverso cui ci si chiude
solipsisticamente in sé. La caratterizzazione essenziale del demoniaco si
traduce nel suo essere taciturno (il demoniaco non spiccica parola,
monologizza, parla con se stesso), per cui tale fenomeno si manifesta con il
rifiuto di ogni forma di comunicazione (cfr. p. 120). L’angoscia del bene e della
libertà si qualifica perciò per essere soprattutto angoscia della comunicazione,
poiché l’individuo demoniaco può uscire dalla propria solitudine e chiusura solo
laddove gli viene rivolta una parola che lo invita a ravvedersi.
15) Con la parola “il fascino dell’incantesimo scompare. Perciò il sonnambulo si
sveglia quando è chiamato per nome” (p. 123). In tal senso la parola assume il
significato di una rivelazione, anzi di una prima forma di liberazione ed
espressione di salvezza. Il demoniaco, infatti, ha piacere nell’isolarsi, nel
crogiolarsi nella propria illibertà, proprio perché l’angoscia che prova riguarda il
giungere a cogliere ciò che davvero egli è. Per questo rifiuta di comunicare,
privilegiando il silenzio e la menzogna alla stessa verità (cfr. p. 120). A ben
vedere, però, il demoniaco non può sciogliere tutte le relazioni e i legami con
l’esterno, giacché se anche solo proferisce parola entra in contraddizione con
se stesso. La parola è per essenza comunicazione, essendo di fondamento
relazionale: è il primo segno che l’uomo non vuole essere solo e, se dichiara di
volerlo essere, per il solo fatto di esprimere tale volontà egli si pone in un
rapporto comunicativo con qualcosa di altro. La parola è quindi prova della
falsità di ogni solipsismo, vale a dire è la prova che qualcosa trascende il
pensiero e l’ordine simbolico del discorso. Il carattere significativo delle parole
rimanda non solo a fatti, cose o persone, ma all’intera sfera delle possibilità
non ancora realizzatesi. Anche se l’indemoniato parla contro il bene, le parole
testimoniano del fatto che egli vuole ancora il bene, pur simulando di non
volerlo. La parola è ciò che può salvare, quindi, l’indemoniato. L’indemoniato si
chiude infatti in se stesso, provando angoscia del bene, proprio perché capisce
paradossalmente di essere inevitabilmente in rapporto con ciò che vorrebbe
negare, liberandosene. Proprio tale dialettica lo rende però sempre più aperto
alla possibilità. Del resto, “la taciturnità è la rivelazione involontaria” (p. 125).
La stessa tortura del silenzio imposta a un “delinquente ostinato”, che non
vuole confessare, riesce a “finalmente a far prorompere, involontariamente, la
confessione” (p. 121). Per Kierkegaard, “nessun uomo che abbia una cattiva
coscienza può sopportare il silenzio” (p. 121), e ciò costituisce la prova di come
al fondo di ogni uomo che ha deciso di chiudersi nella taciturnità vi sia il
bisogno di comunicare, giacché “tutta la disperazione, tutti gli orrori del male
compresi in una sola parola non destano lo spavento che può suscitare il
silenzio”. Certamente, l’indemoniato continuerà a sostenere di non aver nulla
in comune con il bene, ma dice ciò perché vuole negare quella comunione che
sente comunque di avere. Di qui tra l’altro l’affinità, che Kierkegaard non poté
negare, tra la categoria del demoniaco e quella hegeliana del negativo. Ciò che
emerge da questo contesto, è che la parola significa rivolgersi già al bene, non
importa se in maniera diretta o indiretta. Di conseguenza, il linguaggio
sembrare trovare un fondamento religioso, in quanto sembra tradursi nella
fede in un messaggio di salvezza e nella possibilità stessa dell’amore.
16) Il ritorno a comunicare rappresenta, dunque, la vittoria sul demoniaco che
è negazione della parola e affermazione contraddittoria del silenzio. Come
logos, la parola è incarnazione del divino nel mondo. Nell’affermare che la
parola è, a un tempo, testimonianza e possibilità della fede, Kierkegaard rileva
tra l’altro l’importanza che “il fanciullo sia educato sul’esempio della taciturnità
nobile e preservato da quella fraintesa” (p. 122). Ma ritornando a trattare
dell’essenza del demoniaco, la continuità di tale fenomeno sembra innanzitutto
consistere nella sua mancanza di contenuto, e dunque nella noia e nella
monotonia, come del resto sembra attestato dal fatto che il “diavolo impiegò
3000 anni a riflettere per trovare il modo di far cadere l’uomo” (p. 127).
L’individuo demoniaco si contrae in sé proprio in ragione suo vuoto interiore e
della mancanza assoluta di contenuto. Tuttavia, va rimarcato che l’illibertà del
demoniaco è il risultato di un opporsi volontariamente al cambiamento, per cui
– come dice Kierkegaard – “la non libertà è un fenomeno della libertà e non si
può spiegare con le categorie della natura [...in quanto] in essa c’è sempre una
volontà che è più forte del desiderio” (p. 130 nota). Ricercando la radice ultima
dell’atteggiamento demoniaco, ci s’imbatte in due modi in cui un individuo può
arrivare a perdere la libertà o in cui, per così dire, la libertà si trasforma –
rovesciandosi – in illibertà.
17) Il primo modo di perdita della libertà è quello somatico-psichico (cfr. p.
131 sg.). Esso si manifesta quando la libertà – congiurando contro se stessa –
si unisce al corpo nel tentativo di ribellarsi all’anima e allo spirito, producendo
uno stato di abbruttimento e di perdizione bestiale, in cui l’individuo finisce per
accettare la propria condizione di miseria e di disperazione. Il secondo modo è
invece quello “pneumatico” (cfr. pp. 132 sgg.), che si ha quando il rapporto tra
verità e libertà porta a uno scollamento di stampo conoscitivo, per cui subentra
il rifiuto da parte dell’individuo di lasciarsi compenetrare dalla verità anche sul
piano dell’azione e dell’esistenza tutta. La perdita somatico-psichica della
libertà può assumere “sfumature innumerevoli”, così “impercettibili” da potersi
scoprire solo con “l’osservazione microscopica”, ma anche altre così dialettiche
da poter essere ricondotte sotto la propria categoria solo attraverso un uso di
essa assai elastico (cfr. p. 131 sg.). Al livello più basso si registra comunque
quella condizione di abbruttimento che determina, nell’individuo, il sottrarsi ad
ogni contatto col bene. La stranezza è però che anche un individuo siffatto ha
bisogno tuttavia di unirsi a individui in preda alla stessa angoscia del bene e
della libertà, con l’esito così di dar luogo a quella “socialità dell’angoscia” (p.
132), che sembra assai più forte di una semplice forma di amicizia.
18) Il demoniaco è espressione, quindi, della perdita della libertà e del rifiuto
nei confronti di essa ma, più in generale, del rifiuto dell’amore e di riconoscere
il valore della parola che è il corrispettivo della perdita della fede. La fede,
infatti, è quel principio di armonia che rende l’uomo organicamente congiunto
in sé, nella sintesi tra corpo e anima realizzata dallo spirito. Si capisce, perciò,
che l’uomo diviene persona non in ragione della propria realtà biologica o di
una struttura psicologica comunque legata al corpo, ma in virtù di una
spiritualità armonica raggiungibile attraverso il salto nella fede. Già
nell’analizzare lo stato d’innocenza, Kierkegaard aveva colto come non si
trattasse di una pura immediatezza, e cioè di un dato semplice ed elementare.
Fin dall’inizio è presente infatti una relazione tra elementi costitutivi, a partire
da quella tra tempo ed eternità. Ogni fondamento della relazione è dialettico,
contemplando cioè un rapporto tra possibilità e attualità in un istante dato o,
per meglio dire, l’ambiguità dell’angoscia stretta tra libertà e non libertà.
L’assetto relazionale messo a punto dallo spirito è ciò che costituisce l’uomo
come unità mai identica, dal momento che la relazione tra termini non si
svolge, per Kierkegaard, nel solco di una dialettica tautologica che determina la
relazione come sintesi. Lo spirito realizza tra anima e corpo una sintesi di
ordine storico e temporale – una sintesi che puà però entrare a sua volta in
crisi al cospetto di un regno di possibilità infinite, in cui è possibile optare per
una sintesi più armonica o scegliere viceversa il peccato e l’esistenza
demoniaca. La fede è ciò che consente di non disperare e di conquistare di
continuo la libertà, confidando in un grado di comunicazione e di amore
sempre più elevati. La perdita della libertà può avvenire, quindi, sia ad opera
del corpo (fisica) sia dell’anima (psichica), ma può derivare anche dallo spirito
(pneumatica), cosicché solo la fede è deputata a riconquistare un tutto che si è
smarrito nella perdita delle rispettive parti.
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Lezioni dell’ottava settimana
1) Nel Concetto dell’angoscia, Kierkegaard fa vedere come l’angoscia sia
sempre legata, in maniera invisibile, alla trascendenza. Essa si lega, in altri
termini, a ciò che è altro: nel paganesimo si tratta del destino, come atmosfera
indeterminata; nell’ebraismo si tratta della legge, come ostacolo costante e
pressoché generalizzato, infine, nel cristianesimo ciò che altro s’interiorizza,
finendo per coincidere con il peccato.
2) Con La malattia per la morte si assiste a una ripresa di “quello scavo
originale lasciato allo stato grezzo” rappresentato dal Concetto dell’angoscia. In
quell’opera del 1844, Kierkegaard non aveva ancora ben delineato tutti i
problemi posti sul tappeto, per cui le sue idee – esposte in maniera un po’
troppo dogmatica – erano rimaste alquanto sfuocate. La sua stessa volontà di
prendere congedo dalle ristrettezze del sistema di pensiero idealistico era
rimasta a metà del guado, nel senso che i temi centrali della sua trattazione
restavano ancora in odore di idealismo. In un diario del 1850, Kierkegaard
infatti dice: “Oh, lo stolto hegeliano che ero”. Di conseguenza, Anti-Climacus
riceve il testimone da Vigilius, delineando con migliore definizione i rapporti
sussistenti tra angoscia, libertà, peccato, colpa e fede. In particolare, però, al
centro della problematica kierkegaardiana vi sono i rapporti che intercorrono
tra angoscia e disperazione, essendo quest’ultima un altro nome della malattia
per la morte. L’angoscia è preparazione al peccato (è il “presupposto
disponente”), ma non si è ancora approfondita nella disperazione in cui l’uomo
sceglie se stesso. L’angoscia si caratterizza per la sua generalità, mentre la
disperazione è l’individuale. Nell’angoscia l’uomo sceglie il nulla, come altro da
lui. La disperazione è un atto maschile, mentre l’angoscia assomiglia a uno
“svenimento femminile”. L’idea del peccato sembra effeminare lo spirito,
generando l’angoscia, mentre quella della morte ne tratteggia la virilità, in
quanto la disperazione è un atto decisionale in cui l’uomo si pone davanti a
Dio. Disperare fa tutt’uno con l’esistenza, trattandosi della volontà di disperare,
e cioè di ribellarsi a Dio e al riconoscimento del suo amore infinito. La volontà
di ribellarsi all’armonia che conseguirebbe dall’accettare il rapporto con la
trascendenza divina, connota l’esistenza come malattia per la morte. Da ciò si
evince che, per diventare coscienti del significato eterno della propria
esistenza, per Kierkegaard è necessario disperare. L’unica via per ritrovare ciò
che di eterno vi è in noi è quella della disperazione. Ma per disperare occorre
forza, concentrazione e serietà. Il significato della vita può essere conosciuto a
fondo solo disperando, ma non per qualcosa di particolare. Chi si butta nel
mare della disperazione trova infatti l’assoluto. Come già per l’angoscia, anche
in questo caso occorre in certo modo scegliere di disperare, ovvero scegliere se
stessi ma non nella propria scontata immediatezza, bensì ricercando il
significato eterno della propria persona.
3) Mentre il dubbio ha a che fare con il pensiero, per cui comporta una
destabilizzazione solo parziale, la disperazione afferra la personalità umana
nella sua interezza. Kierkegaard è critico dell’intellettualismo che individua nel
pensiero l’intero valore della personalità, laddove si tratta viceversa di
riconoscere il carattere universale della disperazione, in cui può essere
immerso anche l’uomo più insignificante e privo di doti particolari. La Malattia
per la morte fu scritta negli ultimi anni della vita di Kierkegaard e dunque nella
fase più matura e meglio definita del suo pensiero. Il sottotitolo dell’opera
mette a fuoco e circoscrive il significato dell’opera: si tratta di un’”analisi di
psicologia cristiana per edificazione e risveglio”. Il saggio figura come opera di
Anti-Climacus (maschera indossata da Kierkegaard in soli due casi), ultimo
degli pseudonimi utilizzati. In questa maschera traspare, in maniera definitiva,
la vera fisionomia religiosa di Kierkegaard, il vero volto di un cristiano che –
pur professandosi senza autorità – vuole restituire alle categorie cristiane il
loro valore più autentico. Le opere con intento edificante presentano la
problematica del cristianesimo col proposito di contrapporlo al fenomeno
involutivo e degenerato di una cristianità ufficiale, in cui avevano attecchito
atteggiamenti conformistici espressione di grettezza, spersonalizzazione e
attitudine filistea. Kierkegaard è un critico rigoroso di una cristianità
benpensante, piccolo borghese e incline ai compromessi, in cui era prevalso un
registro di cristianità privo essenzialmente di fede e di coscienza del peccato.
In parallelo alla sconfessione diretta o indiretta delle categorie cristiane, la
riflessione speculativa aveva tra l’altro avanzato – sulla scorta di Hegel – un
recupero in chiave laica del pensiero cristiano, privo di richiami all’esperienza
straordinaria di Cristo.
4) Come specificato dal sottotitolo, l’opera si propone di approfondire la
psicologia del cristiano, in vista di un’edificazione. Nella Malattia per la morte
compare una breve trattazione di alcune tra le principali categorie cristiane
(peccato, disperazione e fede). Il motivo del peccato e della colpa sono temi
centrali anche di quest’opera, nella quale si dice che non vi è altro aspetto che
distanzi maggiormente l’uomo da Dio di quello per cui ci si riconosce come
peccatori di fronte a Dio stesso. Come peccatore, l’uomo è separato da Dio
dall’abisso qualitativamente più profondo. Sulla base di ciò, questo testo si può
dire che contenga in nuce anche il senso più radicale dell’antropologia e della
teologia dialettica. Il filosofo Kierkegaard e il cristiano Anti-Climacus si
ritrovano uniti nella dialettica esistenziale della disperazione, che è
autenticamente filosofica in quanto autenticamente cristiana. La categoria
dell’edificante (cfr. p. 5) – propriamente disprezzata da Hegel – qualifica la
prerogativa dell’esperienza cristiana e traccia per così dire il confine tra
l’inautenticità del discorso scientifico (basato sull’indifferenza e la curiosità
inumana) e l’autenticità propria di un discorso filosofico-religioso all’altezza dei
requisiti imposti da Kierkegaard. La Malattia per la morte è uno scritto di
cristianesimo edificante (e in larga parte militante), ma è anche un frammento
di antropologia filosofica. Se Hegel aveva in qualche modo tenuto insieme, nel
suo sistema, ciò che è speculativo e ciò che è scientifico, Kierkegaard contrasta
invece tale spirito di sistema, contrapponendo alla speculazione, alla scienza e
al cristianesimo di Hegel la propria vocazione cristiana. L’esposizione edificante
dev’essere rigorosa, ma qualitativamente diversa da quella del discorso
scientifico, poiché ogni “contenuto cristiano deve [...] somigliare al discorso di
un medico al capezzale del malato, [in quanto] anche se lo comprende solo
l’esperto di medicina, non si deve però mai dimenticare che lo si tiene al
capezzale di un malato” (p. 5). In tal senso Kierkegaard sembra sottolineare
anche il versante etico del cristianesimo, su cui non deve mai venire meno il
legame tra vita e realtà cristiana. La conoscenza autenticamente cristiana non
si basa infatti solo sul rigore della forma in cui è espressa, ma deve rivolgersi
al fenomeno della “preoccupazione”, ovvero a ciò che edifica nel segno della
“serietà”, istituendo un rapporto con la vita e la realtà della persona (cfr. 6).
Nel concludere la prefazione, Kierkegaard sottolinea il carattere dialettico della
disperazione (che è malattia e non mezzo di guarigione), individuando così
nella morte “l’espressione della massima miseria spirituale”, anche se la
guarigione “è proprio morire, morire a” (p. 6).
5) L’opera è divisa in due parti: la malattia per la morte è la disperazione e la
disperazione è il peccato (cfr. 7 sg.). La prima ha un carattere
prevalentemente filosofico, mentre la seconda presenta un tenore più
teologico. Le due parti sono però strettamente unite dalla serietà
dell’esperienza esistenziale della disperazione. L’antropologia filosofica di
Kierkegaard ha il suo nucleo metafisico e religioso nell’idea di un io che è
sintesi di finito e infinito, temporalità ed eternità, possibilità e necessità. Ma
una sintesi è anche un rapporto, e un rapporto deve porlo un tertium che è
appunto l’io in quanto consapevole di se stesso, del suo porsi nel mondo, della
sua vocazione a voler essere se stesso e a fondarsi, con trasparenza, nella
potenza che l’ha posto. In una tradizione inequivocabilmente cristiana, le
categorie di responsabilità, colpa, disperazione e sofferenza sono strettamente
solidali con quelle di singolo, di libertà e personalità.
6) La dignità dell’uomo consiste, per Kierkegaard, nell’inquietudine spirituale
che rende l’uomo consapevole di una vita interiore in cui si svela la vocazione
religiosa. In quest’opera Kierkegaard indica che occorre morire un po’
all’immediatezza della vita quotidiana al fine di scoprire, in sé, il richiamo
dell’assoluto. Di fronte a Dio la vita naturale dell’uomo subisce una scossa e un
turbamento profondo, anche perché al cospetto di Dio non si può comparire in
massa – al riparo degli altri – ma invece come singoli che manifestano la
propria responsabilità. Di fronte a Dio ci si pone dopo aver percorso il sentiero
difficile della disperazione. Attraverso la disperazione, l’uomo si mette infatti in
rapporto con se stesso, fino a fondarsi nella potenza che l’ha posto e che ha
posto lo stesso rapportarsi del rapporto a sé medesimo. Nel chiedersi se la
disperazione sia un vantaggio o una mancanza (cfr. 16 sg.), Kierkegaard
riconosce che dal punto di vista astratto si tratta addirittura di un “vantaggio
infinito”, giacché la possibilità di tale malattia costituisce la peculiarità
dell’uomo rispetto all’animale, trattandosi di una caratteristica che indica
l’essere infinitamente eretto dell’uomo e cioè il fatto che l’uomo è
essenzialmente spirito.
7) Al centra della malattia per la morte vi è dunque la categoria della
disperazione, nella sua articolata esperienza fenomenologica e dialettica. Per
quanto Kierkegaard, nella versione definitiva dell’opera, abbia negato ciò, la
disperazione appare però al contempo come malattia e come salvezza, nel
senso che è solo attraverso tale viaggio che l’io giunge a recuperare la propria
identità perduta. L’uomo che rifiuta, infatti, ogni forma di angoscia e di
disperazione è quello che punta a continuare a vivere in una falsa quiete di
ordine dogmatico, al riparo da ogni colpa e da ogni responsabilità. Ma il fatto
stesso di non sentirsi responsabile di nulla e di dichiararsi refrattario al
sentimento di colpa o impermeabile a qualsiasi responsabilità, costituisce
invece la maggiore forma d’irresponsabilità. Nella riscoperta della persona
umana nel suo valore universale e inalienabile Kierkegaard vede appunto il
richiamo della voce della coscienza o, per così dire, l’affermarsi del senso di
responsabilità.
8) Il titolo dell’opera è una citazione dal Vangelo di Giovanni: “Questa malattia
non è per la morte” (p. 9). Si tratta dell’episodio della morte di Lazzaro e di ciò
che ne conseguì. Le varie versioni italiane della Bibbia più accreditate, ma
anche quella danese del 1918 utilizzata ai tempi di Kierkegaard, riportano il
passo in maniera pressoché univoca: “All’udire questo Gesù disse: questa
malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa
il Figlio di Dio sia glorificato”. Di conseguenza, se il tutolo è una citazione, la
formulazione “malattia per la morte” si fa certamente preferire. Mentre in
greco e latino si usano preposizioni diverse per introdurre i termini in
questione, alimentando in qualche modo l’ambiguità tra il senso direzionale e
quello finale, in italiano e in danese l’ambiguità tende a scomparire per via
dell’utilizzo di una sola preposizione. Inoltre, il significato di entrambe le
espressioni (“per la morte” e “per la gloria di Dio”) trova una sua stabile
accezione finale grazie alla subordinata conclusiva: “affinché per mezzo di
essa...”. Come dice Kierkegaard nell’incipit, a malattia era dunque mortale, ma
non era per la morte, Causò la morte di Lazzaro, ma non ebbe come fine la
morte, bensì la gloria di Dio. Il miracolo non consistette nel fatto di allungare di
qualche anno la vita di Lazzaro, in quanto è l’esistenza di Cristo a far sì che la
malattia di Lazzaro e, più in generale, ogni malattia non sia per la morte.
Compresa dal punto di vista cristiano, “perfino la morte non è la ‘malattia per
la morte’” (p. 10), e ancor meno lo sono tutto ciò che fa parte della “sofferenza
terrena e temporale”. Il cristiano, infatti, ha imparato a conoscere un’altra
morte di fronte alla quale la prima non è che uno “scherzo”. Una morte che
non è solo distruzione della vita, ma lo è soprattutto dello spirito. Il cristiano
ha fatto conoscenza, cioè, di una malattia che non è mortale come tutte le
altre, ma che è al servizio di un altro tipo di morte, di cui fa per così dire il
gioco. Questa malattia per la morte non è altro che la disperazione.
9) Solo a un primo sguardo, quindi mortale e “per la morte” possono risultare
sinonimi (cfr. p. 19 sg.). La malattia per la morte è sempre nella morte,
avendo la morte come suo luogo naturale. La morte biologica è invece
passaggio alla vita, è per la vita, soprattutto se – come sostiene il
cristianesimo – c’è una vita eterna. Kierkegaard sviluppa poi le proprie
argomentazioni dicendo che la malattia per la morte, ovvero la disperazione,
non fa morire, in quanto in questo caso la “morte non è il termine ultimo” (p.
19). La disperazione non termina infatti con la morte fisica, giacché la
disperazione comporta il tormento, “la non speranza di non poter nemmeno
morire” (p. 20). Per questo, essa assomiglia più a una continua agonia, che
non porta però alla morte. Nella disperazione è assente ogni orizzonte di
speranza, e anzi in essa non c’è neanche l’ultima speranza, che è quella di
morire. La disperazione è, per Kierkegaard, una malattia dello spirito o,
meglio, di ciò che egli chiama propriamente “sé”. Il sé è l’elemento eterno
dell’uomo, per cui la disperazione provoca un tormento senza fine nella misura
in cui l’io non può smettere di rapportarsi a sé, di essere presente a sé. Al
riguardo, non c’è dunque né la speranza né la possibilità di potersi staccare da
sé. Come il “pugnale non può uccidere i pensieri, così la disperazione non può
consumare l’eterno, il sé, che sta a fondamento della disperazione” (p. 20).
Nella disperazione, servendo in qualche modo la morte e trovandosi ad essere
per la morte, non si può nemmeno godere del conforto che la morte può dare.
Il morire della disperazione “si converte continuamente in un vivere”, per cui la
condanna di chi dispera è “vivere la morte”, è nutrirsi di tale esperienza
vissuta. Il dramma della disperazione è di essere quindi “un’autoconsunzione
impotente che non riesce a fare ciò che essa stessa vuole” (p. 20). Non potersi
disfare di se stesso e non potersi annullare, fa sì che il disperato muoia alla
possibilità di morire, essendo già nella morte e dunque condannato a un vivere
che consiste in un perdurare nella morte.
10) All’inizio dell’opera Kierkegaard introduce la propria definizione di spirito o
di sé, in sostituzione della nozione di soggetto (o di soggettività) utilizzata
nella Postilla conclusiva non scientifica. Il sé rappresenta la parte più
importante dell’uomo, ma ne costituisce anche l’aspetto più problematico,
giacché è ciò induce l’uomo alla disperazione. L’uomo è spirito e lo spirito è sé.
L’uomo è sempre una sintesi di tre coppie di opposti: infinito e finito,
temporale ed eterno, libertà e necessità. Il sé non è dunque qualcosa di
semplice e nemmeno qualcosa di dato, ma è “un rapporto che si rapporta a se
stesso, oppure è questo nel rapporto: che il rapporto si rapporta a se stesso”
(p. 15). Il sé non è quindi un rapporto, la sua semplice presenza, ma si
definisce in un ulteriore momento riflessivo costituito da un rapportarsi a se
stesso. Di qui la natura processuale del sé, da intendersi come un progredire
nella coscienza di sé, che si discosta però dalla dialettica hegeliana
dell’autocoscienza, giacché per Kierkegaard al posto della mediazione subentra
la svolta, il salto, la decisione e la svolta. Con il sé s’intende dunque che l’uomo
può comprendersi come un rapporto che si rapporta a sé. Oltre a non essere
qualcosa che esiste nella semplice modalità del rapporto, il sé non è nemmeno
quel terzo che esiste come “unità negativa” nel rapporto tra due (come ad es.
nel caso di corpo e anima), ma è un “terzo positivo” consistente in un
“rapporto che si rapporta a se stesso” e che, a questo livello di riflessione, può
essersi posto da sé o, viceversa, esser stato posto da un altro (cfr. p. 15).
L’alternativa che si pone è dunque quella tra l’autosufficienza del sé o la
dipendenza da ciò che lo ha posto. Come “terzo positivo”, Kierkegaard
sottolinea come il sé dell’uomo sia un “rapporto derivato [...] che si rapporta a
se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro” (p. 15). L’io
sembra essere strutturato, quindi, su tre livelli: 1) quello del rapporto tra due
opposti (finito e infinito, tempo ed eternità, possibilità e necessità); 2) quello
del rapportarsi a sé del rapporto stesso; 3) quello del rapportarsi a un altro nel
rapportarsi a sé del rapporto. L’io kierkegaardiano è dunque una sintesi che si
costituisce in un doppio rapporto all’interno di un rapporto ulteriore. L’io o, per
meglio dire, il sé è un terzo positivo che non si aggiunge a una triplice coppia
di elementi tra loro opposti, ma è ciò che si dà nell’atto stesso in cui il rapporto
si rapporta con se stesso. L’io non può attuarsi quindi in se stesso, ma può
raggiungere tale realizzazione solo mettendosi, oltre che in rapporto con sé, in
rapporto con l’altro che ha posto tale rapporto, ossia riflettendosi nel rapporto
con la potenza che l’ha posto. Sotto questo profilo, l’io di Kierkegaard è sempre
il frutto di una pluralità di rapporti, e dunque come tale ben distante dalla
fisionomia dell’Io fichteano, ritenuto in possesso di un’attività autocreatrice,
libera, assoluta e infinita.
11) La Malattia per la morte contiene dunque un’analisi dei rapporti squilibrati
o distorti che si verificano nei vari livelli del sé, poiché la disperazione è il
“rapporto squilibrato in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso” (p.
17). La sintesi, peraltro, non è il rapporto squilibrato, ma ne è solo la
possibilità. Se sul piano dell’angoscia la vertigine rappresenta uno squilibrio tra
i momenti dello psichico e del corporeo, nel caso della disperazione lo squilibrio
non riguarda questi due estremi, ma l’uomo nella sua interezza, anche perché
l’uomo – nella sua composizione strutturale – può essere in equilibrio solo nel
rapporto con l’altro che ha posto il rapporto stesso. La disperazione s’insinua,
dunque, in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso. A prescindere
dalla differenza di ordine qualitativo, la disperazione ha “molto in comune con
la vertigine, perché questa è, sotto la determinazione dell’anima, ciò che la
disperazione è sotto la determinazione dello spirito” (p. 18).
12) L’uomo è dunque sintesi di infinito e finito, di necessità e libertà (o
possibilità), di temporale ed eterno, anche se i termini di tale sintesi non hanno
tutti uguale valore. Difatti, sorge sempre un conflitto o una disarmonia quando
nella sintesi prevale l’elemento finito, necessario e temporale, poiché in tale
evenienza è lo stesso elemento umano a scolorirsi e a disperdersi. Fin
dall’inizio di tale opera, Kierkegaard sottolinea la tesi spiritualista che la
governa, col rischio di dar luogo anche un orientamento troppo antiumanistico.
Ma a parte ciò, Kierkegaard è stato certamente il primo a descrivere l’esistenza
di una coscienza dispersa nella banalità del mondo quotidiano, incapace cioè di
assumere il rischio di una decisione personale, di un’opinione che non si allinei
all’estrema superficialità dell’opinione pubblica. Le riflessioni di Kierkegaard
sulle inquietudini della coscienza e sul ritrarsi dell’individuo in una solitudine
che rifugge le forme di un’esistenza inautentica, sono state ad esempio riprese
– pur nel venir meno del loro vertice di religiosità – dalle analisi heideggeriane
analisi heideggeriane sul mondo della quotidianità e su un’esistenza condotta
nel segno dell’impersonalità, nonché dalle considerazioni sartriane in ordine
alla malafede.
13) Il sé dunque non è un rapporto, ma è il rapportarsi a sé di tale rapporto.
Come terzo positivo, il sé è a sua volta un rapporto che si mette in rapporto
con ciò che ha posto tale rapporto nella sua interezza. Per questo il terzo, che
è lo spirito o il sé, è sempre in rapporto con ciò che l’ha posto come rapporto.
Il fragile equilibrio, la cui rottura fa precipitare il rapporto in una stasi spirituale
pregna di disperazione, si mantiene quindi finché il rapporto che si rapporta a
se stesso, si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto. La disperazione
interviene allorché vengono recisi i legami con l’altro che ha posto l’io come
rapporto. Ma l’io che mantiene invece solidi legami con l’altro che l’ha posto
come rapporto, si fonda in maniera trasparente nella potenza che lo ha posto,
assumendo la propria esistenza in un continuo rapporto di apertura all’altro,
non negando così in alcun modo il senso di trascendenza che gli appartiene.
14) Nel vivere nell’immediatezza delle cose mondane, l’uomo matura il sapere
della propria finitezza ma, al contempo, scopre il tentativo più autentico di
superarsi in direzione di quell’alterità originaria che lo chiama. Chiuso nel suo
rapporto col finito, l’uomo vive a ridosso di tale immediatezza, mentre chi si
apre al pensiero di ogni possibilità e della morte stessa, si dispone a indagare il
rapporto con la potenza che l’ha posto in tale condizione di apertura. In tal
senso, nulla è propriamente causa della disperazione, se non l’uomo stesso che
la vive, avvertendo come vertiginosa la distanza che separa la possibilità
dall’essere disperato. Per questo, l’uomo è la causa della propria disperazione.
15) Analizzando la struttura stratificata di rapporti in cui consiste l’io,
Kierkegaard mostra (p. 16) come da essa possano sorgere due forme di
disperazione in senso proprio – il che non potrebbe verificarsi se l’uomo si
fosse posto da sé. Si tratta del “non voler essere disperatamente se stesso” e
del “voler essere disperatamente se stesso” (cfr. p. 22). A partire da p. 33,
Kierkegaard analizza le varie figure della disperazione, dovute al fatto di
privilegiare uno degli opposti tra cui operare una sintesi. questa sezione
rappresenta la parte per così dire statica di quella forma di squilibrio in cui
consiste la disperazione, mentre la sezione successiva (pp. 45 sgg.) si occupa
dell’aspetto dinamico di tale rapporto di squilibrio. In questa sezione si prende
in esame, infatti, il rapportarsi a sé del rapporto e il grado di coscienza che si
ha in relazione a questo rapportarsi. Kierkegaard afferma, al riguardo, che
maggiore è la coscienza di sé e di che cosa sia la disperazione e più profonda
risulterà la disperazione stessa. Proprio il continuo crescere della disperazione
nell’atto dinamico di rapportarsi a sé si tradurrà in una galleria di figure della
disperazione, ovvero in una fenomenologia dello spirito disperato.
16) Kierkegaard sottolinea che anche quando uno stato di disperazione diviene
manifesto, l’uomo “può continuare a vivere bene, ad essere un uomo nelle
apparenze”, e come tale occupato nella dimensione mondana della temporalità
(cfr. 36). L’uomo può continuare cioè nella propria vita, senza nemmeno
notare che “gli manca un sé”. Del resto, Kierkegaard ha più volte sottolineato
come l’io sia la cosa di cui nel mondo ci si occupa meno, giacché per l’uomo
può essere anche rischioso mostrare di possederlo. Nel mondo può passare
addirittura sotto silenzio il pericolo di perdere se stesso, la qual cosa invece
non capita per qualsiasi altra forma di perdita.
17) Disperazione del finito è mancare d’infinito (pp. 37 sgg.). L’uomo chiuso
nella considerazione mondana delle cose manca d’infinità. Mondanità significa,
infatti, attribuire alle cose prive d’importanza un valore infinito. In tal senso la
considerazione mondana “si aggrappa sempre alla differenza tra uomo e uomo
e non ha comprensione per la sola cosa necessaria”: non ha cioè comprensione
di quella “grettezza e ottusità che significa aver perduto se stesso” (p. 37).
Rendersi completamente finiti vuol dire non essere diventati un sé, ma “una
cifra, un uomo in più, una ripetizione in più di questo perpetuo Einerlei
[monotonia, uniformità]” (p. 37). La grettezza disperata è privarsi della propria
originarietà, della propria “primitività”, ed equivale ad “essersi evirati in senso
spirituale” (p. 37). L’io ha un indole primitiva a essere un io, è determinato
cioè a divenire se stesso. Ma perché ciò avvenga, l’io – che in origine è una
pietra grezza – dev’essere per così dire “sfaccettato” e non semplicemente
“levigato2, come capita invece quando l’uomo si smarrisce nel finito e omologa
il proprio io negli altri. Contornato dalla folla e immerso in ogni affare
mondano, l’uomo finisce per dimenticare se stesso e dimentica ciò che di divino
e di eterno c’è in lui, non osando più credere in se stesso e trovando perfino
rischioso esserlo, giacché è più facile ripararsi dietro agli altri nell’anonimato
della folla. La mondanità, per Kierkegaard, è costituita da uomini che “hanno
fatto un patto con il mondo” (p. 39), che hanno cioè venduto al mondo la loro
anima, rinunciando ad essere se stessi e a conquistare la spiritualità di un io
con cui poter porsi davanti a Dio.
18) La disperazione è dunque una determinazione dello spirito che si rapporta
all’elemento eterno che è nell’uomo (cfr. 19 sg.). Dell’eterno l’uomo non si può
sbarazzare facilmente, essendo invece obbligato a convivere con tale
dimensione. Non è possibile, infatti, respingere l’eterno per sempre, giacché in
qualunque modo si realizzi tale tentativo l’eterno è destinato invariabilmente a
ritornare. Ciò significa che, in ogni momento di disperazione. è l’uomo a
tirarsela addosso, in quanto la disperazione non deriva da un rapporto
squilibrato o falso, ma dal rapporto che si rapporta a se stesso, e di tale
rapporto l’uomo non può liberarsi, così come non può farlo del proprio io.
Trattandosi di una determinazione dello spirito, a differenza di ciò che si può
dire per una malattia in senso fisico, ogni momento reale della disperazione va
ricondotto alla possibilità. In altri termini, è l’uomo disperato a tirarsi addosso
in ogni istante la disperazione, e precisamente restando ancorato al momento
presente. La disperazione insiste [Ricoeur ha affermato che l’angoscia tende
verso, mentre la disperazione risiede. Ovvero, l’angoscia ex-siste, mentre la
disperazione in-siste] nel movimento di rimozione dell’eterno, vale a dire di
quell’aspetto che segna la natura trascendentale dell’uomo, ponendolo
essenzialmente come libertà. L’uomo è dunque possibilità per l’eterno, ma non
potendo distogliere l’eterno e allontanarlo da sé, tale movimento di rimozione
non ha fine, per cui l’insistere in esso diviene disperante.
19) L’uomo esiste in virtù del proprio modo di essere, che consiste
nell’apertura e nell’essere costantemente “fuori” (ex-sisto). Per lo più, l’uomo
si rapporta però al proprio essere nei modi della fuga, nel senso che fugge la
possibilità che è, realizzando una fuga resa possibile dal fatto che l’uomo
esiste. Insistendo nella fuga, l’esistenza finisce per arenarsi nella realtà
fattuale, sostando perciò in maniera rassicurante presso le cose. Attraverso la
fuga, l’uomo distoglie lo sguardo da ogni mistero, disimparando anche a
confrontarsi con la morte, che non rappresenta un evento fortuito, ma la
possibilità più autentica di ciascun uomo, quella che ne prefigura infatti la
possibilità estrema. Per chi vive al riparo dal possibile, la morte non
rappresenta solo il collasso di ogni possibilità terrena, ma soprattutto il punto
di rottura della sicurezza ricercata nella quotidianità. Occultando di continuo la
morte come possibilità temuta, l’uomo mostra di non essere più in grado di
sostenere la morte, cercando protezione in una dimensione mondana che
inganna la possibilità.
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Lezioni della nona settimana
1) Chi sa confrontarsi con la morte si espone alla più pericolosa delle malattie:
la malattia per la morte. Tutto ciò che è letale presuppone una fine, e cioè una
morte che la sancisca. Ma se per il cristiano non c’è una malattia terrena che
sia davvero mortale, in quanto per il credente la morte determina il passaggio
a miglior vita, nella sua vita fa però la sua comparsa anche una malattia
disperante che porta a una fine senza morte o, se si preferisce, a una morte
senza fine. La disperazione infatti, come tramonto di ogni speranza, è la
malattia dell’io (o dello spirito) che consiste nel morire in eterno, nel “morire
eppure non morire”, nel “morire la morte” (p. 20). In questo continuo morire
che non trova fine, la disperazione insidia l’eterno che è in ogni uomo,
intaccando ciò che sta a fondamento della disperazione stessa. Per chi dispera
la morte non è quindi la fine della malattia, ma è una fine che si protrae di
continuo.
2) Chi dispera, dispera solo in apparenza per qualcosa. In realtà, ci si dispera
sempre perché non si sopporta di essere ciò che si è. A fronte di un ventaglio
di possibilità che avrebbero potuto orientare il nostro divenire, è insopportabile
riconoscere di essere quell’io che non è appunto divenuto tale, ovvero che ha
fallito nel cogliere una determinata possibilità. Per questo, s’insiste nel
tentativo disperato di liberarsi di sé, separandoci dalla potenza che ha posto il
rapporto in cui si costituisce il nostro io. La presenza però nell’uomo di un
senso di eternità è ciò che impedisce alla disperazione di distruggere l’io,
determinando così il carattere contraddittorio che contrassegna la
disperazione. Nel chiudersi in sé, ovvero nel privarsi di quella libertà che si
nutre di possibilità, l’uomo ha già di fatto obliato se stesso, abdicando al
compito di essere o divenire se stesso.
3) A p. 15, introducendo la malattia per la morte come una malattia dello
spirito, Kierkegaard dice che la disperazione può assumere una triplice veste.
Oltre alle due forme proprie di disperazione, su cui si regge strutturalmente
tale opera (e cioè: disperatamente non voler essere se stesso e
disperatamente voler essere se stesso), c’è però anche una forma impropria di
disperazione che consiste nella non consapevolezza di avere un io, e quindi nel
fare di tutto per prendere coscienza della propria disperazione. Nella
morfologia della disperazione che Kierkegaard descrive si parte dal grado più
basso di tale malattia, dal suo grado zero. Nell’interiorizzazione dialettica che
prelude all’unità spirituale dell’io, la disperazione sembra comunque
rappresentare il culmine di tale organizzazione spirituale, potendosi di volta in
volta tradurre in una rinuncia alla vita spirituale, in uno slancio di rivolta nei
confronti della potenza che ha posto il rapporto che si rapporto a se stesso, ma
anche in una crisi salutare a partire dalla quale si giunge a cogliere il profondo
legame da istituire tra immanenza e trascendenza. Di qui la possibilità, per
Kierkegaard, di definire l’autentica natura dell’uomo in vista della sua
realizzazione. Il nostro io si caratterizza, infatti, come un essere spirituale che
si costituisce all’interno di un rapporto posto da Dio.
4) Nella categoria della disperazione rientra ogni sforzo tendente a distruggere,
in maniera sistematica, l’equilibrio vitale su cui deve reggersi l’io. Essendo
l’uomo una sintesi tra diverse coppie di opposti, ne discende che vi saranno
diversi modi d’intaccare la complessità dell’io, a seconda che siano rivolti a uno
solo dei suoi elementi o alla sintesi nel suo insieme. In ragione di ciò,
Kierkegaard dipana una fenomenologia delle varie forme di disperazione (cfr.
pp. 25 sgg. e 33 sgg.).
5) La prima forma di disperazione – quella inautentica – è una sorta di
disperazione virtuale che consiste nel non aprirsi all’infinito, rifiutando di
partecipare alla tensione interiore in cui consiste la vera dignità dell’uomo. Tale
forma di disperazione non è solitamente compresa nella sua effettiva gravità,
dal momento che per l’opinione comune la disperazione dovrebbe
accompagnarsi sempre a una maschera tragica. Nondimeno, tale disperazione
riguarda una moltitudine sterminata di persone, in preda a una disperazione
larvata, priva di sintomi tipici, e dunque tale da rendere tali persone
inconsapevoli della natura di tale patologia. Si tratta di un affievolimento dello
spirito, di un’anemia spirituale che non provoca alcun malessere, conferendo al
contrario una sorta di sicurezza esteriore e di astratta innocenza. Tale
disperazione, che rappresenta il tratto universale della malattia, riposa su un
fondo di angoscia, come tutto ciò che perso coscienza delle proprie finalità
essenziali. Nelle persone che tendono a garantirsi da ogni rischio esistenziale vi
è infatti un’inquietudine che non fa cogliere loro il richiamo della vita, di cui
pure avvertono il fremito. Come sempre Kierkegaard allude ai comportamenti
filistei e piccolo borghesi che, nel rifiutare ingenuamente la disperazione,
precipitano gli uomini nella totale inconsapevolezza circa la propria
destinazione spirituale. Si tratta dunque di una disperazione preliminare che,
nella sua universalità, cova nello spirito dell’uomo, proprio come il medico
parla di malattie che covano nel corpo umano.
6) L’universalità di tale forma di malattia porta a dire che non ci sia un solo
uomo che non sia almeno un po’ disperato, che non porti in sé un turbamento
o un inquietudine del genere. Anche per questo non si può contare sulla
considerazione comune della disperazione, poiché essa ritiene che il singolo
sappia sempre da sé se è disperato o no – escludendo quindi di esserlo quando
non si crede tale – mentre invece una forma insidiosa di disperazione è proprio
quella di non avere coscienza di essere disperato. D’altronde, qualcosa del
genere si registra anche sul piano della malattia fisica, in quanto il medico sa
bene che non vale definirsi sano per esserlo davvero. Anche lo psicologo non
può fare affidamento sulle affermazioni del singolo individuo, dal momento che
non sono nemmeno sempre disperati coloro che dicono di esserlo. Come
determinazione dello spirito, la disperazione può essere spesso scambiata con
forme di disagio transitorie, che non conducono però fino alla disperazione. Ma
soprattutto alla considerazione comune sfugge il peculiare carattere dialettico
di tale malattia, che le deriva dall’essere una malattia dello spirito. Infatti,
mentre nell’istante in cui il medico constata la presenza di una malattia, è
lecito ritenere che l’uomo potesse in precedenza essere in saluto, per ciò che
attiene alla disperazione è chiaro che quando essa si manifesta, l’uomo era già
disperato (cfr. p. 27).
7) Questo primo genere di disperazione si caratterizza dunque per il fatto che
l’uomo non ha coscienza di essere disperato, e ciò avviene quando l’uomo non
è nemmeno cosciente del proprio sé. Peraltro, il fatto di non avere coscienza
del rapporto sproporzionato in cui ci si trova, ovvero della profonda disarmonia
della propria esistenza, determina che sia simulare di essere disperati, sia
negare di esserlo, siano essenzialmente forme di disperazione. La particolare
dialettica che attiene a tale malattia dello spirito fa sì che il non essere
disperato possa anche significare di esserlo, per cui tra essere disperato ed
essere malato non c’è alcuna identità di significato, dal momento che il non
essere disperato può indicare il contrario e che la presenza di uno stato di
disperazione può accompagnarsi al non aver mai sentito un determinato
malessere. Se la salute fisica, infatti, diviene dialettica solo nello stato della
malattia – allorché s’inizia cioè a parlare di crisi – nel campo dello spirito non
c’è mai una salute immediata, cosicché in esso è critica sia la salute sia la
malattia.
8) Proprio in ragione della sua natura dialettica la disperazione rappresenta
quella malattia “di cui si deve dire che non averla mai avuta è la sorte più
infelice” (p. 29), anche se si tratta della malattia più pericolosa e difficile da
debellare, qualora non si voglia appunto guarire da essa. Ciò differenzia il caso
della disperazione da tutti quelli in cui è una fortuna guarire da una malattia,
dato che la “sfortuna è la malattia stessa” (p. 29). In questa generalità così
diffusa, la disperazione è la condizione in cui gli uomini vivono senza essere
consapevoli della loro determinazione spirituale, per cui in ragione di essa si
finisce per negare disperatamente il proprio sé, rivestendo una larvata
disperazione con un’apparente tranquillità esistenziale che però è la spia più
evidente di una presenza disperante. Nell’angoscia della disperazione ogni
comportamento dell’uomo sembra segnato da vacuità e assenza di significato,
all’insegna cioè di una debolezza, di una viltà e di un’impotenza tipiche di chi
non ha il coraggio di accollarsi il peso della propria esistenza, fino a lasciarsi
così trascinare nel vortice dell’angoscia. Di fronte a tale incombente evenienza,
il richiamo di Kierkegaard è a non sprecare la disperazione, imparando cioè ad
attraversare tale stato per disporsi a prendere atto della propria spiritualità.
Solo così, realizzando di poter conquistare l’infinità tramite la disperazione, l’io
riuscirà a porsi davanti a Dio.
9) Le varie figure della disperazione si possono ottenere, per astrazione, in
termini riflessivi, partendo dai singoli momenti in cui l’io si compone come
sintesi (cfr. p. 33). L’io ad esempio è formato da infinito e finito, ma tale
sintesi è un rapporto e per di più un rapporto che si rapporta a se stesso: è
così che scaturisce infatti il carattere di libertà che anima l’io e che si traduce,
dialetticamente, nelle determinazioni di possibilità e necessità. L’essere della
libertà obbliga per così dire l’io alla non-necessità, lasciando aperta la
possibilità di rapportarsi al proprio fondamento o di svincolarsi dalla potenza
che posto la struttura del sé, incorrendo nella disperazione. L’io manifesta la
libertà di trovare il fondamento in se stesso, senza riferimento a un altro, ma
anche quella di riconoscersi come un rapporto posto da un altro. In ciò si
palesa il paradosso della libertà, consistente nel suo essere legata alla
necessità. La libertà è tale che, per sua essenza, solo rapportandosi all’infinità
del fondamento divino si mantiene integra. In altri termini, solo nel rapporto
con l’altro a cui deve la sua libertà l’uomo può ritrovare la sua autentica
indipendenza. Nel rapporto che si rapporta a se stesso, rapportandosi al
contempo a un altro, la libertà dell’uomo manifesta un vincolo ontologico con il
fondamento che ha posto lo stesso rapportarsi dell’io. L’io, perciò, si realizza
nella propria libertà solo scegliendo il legame che è in grado di renderlo libero.
In tal senso, solo la scelta rischiosa dell’infinito consente all’uomo di sottrarsi
alla costrizione delle cose finite. In altri termini, la decisione di scegliere
l’assoluto è ciò rende assolutamente liberi. Da qui il tenore paradossale della
filosofia kierkegaardiana, secondo cui la possibilità di scegliere – ovvero la
libertà di scelta – si dà in ragione del non dover scegliere, poiché libertà è
costretta per così dire a scegliere liberamente il fondamento che l’ha posta in
essere. Il riconoscimento dell’infinito, dunque, sembra essere ciò che rende
possibile all’uomo di scegliere, essendo cioè la condizione trascendentale della
scelta stessa. Non c’è quindi libertà di scegliere il principio della libertà di
scelta, giacché lo si deve per l’appunto scegliere, pena per l’uomo la perdita
della propria libertà. Se ne evince che l’uomo deve in qualche modo rendere a
Dio la propria libertà per non rischiare di perderla, dal momento che la
possibilità di scegliere è data all’uomo dalla necessità di optare per ciò che gli
ha dato la possibilità di farlo.
10) Nella dialettica del sé si nota dunque il passaggio, nel movimento descritto
dalla libertà, da un mantenersi in una possibilità vuota e perciò stesso sterile, a
un costituirsi nella piena necessità dell’assoluto, per cui la libertà – che non
appena è, è reale – è reale nella misura in cui si rapporta alla necessità. Come
sostiene in effetti Kierkegaard, la libertà è il movimento dialettico nelle
determinazioni di possibilità e necessità. Il passaggio dalla possibilità alla realtà
della scelta costituirsi l’attuarsi della libertà. Una cosa è la scelta, un’altra la
libertà di scelta: l’uomo infatti può scegliere liberamente, ma non è libero di
scegliere se mantenersi nella libertà. La libertà di scelta risulta infatti
necessitata, se l’uomo vuole essere autenticamente libero. Per questo, la
dipendenza necessaria dal fondamento divino è funzionale a mantenere
un’indipendenza di scelta del tutto libera. Kierkegaard descrive quindi un
fondamento trascendentale della libertà basato sul riferirsi alla trascendenza da
parte dell’io. Chi è disperato, lo è dunque perché, non scegliendo Dio, ha scelto
di non essere libero, giacché una libertà senza Dio equivale infatti alla malattia
per la morte, ovvero a autentica disperazione.
11) Come determinazione dello spirito, il disperarsi è dunque in rapporto con
l’eterno è nell’uomo. La disperazione deriva dal rapporto che si mette in
rapporto con se stesso, e da tale rapporto non ci si può svincolare. La
disperazione non deriva semplicemente, però, da un rapporto falso o mal
posto, da un fraintendimento banalmente occorso che ha determinato una
sintesi squilibrata: al contrario, il disperarsi dipende per intero dall’uomo, che
non è una mera sintesi, ma comporta un sovrappiù di riflessione. L’angoscia e
la disperazione nascono entrambe in seno alla libertà, ma con la differenza che
la vertigine di cui sono preda in una caso riguarda l’anima, mentre nell’altro lo
spirito. La malattia della morte mette in luce – oltrepassando la problematica
trattata nel Concetto dell’angoscia – come la disperazione nasca dalla libertà di
decidersi o no per il fondamento che l’ha posta in essere. Mentre nella prima
opera l’angoscia era paragonata a un deliquio, a uno svenimento femminile di
fronte al nulla rappresentato dalle infinite possibilità da attuare, ora invece la
disperazione è maggiormente radicata nel tessuto della libertà, riguardando
cioè la costituzione dell’i (o del sé). Si è liberi per il fatto stesso di poter
scegliere, ma con l’eventuale rifiuto rispetto a ciò non si annulla solo il
fondamento costituito dal rapporto con l’altro, ma direttamente il proprio sé in
quanto libertà.
12) L’io si manifesta nella libertà, che può essere però caratterizzata anche
dalla possibilità di non riconoscere il vincolo con l’eternità e la
trascendenza,portando l’io a pensare di potersi svincolare dalla potenza che
l’ha posto e a cadere così nella disperazione. Ma la libertà, come segno di ciò
che è eterno nell’io, vincola in eterno l’io a se stesso, impedendogli con ciò di
liberarsi dall’eterno. Per Kierkegaard sarebbe infatti una contraddizione
pensare di liberarsi dall’eterno, poiché il senso stesso di tale libertà ci proviene
dall’eterno. Proprio il ritorno perenne dell’eterno lega l’io in maniera
indissolubile alla sua libertà, di modo che questa diviene per l’io la necessità di
scegliere la potenza che l’ha posto, abbandonandosi così alla fede. La
disperazione e la fede sono perciò due maschere che l’io può indossare per
interpretare, in maniera, differente, la trama del nulla costituita dall’assenza di
Dio, che – per dirla con Kierkegaard – avendo fatto l’uomo per il rapporto, se
lo è quasi lasciato andare dalla sua mano (cfr. p. 18).
13) L’infinito può essere scelto o rifiutato solo perché l’uomo è ancorato per
così dire all’infinito. In tal senso – in linea con la paradossalità tipica del modo
di procedere kierkegaardiano – anche la negazione dell’infinito si traduce nella
conferma del vincolo che l’uomo ha con l’eterno, per cui il rifiuto stesso
dell’infinito pone la libertà a rischio di dissoluzione, nel momento stesso in cui
l’io “disperatamente non vuole essere se stesso”. Il passaggio da una forma
impropria ancorché universale di disperazione a una disperazione autentica si
dà nel divenire coscienti del proprio sé. Per giungere a una vera disperazione è
necessaria, dunque, una presa di coscienza, dato che “la coscienza è l’aspetto
decisivo” (p. 33). La coscienza è ciò a cui in progressione si lega una sorta di
“autocoscienza” , nella quale si manifesta propriamente l’io nella sua essenza
più dispiegata. La libertà di cui l’io diviene cosciente è al tempo stesso
coscienza di una responsabilità infinita. Il divenire consapevoli della natura del
proprio sé si accompagna anche alla coscienza della disperazione, ma tale
percorso – pur nei rischi che esso comporta – rappresenta anche l’unica
possibilità da attuare.
14) Tutti gli uomini sono quindi disperati, anche se per riconoscere ciò occorre
consapevolezza. Chi afferma di essere disperato è più vicino alla guarigione,
per quanto tale malattia dello spirito aumenti d’intensità in relazione alla
consapevolezza che si ha di tale disagio. Il pregio della disperazione è la sua
possibilità. Al riguardo Kierkegaard rovescia, a proposito della disperazione, il
primato che Aristotele ha riconosciuto all’atto rispetto alla potenza. Di solito si
pensa alla realtà come “possibilità annullata” (p. 17). Secondo la metafisica
classica l’essere sarebbe infatti più in alto rispetto al poter essere, per cui il
passaggio al gradino superiore rappresenterebbe un’ascesa. Riguardo invece
alla disperazione, “l’essere si rapporta al poter essere come a una caduta
[...per cui nel caso della disperazione] l’ascesa è il non essere disperato” (p.
17). L’essere realmente disperati rappresenta infatti la vera caduta del
fenomeno esistenziale della disperazione, mentre la sua mera possibilità
rappresenta la sua più grande vittoria. In rapporto alla disperazione, la sua
realtà rappresenta dunque una negazione, ovvero la “possibilità impotente,
annullata” (p. 17). Sia essere disperati che non esserlo preludono comunque
alla possibilità di aprirsi alla disperazione più autentica che – in qualità di
malattia dello spirito – si rapporta all’eterno che è nell’uomo.
15) L’io è innanzitutto sintesi e questa implica la possibilità di un rapporto non
riuscito o distorto. La disperazione consiste in un rapporto squilibrato realizzato
da libero atto dell’io. L’origine della disperazione va colta, dunque, nel
movimento delineato dalla libertà dell’uomo, all’interno del vuoto che lascia il
ritrarsi della mano di Dio. Chiunque non raggiunga o non ottenga ciò che si era
proposto, non è essenzialmente disperato per tale fallimento, ma perché non
tollera più il proprio io: vorrebbe cioè sbarazzarsi di sé, ma capisce anche di
non poterlo fare, poiché l’eterno che è in lui non può essere messo a tacere. La
disperazione ha a che fare, quindi, col fatto che ciò che vuole disperatamente
essere è un io che non corrisponde a ciò che egli di fatto è. Il fraintendimento
che sta alla base della disperazione riguarda la mancata accettazione, da parte
dell’uomo, della sua natura di essere derivato, ovvero di esser stato posta da
Altro. Per questo l’uomo vuole disperatamente separare il proprio io dalla
potenza che lo ha posto. Da qui nasce lo squilibrio, la mancanza di una vera
sintesi, e il conseguente svanire della speranza che si traduce appunto in
disperazione.
16) A questo punto l’uomo cerca da un lato d’inseguire l’infinito attraverso
l’illusione del pensiero e della fantasia, negandosi alla dimensione del finito
(cfr. disperazione dell’infinito, pp. 34 sgg.); dall’altro opta per buttarsi invece a
capofitto nella temporalità e nel finito, sottraendosi ad ogni prospettiva di
trascendenza e ad ogni richiamo d’infinità (cfr. disperazione del finito, pp. 37
sgg.). L’alternativa o, per meglio dire, la dialettica che così si attua è quella di
vivere al di fuori della realtà, in una possibilità illusoriamente dipinta come
infinito, o sottostare viceversa al giogo della necessità, risultando incline al
fatalismo e al determinismo. In ogni caso si conferma, per Kierkegaard, che la
disperazione per “non voler essere se stessi” e quella per “voler essere se
stessi” come assoluti padroni di sé sono le due forme autentiche di un’identica
malattia.
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Lezioni della decima settimana
1) Per Kierkegaard, l’io è una sintesi di finito e infinito, la quale si pone in
rapporto con se stessa, realizzando però il compito di tradursi in un rapporto
equilibrato solo nel momento in cui ci si rapporta con Dio. Il non riuscire a
divenire se stessi, ovvero a costituire un proprio sé armonicamente definito,
comporta disperazione, a prescindere che si sia consapevoli o no di tale
fallimento. Ma riguardo al divenire in cui si attua la determinazione del sé, non
intervengono solo i momenti dell’infinito e del finito, ma anche quelli della
possibilità e della necessità. Rispetto a quanto sostenuto da Hegel nella Logica,
per Kierkegaard non è la necessità a costituire l’unità di possibilità e realtà, ma
è piuttosto la realtà a costituire l’unità possibilità e necessità. Di conseguenza,
anche l’attualità del sé non può che conseguire da una sintesi riuscita tra
questi due aspetti modali (possibilità e necessità). Come detto, però, l’io
rappresenta sempre una sintesi di stampo dialettico, per cui ogni forma di
disperazione può essere colta e per così dire determinata solo approfondendo
la forma contrastante o contraria. Ad esempio, quella forma di disperazione
che crede di essersi posta come infinita, o che più semplicemente vuole essere
tale, si abbandona alla fantasia che conduce verso l’illimitato, di modo che
l’uomo è trattenuto in questo slancio fantastico dal ritornare a sé (o in sé),
smarrendo sempre di più il senso della propria persona e distaccandosene in
maniera quasi irreversibile. Ma se l’uomo annulla la propria dimensione di
finitezza, non avvertendo più il peso che corrisponde alla necessità, in base alla
dialettica kierkegaardiana esso perde la concretezza che ne rappresenta uno
dei momenti costitutivi. Proprio perché l’io deve realizzare una sintesi tra finito
e infinito, la mancanza di finito non può che dar luogo a ciò che
hegelianamente si può definire come una “falsa infinità”.
2) Quando un uomo perde il senso della realtà, non aderendo più al mondo
naturale e storico in cui vive, la personalità dell’individuo rischia di dissolversi.
Il modo in cui l’uomo s’invola con la fantasia verso l’infinito, finisce per fargli
prendere congedo da sé. La stessa conoscenza e il sentimento risultano un po’
fine a se stessi, sprecando per così dire l’io dell’uomo. Nel condurre quindi
un’esistenza fantastica in un’infinità astratta, l’io si isola sempre più dalla
dimensione reale. D’altra parte, però, è fonte di disperazione anche la
mancanza d’infinità, che determina una ristrettezza di orizzonti davvero
disperante. Kierkegaard è particolarmente sensibile a questo tipo di mancanza
che consiste nel perdersi nel finito. L’individuo soggetto a questa forma di
disperazione continua a svolgere la sua vita nella maniera più normale,
immerso nella corrente temporale della mondanità. Di conseguenza, tale tipo
di disperazione passa quasi sempre inosservata , senza che si colga cioè
l’aspetto terribile del dileguarsi del sé nella moltitudine. Mancare dell’infinità
significa aver smarrito il senso della possibilità, rimanendo così rinchiusi in un
modo meccanico soffocato dalla necessità, in cui la libertà del possibile è di
fatto interdetta.
3) Qualcosa di analogo avviene riguardo alla disperazione che attiene alla
possibilità e alla necessità (ovvero alla loro auspicabile sintesi). Così come il
finito opera una limitazione nei confronti dell’infinito, così la necessità trattiene
rispetto alla possibilità – meglio, a quell’eccesso di possibilità, veicolato dalla
fantasia, che travolge in qualche modo la necessità. In questi casi l’io
(disperazione della possibilità), non avendo più nulla di necessario a cui far
ritorno, si “sfianca” nella mera possibilità, ma “non si muove dal posto né
giunge in alcun posto”, configurandosi appunto come un “movimento sul
posto” (p. 39). Il dilatarsi della possibilità riduce i margini di possibilità dell’io,
per cui quando tutto diviene possibile l’io è per così dire risucchiato nell’abisso.
Nel suo sfrenato tendere verso il possibile, all’io manca ogni ancoraggio, la
capacità di sapersi piegare alla necessità da cui pure è costituito, ovvero non è
ha più quella sponda che gli consente di riconoscere i propri limiti. Vivendo,
infatti, sospesi in una possibilità che travolge la necessità in una fantasmagoria
di immagini fantastiche, l’io si svuota di realtà divenendo quasi un miraggio.
4) Da tale situazione di squilibrio scaturiscono essenzialmente due forme di
smarrimento. La prima è quella “desiderante e anelante, l’altra quella
melanconico-fantastica” (cfr. p. 41). In un caso, invece di riportare la
possibilità alla necessità, offrendole un appiglio, si corre sempre più dietro ad
essa, non trovando più la strada per ritornare a sé; nell’altro, l’uomo persegue,
in modo melanconico, la “possibilità dell’angoscia” (o di una speranza), che lo
strappa da sé, in modo così da “perire nell’angoscia o da perire in ciò in cui
aveva angoscia di perire” (p. 41, tr. adattata).
5) Il caso della disperazione della necessità risente di una carenza di
possibilità. Qui Kierkegaard prende di mira ogni comportamento filisteo e ogni
forma di vita caratterizzata da una decadenza piccolo-borghese. In altri
termini, Kierkegaard critica l’uomo che non rischia e non problematizza,
preferendo rinchiudersi in un orizzonte meschino fatto di ovvietà e di
esperienze triviali. In tale chiusura, l’uomo non è più aperto quindi al mondo
della possibilità e della fede, ovvero al credere come mondo della fantasia e
della libertà (cfr. pp. 41 sgg.). Il filisteismo, del resto, si qualifica per l’assoluta
mancanza di spiritualità e per la propensione ad acquietarsi in un fatalismo
deterministico. Alla “saggezza pappagallesca dell’esperienza triviale”, tipica del
conformismo, manca anzitutto la “possibilità della fede”, e con ciò la
“possibilità per distendere e lenire, per temperare la necessità” (p. 45). In tale
condizione non c’è più modo di dare una possibilità al disperato, che crede
peraltro di poter disporre a piacimento della possibilità, imprigionandola nella
“gabbia delle probabilità” (p. 45). Il filisteo è l’uomo che non è mai toccato
dall’inquietudine spirituale, essendo interamente immerso nel sonno di una vita
sensibile. Egli è dominato cioè dalle categorie del sensibile (“il piacevole e lo
spiacevole”), al punto da non arrischiare più di vivere nello spirito e nella verità
(cfr. p. 46). È come un inquilino che preferisca vivere nel sottofondo di uno
scantinato anche se la casa è tutta di sua proprietà e gli altri piani sono a sua
completa disposizione (cfr. 46 sg.). Si tratta di un uomo abituato a vivere nella
dimensione della mera sensibilità, non volendo perciò saperne di disperazione
e angoscia, che egli infatti considera alla stregua di invenzioni fantastiche. Al di
sotto però di tale non consapevolezza cova l’angoscia dell’assenza di
spiritualità, con la relativa disperazione che – latente nella profondità –
riemerge quando l’incanto dei sensi cessa di esercitare il suo inganno.
D’altronde, la disperazione è sempre direttamente proporzionale al grado della
coscienza (cfr. 45), poiché anche ignorare la disperazione non è prova della
sua non esistenza.
6) Colui che ignora tale forma di disperazione, vivendo perciò in maniera
estetica come i pagani o come l’uomo naturale, nutre in sé una contraddizione
che lo divora (cfr. p. 48 sg.). Un’esistenza condotta sulla base di ideali
puramente estetici è del resto disperante, e solo una determinazione etico-
religiosa dell’esistenza consente di ovviare all’assenza di spiritualità e alla
disperazione che ne consegue. La disperazione di chi vive a ridosso
dell’immediatezza del mondo sensibile è per lo più inconsapevole, avendo tale
uomo smarrito il proprio io e aver perduto il contatto con l’eterno. Si tratta, al
riguardo, della disperazione di voler essere un altro, anche perché l’io che è in
preda a tale disperazione si conosce solo a partire dalla propria esteriorità. Per
Kierkegaard, l’atteggiamento spirituale è tendenzialmente anti-mondano, per
cui la sua realizzazione necessita di un cambiamento così radicale da tradursi
nella simultanea consapevolezza dell’eterno e dell’io. Mentre l’atteggiamento
mondano si lega di volta in volta a qualcosa di ben definito, la salvezza
proviene dal distacco da ciò che è mondano, passando attraverso alla
disperazione quale malattia preposta alla conquista della fede.
7) L’uomo che manca di possibilità è un uomo per così dire prosaico, privo cioè
di spiritualità, d’idealità e di poeticità. È un uomo che, al contrario del
credente, non si affida a Dio, poiché con crede che “a Dio tutto è possibile” (p.
45). L’uomo a cui manca la dimensione della possibilità si accorge del possibile
allorché, di fronte a situazioni estremamente problematiche, la vita stessa
risulta soffocante. Se l’uomo resta senza possibilità è come se gli mancasse
l’aria: la “personalità è infatti una sintesi di possibilità e necessità” (p. 43) e l’io
del determinista non può respirare per il fatto che non si può respirare
esclusivamente la necessità (cfr. p. 45). Il fatalista però non ha alcun Dio, né
alcun sé, avendo elevato la necessità a proprio Dio. Al riguardo, Kierkegaard fa
un po’ il verso a Hegel, abusando della dialettica, quando afferma: “a Dio tutto
è possibile, così Dio è questo: che tutto è possibile” (p. 44). Il rischio che
Kierkegaard corre, lungo tutta La malattia per la morte, per il fatto di servirsi
di una dialettica a tratti spericolata, è in questo caso quello di far rientrare
nelle infinite possibilità divine anche tutte le possibilità non propriamente
positive. Ma a parte tali considerazioni, il senso che Kierkegaard ci comunica è
che il massimo di disperazione prova comunque che l’io resta in rapporto con
Dio anche quando sembra esserne più distante. L’io non è in grado perciò di
negare tale relazione con la divinità, per cui lo stesso demoniaco non può
realizzarsi in un’assoluta autonomia, ovvero come realtà separata. Il
demoniaco soffre infatti nel porsi come tale, e in questa sofferenza traspare la
consapevolezza dell’opposizione a Dio e all’amore, e quindi – indirettamente –
la dimostrazione della realtà dell’amore. La disperazione prova, quindi, la
realtà di ciò che è eterno nell’uomo, anche se è discutibile che l’unica
possibilità di mostrare l’amore passi attraverso il massimo grado della
disperazione – che tra l’altro Kierkegaard equipara al peccato.
8) Come possibilità infinita, Dio è la stessa condizione del pregare, poiché
essendo la volontà divina il possibile nel suo senso più pregnante, ciò consente
appunto di pregare: se la volontà di Dio fosse infatti qualcosa di necessario,
l’uomo finirebbe per restare muto. In tal senso la possibilità si riafferma come
l’antidoto nei confronti della disperazione e la salvezza della fede risolve ogni
tipo di contraddizione, dal momento che mancare di possibilità significa che
tutto è diventato necessario o che tutto è divenuto mera banalità.
9) Peraltro, la relazione tra uomo e Dio è garantita dal loro dualismo
incolmabile (assunto poi ripreso dalla teologia dialettica). Tale dualismo non
può infatti essere colmato, giacché per farlo occorrerebbe identificare
l’esistenza con l’intelletto (col pensiero) – avendo la pretesa di dimostrare
l’esistenza di Dio – oppure identificare Dio e l’uomo, finendo per divinizzare in
qualche modo l’essere umano e non riconoscere perciò il peccato in quanto
tale. D’altro canto, Dio non può rivelarsi all’uomo nella propria realtà, giacché
in questo modo la libertà dell’uomo risulterebbe compromessa. Dio deve quindi
abbassarsi fino all’uomo, ma coprendo il volto. Cristo è infatti rivelazione e al
contempo mistero. L’atto di amore di Dio consiste nel rivelarsi nascondendosi,
facendo sì che l’uomo – lasciato nella sua libertà – possa scegliere nella fede il
bene, in quanto credere nella possibilità è credere.
10) Nella fede l’uomo esce dalla generalità indistinta, costituendosi come
persona. In tal modo nasce alla vita spirituale, ovvero rinasce. La possibilità
diviene quindi, per il tramite della fede, la forma di determinazione della
concretezza. Da qui si evince che libertà e fede non possono essere separate. Il
rapporto tra realtà e libertà non è più posto, come nella filosofia hegeliana, nei
termini di una relazione astratta che trasforma la possibilità in necessità e la
concretezza esistenziale dell’uomo in genericità: infatti, la libertà, per
Kierkegaard, è l’atto concretamente responsabile attraverso cui l’uomo sceglie
il bene, senza garanzie divine o speciali rapporti d’autorità.
11) Il rapporto tra il rapporto in cui consiste l’uomo e colui che ha posto il
rapporto si allenta nell’attimo in cui l’uomo sprofonda nella disperazione.
L’uomo può essere consapevole della propria disperazione, ma può anche
ignorarla; può avere una cognizione esatta di cosa sia la disperazione o averne
invece un’opinione errata. In ogni caso, c’è un legame assai stretto – quasi di
crudele reciprocità – tra coscienza (consapevolezza) e disperazione. Non solo
un eccesso di coscienza, ma qualsiasi coscienza rappresenta di per sé una
malattia di ordine spirituale. La malattia si manifesta, alla superficie,
emergendo dal fondo oscuro dell’anima. Kierkagaard dice che la “situazione del
disperato è per lo più una semioscurità sul proprio stato, a sua volta
variamente sfumata. In qualche modo egli sa dentro di sé per un certo grado
di essere disperato, lo nota in sé, come uno nota in sé di avere una malattia
latente nel corpo, ma non vuole davvero ammettere di quale malattia si tratti”
(p. 51). Resta però che al crescere della consapevolezza s’intensifica la
disperazione. Nondimeno, chi non sa della propria disperazione non si sottrae
di fatto ad essa, essendo invece con essa in un rapporto insincero. Ignorare la
disperazione finisce per aggiungere allo smarrimento l’errore. Inoltre, se non si
è consapevoli della propria natura spirituale e se non si è consapevoli di essere
davanti a Dio in questa veste, ecco che l’ignoranza si qualifica come la forma
peggiore di disperazione. L’ignoranza getta l’io nell’oscurità, offuscando il
rapporto stesso con Dio. Perdendo, quindi, i suoi legami originari, l’uomo si
disperde nel mondo precipitando nel peccato.
12) Anche chi è però consapevole della propria disperazione, non sempre è
capace di cogliere cosa sia la disperazione, per cui accade che spesso egli
decida di nasconderne il vero significato. Nella mancata ammissione della
propria malattia c’è la volontà inconfessata di sottrarsi ad essa. Costui sa, ma
finge di non sapere, non avendo cioè il coraggio di dire ciò che sa. Non volendo
andare fino in fondo nella verità che lo riguarda così da vicino, un disperato di
tal genere inganna dunque se stesso, essendo propriamente in malafede, non
volendo riconoscere la malattia che lo ha cacciato in quello stato di
disperazione che pur rileva.
13) “in ogni oscurità e ignoranza c’è, insomma, un gioco dialettico di
conoscenza e volontà” (p. 52). La disperazione non può essere dunque
analizzata solo sotto l’aspetto della conoscenza o quello della volontà. Infatti,
vi sono sempre diversi gradi di consapevolezza che investono sia il “cosa” sia il
“chi” della disperazione. Il disperato che è consapevole d’insistere nella
disperazione – che non vuole liberarsi di essa, non avendone un’idea esatta –
non vuol sapere cos’è la disperazione e cosa lo fa in realtà disperare.
14) Laddove la disperazione è consapevole c’è un uomo che insiste
volontariamente in essa. In tal caso, il disperato è tale perché “disperatamente
non vuol essere se stesso” o, viceversa, “disperatamente vuol essere se
stesso” (cfr. pp. 53 sgg.). La prima disperazione è quella femminile, detta della
debolezza; l’altra è quella maschile, ovvero dell’ostinazione. Tra le due, la
differenza è solo relativa, in quanto anche nella disperazione massimamente
ostinata è presente una qualche debolezza. Nel caso di chi non vuole
disperatamente essere se stesso si possono riconoscere due tipi umani: a) in
un caso abbiamo l’uomo immediato (cfr. p. 54 sg.) che, rinchiudendosi nel
cerchio della temporalità e della mondanità, dispera per ciò che è terreno,
dando luogo alla forma più universale e comune di disperazione (cfr. p. 60 e
63); b)vi è poi anche la figura dell’uomo per così dire taciturno che, disperando
della propria debolezza rispetto al finito, dispera per se stesso e per l’eterno
che ha perduto (cfr. pp. 63 sgg.).
15) Riguardo al voler essere disperatamente se stesso (cfr. pp. 69), si possono
fare alcune distinzioni. In primo luogo, l’ostinazione ha a che fare con un io
attivo (cfr. p. 71 sg.) che, nel divinizzare se stesso, “non riconosce nessuna
potenza sopra di sé” (p. 71), realizzando la volontà di staccarsi da Dio. C’è
però anche l’ostinazione di un io passivo che, offeso per così dire dall’esistenza,
piegato dalle sofferenze e dalle difficoltà in cui ha urtato, nega la possibilità di
potersi liberare dalla propria “croce”, fino a ribellarsi con forza a Dio per farsi
testimone del cattivo operato divino (cfr. p. 72 sg.). A differenza della
disperazione cosiddetta della debolezza, qui ci troviamo dunque al cospetto di
una disperazione che ha assunto i tratti dell’ostinazione. In questi casi la
disperazione non consiste più in un patire per ciò che proviene dall’esterno, ma
è qualcosa che scaturisce direttamente dall’io, avendo il suo fondamento nel
fatto di volersi costituire interamente da sé il proprio io, non puramente come
compito da realizzare, ma in ragione della propria riconosciuta infinità.
Kierkegaard dice, infatti, che per voler essere disperatamente se stesso “ci
dev’essere coscienza di un sé infinito” (p. 70), anche se poi questo sé infinito è
solo la “forma più astratta” e la “più astratta possibilità del sé”, per cui volendo
essere disperatamente proprio questo sé, si viene a strappare il sé da ogni
rapporto con la potenza che l’ha posto.
16) Col richiamo a tale forma infinita il sé vuole creare se stesso, vuole
disporre di sé, vuol fare di sé ciò che vuol essere, decidere come dev’essere
costituita la propria concretezza. In tal senso, l’io si predispone a rifiutare ogni
aiuto, anche quello che per assurdo potrebbe provenire da Dio. Entrambe le
forme autentiche di disperazione verranno identificate da Kierkegaard, nella
seconda parte, come peccato, poiché il peccato – in quanto disperazione –
consiste sempre nel fatto che l’io non vuole essere fondato da Dio, riferendosi
unicamente a sé. Su questo piano emergerà, quindi, che il concetto contrario
del peccato non è la virtù ma la fede. È la fede, infatti, a contenere la decisione
paradossale – contraria alla ragione – di far sì che il proprio sé sia fondato in
Dio, pur volendo però continuare ad essere se stesso.
17) Nel caso l’io si ponga in forza di sé, siamo nella figura della disperazione in
cui ci si vuole liberare di sé e in cui l’io consiste in un rapporto squilibrato nel
quale esso si rifiuta di rapportarsi all’assoluto; Nel caso, invece, in cui l’io si
riconosce come un rapporto derivato, e cioè come posto da un altro, ecco che
la disperazione consiste nel voler essere se stesso. Al di sopra del livello
contrassegnato dalla sintesi di coppie di termini opposti vi sono dunque due
piani: il primo consiste nel rapportarsi a sé del rapporto; il secondo consiste
nel rapportarsi a un altro, nel mentre si rapporta a sé. L’intricata struttura
della disperazione mostra come ciascuna delle due forme autentiche possa
essere ricondotta all’altra, a seconda che si privilegi il rapportarsi all’altro o il
rapportarsi a sé. Fin dall’inizio (cfr. p. 16) Kierkegaard afferma che la “seconda
forma di disperazione (voler essere disperatamente se stesso) designa tanto
poco una peculiare specie di disperazione, che al contrario ogni forma di
disperazione può essere infine risolta e ricondotta ad essa”. Questa forma di
disperazione rappresenta tra l’altro un privilegio immenso, poiché la sua stessa
possibilità rappresenta la peculiarità dell’uomo nei confronti dell’animale,
definendone infatti la spiritualità ma, al contempo, istituendo un discrimine tra
cristiano e pagano. Nell’ambito dell’esperienza cristiana, è questa dunque la
forma tipica di disperazione che l’uomo può estirpare solo passando attraverso
la consapevolezza di fondarsi, in maniera trasparente, nella potenza che l’ha
posto. Sotto questo profilo, anche la disperazione che consiste nel non voler
essere se stesso può essere ricondotta all’altra figura della disperazione, nella
misura in cui anche in essa – in modo però non sempre consapevole – si
avanza il rifiuto di rapportarsi a un altro, ma appunto nelle forme di un
rapportarsi a un altro in maniera negativa.
18) Da un altro lato, però, Kierkegaard sembra contraddire ciò quando afferma
che “disperare per se stesso, disperatamente volersi disfare di se stesso, è la
formula di ogni disperazione, perciò l’altra forma della disperazione,
disperatamente voler essere stesso, può essere ricondotta alla prima [...]” (p.
22). Qui il carattere dialettico dello stato della disperazione raggiunge il suo
culmine. Se è vero, infatti, che chi vuole essere disperatamente se stesso non
vuole certo sbarazzarsi di sé, voler essere l’io che si è non corrisponde però qui
all’esatto contrario della disperazione. Difatti, l’uomo che in questo caso vuole
disperatamente essere se stesso, vuole essere proprio quell’io che esso non è,
ovvero vuol separare il proprio io dalla potenza che l’ha posto, non volendo
cioè essere quell’io che invece è chiamato ad essere (cfr. p. 22). L’io che
intende assolutizzare se stesso nega il rapporto con l’assoluto e in tal modo
cade nella disperazione. Anche il solo pensare di potersi svincolare dal rapporto
con l’assoluto è una pura illusione, in quanto si può scegliere di farlo solo sulla
base di quel rapporto fondativo da cui deriva la libertà del singolo. L’uomo che
non vuole disperatamente essere quell’io che si rapporta all’assoluto, decide
liberamente per tale negazione solo in quanto fondato nella potenza che gli dà
possibilità di scegliere, e paradossalmente contro la potenza stessa.
Kierkegaard al riguardo conclude che, per quanto il disperato possa ritenere di
aver perso del tutto il proprio io, il senso di eternità continuerà invece a tenerlo
legato ad esso, mostrandogli così che il pensiero di essere riuscito a
sbarazzarsene era solo un’illusione, anche “perché avere un sé, essere un sé è
la massima, l’infinita concessione che è fatta all’uomo, ma insieme la richiesta
che l’eternità gli fa” (p. 23).
19) La finezza dell’analisi psicologica di Kierkegaard si rivela nell’esser riuscito
a indagare e a tipizzare nella loro sintomatologia le varie forme della
disperazione – da quelle latenti a quelle palesi e portatrici di tormento. Tale
malattia dello spirito ha tratti benefici, nella misura in cui risulta essere il
viatico per l’eternità, ma è pur sempre una crisi in un duplice aspetto: da un
lato, come rottura rispetto all’immediatezza della vita naturale e come
turbamento del vivere quotidiano, dall’altro, come consapevolezza che da tale
condizione si potrà comunque ripristinare la salute, tramite un aiuto
sovrannaturale. La disperazione incrina la sicurezza dell’uomo immediato,
altera la fiducia che egli nutre nella natura, facendogli così scorgere i propri
limiti, disponendolo ad abbandonare Dio. Tale abbandono è compiuto dall’uomo
sempre con le proprie forze. Scegliendo di morire per eccesso di spontaneità e
immediatezza, l’uomo nutre però anche il fine di una rinascita spirituale. Il
piano della vita spirituale non è ancora, tuttavia, quello dell’eterno, poiché
quest’ultimo irrompe in modo misterioso e, a tratti, perfino assurdo. Dopo una
prima rottura che si consuma col mondo dell’immediatezza, si apre una crisi
ancor più acuta che solo Dio può sanare. Di qui l’insistenza kierkegaardiana sul
fatto che la disperazione – proprio per la sua natura dialettica – è una malattia
che è meglio contrarre, per quanto sia anche la più difficile da debellare.
20) La critica che Kierkegaard rivolge agli atteggiamenti di vita filistei è sempre
incisiva e colpisce senz’altro nel segno, ma a tratti pare un po’ compiaciuta
nello sconfessare ogni rapporto positivo con la realtà naturale, come se la vita
che non passa attraverso l’angoscia e la disperazione fosse di fatto sprecata.
La vita è infatti, per Kierkegaard, seduzione e inganno, per cui “quando un
giorno la clessidra, la clessidra della temporalità, sarà trascorsa; quando sarà
ammutolito il rumore della mondanità, e il daffare inesausto e inconcludente
avrà fine [...] l’eternità chiederà a te, e a ciascun singolarmente di questi
milioni e milioni, solo una cosa, se tu abbia vissuto o no disperato [...]” (p.
30). Di fronte al pensiero di Kierkegaard, soprattutto di quello esposto nelle
opere cosiddette edificanti, ci si trova in una situazione ambivalente: da un lato
ci si sente attratti dalle critiche ad ogni forma di conformismo e di grettezza,
risultando così partecipi del suo tormento religioso; dall’altro, invece, si stenta
ad accettare l’idea che la natura debba essere vista attraverso un velo di colpa
e che la materia comporti una costante ribellione nei confronti dello spirito, di
modo che la presenza di Dio sarebbe resa possibile solo dall’assenza del
mondo. Supposto che la felicità non rappresenti una determinazione dello
spirito e che l’uomo si trovi sempre in uno stato critico al limite della malattia,
l’inquietudine – come arricchimento della nostra conoscenza emozionale
mediante la scoperta di sempre nuove dimensioni – non può limitarsi però a
rincorrere solo se stessa, in un gioco acrobatico che si affaccia sull’abisso di un
nulla che essa stessa ha creato. Nella prefazione alla Malattia per la morte (cfr.
p. 5 sg.), Kierkegaard si richiama però unicamente all’eroismo cristiano,
consistente “nell’osare diventare fino in fondo se stesso, un uomo singolo,
questo determinato uomo singolo, solo di fronte a Dio [...] (p. 5). In altri
termini egli si appella a una conoscenza da condurre con “preoccupazione”, in
linea cioè con la serietà che edifica. Se Hegel aveva nutrito dunque grande
disprezzo per la filosofia edificante, Kierkegaard – alzando il tiro – sostiene che
tutto dev’essere edificante, per cui tale edificazione deve risolversi nel
guardare la vita dal punto di vista della morte, anche perché la guarigione della
malattia che colpisce lo spirito “è proprio morire, morire a” (p. 6).