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Introduzione

Libro I: durante le feste Bendidie, Socrate si reca con Glaucone e altri a casa di Cefalo. Questo inizia a discutere con
Socrate dei presunti svantaggi e sui benefici della vecchiaia, dichiarando che le ricchezze aiutano a supportare l’età
senile e a comportarsi in modo giusto. Il discorso quindi si incentra sull’essenza della giustizia. Polemarco sostiene che
la giustizia consiste nel fare del bene agli amici del male si nemici; Socrate confuta questa tesi mostrandone i paradossi,
e pone l’accento sulla necessità di distinguere i veri amici e i veri nemici da quello che sembrano tali, ma non lo sono.
Inoltre, chi danneggia rende sempre peggiore il danneggiato, e questo non può essere l’obiettivo del giusto. Trasimaco
afferma che la giustizia consiste nell’interesse del più forte, cioè di chi detiene il potere. La prima obiezione che muove
Socrate è che i forti possono anche sbagliare; la seconda è che ogni arte non persegue il proprio utile, ma l’utile di ciò
cui si rivolge. Ogni arte e disinteressata. Il vero uomo politico non mira al proprio interesse, ma quello dei sudditi.
Trasimaco identifica l’ingiustizia con la virtù, Socrate lo porta ad ammettere che il giusto non cerca di prevalere sul
giusto, ma solo sull’ingiusto; l’ingiusto invece cerca sempre di prevalere su entrambi. Non si può quindi attribuire
all’ingiustizia la sapienza e la virtù, poiché in tutte le attività chi è competente cerca di prevalere solo su chi è
incompetente. Propria dell’anima è la giustizia, quindi solo l’anima giusta e felice.

Libro II: Glaucone distingue tre categorie di beni: quelli che si desiderano solo per se stessi, quelli che si desiderano
anche per i vantaggi che procurano, quelli che si desiderano solo per questi ultimi. La giustizia secondo Socrate rientra
nella seconda categoria, ma l’opinione comune, di cui Glaucone si fa portavoce, la colloca nella terza. Glaucone con un
discorso provocatorio finge di sostenere la tesi di Trasimaco: il massimo desiderio dell’uomo è commettere l’ingiustizia
restando impunito e la paura più grave è subire ingiustizie senza potersi vendicare. Adimanto intenzionalmente reca altri
argomenti a favore di Trasimaco: gli uomini in realtà non lodano la giustizia ma la reputazione di uomo giusto; la
condizione migliore è dunque quella di un’ingiustizia mascherata da giustizia. Socrate propone di analizzare la giustizia
nell’ambito più ampio dello Stato e delinea una città semplice e primitiva costituita da contadini, artigiani e
commercianti e basata su una divisione dei compiti. Glaucone reclama uno stato più ricco, il che però porta un
ampliamento della città. Ciò implica l’esercizio della guerra e, di conseguenza, la creazione della classe dei guardiani,
dedita alla difesa della città. I guardiani devono essere miti e animosi a seconda delle circostanze e amanti del sapere. Si
pone quindi il problema della loro educazione che sarà innanzitutto musicale poi ginnica. Bisogna eliminare dalla città
tutte le opere poetiche che danno un’immagine distorta degli dei e degli eroi presentandoli immersi nei vizi nella
malvagità.

Libro III: poiché i guardiani vanno educati al coraggio e alla temperanza, bisogna rigettare le poesie e i miti che
suscitano paura della morte e offrono rappresentazioni sconvenienti e mendaci di dei ed eroi. Solo i governanti hanno il
diritto di mentire ai sudditi a fin di bene. Socrate distingue tre forme di poesia: narrativa, imitativa e mista. Il poeta
imitatore non deve essere accolto nella città ideale. Poi passa in rassegna le armonie, gli strumenti musicali e i ritmi,
indicando quali si addicono ai guardiani e quali no. La loro educazione musicale deve mirare a un ideale di bellezza
attraverso il ritmo e l’armonia. Il successivo esame dell’educazione ginnica evidenza i rapporti tra essa e la medicina e
permette un confronto tra i medici e giudici: i primi, curando il corpo con l’anima, devono avere esperienza delle
malattie, mentre i secondi, curando l’anima con l’anima, devono avere l’anima incorrotta. L’educazione ginnica deve
sviluppare più la forza morale che quella fisica e deve pertanto contemperarsi con l’educazione musicale. Per esporre i
criteri di scelta dei guardiani, Socrate ricorre al mito della nascita degli uomini dalla terra e della loro distinzione interna
in tre classi: aurea (governanti), argentea (guerrieri), bronzea (prestatori d’opera).

Libro IV: Socrate precisa che la città ideale mira al benessere della collettività, non di una singola classe; perciò
bisogna evitare l’eccesso sia della povertà sia della ricchezza, che crea divisioni interne, e avere una giusta estensione
territoriale. A tale scopo i guardiani devono impedire modifiche nell’educazione ginnica e musicale; la legislazione
dovrà basarsi su pochi precetti fondamentali, sanciti da Apollo delfico. La presenza nella città ideale della giustizia
viene appurata tramite la ricerca delle tre virtù che si connettono ad essa: sapienza, coraggio, temperanza. La sapienza è
la virtù di coloro che hanno compiti di governo, il coraggio è la virtù dei guardiani dediti alla guerra e alla difesa; la
temperanza invece deve risiedere in tutte e tre le classi dei cittadini. La giustizia consiste nell’assolvere il proprio
compito all’interno delle città, senza scambi tra le classi. Socrate dimostra che la giustizia nella città è la stessa
nell’anima dell’individuo, in quanto la struttura dell’anima è analoga a quella della città. Vengono distinte le tre facoltà
dell’anima: facoltà razionale, concupiscibile, impulsiva. L’uomo è giusto quando la parte razionale dell’anima,
sostenuta da quella impulsiva, comanda su quella concupiscibile.

Libro V: Adimanto chiede spiegazioni circa la comunanza di donne e figli. Socrate affronta la “prima onda”, ossia
l’identità di compiti e educazione tra uomini e donne, e spiega che la differenza di sesso non implica una differenza di
attitudini, benché le donne siano più deboli. Viene quindi affrontata la “seconda onda”: la regolamentazione dei
matrimoni e delle nascite. I matrimoni dovranno avvenire tra cittadini migliori, per mantenere costante le qualità e il
numero degli abitanti. I giovani dovranno ricevere un’educazione guerriera ed assistere alle battaglie per imparare il
loro futuro compito; La città dovrà riservare dei premi ai giovani più valorosi. Si arriva così al problema più arduo, la
“terza onda”: una tale città implica che i filosofi governino o che i governanti pratichino la filosofia. Dopo aver definito
il filosofo come colui che ama la il sapere e la verità pura, Socrate espone la differenza tra ignoranza, scienza e
opinione: l’ignoranza è mancanza di conoscenza, la scienza è conoscenza dell’essere, l’opinione è uno stato intermedio.

Libro VI: Il filosofo deve governare perché è il solo a conoscere l’essere e la verità; è sincero, temperante, disprezza i
beni mondani, apprende con facilità e possiede l’armonia interiore. Il filosofo non è mai malvagio ma l’ambiente che lo
circonda può corromperlo, poiché anche le migliori nature sono corruttibili se male educate. Tale azione corruttrice è
dovuta al volgo e ai sofisti, indegni seguaci della filosofia. Solo la città ideale consente ai filosofi di svolgere la propria
opera e di convincere il popolo, quindi deve essere guidata da loro. La educazione dei filosofi deve mirare alla
disciplina più alta, avente come oggetto il bene. Si deve rendere necessaria quindi la definizione dell’idea del bene, di
cui Socrate coglie l’analogia con il sole.

Come il sole, pur donando vita, colore e nutrimento agli oggetti sensibili, non si identifica con essi, così il bene
permette la visione del mondo intellegibile e lo trascende. L’analisi prosegue con l’immagine della linea diviso in
quattro segmenti che rappresentanoi quattro tipi di oggetti del conoscere: immagini, oggetti sensibili, concetti scientifici
e idee. I primi due concernono il mondo sensibile, i secondi due il mondo intellegibile. Ad essi corrispondono quattro
gradi di conoscenza: immaginazione, assenso, riflessione e intelletto.

Libro VII: Il complesso discorso teorico del libro precedente viene esplicitato attraverso il mito della caverna, allegoria
del filosofo che si solleva dal sensibile alle idee e il ritorno nel mondo per governarlo. Nell’educazione del filosofo, che
ha il compito di convertire il suo sguardo verso l’idea del bene, la musica e la ginnastica devono essere affiancati da
altre discipline: la matematica, la geometria l’astronomia, la stereometria, l’armonia e soprattutto la dialettica, che ha
come scopo la conoscenza del bene, il cui principio non è basato su ipotesi. Vengono quindi esposti i criteri di scelta dei
futuri filosofi dialettici, le loro qualità e la loro educazione graduale a partire dall’infanzia.

Libro VIII: Socrate annuncia di voler ritornare all’argomento principale della sua indagine, ossia la felicità del giusto e
l’infelicità dell’ingiusto; a tal proposito conduce un’analisi delle quattro forme di governo esistenti, cui corrispondono
quattro tipi di uomo: timo Grazia oligarchia democrazia e tirannide. La timocrazia nasce dall’aristocrazia ma è la
corruzione di quest’ultimo: ciò accade perché i guardiani non determinano con esattezza il numero nuziale, che regola il
ciclo delle nascite. In questo regime regnano l’ambizione e un occulto amore per il denaro. Quando l’amore per il
denaro diventa palese nasce il regime oligarchico, basato sul censo e diviso al suo interno in stato dei poveri è stato dei
ricchi. Alla rivolta contro questo regime nasce la democrazia, caratterizzata da una libertà che degenera in anarchia; in
questo caso vi è un regime dominato dall’elemento concupiscibile.

Libro IX: Socrate pone l’accento sulla presenza in ogni individuo di desideri sfrenati e contrari alla legge, che si
manifestano soprattutto nei sogni. Alla tirannide viene contrapposta la perfetta felicità dello Stato Regio, cioè della città
ideale, e si adducono le prove dell’infelicità della tirannide. La prima è di natura politica: l’uomo tirannico, come il
regime che rappresenta, è schiavo, pieno di paure e di lamenti, perciò è sommamente infelice. Al contrario, la massima
felicità spetta all’uomo regale. La seconda prova consiste in una divisione dei piaceri in tre specie, rispondenti alle tre
parti dell’anima; il filosofo si dedica solo ai piaceri della parte razionale, che sono superiori agli altri. La terza prova, di
carattere metafisico, viene dall’esame della natura dei piaceri. Socrate fornisce una dimostrazione matematica della
distanza che separa il re-filosofo dal tiranno, calcolata in 729 anni. Poi passa all’analisi degli effetti prodotti dalla
giustizia e dall’ingiustizia. La tripartizione dell’anima implica una triplice composizione dell’uomo, che consta di un
mostro policefalo, un leone e un uomo. Quando l’uomo, con l’aiuto del leone, tiene a freno il mostro prevale la
giustizia, quando il mostro domina sulle altre due parti si ha l’ingiustizia.

Libro X: La discussione torna sulla poesia e l’imitazione, e si opera la distinzione teoretica tra le idee, gli oggetti
sensibili, e gli oggetti dell’arte. Il poeta e il pittore imitano gli oggetti sensibili, ovvero ciò che è come appare: la loro
arte, imitazione dell’apparenza, è perciò tre gradi lontana dalla verità. L’imitatore non ha né scienza nè retta opinione di
ciò che imita; l’arte genere illusione e si rivolge alle passioni della parte inferiore dell’anima, come dimostrano gli
effetti negativi che la poesia tragica economica produce sugli spettatori. L’accenno alle ricompense assegnate alla virtù
dopo la morte offre a Socrate l’aggancio per dimostrare l’immortalità dell’anima. Innanzitutto l’anima non perisce né
per il male suo proprio (quindi per ingiustizia) né per il male altrui (quindi del corpo). Il numero delle anime non è
soggetto a variazioni. La composizione dell’anima è perfetta, ma la si può contemplare nella sua purezza solo dopo che
si è staccata dal corpo. L’opera si conclude con il mito di Er, che in una grandiosa rappresentazione della struttura
dell’universo, governato da una perfetta armonia, descrive il giudizio cui le anime vengono sottoposte nell’aldilà e la
loro reincarnazione.
La Repubblica – Platone

Libro I

Socrate “scese” (discese, da “katebaino”) al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone e fratello minore di Platone, per
pregare la dea Bendis durante le feste Bendidie . Parteciparono anche Polemarco, Adimanto, fratello maggiore di
Platone, Nicerato, Trasimaco e altre persone. Si recarono a casa di Cefalo, il quale salutò Socrate con grande affetto;

Cefalo esordisce affermando che <<in queste riunioni la maggior parte di noi si lamenta, rimpiangendo i piaceri della
gioventù, ricordando le gioie dell’amore, le bevute, i banchetti, ecc; costoro si indignano pensando di essere stati privati
di grandi beni, pensando che quella che conducono non possa neanche definirsi vita>>. Tuttavia, egli afferma anche che
lui stesso, come altri, non rimpiange affatto la gioventù e, anzi, trae più vantaggi e soddisfazioni nella vecchiaia e
nell’abbandono delle passioni tipicamente giovanili; infatti, in vecchiaia <<si può essere liberi da un gran numero di
padroni folli>>. Socrate, pur ammirando il discorso di Cefalo, risponde affermando che <<sopporti la vecchiaia non per
tuo carattere, ma perché possiedi molte sostanze: i ricchi, infatti, hanno molte consolazioni>>. A questo punto, Cefalo
evidenzia che i piaceri scaturiti dalla vecchiaia dipendono dalla giustizia che è stata applicata durante tutta la vita.

Polemarco afferma, riprendendo un’affermazione di Simonide, che il giusto consiste nel restituire a ciascuno il dovuto;
Socrate afferma, tuttavia, che <<chi restituisce del denaro a uno che l’ha lasciato in deposito non restituisce il dovuto, se
il restituire e il riprendere si traducono in danno, e chi restituisce e chi riprende sono amici>>. Polemarco fornisce una
definizione di giustizia, affermando che essa è l’arte di beneficiare gli amici e arrecare danno ai nemici. Socrate, quindi,
attraverso l’arte della maieutica, ribalta il suo discorso mostrandone l’erroneità: certamente gli amici sono coloro che ci
sembrano onesti e i nemici coloro che ci appaiono come disonesti, ma <<non è forse vero che gli uomini si sbagliano in
proposito, tanto che molti sembrano onesti senza esserlo, e viceversa?>>, dunque <<accadrà che molti, i quali hanno
sbagliato nel giudicare gli altri, troveranno giusto danneggiare gli amici, ritenendoli malvagi, e giovare ai nemici,
ritenendoli buoni>>. Diventa necessario, quindi, attribuire una definizione anche a “amico”, il quale non solo deve
sembrare onesto, ma deve esserlo davvero; Socrate quindi afferma che <<l’amico è l’uomo buono e il nemico l’uomo
malvagio>>, chiarendo anche che non è mai opera della giustizia quella di arrecare danno a nemici o amici poiché essa
agisce solo per il bene.

Trasimaco aggredisce Socrate accusandolo di essere solo capace di confutare le tesi altrui senza saper fornire una vera
definizione di giustizia. Socrate afferma, in sua difesa, che un uomo che non sa e dice di non sapere non può fornire una
sua opinione su un dato argomento, ma solo arricchirsi di quelle altrui, accettandole o confutandole. Trasimaco afferma
che la giustizia coincide col volere del più forte; ed il giusto del più forte, ad esempio, di un governante, corrisponde al
suo utile. Socrate, tuttavia, afferma che spesso i governanti possono sbagliare e, addirittura, agire in modo contrario al
loro stesso utile e a quello dei sudditi; Socrate: <<nessun artigiano, governante o sapiente sbaglia quando è tale>>,
inoltre, << nessun’arte ricerca l’utile proprio, giacché non ne ha bisogno, bensì l’utile di ciò che la concerne come arte;
nessuna scienza ricerca e impone l’utile del più forte, bensì di chi è più debole e soggetto ad essa; nessun medico ricerca
l’utile di sé stesso, ma solo quello dell’ammalato>>. Trasimaco afferma che i governanti non ricercano mai il bene dei
sudditi, ma solo il suo proprio bene e interesse, inoltre, <<devi considerare che in ogni circostanza un uomo giusto
ottiene sempre meno di uno ingiusto; infatti, l’ingiustizia più perfetta rende felicissimo chi la commette>>. Socrate
confuta questa teoria affermando che nessuno vuole ricoprire volontariamente le cariche più alte senza compenso,
proprio perché il loro dovere è quello di occuparsi dell’utile e del bene dei sudditi e quello di occuparsi dei mali altrui,
raddrizzandoli. Trasimaco, dunque, definisce la giustizia come ingenuità e l’ingiustizia come accortezza, nonostante
consideri la prima più virtuosa della seconda. Socrate, capovolgendo il discorso di Trasimaco, giunge a definire l’uomo
buono e quello cattivo: <<chi è buono e sapiente non vorrà prevalere su chi gli è simile, ma solo sul suo dissimile e
contrario>> (per esempio, un buon medico non vuole prevalere su un altro medico, ma solo su chi non è medico); <<chi
è malvagio e ignorante, invece, vorrà prevalere sia sul simile che sul dissimile>>. Socrate riesce, infine, a fare
ammettere a Trasimaco che il giusto è buono e sapiente e l’ingiusto malvagio e ignorante, e che l’ingiustizia provoca
odi e discordie mentre la giustizia armonia e amicizia. Socrate aggiunge anche che <<coloro che sono pienamente
malvagi e ingiusti sono anche incapaci di agire>>. Socrate conclude affermando che <<esistono delle funzioni proprie
dell’anima che non si potrebbero compiere con nessun’altra entità, come dirigere, comandare, decidere e vivere>>,
dunque <<è inevitabile che un’anima cattiva diriga e comandi male, mentre un’anima buona svolge bene tutti questi
compiti; quindi, l’anima giusta vivrà bene e felice mentre l’ingiusto vivrà male e infelice>>.
Libro II

Glaucone afferma che esistono tre tipi di bene: 1. il bene che si desidera solo per sé stesso, come la gioia o il piacere;
2. il bene che desideriamo per ciò che è e per ciò che ne deriva, come il possedere l’intelligenza, la vista e la buona
salute; 3. il bene che si desidera esclusivamente per i vantaggi che ne derivano. Secondo Socrate, la giustizia si colloca
nella seconda categoria di bene. Glaucone, rinnovando il discorso di Trasimaco, cerca ora di tessere le lodi vita ingiusta
partendo dall’analisi e genesi della giustizia: <<si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene e il subirla
un male; quando gli uomini commettono e subiscono ingiustizie reciproche, decidono di accordarsi per non
commetterle né subirle. Da qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra di loro e a dare a ciò che viene imposto dalla
legge il nome di legittimo e giusto. Questa è l’origine e l’essenza della giustizia che sta a metà fra la condizione
migliore e quella peggiore>>; <<nessuno è giusto di sua volontà, ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia
un bene di per sé: ciascuno, laddove crede di poter commettere ingiustizia, la commette>>; <<l’uomo ingiusto deve
intraprendere le sue azioni dilettuose con accortezza, senza farsi scoprire; infatti, chi viene colto sul fatto deve essere
giudicato una persona dappoco>>. Glaucone pone a confronto quest’uomo ingiusto con l’uomo giusto: <<l’uomo giusto
sarà frustato, torturato, imprigionato, e dopo che avrà subito ogni generi di mali, verrà impalato e riconoscerà che non
bisogna voler essere giusti ma solo sembrarlo . L’ingiusto, invece, dal momento che dedica i suoi sforzi a una cosa
attinente alla verità e non vive secondo l’apparenza, non sembra ingiusto ma vuole esserlo; infatti, a lui più che
all’uomo giusto tocca essere caro agli dei>>.

Adimanto afferma che gli dei predestinano una vita (terrena) turpe e difficile per gli uomini giusti e una vita agevole e
meravigliosa per quelli ingiusti. Come Glaucone, afferma che <<al giusto che non ne ha l’apparenza non viene alcun
vantaggio, mentre all’ingiusto che si è acquistato fama di giustizia è attribuita un’esistenza divina>> e <<per essere
felici bisogna percorrere questa via>>. Inoltre, aggiunge che <<se saremo giusti, eviteremo unicamente i castighi degli
dei, ma perderemo i guadagni che derivano dall’ingiustizia; se invece saremo ingiusti godremo di questi vantaggi e per
quanto trasgressori e peccatori persuaderemo gli dei con le nostre suppliche e ne verremo fuori impuniti>>.

Socrate, per mostrare l’erroneità dei discorsi di Glaucone e Adimanto, fa un parallelismo fra il macrocosmo città e il
microcosmo uomo; egli ricerca <<prima di tutto la natura della giustizia nelle città, per poi esaminarla nel singolo
individuo>>. Quindi, <<costruiamo teoricamente una città, sin dalle fondamenta. La creerà il nostro bisogno>> poiché
l’individuo non è autosufficiente e, avendo molti bisogni, deve associarsi con altri individui. Socrate delinea le funzioni
dei cittadini che dovranno mettere a disposizione della collettività le loro abilità e mestieri; si assegna ad ogni cittadino
una sola attività, col fine che la svolga al meglio. Ci sarà bisogno di un mercato e di una moneta e di importazioni di
merci, di coltivare l’arte della guerra attraverso i guardiani che sono coloro che hanno un’indole filosofica adatta alla
difesa della città, la cui caratteristica spirituale sarà l’animosità . I guardiani <<dovranno essere miti con i concittadini e
duri con i nemici, altrimenti si annienteranno da soli>>. <<Ottimo guardiano della città sarà filosofo, animoso, veloce e
forte>>. L’educazione di questi guardiani consiste in sostanza <<nella ginnastica per il corpo e nella musica (comprese
le opere letterarie) per l’anima>> e sarà necessario che venga insegnata prima la musica e poi la ginnastica e che tale
educazione venga impartita sin dalla prima infanzia. Non bisognerà raccontare ai bambini favole composte male o
false, e <<evitare di proporre loro racconti e raffigurazioni di gigantomachie e di ogni altro genere di lotta ingigantita
dagli dei e dagli eroi con i loro congiunti e familiari; bisogna fare ogni sforzo affinché le prime cose studiate dai giovani
siano miti e composti nel miglior modo possibile per incitarli alla virtù>>. Socrate definisce il bene come un qualcosa di
utile; <<ciò che è buono non è la causa di tutto, ma è responsabile solo del bene e non del male; quindi la divinità,
essendo buona, non sarà la causa di tutto, ma sarà responsabile di poche vicende umane, non di tutte. La causa del bene
è la divinità, per i mali bisogna ricercare un’altra causa>>. Socrate, quindi, formula una prima ipotetica legge di questa
città: la divinità non è causa di tutto ma solo del bene. Infatti, <<dobbiamo opporci a quanti affermano che un Dio, pur
essendo buono, è causa di sventure: in una città simile nessuno potrà riferire o ascoltare simili menzogne>>. Tutto ciò
che è stato costruito bene e che si trova in buono stato subisce un minimo mutamento dalle opere altrui; analogamente,
<<la divinità sarà l’essere meno soggetto ad assumere molte sembianze>>. <<Nessuno accetterebbe mai di cogliere e
conservare nell’anima l’inganno sulla natura delle cose, e di restare così nell’ignoranza>>. Infatti, <<in un Dio non ci
può essere un poeta mentitore; non c’è motivo per cui un dio potrebbe mentire>>. <<Insomma, la divinità è semplice e
veritiera nei fatti e nelle parole, non subisce mutamenti e non inganna gli altri né con apparizioni, né con discorsi, né
con l’invio di segni durante la veglia o in sonno>>.
Libro IV

Adimanto, prendendo parola, disse: <<tu non rendi affatto felici questi uomini, e ciò proprio per colpa loro, perché pur
essendo i veri padroni della città non ne traggono alcun vantaggio; i tuoi cittadini se ne stanno come degli ausiliari
prezzolati, intenti unicamente a fare la guardia>>.

Socrate rispose affermando che <<non fondiamo la città allo scopo di rendere straordinariamente felice una classe del
popolo, ma allo scopo di rendere felice l’intera città >>. <<Si deve pertanto considerare se l’istituzione dei guardiani
miri a procurare la loro massima felicità, o a far sì che questo beneficio ricada sulla città intera; e così, in una situazione
di generale sviluppo e buon governo, si deve permettere che ciascuna classe abbia la parte di felicità che le è concessa
dalla natura>>.
Socrate delinea una nuova mansione per i governanti: badare con ogni mezzo che i mali di povertà e ricchezza non si
insinuino di nascosto nella città>>, poiché la ricchezza genera mollezza, indolenza e desiderio di novità; la povertà,
oltre al desiderio di novità, genera bassezza d’animo, e scadimento del lavoro>>. <<Finché la tua città sarà governata
nel modo saggio che abbiamo stabilito, sarà realmente potentissima. Ne troverai molte più grandi di questa, che sono
tali solo all’apparenza>>. Questa città deve avere un limite, non deve essere né piccola né grande: <<che si ingrandisca
fino al punto in cui possa, crescendo, conservare la sua unità, e non oltre>>. Tutti i cittadini eccellenti devono essere
annoverati nella classe dei guardiani; <<gli altri cittadini vanno indirizzati ciascuno al solo compito cui è portato per
natura>> e mai ad altre mansioni.
L’unica prescrizione importante e sufficiente per i guardiani è l’educazione spirituale e fisica; <<uno stato, una volta
che sia partito bene, procede crescendo come un cerchio: l’educazione spirituale e fisica producono nature oneste>>.
L’educazione dei più giovani è fondamentale e non può essere corrotta tramite musiche o composizioni letterarie
devianti; <<la direzione presa sin dalla fanciullezza determina anche il seguito della vita>>. Per fondare la città è
necessario anche stabilire quali leggi siano utili e quali no. La città così fondata sarà sapiente, coraggiosa, temperante
e giusta. La prima virtù, la sapienza, è la scienza dei guardiani perfetti. Il coraggio è la virtù dei soldati ed è dedita alla
salvaguardia dell’opinione sulle cose temibili e sulla loro natura. La temperanza <<è una specie di dominio e ordine su
certi piaceri e desideri>>; consiste nel cercare di essere “più forte di se stesso”, proprio perché nell’anima coesistono
una parte migliore ed una peggiore. La temperanza deve essere virtù sia dei governanti, sia dei sudditi poiché si estende
alla città intera e accorda all’unisono i più deboli, i più forti, e chi sta in mezzo a questi; questa concordia è temperanza
poiché è un accordo naturale tra l’elemento peggiore e quello migliore della città. A questo punto Socrate tenta di
delineare la giustizia: <<a mio parere è ciò che abbiamo posto come dovere assoluto sin dall’inizio, quando abbiamo
detto che ciascuno deve svolgere una sola attività, quella a cui la sua natura è più consona>>. <<La giustizia consiste in
certo qual modo nel compiere il proprio dovere>>. Dunque, le virtù della città sono tutte fondamentali; tuttavia, la
giustizia è ciò che garantisce che ognuno compia il proprio dovere (ad esempio, che i guardiani siano sapienti, i soldati
salvaguardino la città, e così via). Una volta delineata la città giusta, è possibile delineare con più facilità quale sia
un’anima giusta: <<un uomo giusto non differirà in nulla dalla città giusta, ma sarà uguale; le virtù della città sono le
stesse dell’individuo>>. Proprio come per la città, occorre individuare le varie parti agenti dell’animo umano e gli
ambiti a cui si rivolgono; i desideri e appetiti degli individui sono ciò verso cui l’anima è protesa. Le cose che si
riferiscono agli oggetti non sono uguali agli oggetti stessi, ad esempio, la scienza delle cose sane e malate non è sana e
malata. <<Chiameremo razionale il principio grazie al quale l’anima ragiona, irrazionale e concupiscibile quello per il
quale essa prova amore, fame e sete ed è turbata da altri desideri>>. <<L’elemento impulsivo , quello per cui proviamo
le emozioni, sarà un terzo principio>> perché, per quanto simile a quello concupiscibile, spesso lotta contro di esso, e
<<nella contesa interna dell’anima prende le armi al fianco del principio razionale>>. Così come la città era composta
di tre classi, i salariati, gli ausiliari e i consiglieri, così anche nell’anima sono presenti le tre facoltà, razionale,
concupiscibile e impulsiva. <<Ognuno di noi sarà giusto e compirà il proprio dovere quando ciascuna delle facoltà
insite in lui svolgerà la propria funzione>>. Alla facoltà razionale spetta di comandare essendo la più sapiente, quella
impulsiva dovrà essere sua alleata nel dominare la parte concupiscibile. Un individuo si definisce coraggioso <<quando
la sua facoltà impulsiva conserva nel dolore e nel piacere il concetto, trasmessole dalla ragione, di ciò che è temibile e
ciò che non lo è>>. Lo chiamiamo sapiente <<grazie a quella piccola parte che governa in lui e fornisce questi precetti
ed ha in sé la scienza di tutte e tre le facoltà>>. Lo chiamiamo temperante << grazie alla loro amicizia e alleanza>>. La
giustizia non riguarda il comportamento esteriore dell’individuo, ma quello interiore. <<La forma della virtù è una sola,
quelle del vizio sono infinite>>.
Libro VI

Socrate afferma che da un lungo discorso emerge chi è filosofo e chi non lo è: <<sono filosofi coloro che sanno cogliere
ciò che è sempre immutabile, mentre non lo sono coloro che vagano nell’infinita varietà del molteplice>>. I guardiani,
invece, <<solo coloro che risultano in grado di custodire le leggi e gli istituti delle città>>. Caratteristiche del filosofo
sono l’incapacità di mentire e di accettare una menzogna volontaria, l’amore per la verità e la costante ricerca dei
piaceri dell’anima piuttosto che di quelli del corpo; è temperante e per nulla avido di guadagno. Inoltre, <<non
annoveriamo mai un’anima obliosa tra quelle veramente filosofiche, ma pretendiamo che sia di buona memoria>>.
Socrate giunge alla conclusione che soltanto i veri filosofi possano governare la città ideale e per spiegare ciò ricorre
a un’immagine: <<immagina che su una nave (stato) accada questa cosa: da una parte un capitano che supera per statura
e forza fisica tutto l’equipaggio, ma è un po’ sordo, ha la vista corta ed è provvisto di scarse conoscenze nautiche,
dall’altra i marinai che litigano tra loro per il governo della nave. Tutti loro sono convinti che, senza sapere né in teoria
né in pratica l’arte della navigazione, sia possibile imparare quest’arte nel momento in cui si prende in mano il
timone>>; Socrate, attraverso l’allegoria della nave, spiega ciò che accade in stati governati da demagoghi.

Adimanto afferma che molti filosofi sono inutili, Socrate gli risponde: <<hai ragione a dire che i filosofi più onesti
sono inutili; ma ti invito ad incolpare di tale inutilità chi non si serve di loro, anziché le persone oneste>>. Tuttavia,
molte anime che imitano la natura filosofica ne usurpano il compito poiché si dedicano a un’occupazione a loro non
adeguata. <<La natura filosofica se riceve l’educazione appropriata, crescendo giunge necessariamente a ogni virtù; ma
se sarà seminata e piantata in un terreno non appropriato, risulterà del tutto opposta>>. I sofisti sono un esempio di
degenerazione della filosofia. <<E’ impossibile che il volgo divenga filosofo e chi dedica alla filosofia è inevitabile che
venga da esso biasimato>>; i degni seguaci della filosofia restano un’esigua minoranza. <<Neanche una delle
costituzioni vigenti è adatta alla filosofia; per questo essa si stravolge e si altera>>. Quando si troverà la costituzione
adatta alla sua eccellenza allora essa potrà rivelare la sua natura divina, ma <<il volgo è mal disposto verso la filosofia e
la colpa è di coloro che vi hanno fatto un’indebita irruzione dall’esterno>>. Il filosofo <<avendo dimestichezza con ciò
che è divino e ordinato, avrà la necessità di adattare le sue visioni sublimi alle abitudini umane e di tradurle in norme sia
private sia pubbliche>>. Se dei pittori disegnassero la realtà si atterrebbero al modello divino prenderebbero come
tavola del quadro la città e le abitudini umane e per prima cosa la pulirebbero. Subito dopo disegnerebbero la figura
della costituzione. <<In seguito credo che eseguirebbero il lavoro guardando frequentemente in entrambe le direzioni:
verso ciò che per natura è giusto e bello, temperante, e così via, e verso ciò che potrebbero generare negli uomini,
mescolando vari modi di vita per ottenere una sembianza umana modellata su quel principio che anche Omero chiamò
divino e simile agli dèi>>.
Socrate prosegue con la descrizione della città ideale e dei suoi componenti: i più attenti guardiani devono essere
filosofi; saranno pochi in quanto gli elementi di quella natura che devono possedere sono di rado riuniti nello stesso
individuo. Il nostro governante <<deve partecipare in buona misura di musica e ginnastica; bisogna metterlo alla prova
nelle fatiche, nelle paure nei piaceri. Il nostro uomo deve percorrere la via più lunga ed impegnarsi nello studio>>.
L’idea del bene è la cognizione più importante, dalla quale il giusto e le altre virtù traggono la loro utilità e il loro
giovamento. Ma per il volgo il bene consiste nel piacere, mentre per le persone più colte nell’intelligenza; ma gli uomini
non colgono mai il vero significato del bene e cercano di attribuirgli un significato conforme alla loro esperienza.
Formulazione della teoria delle idee e cose in sé: <<Noi ammettiamo e definiamo razionalmente l’esistenza di una
molteplicità di cose belle, buone e così via; poi chiamiamo con il nome di “esseri” il bello in sé e analogamente tutte le
entità che allora definivamo molteplici, riconducendola ciascuna a un’idea, che consideriamo unica. La realtà
molteplice si vede ma non si pensa, mentre le idee si pensano ma non si vedono>>. I sensi sono perfetti; ad esempio,
l’udito e la voce non hanno bisogno di un terzo elemento affinché l’udito percepisca la voce. Invece la facoltà di vedere
e dell’essere visibile necessita di un terzo elemento che la natura ha destinato in particolare a questo senso: la luce.
Questa è l’idea che ha congiunto il senso della vista e la facoltà di essere veduti con un vincolo più prezioso di quello
presente in ogni altra unione>>, e il dio del cielo che è padre della luce è proprio il Sole. Quale rapporto intercorre fra la
vista e il dio Sole? <<la vista non è il sole, ma tra gli organi di senso è il più simile al sole. Quindi anche il sole non è la
vista, ma essendone la causa è da essa stessa veduto>>. Il sole è il rampollo del bene, generato da esso a sua
somiglianza: l’uno ha nel mondo visibile lo stesso rapporto con la vista e le cose visibile che l’altro ha nel mondo
intellegibile con l’intelletto>>. Gli occhi e l’anima agiscono similarmente nel cogliere oggetti illuminati e nel “perdersi”
nell’ombra fisica e mentale. Così come il sole non fornisce alle cose visibile solo la possibilità di essere vedute, ma
anche la nascita, la crescita e il nutrimento, anche le cose conoscibili ricevono dal bene non solo la facoltà di essere
conosciute, ma anche l’esistenza e essenza>>.
Teoria delle idee o cose in sè: supponiamo di prendere una linea tagliata in due segmenti disuguali quello della specie
visibile e quello della specie invisibile, e dividiamo ancora in base allo stesso criterio entrambi i segmenti. In base al
rapporto reciproco di chiarezza e oscurità, nella parte visibile avremo uno dei due segmenti costituito da immagine
(ombre, riflessi dell’acqua, corpi compatti, lisci e lucidi); nell’altro segmento ci saranno i modelli che si conformano a
queste immagini (gli esseri viventi, le piante, ecc.). Nella parte invisibile ci saranno altri due segmenti: il primo
composto dalla geometria e dalla scienza (verità intellegibili mediate dalla ragione), nel secondo troveremo la scienza
pura, la filosofia (forma intellegibile suprema mediata dall’intuito). <<Gli esperti di geometria, di calcoli e di simili
studi presuppongono il pari e il dispari, le figure, gli angoli, e così via. Essi danno per scontati questi elementi, che
vengono posti come premesse e che non necessitano dimostrazioni poiché di per sé evidenti a chiunque. Partendo da
essi, spiegano tutto il resto e arrivano all’oggetto iniziale della loro indagine>>.
Il monde sensibile (primo segmento), sul quale regna il sole, viene indagato solo tramite l’opinione; essa può essere una
semplice congettura, nel caso si riferisca a ombre e immagini, o una percezione chiaramente avvertita, tale da indurre
all’assenso, se concerne esseri viventi o oggetti materiali. Il mondo intellegibile (secondo segmento), sul quale regna il
bene viene invece compreso tramite la scienza, che può essere conoscenza fondata sulla riflessione, se viene conseguita
col metodo geometrico, o intelletto, se coglie la verità attraverso il metodo dialettico.
Libro VII

Mito della caverna: Socrate: <<pensa a dei uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l’ingresso
aperto alla luce per tutta la lunghezza dell’antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da
restare immobili e guardare senza poter ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di
un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un
muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Immagina,
allora, che degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti di ogni genere sporgenti dal margine, e statue e
altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni potatori parlano, altri tacciono. Tali uomini non hanno
visto di se stessi e dei compagni altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro. Per
questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti. Considera, dunque, come potrebbero liberarsi e
guarirsi dalle catene dell’ignoranza, se capitasse loro naturalmente un fatto come questo: qualora un prigioniero venisse
liberato e costretto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare ciò soffrisse e per
l’abbaglio e fosse incapace di scorgere le cose di cui prima vedeva solo le ombre, come reagirebbe se uno gli dicesse
che prima vedeva solo vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero? Ne soffrirebbe e
cercherebbe di fuggire>>. Gli farebbero male gli occhi per la luce improvvisa, proverebbe rabbia nell’essere trascinato
verso la luce senza poter contemplare gli oggetti reali a causa del bagliore che acceca gli occhi.
Quest’uomo dovrà abituare i suoi occhi alla luce e scorgere prima le immagini degli uomini e i riflessi nell’acqua, poi
gli oggetti reali; dopo ancora riuscirà a scorgere le stelle e la luna. Solo alla fine potrà ammirare il sole nella sua sede e
comprenderne l’importanza. Lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei suoi vecchi
compagni, si riterrebbe fortunato per la mutata condizione e proverebbe compassione per loro; e se tentasse di liberare i
suoi compagni dalle loro catene, riderebbero di lui, direbbero che i suoi occhi sono danneggiati e proverebbero ad
ucciderlo. <<Questa similitudine deve essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che ci appare
attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all’azione del sole; e la
salita e la contemplazione delle realtà superiori sono l’ascesa dell’anima verso il mondo intellegibile>>.
Idea del bene è il limite estremo del mondo intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna dedurre
che essa è per tutti causa di tutto ciò che è giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il sole, in quello
intelligibile se stessa, da sovrana, elargisce verità e intelletto. I disturbi agli occhi sono di due tipi: il passaggio dalla
luce all’oscurità e viceversa. La stessa cosa accade all’anima. <<L’occhio non può volgersi dalla tenebra alla luce se
non assieme all’intero corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione dell’essere e della sua parte più
splendente; questo è il bene. Dovrebbe quindi esistere un’arte della conversione che insegni il modo più facile di
efficace di girare quell’organo. Non si tratta di infondervi la vista, ma che venga rivolta verso la “direzione giusta”>>. 

<<Il nostro compito di fondatori è dunque quello di costringere le migliori nature ad apprendere ciò che prima abbiamo
definito la cosa più importante, cioè vedere il bene e compiere quella ascesa, e di non permettere loro di rimanere là e
non voler riscendere tra i prigionieri e partecipare alle loro fatiche>>.
A coloro che nascono filosofi andranno poste le giuste richieste, costringendoli a prendersi cura degli altri e a
proteggerli. La città in cui i futuri governanti sono meno smaniosi del potere è necessariamente governata nel modo
migliore e più stabile, mentre quella che ha governanti contrari si trova nella situazione contraria.

Le discipline che trascinano l’anima dal divenire all’essere saranno la ginnastica e la musica: la prima si occupa di ciò
che nasce perisce, in quanto sorveglia la crescita e il deperimento del corpo; la seconda era il corrispettivo della
ginnastica, educava i guardiani con la forza dell’abitudine, conferiva attraverso l’armonia il senso della proporzione,
attraverso il ritmo l’eleganza, e conteneva narrazioni, sia quelle mitiche sia quelle più veridiche.
La prima disciplina sarà il calcolo e aritmetica: <<discipline comuni di cui si servono tutte le arti, le opinioni
intellettuali e le scienze, e che ognuno deve per forza imparare molto presto. Queste sono le discipline che cerchiamo e
che guidano verso la conoscenza intellettiva>> ma nessuno ne fa uno suo corretto. Alcuni oggetti sensibili non invitano
l’intelletto ad indagarli, in quanto sono sufficientemente vagliati dai sensi; altri invece gli impongono in tutti modi
questo esame, in quanto i sensi non ne ricavano nulla di valido. Gli oggetti che non invitano all’indagine sono quelli che
non generano contemporaneamente sensazioni opposte. Tuttavia, la vista fornisce solo alcune informazioni sull’oggetto,
ecco perché è necessario il calcolo che appartiene al mondo intellegibile. Se l’unità in sé si coglie a sufficienza con la
vista o con un altro organo di senso, non può attrarre verso l’essere; se invece la sua visione suscita sempre impressioni
contraddittorie allora ci vorrà un giudice che risolve il problema e la sua anima sarà costretta a dubitare, a indagare e a
riflettere fino a chiedersi che cos’è l’unità in sè. Il calcolo e l’aritmetica per un guerriero sono necessarie per la tattica,
per il filosofo per emergere dal divenire e toccare l’essere. Quindi il nostro guardiamo si trova ad essere insieme
guerriero e filosofo. Il calcolo conferisce all’animo una forte spinta verso l’alto la costringe a ragionare sui numeri in se
stessi, costringe l’anima a usare il puro intelletto, dunque ti fa arrivare alle pure verità.
La seconda disciplina è la geometria: <<bisogna esaminare se la parte maggiore e più progredita della geometria mira a
far scorgere più facilmente l’idea del bene. Se la geometria costringe a contemplare l’essere è utile, se costringe a
contemplare il divenire, no. Coloro che praticano questa scienza la descrivono affermando di tracciare i quadrilateri, di
prolungare linee, e così via; ma deve essere coltivata interamente e solo per la conoscenza. Infatti, tratta della
conoscenza di ciò che è eternamente, non di ciò che nasce perisce. Può trascinare l’anima verso la verità e produrre un
pensiero filosofico, al punto da rivolgere verso l’alto ciò che noi teniamo indebitamente rivolto verso il basso.
La terza disciplina è quella che concerne il cubo e i solidi dotati di profondità (si tratta della stereometria, disciplina
ancora non diffusa al tempo di Platone; Euclide e la scuola platonica la studiarono a fondo).
La quarta disciplina è l’astronomia: questa non porta l’anima a guardare veramente verso l’alto, anzi la volge verso il
basso, infatti l’unica scienza che porta a guardare in alto è quella che concerne l’essere invisibile.
<<Gli ornamenti del cielo si possono ritenere i più belli e perfetti tra quelli intessuti nella stoffa del mondo visibile, ma
sono di gran lunga inferiori a quelli veri, alle idee. Bisogna servirsi del ricamo celeste come di un modello per
comprendere le realtà invisibili, come se ci si imbattesse in disegni tracciati ed elaborati con eccezionale maestria da
dedalo o da qualche altro artefice o pittore>>. Questa scienza va studiata nello stesso modo della geometria, cioè per
risolvere i problemi particolari.
Un’altra disciplina è l’armonia: <<Come gli occhi sono destinati all’astronomia, così le orecchie sono destinate al moto
armonico, e queste due scienze sono tra loro sorelle>>.
Altra disciplina è la dialettica che quando comincia a muoversi verso l’essenza di ogni singola realtà senza l’aiuto di
tutti sensi, ma solo con la ragione, e non rinuncia al bene in sé, tocca i confini stessi dell’intelligibile, come la vista
arrivava ai limiti del mondo visibile. <<La dialettica si trova per noi al vertice, come un fregio a coronamento delle altre
discipline. Solo chi è capace di una visione d’insieme è un dialettico.
<<Lo studio delle arti che abbiamo descritto produce l’effetto di innalzare la parte migliore dell’anima alla
contemplazione della parte migliore dell’essere. Il metodo dialettico procede eliminando le ipotesi, verso il principio
stesso per confermare le proprie conclusioni, e dolcemente trascina e solleva verso l’alto l’occhio dell’anima,
servendosi delle arti menzionate come di compagni o coadiuvanti nella conversione>>.
Le abbiamo chiamate con il nome di scienze ma necessitano di un altro nome più fulgido di opinione e meno oscuro di
scienza: << chiameremo la prima parte scienza, la seconda riflessione, la terza assenso, la quarta congettura. Le
ultime due saranno chiamate opinione e riguardano il divenire, le prime due intelletto e riguardano l’essere>>.
Un individuo che non è in grado di definire razionalmente l’idea del bene, l’afferra non con la scienza ma con
l’opinione, <<e la sua vita attuale è un torpido sogno dal quale non si desta in questo modo>>.
Socrate afferma che una volta stabilite le discipline è necessario stabilire a chi e in che modo vengano assegnate:
<<l’aritmetica, la geometria, e tutta l’educazione propedeutica che va impartita prima della dialettica devono essere
proposte sin dall’infanzia, senza però conferire all’insegnamento una forma costrittiva; insegnare è una forma di gioco
che consente di discernere ancora meglio le propensioni naturali di ciascuno>>. <<Chi di volta in volta appare il più
pronto deve entrare a far parte di un gruppo scelto>>. Sin dall’infanzia abbiamo delle opinioni sul giusto e sul bello,
che ci hanno allevati come dei genitori e alle quali obbediamo e portiamo rispetto. Ma esistono anche abitudini
piacevoli contrarie a queste, che adulano le anime meno equilibrate. Lo studio della dialettica richiederà cinque anni di
applicazione. <<Dopo questo periodo dovremo far riscendere i nostri discepoli in quella caverna e obbligarli a
esercitare i comandi militari>>; questo periodo sarà di 15 anni. Arrivati a 50 anni, coloro che si sono mantenuti integri
dovranno essere condotti alla perfezione e costretti a volgere verso l’alto il lume dell’anima e a guardare l’essere in sé.
Dopo aver visto il bello in sé, dovranno usarlo come modello per ordinare, la città, i cittadini e se stessi.
I veri filosofi, molti o uno solo, prenderanno il potere della città e disprezzeranno gli onori attuali.
Libro X

Nessun costruttore o artefice realizza l’idea in sé, ma solo la copia tangibile di quella idea; anche il pittore fa parte di
questi artefici. Egli non può realizzare l’essenza quindi non può creare la realtà, bensì solo qualcosa che somiglia alla
realtà. Prendendo il letto come esempio, Socrate afferma che <<esistono tre specie di letti: una è quella che esiste in
natura, che possiamo definire opera di Dio (idea); la seconda è quella costruita dal falegname (copia), la terza è l’opera
del pittore e del poeta tragico (doppia imitazione dell’idea)>>. Per ogni oggetto esistono tre arti: quella che ne farà uso,
quella che lo realizzerà e quella che lo imiterà. L’arte è imitazione dell’apparenza non della verità, quindi l’arte
dell’imitazione è lontana dal vero tre volte. << Stabiliamo che tutti i poeti (fra cui Omero) imitano simulacri delle virtù
e di tutti gli altri temi sui quali compongono le loro opere>>. <<L’arte imitativa ha uno stretto rapporto di familiarità e
amicizia con ciò che in noi è lontano dall’intelletto e non si prefigge alcuno scopo sano e veritiero>>.
La parte dell’anima che formula un’opinione senza tener conto della misura non sarà identica a quella che la formula
tenendone conto; e la seconda sarà sicuramente migliore della prima. <<Quando nell’uomo ci sono due moti contrari
riguardo alla stessa situazione, diciamo che dentro di lui ci sono inevitabilmente due impulsi>>.
Anche quando subiamo un grande dolore è sempre necessario <<abituare l’anima a guarire e raddrizzare il più presto
possibile>>: la parte migliore di noi vuole seguire questo ragionamento, quella peggiore ci spinge a ricordare la
sofferenza e a lamentarci. <<Soltanto il carattere emotivo diviene oggetto di una ricca e varia imitazione, mentre quello
riflessivo e calmo, essendo quasi sempre uguale a se stesso, non è facile da imitare né da capire se viene imitato>>.
I poeti e gli artisti nutrono la parte più bassa dell’anima, quella irrazionale, poiché imitano il dolore e il piacere, l’ira e
tutte le passioni dell’anima.

Immortalità dell’anima: Socrate afferma che l’anima non perisce mai e per spiegare ciò parte dai concetti di bene e
male: <<tutto ciò che porta rovina e distruzione è male, ciò che da salvezza e giovamento è bene>>. Ogni cosa ha un
suo male congenito (es. il ferro ha la ruggine, ecc.) che <<si attacca alla cosa e la indebolisce e la porta alla completa
dissoluzione fino alla morte>>. Succede qualcosa di analogo anche all’anima: l’ingiustizia e gli altri vizi che dimorano
dentro di lei la corrompono e la guastano fino a separarla dal corpo. Ma l’anima non perisce né per male suo proprio
(ingiustizia) né per un male altrui. Quando un’anima non perisce a causa di un male, né proprio né estraneo, ne
consegue l’evidente necessità che essa sia eterna; e se è eterna è immortale. <<Se così stanno le cose, allora le anime
non possono né aumentare né diminuire, saranno sempre le stesse>>.
<<L’intelletto deve contemplare l’anima a fondo nel suo stato puro, e allora scoprirà che è molto più bella e distinguerà
chiaramente le manifestazioni di giustizia e ingiustizia>>.
La giustizia in sé è il bene più prezioso per l’anima in sé e le anime giuste verranno assegnati privilegi e premi: <<gli
dei non trascurano mai chi si adopera con ogni sforzo per diventare giusto ed assomigliare a un dio mediante la pratica
della virtù>>. Gli ingiusti sono come quei corridori che in una corsa scattano all’inizio per poi rallentare alla fine,
ricoprendosi di ridicolo: <<anche se da giovani se la passano liscia, durante la vecchiaia vengono scoperti nella loro
infelicità>>; i giusti, invece, sono come quei veri corridori che alla fine della corsa ottengono il premio.

Mito di Er: Socrate introduce il racconto <<di un uomo valoroso, Er figlio di Armenio, di origine panfilica (da Panfilia,
regione dell’Asia Minore). Costui era morto in guerra e quando, al decimo giorno, si portarono via dal campo i cadaveri
già decomposti, fu raccolto intatto e ricondotto a casa per essere sepolto;al dodicesimo giorno, quando si trovava già
disteso sulla pira, ritornò in vita e raccontò quello che aveva visto laggiù. Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal
corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso nel quale si aprivano due
voragini contigue nel terreno e altre due in alto in cielo. In mezzo a esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver
pronunciato la sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada di destra che saliva verso il cielo, agli ingiusti di
prendere la strada di sinistra che scendeva verso il basso. I giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini
ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo>>.
In mezzo alle quattro vie siedono i giudici delle anime. Azioni giuste ed ingiuste vengono valutate. <<Per ogni
ingiustizia commessa e ogni persona offesa le anime avevano scontato una pena decupla; ciascuna pena era calcolata in
cento anni perché tale è la durata della vita umana, in modo che pagassero un fio dieci volte superiore alla colpa>>.
Le anime giudicate giuste prendono la via verso l'alto, le ingiuste la via verso il basso. << I giudici ordinavano ai giusti
di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo e agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il
basso>>. Dalla via che scende dal cielo arrivano le anime pure, dopo avervi passato un periodo in cui hanno potuto
contemplare visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza. Dalla via che risale dalle profondità arrivano le anime che
sono state purificate dopo un periodo di sofferenza proporzionale alla colpa per le azioni ingiuste compiute.

Non tutte le anime riescono a risalire dalle profondità. Esistono infatti alcune anime inguaribili che non sono in grado di
ritornare nel prato.
Le tre Moire, figlie della Necessità, seguono il nascere e lo svolgersi della nuova vita: <<Altre tre donne sedevano in
cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Anànke (Necessità), Làchesi, Cloto e
Atrop; Làchesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro>>.
Le anime ritornate al prato si preparano ad una nuova vita. Ogni anima potrà scegliere un modello di vita: <<non sarà il
demone a scegliere voi, ma sceglierete voi il vostro demone. Chi è stato sorteggiato per primo, per primo scelga la vita
alla quale sarà necessariamente congiunto. La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a
seconda che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi sceglie; la divinità è senza colpa>>.
Occorre prepararsi a fare la scelta giusta tra la vita buona e quella cattiva; <<lì sta il più grave pericolo per l'uomo,
nonché il principale motivo per il quale ognuno di noi deve preoccuparsi di ricercare e apprendere questa cognizione
trascurando le altre; nella speranza di poter riconoscere e trovare chi lo renda capace ed esperto a distinguere la vita
buona da quella cattiva >>.
L'ordine di scelta non impedisce di poter vivere in modo accettabile e virtuoso. <<Anche chi è arrivato per ultimo, se
sceglierà con giudizio e vivrà con rigore, può disporre di una esistenza accettabile e non indecorosa. Il primo a scegliere
non sia distratto e l'ultimo non si scoraggi>>.
La filosofia è il mezzo per raggiungere la felicità: <<se infatti chi viene a questa vita si applicasse sanamente alla
filosofia e il sorteggio non lo ponesse a scegliere tra gli ultimi, è probabile che, stando a quanto ci viene riferito
dall'aldilà, non solo sarebbe felice su questa terra, ma compirebbe anche il viaggio da qui a laggiù e il ritorno qui per
una strada non sotterranea e aspra, bensì liscia e celeste>>.
Dopo il sorteggio e la scelta ad ogni anima viene assegnato un demone angelico che accompagna l'anima e la guida,
infatti, <<Lachesi a ciascuna assegnava come custode della sua vita ed esecutore della sua scelta il demone che si era
preso>>.
Ogni anima ha un destino scelto al momento del sorteggio: <<Cloto sanciva il destino che (l'anima) aveva scelto al
momento del sorteggio; Atropo rendeva immutabile la trama filata; da lì l'anima andava senza voltarsi ai piedi del trono
di Anànke ( Necessità) e lo superava".
Dopo il sorteggio e la scelta, le anime si preparano ad entrare nella loro nuova vita dimenticando la loro vita passata;
<< le anime si avviarono verso la pianura del Lete (Oblio) si accamparono presso il fiume Amelete e furono costrette a
bere; e chi via via beveva si dimenticava di ogni cosa". A Er fu impedito di bere l’acqua affinché si mantenesse vivo il
ricordo di quel luogo e lo tramandasse agli uomini.
<<Se consideriamo l’anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in
alto e praticheremo in ogni modo la saggezza unita alla giustizia>>. <<Questo mito potrà salvare anche noi, se gli
crederemo. E se daremo retta a quanto ho detto, considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e
ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in
questo modo saremo cari a noi stessi e agli Dei sia finché resteremo quaggiù, sia dopo che avremo riscosso i premi della
giustizia, come vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel viaggio di
mille anni che abbiamo descritto"
IL MITO nasce da un lato come esigenza di conservare e tramandare la memoria collettiva delle origini e del passato
storico e, dall’altro, come tentativo di penetrare la dimensione naturale della trascendenza, della sacralità e divinità.
Nella penombra del mito è racchiusa la sua verità, il cui possesso o è riservato a pochi eletti, oppure è svelato all’intera
comunità. Nella società arcaica greca il termine mythos designa una storia vera, il cui contenuto è sacro; esso riflette la
verità. Il termine equivale anche a discorso, discussione filosofica, racconto leggendario, favola; il termine mytologheo
significa racconto cose oscure, immagino, favoleggio, racconto cose antiche e leggendarie; mentre il termine
mytologhìa significa racconto irreale, finzione, ragionamento effettuato mediante il ricorso ai miti.
Il mito ha una funzione educativa: insegna agli uomini a saper pensare e vivere.
Platone (come Omero e altri pensatori) utilizza l’espressione mitica come efficace mezzo di trasmissione dei valori e
degli ideali della civiltà passata, al fine di spingere i suoi concittadini alla presa di coscienza del proprio stato.
Per Platone, non bisogna razionalizzare il mito ma purificarlo, giustificarlo come allegoria morale e religiosa,
esprimerlo mediante una parola che sia persuasiva nei confronti del pubblico, e infine, svelarne la simbologia al fine di
coglierne la profonda verità etica e quindi sociale. Il mito consente a Platone di filosofare su aspetti della realtà non
dimostrabili , non descrivibili. Consente di rintracciare alcune verità nel fondo oscuro di una memoria collettiva.
Il mito è il momento in cui si sostiene un discorso di tipo poetico e retorico capace di attingere la luce dal vero,
attraverso una mythologia che è, però, sincera ricerca, inquietudine spirituale e, quindi , filosofia.
Sul piano metodologico, Platone utilizzava il mito come racconto fantastico che, sia pure in modo velato, ha la
funzione di proporre una verità razionale; lo usava anche come espressione di stupore fantastico di fronte alle
inevitabili contraddizioni della ragione. Egli, non potendo comprendere con la sola forza dell’intelletto una verità
inaccessibile, spesso fa ricorso ad immagini ed elementi simbolici.
Il mito continuamente si demitizza, nel senso che via via tende a purificarsi dei propri elementi fantastici, per conservare
soltanto un magico potere allusivo.

Mito della caverna: la caverna rappresenta lo stato di ignoranza e le ombre riflesse sul suo fondo sono il simbolo del
mondo materiale e sensibile. I prigionieri incatenati sono il simbolo della mente che, ancora legata al mondo sensibile,
non riesce a contemplare la luce del vero. Il sole rappresenta l’idea del Bene che rende intellegibili le essenze universali.
Il cammino del prigioniero rappresenta il percorso della mente umana che, per conoscere il mondo noetico, deve
attraversare quattro gradi: immaginazione e sensazione; percezione e accertamento; conoscenza matematica;
conoscenza filosofica. I primi due rappresentano lo stadio della conoscenza sensibile (doxa), mentre gli altri due lo
stadio della conoscenza intellegibile (aletheia). Il prigioniero che ridiscende nella caverna rappresenta da una parte la
capacità della mente di potersi sollevare alla contemplazione delle pure essenze immutabili, dall’altra il filosofo-politico
che ha il dovere etico di stare tra gli uomini, con il compito di illuminarli, di guidarli e governare le polis. Il dotto è per
eccellenza destinato alla società, è il maestro del genere umano; egli non vede soltanto il presente ma anche il futuro. Le
azioni che si compiono durante la vita hanno un’importanza infinitamente grande.
Tutta l’allegoria della caverna è il simbolo del processo educativo, che consente all’uomo di procedere verso la
conquista della sua natura. La caverna e la luce sono il simbolo di due possibili dimensioni del vivere: quella dei sensi e
quella dello spirito.
Nel mito vengono analiticamente distinti i vari gradi ontologici della realtà: dalle ombre, alle cose sensibili e alle
essenze soprasensibili, fino ad arrivare all’idea di Bene. A questi gradi della realtà corrispondono, sul piano
gnoseologico, i diversi gradi della conoscenza: dall’immaginazione e dalla credenza via via verso la dialettica e la pura
intellezione.
Il prigioniero che ritorna è il simbolo del filosofo che ha il dovere etico-politico di partecipare ai propri concittadini. Il
filosofo corre il rischio di essere considerato un folle o addirittura di essere ucciso; egli deve avere il coraggio morale e
civico di correre un simile rischio: proprio come fece Socrate.

Mito di Er: ogni anima ha una propria sorte: di bene o male, felicità o infelicità; se il destino dell’anima è legato
all’ordine sorteggiato, essa è fondamentalmente libera nella propria scelta. La scelta, però, è anche condizionata dalle
esperienze di vita. Avvenuta la scelta, il destino è irrevocabile. Soltanto il filosofo potrà scegliere, poiché il solo vero
conoscitore del bene e del male, virtù e vizio. Per saper vivere e, quindi, morire, occorre prepararsi alla morte mediante
il saper pensare. Si può scorgere nel mito di Er la chiave di volta del platonismo: il primato della libertà morale, come
processo di graduale purificazione (catarsi) della propria anima.

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