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1.

Prima dello stato


L’uomo ha sempre vissuto in gruppi. Il maggior cambiamento avviene con il neolitico. Attorno
al X millennio a.C., l’agricoltura ci fa diventare stanziali, creando aggregazioni dedite alla
cerealicoltura e all'allevamento. Il poter approvvigionarsi regolarmente ci emancipa dalla
natura e diventiamo sempre più padroni del nostro destino. Al crescere delle tecniche di
coltivazione e della produttività, si costituiscono società sempre più popolose, complesse e
tecnologicamente avanzate. La riflessione politica per noi occidentali inizia nella Grecia
antica, nelle polis (piccole libere città). Atene era una città mercantile, aperta verso l'esterno,
dotata di una importante flotta, espansionista militarmente, i cittadini partecipano attivamente
alla vita pubblica (democrazia). La sua apertura fa nascere divertimenti e filosofia e si
sviluppa una relativa tolleranza verso stili di vita eterodossi. Sparta è governata da una
diarchia che gode di potere assoluto in tempo di guerra, e in pace è sottoposta
all'approvazione dei sommi magistrati, gli efori. I titolari dei diritti civili sono gli spartiati,
discendenti dei Dori che occuparono la Laconia e sottomisero i Messeni, i loro discendenti,
gli Iloti sono schiavi. Restano agricoltori e guerrieri e non producono una cultura come Atene
(filosofia, teatro, poesia e musica) ne commerciano. Ad Atene e Sparta non c’era
eguaglianza, gli individui contavano in quanto appartenenti a un gruppo sociale: i cittadini
liberi erano una minoranza, le donne non avevano alcun diritto politico, e c’era la schiavitù.
Le 2 sono simboli di diversi valori ed idee politiche.
1.1. Platone e la nascita della filosofia politica
Nel V e IV secolo a.C. ad Atene si affermano i sofisti: filosofi che vendono la propria
sapienza, insegnando. Atene è l’unica polis democratica: i cittadini partecipano al governo
con elezioni governanti e capi militari, o estraendoli a sorte per alcune cariche di
magistrature. Saper utilizzare l'arte retorica è importante. Il primo fu Protagora di Abdera, di
cui ricordiamo: l'uomo è la misura di tutte le cose. Mentre Parmenide e Eraclito indagano
sull'essere, Protagora indaga sulla condizione umana. L'interesse dei sofisti non è la verità
ma l’approssimazione, umanamente fondata e fallibile. I sofisti dimostrano una tesi e il suo
contrario. L’eristica è l'arte del disputare, la cui padronanza serve a far prevalere una tesi
(indipendentemente se è vera). Platone (428/427-348/347 a.C.) chiama nei "mercenari di
parole" chi cattura l'interlocutore con argomentazioni false e ingannevoli (i sofisti). Socrate
(470/469-399 a.C.), contemporaneo e antagonista dei sofisti, non abbiamo sue opere dirette,
ma lo conosciamo grazie ai suoi allievi Platone (in cui è protagonista dei dialoghi suoi
giovanili) e Senofonte (430/425-355 a.C.) (ne descrive lo stato d'animo nell'Apologia di
Socrate davanti alla giuria). Per Socrate, l’ignoranza caratterizza l’umano. Essere
consapevoli, il conoscere se stessi e il sapere di non sapere, libera dalla presunzione
intellettuale. Questa hybris (arroganza secondo cui gli uomini potevano controllare natura e il
caso, sostituendosi agli dei) va evitata, perché induce all'errore nel ragionamento e nella
cura degli affari pubblici. Socrate insegna la sua filosofia, ma non pensa che la retorica sia
per qualsiasi tesi, preferendo la dialettica (dialogo tra tesi opposte) per far emergere come
ogni presunzione di conoscenza sia dannosa. Accusato di empietà, considerato un cattivo
maestro, corruttore della gioventù e colpevole di ateismo e condannato a morte. Atene era
durante la restaurazione democratica. La sconfitta nella guerra del Peloponneso contro
Sparta (431-404 a.C.) portò il periodo dei "Trenta Tiranni": un regime oligarchico, composto
da aristocratici filo-spartani. Alcuni erano discepoli di Socrate e la condanna a morte dopo la
sconfitta porta al sentimento anti-democratico del suo più illustre allievo: Platone. Platone
vuole svelare la verità, che sfugge all’uomo, distratto da sensibilità e piaceri. La paideia
(formazione intellettuale nel senso di ideale di perfezione morale) platonica è una terapia per
il singolo individuo e la sua comunità politica. Paragona la salute della polis a quella
dell'individuo: una influenza l’altra: esiste un uomo democratico, un uomo oligarchico o un
uomo tirannico. La politica è intrecciata con la natura umana: la polis e l’uomo si devono
liberare da influenze capaci di nuocere, che rendono impossibile la comprensione del bene.
La sua forma prediletta è la dialogica. Scrive 34 dialoghi, un monologo (Apologia di Socrate)
e un insieme di lettere. Le opere più importanti di carattere politico: La Repubblica e Le
leggi. Platone, che proveniva dalla più nobile aristocrazia ateniese, voleva costruire la
comunità politica ideale e intraprese 3 viaggi a Siracusa, per convincere prima il tiranno
Dionisio il Vecchio e poi il figlio Dionisio il Giovane. Avvalendosi del discepolo Dione,
cognato di Dioniso, fu sfortunato. Nel primo, Dionisio vendette Platone come schiavo irritato
dalle sue critiche, che dopo essere riscattato tornò ad Atene, dove nel 387 a.C. fondò
l'Accademia, comunità religiosa dedicata alle Muse, centro di discussione e studi (la prima
scuola di pensiero). I suoi dialoghi erano ricchi di immagini e miti. Il mito della caverna è il
suo approccio alla conoscenza: descrive una caverna stretta e in pendenza, in fondo si
trovano alcuni uomini, nati lì, seduti e incatenati, rivolti verso la parete della caverna che non
possono liberarsi o uscire per vedere ciò che accade all'esterno. All'ingresso c'è un muro,
dove persone (invisibili agli incatenati) portano oggetti sulla testa, da dietro al muro spuntano
solo gli oggetti. Un grande fuoco rimanda le immagini degli oggetti come ombre che si
susseguono ininterrottamente. La caverna sta al mondo esterno come il mondo sta al
mondo delle idee. Gli uomini conosceranno solo le immagini delle ombre, simulacro della
realtà. I filosofi che sono riusciti a liberarsi, uscire dalla caverna, rischiando di essere
fraintesi e di morire, portano la verità agli uomini e cercando di liberarli da materialità, istinti e
passione e dal male. La Repubblica di Platone è un ragionamento attorno alla polis ideale
scritta fra il 390 e 360 a.C. è la prima utopia della storia. Dialogo che esplora il governo
ideale nel quale un ruolo prominente spetta a chi conosce la verità e può liberare gli uomini
dalla menzogna. La riflessione inizia da chi deve governare. Diviso in 10 libri: si riflette sulla
giustizia, sul governo ideale. La comunità politica ideale è retta da buoni governanti, i filosofi.
Gli uomini devono vivere insieme per beneficiare della divisione del lavoro: una polis nasce
perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni, di cui si avvale di
persone diverse: maggiori bisogni uniscono in una sede molte persone per aiutarsi. La
divisione del lavoro richiede una specializzazione: ciascuno impari al meglio a fare una
singola cosa, secondo la sua naturale disposizione. Gli uomini non sono uguali e non
devono essere trattati come se lo fossero. La struttura della società politica deve riflettere
l'anima umana. Il filosofo è guidato dall'intelletto per dominare passioni ed istinti (parte della
natura umana). Come esistono 3 funzioni dell'anima (razionale, irascibile e concupiscibile),
così la società deve dividersi in 3, che corrispondono alla prevalenza dell'una o dell'altra in
ciascun individuo che ne fa parte. La parte "migliore" deve dominare sulle altre due.
Esistono uomini: 1)d'oro, dominati dalla ragione, tendenti all'eterno e al Bene: i filosofi.
2)d'argento, dominati dalla funzione irascibile (desiderio di onore,gloria e potenza): i guerrieri
3)di ferro e bronzo, dominati dai piaceri materiali: contadini, artigiani o mercanti.
I confini fra queste "caste" sono invalicabili: chi è per natura calzolaio è giusto che faccia il
calzolaio, senza svolgere altre attività. Platone disapprova varietà/molteplicità dei modi di
vita di una comunità libera: vuole una società chiusa che non si espande limitata
geograficamente e demograficamente. Se il singolo deve evitare ciò che metta a repentaglio
la sua salute, lo stesso deve fare la comunità: una polis troppo estesa, che commercia con il
mondo intero o che si espande, rischia la degenerazione. Si deve seguire l'equilibrio, nella
vita del singolo come nel corpo politico. Donne e figli sono un bene comune: i migliori si
accoppiano con i migliori (per non guastare il potenziale); riproduzione pianificata per evitare
la crescita demografica; figli tolti ai genitori, destinando ciascuno alla casta più appropriata
(in base ad abitudini personali e non all’origine); neonati non più ricongiunti ai genitori;
allattamento condiviso e socializzato. Non è consentita per i governanti la proprietà privata
per farli sentire parte della medesima unità (comunismo). La proprietà e l'attaccamento alle
cose dividono e corrompono i cittadini ed inducono conflitti di interesse privato fra governanti
e comunità. I cittadini inferiori possono possedere beni, incapaci di partecipare a forme di
felicità più elevate. L'educazione dei futuri governanti, che li farà comprendere il bene, li
condurrà a non farsi distrarre dalla proprietà privata. Le leggi sono un trattato storico sulla
legislazione ateniese, spartana e cretese dei 3 partecipanti: Clinia è incaricato dalla città di
Cnosso di scegliere le leggi per una nuova colonia cretese; Lo spartano Megillo e l'Ateniese
(Platone). Dialogo diviso in 12 libri, i primi 3 sono una lunga introduzione, successivamente
sono dibattiti sulla fondazione. Il nono libro è una digressione sull'origine del Male,
rinvenibile nell'ignoranza del bene. Platone ripercorre la storia delle istituzioni politiche,
immaginando che dopo un diluvio universale solo i pastori in alta montagna si salvarono e
potranno godere di terre liberate, senza conflitti che si sviluppano con il progresso e
l'aumento della popolazione. L’Ateniese nel III libro spiega che vi sono 2 forme di
costituzione (monarchia e democrazia), le altre sono il risultato della loro unione. Le due
costituzioni non sono in equilibrio, trovandone più in quella spartana e cretese. Per quella
perfetta si deve guardare a diversi principi di governo. Il principale merito della società
spartana è che dà a tutti, ricchi e indigenti, la stessa educazione. Una comunità politica che
difenda la propria integrità deve distribuire correttamente onore e disapprovazione, dare
priorità alla temperanza, poi a bellezza e beni del corpo, e per ultimo a beni materiali e
ricchezza. Le leggi migliori si realizzano quando si estirpa il privato e si escogita un sistema
di messa in comune in modo che tutti stabiliscono un altro criterio per giudicare il rispetto
della virtù, unificando uno stato. Le leggi sono un ragionamento concreto e non astratto circa
la natura del bene in politica. Platone (per la colonia cretese) vuole che le terre si dividano in
maniera equa in modo che ogni cittadino possederà un appezzamento di terra con una
casa. Le porzioni sono di proprietà comune dello stato, è permessa la coltivazione
individuale, in quanto non ancora pronti a un regime comunista. La crescita demografica
dev’essere 0 in modo che ogni padre lasci il suo lotto a un unico erede, affidando eventuali
altri figli maschi ai cittadini non padri così che ognuno abbia una discendenza. I governanti
potrebbero inviare giovani nelle colonie ponendo un controllo delle nascite: Si può vietare di
procreare a quelli troppo fecondi, e attuare cure e sollecitudini per incrementare le nascite
mediante onori, castighi e esortazioni dei più vecchi e rivolti ai più giovani. Si regolamenta
una sobrietà dei costumi. Il possesso di oro e preziosi è vietato. La moneta è solo ad uso
interno e non deve avere valore presso le altre genti. Ci sono stretti controlli valutari: in caso
un cittadino viaggi all'estero e riporti a casa la moneta di un altro paese, la consegnerà
all'autorità pubblica, lo stesso vale per qualsiasi reddito che ecceda il massimo consentito,
per ciascuna delle 4 classi di censo nelle quali i cittadini vengono divisi. Norme che non
sono per una distribuzione egualitaria delle risorse fondata sull'uguaglianza. Esistono
differenze naturali fra gli umani, e l'ordine politico le deve rispecchiare fedelmente. La
proprietà privata, i beni materiali e la realtà mondana sono distrazioni: corrompono l'uomo,
nutrono l'amor proprio e il senso del privato e rendono difficile perseguire il bene pubblico. I
ricchi non sono onesti e di conseguenza non sono felici. Per evitare sviluppi mercantili,
regola minuziosamente la vita economica. Iniziativa individuale e Ambizione di guadagno
sono tentazioni che minano il retto agire e il buongoverno.
1.2. Atene e lo spirito della libertà
Platone quando idealizza la città ideale non pensava alla sua Atene la cui condanna a morte
del maestro gli fece rifiutare le istituzioni. Istituzioni che per altri, rendeva possibile la vita
buona. Un importante testo della grecità è l'Epitafio di Pericle, pervenuto grazie lo storico
Tucidide, autore della Guerra del Peloponneso. Opera che ricostruisce il conflitto fra Atene e
Sparta negli ultimi 30 anni del V secolo, vinto da Sparta. Nel 430 a. C., finito il primo anno di
guerra, gli ateniesi scelsero Pericle (politico) per l'orazione funebre dei caduti: dove dimostrò
perché per lui è giusto sacrificarsi per Atene, diversa dalle altre per l’atteggiamento dei
cittadini, i loro modi d'agire e la costituzione (politia): testimonia il funzionamento della
democrazia ateniese e fornisce una visione d'insieme dei valori ai quali gli ateniesi
ritenevano si ispirasse il loro sistema politico. Sottolinea l'importanza, nella polis, del valore
del merito individuale, non della stirpe o della nascita, e rivendica il libero dibattito;
orgoglioso della partecipazione diffusa alla vita politica, con ciascuno che alterna ricerca
della propria felicità con partecipazione al governo. L'Atene di Pericle era una società aperta,
i cittadini liberi potevano affermarsi attraverso percorsi di carriera basati sui talenti e non
sulla nascita, perseguire diverse idee del bene privato e confrontarsi su diverse concezioni
del bene pubblico. Un filosofo austriaco emigrato in Inghilterra, Karl Popper nel ‘45 ‘nella
società aperta e i suoi nemici’, ricostruisce l'albero genealogico del totalitarismo, trovando le
radici in Platone che immaginò uno "Stato di casta" nel quale come a Sparta, solo la classe
dirigente porta le armi, gode di diritti politici, riceve educazione nel comandare o armarsi. Le
cui conseguenze, nella storia del pensiero occidentale, sono state pericolose in quanto
Platone voleva il governo dei migliori, rispetto Pericle che voleva pluralismo e ricchezza
istituzionale di un sistema libero e ben governato. Platone voleva risolvere la politica con:
Chi deve reggere lo Stato?. Popper si interrogava sul buon governo: come organizzare le
istituzioni politiche, in modo che governanti incompetenti o cattivi non facciano troppi danni?
Dando alla società la possibilità di esercitare libertà, indipendentemente dal governante.
Secondo il filosofo novecentesco Gellner esiste un paradosso di Platone, che da un lato
ammira Sparta (società chiusa, divisa in caste) e dall'altro riflette sulle "idee" astratte ed
emancipatrici. Platone attraverso il dialogo, persuade, con una logica stringente,
l'interlocutore, esprimendo un dogmatismo- perseguito con mezzi liberali, un autoritarismo
dal volto razionale. Sono importanti razionalismo, apertura e liberalismo del procedimento
argomentativo quanto l'illiberalismo delle conclusioni intese. Era affascinato non dalla forza
dei vincoli sociali, ma da quella della logica.
1.3. Aristotele e la natura della politica
Aristotele (384-322 a.C.) si allontana dal pensiero platonico portandolo a essere il primo
pensatore sociale con ambizione scientifica. Il suo realismo: la riflessione politica e sociale
non può prescindere dall'indagine e dalla conoscenza della realtà. Nasce a Stagira, una
cittadina ai confini del mondo greco caduta sotto il dominio macedone. Orfano in tenera età,
fu affidato a Prosseno di Atarneo che, amico di Platone, lo indirizzò verso l'Accademia. Ci
rimase 20 anni, apprendendo dal maestro e sviluppando un proprio pensiero che alla morte
del maestro, straniero (senza pieni diritti e soggetto a obblighi) fondò un’altra scuola a
Mitilene (opportunità offerta dal suo allievo Teofrasto. 2 anni dopo fu chiamato in Macedonia,
per diventare il precettore del principe Alessandro, per tre anni, fino a quando giovanissimo,
iniziò le sue avventure militari. Rientrò ad Atene nel 355, dove in un pubblico ginnasio, detto
Liceo (dedicato ad Apollo Licio), fondò la sua scuola Peripeto (la passeggiata), dove nel
giardino in un colonnato coperto, maestro e allievi discutevano camminando. Alla morte di
Alessandro Magno, quando ad Atene si risvegliano sentimenti anti-macedoni, Aristotele
riparerà a Calcide, dove morirà. Ciò che lo caratterizza è la scientificità: ambizione a
guardare la realtà per come è analizzandola sotto logica, che raccolti nel Organon, sono il
fondamento del nostro modo di ragionare. Si basa sul principio di non contraddizione (se A è
uguale ad A è diverso da B che non è uguale ad A); distingue fra ragionamenti fondati sulla
deduzione ("a priori"), indipendenti dall'esperienza, fondati sul sillogismo: da una certa
premessa generale, attraverso un termine medio, si ricava una conseguenza necessaria
(tutti gli uomini sono mortali/ socrate è uomo/ socrate è mortale) - e ragionamenti fondati
sull'induzione ("a posteriori"): dall'esperienza si trae una conclusione di carattere generale.
Nelle scienze induttive c’è la scienza del buon governo (presente in molti suoi lavori). Le sue
opere non ci sono arrivate intere e anche le Lezioni di Politica o Politica, non sono finite. Alla
domanda: "se la felicità di ciascun uomo nella sua singolarità e della polis sia la stessa o no"
risponde: "tutti dovrebbero convenire che è la stessa". La sua analisi è centrata sulla polis, la
politica è la gestione della polis e l'arte della politica è delineare le condizioni per la felicità.
La vita buona può avvenire solo nella polis, il centro della riflessione è l'uomo nella polis.
Esistono diseguaglianze naturali: Lo schiavo non ha la pienezza deliberativa, la donna l'ha
ma senza autorità, il ragazzo la ha ma non sviluppata. La pienezza della capacità
deliberativa appartiene solo all'uomo libero (cittadino e animale politico). Gli stranieri, nati e
cresciuti lontano dalla polis (barbari e orientali), non hanno capacità deliberativa e possono
essere solo servi. Platone è più terrepeutico. La Politica è il suo studio delle questioni
politiche nata da un’indagine di tutte le costituzioni (caratteristiche salienti degli ordinamenti
politici) delle polis; di cui ci è pervenuta la sola Costituzione (politeía) ateniese, nella quale
vengono ripercorse le progressive modifiche, democratiche, dell'ordinamento ateniese.
Praticava il metodo comparativo. Per capire il migliore fra gli ordinamenti politici, si devono
studiare tutti quelli della Grecia, dove si convince che l'uomo è un animale sociale, che per
natura vive in comunità. La parola serve per esprimere il giusto e l'ingiusto: solo l’uomo ha la
percezione del bene e del male e degli altri valori che il possesso comune costituisce la
famiglia e la polis. Il "tutto" (comunità sociale) precede la "parte" (la famiglia) da cui la sua
indagine risolve la Politica: si deve analizzare il composto fino agli argomenti più semplici.
Per Platone, la famiglia è sacrificata, per Aristotele è l'unità elementare della costruzione
sociale. Nel mosaico sociale la prima unità è la famiglia, poi i villaggi (dove si riuniscono più
famiglie per soddisfare i reciproci bisogni) la cui unione porta la polis. La sua ambizione è
delineare un’evoluzione naturale dei gruppi politici, la cui indagine determina la natura delle
cose. La sua "natura" non abita un iperuranio mondo delle idee: la sua analisi non perde di
vista gli aspetti più materiali e concreti della vita associata: analizza questioni "economiche",
legate all'amministrazione della casa (oikos, da cui oikonomia): il capofamiglia deve
governare bene la casa, produrre ricchezza e orientare la famiglia verso una vita buona.
Introduce il concetto di "valore di scambio" (non il valore "intrinseco" di un bene di proprietà,
ma quello che acquisisce in quanto scambievole), connesso alla naturale socialità degli
uomini: trae la prima origine da un fatto naturale (gli uomini hanno alcune cose in più del
necessario, e altre in meno). Biasima la brama eccessiva di ricchezze, che non può essere il
fine della vita umana: distingue fra due forme di arricchimento: economica (giovevole,
perché il padre di famiglia col lavoro proprio, dei suoi figli e dei suoi schiavi, crea benessere
per soddisfare i propri bisogni e contribuisce alla ricchezza complessiva della comunità) e
crematistica (discutibile, si fonda sul commercio e sulla speculazione, e coincide con il
perseguimento della ricchezza fine a se stessa). E’ distante dal comunismo platonico: se
tutti i cittadini abbiano in comune tutto, o niente o alcune cose sì e altre no, è l’inizio di
qualsiasi esame delle questioni politiche. Se chi vive assieme è legato dalla medesima
comunità politica, abita lo stesso territorio, e partecipa a relazioni di scambio a vantaggio del
mutuo benessere (quindi cose obbligatoriamente comuni), la questione si riduce a: meglio la
proprietà privata o collettiva. Aristotele è a favore della proprietà privata in quanto è il
sistema migliore affinché l'uomo lavori e produca, e non lo vede contro il bene della
comunità. Per Lo Stagirita, una comunità politica non è solo una massa di uomini, ma
ognuno è diverso, non si può costituire uno stato di eguali, diversità da tenere conto nelle
istituzioni politiche. Il comunismo non ferma conflitti e gelosie, in quanto nascono dalla
cattiveria umana, perché anche quelli, che hanno i beni in comune, entrano in contrasto. La
comunità politica deve sì perseguire l'unità, ma non a scapito della pluralità. Ogni essere
vivente ha un telos, un fine, lo scopo per il quale è al mondo. Quello dell’uomo è essere
filosofo (fare attività di pensiero). Se l'intelletto in confronto con l'uomo è una realtà divina,
anche l'attività secondo l'intelletto sarà divina in confronto con la vita umana. L'attività di
pensiero coincide con le più importanti funzioni umane, da piaceri e felicità più elevati: per
Platone era ristretta, per Aristotele ognuno la può fare e tutti hanno la potenzialità. La buona
organizzazione politica consente a tutti di dedicarsi alla filosofia, ed essere felici: per
permetterlo la città dev’essere ben organizzata e spesso in pace, sufficientemente prospera
in modo da non costringere anche gli uomini liberi ad occupare il proprio tempo per
procurarsi i mezzi materiali. Aristotele è più attento ai "dettagli" della vita organizzata rispetto
a Platone. Ad Aristotele si deve la prima tipizzazione delle forme di governo, sono tre, con
ciascuna che può essere buona (i governanti fanno anche gli interessi dei governati) o
degenere (i governanti fanno solo i propri interessi). Le forme di governo sono distinte in
base al numero dei governanti. Se a comandare è uno solo; si parla di monarchia nel caso
in cui quello faccia l'interesse di tutti i cittadini; se opera per sé soltanto (soddisfa solo i
propri capricci, o privilegia il proprio bene su quello della polis) si parla di tirannide. Il
governo di pochi è l'aristocrazia (o perché i migliori hanno il potere o perché persegue il
meglio per la comunità e per i suoi membri) ma nel caso in cui una minoranza al potere
persegua il proprio interesse, oligarchia. Se comanda l’insieme polis, si ha la politia
(autogoverno) se il governo dei molti non abbia come obiettivo l'interesse di tutti, ma di una
fazione, si ha la democrazia (potere, kratos, della folla). C’è una duplice matrice: elemento
oggettivo (distingue le diverse forme di governo e il numero dei governanti) e la distinzione
tra forma di governo buona (chi governa tiene in conto l'interesse dei governati e persegue il
giusto: benessere sociale e rettitudine nella distribuzione di cariche e onori) e degenerata
(chi governa persegue il suo immediato interesse: avidità di denaro ed onori). Se la tirannia
fa gli interessi solo del monarca, oligarchia solo dei ricchi, democrazia dei poveri, nessuna
per la comunità. La legge è un prodotto della natura umana, e proprio l'uniforme applicabilità
la rende preferibile all'arbitro del reggitore del potere, che rischia di privilegiare il suo
interesse e non della comunità.
1.4. Lo stoicismo e la "scoperta" dell'individuo
Quando l'Ellade fu conquistata da Alessandro Magno, le polis greche persero prima
l’indipendenza e poi la vitalità. Nel 146 a.C., la Grecia divenne un protettorato romano.
Roma, fondata su una popolazione dedita all'agricoltura, all'ingegneria e alle
avventure militari, vide i confini espandersi e le istituzioni mutare. Nata monarchia, divenne
repubblica (con il loro apogeo nel II secolo a.C) che seguì la crisi e la nascita dell'Impero con
la sua lentissima dissoluzione. La storia romana fu un continuo conflitto tra fazioni, patrizi e
plebei. A Roma si invidia la sobrietà dei costumi, il valore militare, la saggezza delle norme e
la sapienza politica. Le 3 grandi correnti filosofiche post-aristoteliche (epicureismo, cinismo e
stoicismo) ebbero fortuna a Roma ma la più importante fu lo stoicismo che divenne la
filosofia "ufficiale" dei funzionari imperiali (a cui servì per gestire l’amministrazione e non per
la sua filosofia). Fu un sistema di idee in costante svolgimento, che si evolse e si adattò nei
secoli. Il primo stoico fu Zenone di Cizio, che insegnava vicino al partenone di Atene sotto
lo stoà pecile (portico dipinto) da cui stoicismo. Visse in un periodo di scomparsa dello
splendore delle polis e declino: la politica ad Atene era alimentata dalla vitalità della polis,
che chiamava tutti gli uomini liberi ad interessarsi degli affari, quando venne meno,
l'attenzione si spostò sul singolo. Gli stoici credevano nella salvezza individuale, che
coincide con l'impermeabilità al mondo esterno: anche quando la sorte è avversa, l’uomo
può trovare riparo nella tranquillità dello spirito. Tutti corrono verso la morte, l'uomo è un
vaso che va in pezzi a ogni scossa e a ogni urto. Il saggio deve essere razionale,
comprendere precarietà e caducità delle cose umane, accettare la morte come ineludibile e
distaccarsi dalle preoccupazioni mondane, attraverso l’apatia (libertà da ogni passione
(pathos)) da cui si fonda una vita buona e serena. Si è saggi e sereni se ti tieni alla larga
dalle passioni, o le domini. Condursi secondo ragione significa dominarsi, superando ogni
condizionamento materiale. Praticando indifferenza, le persone diventano indipendenti dagli
eventi, non sono condizionati dal corso delle cose. Questo dominio di sé coincide con la
vera virtù. Ciò non significa isolarsi fisicamente ma ritirarsi in se stesso, visto che non c’è
luogo più calmo e tranquillo della propria anima. Lo stoico sa dominarsi e non vi è alcuna
ragione di prendersela con la fortuna avversa, perché sa che la realtà del mondo è
sommamente razionale: eventi che potrebbero apparire come sventure avranno un
significato positivo. Il fine supremo dell'uomo è quello di vivere conformemente alla natura,
accettando il corso delle cose. Hai la ragione? SI? Dall’idea che tutti partecipavano a una
natura razionale nasceva un fate sentimento di uguaglianza: ogni individuo è egualmente
considerato parte di una sola comunità politica, unita da legami morali e religiosi prima che
giuridico/politici: si parla di cosmopolitismo e giusnaturalismo: dottrina che prescinde
dall'appartenenza a una comunità politica sottolineando come i principi di diritto non abbiano
un fondamento condizionale ma originino dalla ragione, regola principe per orientarsi nel
giusto e dell'ingiusto. Il diritto di natura è il sommo principio dell'azione morale e
dell’ordinamento politico. Il mondo non è il caos, ma è il riflesso di un ordine stabilito da un
dio provvidenziale. Lo stoicismo è una filosofia dei doveri: ognuno ha un dovere da
compiere e per mezzo della ragione, l'uomo comprende l’ordine divino, il suo posto
nell'universo e il tutto si compendia in modo armonico. E’ una filosofia sociale e politica
improntata all'ottimismo, spiegandone l'enorme fortuna fra i "costruttori" latini. Lo stoico è
convinto di comprendere il mondo e le leggi che lo regolano, si atteggia in modo quasi
teatrale ed è impegnato nella vita pratica, è in bilico l'asceta e l'uomo di mondo, diventa
l'interprete cosciente di un mondo declinante, dove si distacca. Seneca sulla condizione
umana dice: dal momento che siamo fra gli uomini serviamo l'umanità. L'importanza dello
stoicismo è dovuta alla scoperta dell'individuo e dei doveri mondani. Fra i romani stoici ci
sono: Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, l'Imperatore Marco Aurelio.
1.5. La Croce e la libertà
Contemporaneo di Gesù Cristo, che non conosce, c’è Paolo (o Saulo) di Tarso
(5/10-64/67). Secondo il vangelo si convertì mentre si recava da Gerusalemme a Damasco
organizzando la repressione dei cristiani. Fu assalito da una luce fortissima ed udì Dio
domandargli - Saulo perché ci perseguiti?. Diventò il più importante predicatore della
Cristianità. Su indicazione di Gesù e grazie e all'opera di Paolo, il Cristianesimo si diffuse in
tutto il mondo. Paolo afferma l'uguaglianza umana davanti a dio, indipendentemente dalla
condizione davanti il potere politico. Il Cristianesimo non voleva opporsi al potere politico. I
cristiani e San Paolo obbedivano all'autorità civile: comune per tutte le filosofie dell'epoca.
Solo cristiano era la duplice lealtà: riconoscevano l'autorità di Cesare ed erano sottoposti al
volere di Dio. Nel caso i due doveri erano in conflitto, il divino aveva il sopravvento sul
terreno. Le strutture politiche greco romane non erano laiche. Le religioni pagane fatte di riti
e cerimonie erano cruciali alla vita civile: non c’era distinzione tra vita religiosa e vita
pubblica: il potere politico era al servizio della divinità e viceversa. Man mano che la Chiesa
cristiana cresceva, resisteva alle persecuzioni romane, creduti pericolosi per la duplice
lealtà. Con l'editto di Costantino (di Milano) del 313 la chiesa divenne legale e con l'editto di
Tessalonica del 380 diventa religione dell'Impero. Per Sant'Agostino (354-430) la storia
della Chiesa era "la marcia di Dio nel mondo", arrivato al Cristianesimo a trentatré anni,
dopo un lungo travaglio intellettuale. Le sue Confessioni, pensate per illuminare il percorso
dei convertiti e scritte nel 400, restano una delle più popolari autobiografie. Per lui il compito
delle istituzioni pubbliche è preservare la pace. Nel 410 d.C., il sacco di Roma ad opera dei
Visigoti guidati da Alarico, segnò un gravissimo indebolimento e la causa venne indicata
nella crescente presenza del Cristianesimo, religione disinteressata alle vicende terrene. Nel
De Civitate Dei, Agostino afferma che la debolezza dell'Impero non deriva dall'aver
abbracciato il Cristianesimo, ma dal averlo fatto poco convinti, sostenendo che esiste una
sola luce che può illuminare un'umanità viziata dal peccato originale: il Dio unico, prima
ebraico e poi cristiano. I regni puramente umani sono diabolici: il potere politico non
illuminato dalla fede cristiana è criminale. Agostino ricorda un aneddoto su Alessandro
Magno, che fece arrestare un pirata, per interrogarlo e chiedergli conto dei suoi crimini: Il
pirata replicò che Alessandro era criminale esattamente quanto lui, ma siccome operava con
un grande esercito anziché una piccola nave era considerato un grand'uomo e non un
ladruncolo. Il governo sarebbe una mera espressione di forza. Domandandosi: "Bandita la
giustizia, che altro sono i regni se non grandi associazioni di delinquenti? Le bande di
delinquenti non sono forse dei piccoli regni?". Agostino si chiede, le bande di criminali "non
sono forse un'associazione di uomini comandati da un capo, legati da un patto sociale, che
si dividono il bottino secondo una legge accettata da tutti?". In assenza di un elemento di
carattere etico-giuridico, regnum e latrocinium sono indistinguibili. La vera giustizia è in cielo,
in paradiso, nella città della giustizia, città di Dio. Il genere umano può aspirare a un'unità
sotto la guida della Chiesa cristiana. Questa separazione fra politica e religione non ebbe
vita facile. Crollato l'impero romano e affermatisi i nuovi regni barbarici, con l'incoronazione
di Carlo Magno (742-814) nell'800 ebbe inizio il Sacro Romano Impero. Gran parte delle
proprietà ecclesiastiche erano ad appannaggio di imperatori e signori feudali che
nominavano i vescovi e le più alte cariche ecclesiastiche, scelte fra i loro figli cadetti. Anche
le cariche minori erano oggetto di negoziazione politica, portando ecclesiastici a partecipare
al potere politico. Prima i monasteri benedettini erano sotto giurisdizione del vescovo locale,
governati si da un abate, ma i legami fra di loro erano molli. Con la nascita dell'abbazia di
Cluny, nel 910, i monaci cluniacensi si strutturano in un unico ordine, soggetti all'abate di
Cluny, creando un auto-governo di ordine religioso, che si libera da qualsiasi influenza del
potere politico. Nel 1073 porta il Papa Gregorio VII (1020-1085) a proclamare il Dictatus
Papae: tutti i vescovi verranno proclamati dal Papa e soggetti a lui soltanto: L'Imperatore
Enrico IV, appoggiato dal clero tedesco, esige la conferma della prerogativa imperiale sulla
nomina dei vescovi: nasce la "lotta delle investiture", dove Gregorio vide la meglio
scomunicando e deponendo Enrico, obbligandolo al pellegrinaggio a Canossa nel 1077. In
realtà, il conflitto si protrasse per molto tempo, indebolendo il potere imperiale e inclinando la
sua legittimità, facilitando la fioritura delle città libere, e del ceto commerciale rendendole
ricche: prima nei Comuni del nord Italia e dopo in Germania e Fiandre. I Comuni in origine
erano leghe di uomini divenuti liberi dai vincoli feudali, inseriti in corporazioni di arti e
mestieri, che giuravano di difendersi reciprocamente e obbedire a capi elettivi. Secondo lo
storico Harold Berman (1918-2007) il Papa sconfisse l'Imperatore, attraverso la pretesa di
giurisdizione universale, considerando il "ruolo potenziale del diritto come fonte di autorità e
strumento di controllo". Il loro scontro vide nascere una nuova cultura giuridica: gli studi
giuridici vengono utilizzati alla ricerca di un principio di giustizia che risolva la disfida: diritto
canonico a favore del Papa, diritto romano per l’imperatore. Il fatto che questo conflitto si
risolvesse con argomenti giuridici e non con la spada, sviluppo l’università (la più antica a
Bologna). Con la "rivoluzione pontificia" (chiamata così da Berman) il diritto assume
autonomia, rispetto a bisogni e desideri dei governanti.
1.6. Concezioni del potere nel periodo cristiano
Il Medioevo, inizia con la caduta dell'Impero romano d'Occidente (476) e si conclude con la
scoperta dell'America nel 1492 (da cui inizia l’età moderna), è un'epoca buia, con instabilità
politica e scarsi progressi scientifico/filosofici. Visione, che avvicinerà il mondo classico
all’età moderna. Al Medioevo si deve l'invenzione dell'aratro pesante (che migliorò la
produttività dei campi), degli occhiali da vista, dei mulini ad acqua e dell'orologio meccanico.
Per il pensiero politico, gli autori medievali scrivevano "prima dello Stato": esisteva sì il
Sacro Romano Impero, ma l'Europa era frastagliata, piena di governi multipli e sovrapposti.
Il potere imperiale si basava sulla lealtà dei sottoposti, che si doveva consolidare da un
complesso scambio di benefici tra vassallo-imperatore. La lotta delle investiture e la
frammentazione del potere politico focalizzò l'attenzione sul diritto e sul diritto di natura,
istanza più alta rispetto al potere dei singoli signori feudali e una riscoperta dell'aristotelismo
grazie anche al filosofo arabo Averroè (‘126-’198) che pubblicò commenti in latino su
Aristotele e Tommaso d'Aquino (‘225-’274) a cui si deve la conciliazione di aristotelismo e
pensiero cristiano. Autore della Summa Teologica, la cui filosofia è una sintesi universale
che abbracciava tutto il conoscibile, unendo fede cristiana e razionalismo aristotelico.
L'universo è gerarchicamente ordinato: parte da Dio (culmine) fino a giungere all'essere
naturale più infimo. Tutto nell'universo ha un fine. La natura umana ha una posizione unica:
possediamo una natura materiale, un'anima razionale e spirituale che ci rende simile a Dio.
Il concetto di "natura" è legato al concetto di legge. Tommaso distingue legge eterna,
naturale e divina. La legge naturale, prodotta dalla sola ragione, è comune a tutti gli uomini:
i doveri del governo, e dei governati non dipendono dall'appartenenza religiosa. I cristiani
non sono esentati dall'obbedienza verso un sovrano pagano, solo perché pagano. La
giustificazione del potere viene solo da ciò che in natura è ragionevole e giusto. La legge
umana deriva dalla legge naturale, e ne deve essere coerente. Per Tommaso l’uomo è un
animale sociale. La società è un sistema di scambi reciproci, alla quale uomini diversi
contribuiscono in modo diverso. La politica trova la legittimità nella naturale socievolezza
umana. La comunità politica deve tutelare la libertà dei singoli e rappresenta il contesto
nell'ambito del quale essi possono realizzare le proprie virtù naturali, che definiscono il loro
destino terreno. È governata da leggi umane, che non possono contraddire la legge morale.
Il fine morale perché esiste il governo implica che l'autorità sia limitata ed esercitata solo in
conformità alla legge. Nella Summa Teologica, spiega che Dio desidera che esista un
governo, ma la specifica "forma" è frutto della libera scelta degli uomini: Prima c’è il regime
con una sola autorità, scelta per la sua virtù, che sta a capo di tutti, sotto viene il regime in
cui ci sono alcuni capi scelti per la loro virtù; e, per il fatto che è di pochi, la loro autorità non
è in definitiva altro che quella di tutti, scelti in mezzo a tutto il popolo o da questo. Per
Tommaso, la forma di governo preferibile è il governo misto, convinto che se aristocrazia,
popolo e monarca partecipano, ciascuno in modo diverso, al potere di governo, la comunità
politica sarà più stabile e meno permeabile alla possibilità di rivolte sediziose. Il miglior
ordinamento di governo si ha quando: Le redini del potere sono nelle mani di un uomo solo,
che governa secondo virtù; sotto presiedono altri uomini di provata virtù; il governo riguarda
tutti, nella misura in cui chiunque faccia parte della comunità può aspirare alle cariche
politiche che assegna. Distingue il tiranno a titulo (colui che usurpa il potere) dal tiranno ab
exercitio (sovrano legittimo in origine che poi ne abusa). Il tiranno a titolo può legittimare il
proprio potere, solo se governa rettamente, ovvero nell'interesse dei sudditi. Contro la
tirannia, ci sono rimedi: nei governi in cui il potere dei reggitori dipenda dal popolo (Comuni),
può far rispettare le condizioni su cui il potere si fonda chiedendone conto ai governanti; se
invece dipende da un superiore (potere feudale), bisogna appellarsi al superiore, affinché
faccia giustizia: Si è molto dibattuto, se Tommaso approvi o no il tirannicidio, quando non vi
è altra possibilità di disfarsene. Nella scuola cattolica nasce una giustificazione del
tirannicidio, ad opera del gesuita Juan de Mariana (1536-1624), seguace di Tommaso e
rappresentante della Scolastica spagnola (scuola di Salamanca) Nel De rege et regis
institutione (1599) fornisce al re Filippo il Pio (1578-1621) un'indagine a largo spettro
sull'istituzione della monarchia (con esempi tratti dalla storia spagnola). Argomenti ispirati
alle ragioni della prudenza politica, che consiglia al monarca di governare con saggezza e
senza arbitrio. Condanna alcune degenerazioni della politica spagnola: il grande potere
venutosi a trovare nelle mani del favorito regio (privado). Condannò la svalutazione della
moneta alla stregua di un autentica frode nei confronti dei cittadini e propose un sistema
fiscale certo e mite. Il re deve sottomettersi alle leggi al pari dei sudditi, e la solidità delle
istituzioni pubbliche andava ricondotta al consenso dei cittadini. Mariana ammette il
tirannicidio, perché neppure il reggitore può liberarsi dalle norme di diritto naturale. Norme
che hanno la precedenza su qualsiasi legge il sovrano può scrivere e approvare da sé.
Marsilio da Padova (1285-1343), conseguì gli studi di teologia alla Sorbona ed era poi
riparato alla corte del pretendente al trono imperiale Ludovico il Bavaro a Norimberga. Il suo
Defensor pacis (1324) è un testo polemico contro la pretesa papale della pienezza del
potere (il potere del Papa si estende anche al sovrano civile). Secondo Marsilio, la pace non
sarà possibile finché il papato non abbandonerà il proprio disegno egemonico sulla
cristianità, che porterà conflitti e la rovina in Europa. Distinse potere spirituale dal temporale:
chi deve garantire il fine ultimo non necessariamente deve interferire con quegli ambiti, le
comunità politiche, nelle quali si perseguono i fini terreni. Sosteneva che le istituzioni
politiche non dovessero perseguire gli eretici, perché spettava al teologo e non al principe.
Propone una concezione del diritto che avrà molto successo in epoca moderna: le sole
norme che possono fare assegnamento sul potere coercitivo, perché ne sia garantita
l'osservanza, sono quelle definite dalla universitas civium. Il diritto diventa materia prodotta
dalla deliberazione di una comunità politica: portandolo a distinguere per primo potere
legislativo, esercitato da universitas civium, e esecutivo, assegnato al governo. La legge
dev'essere giusta ed orientata al bene comune: sorgente dalla volontà dei legislatori, non nel
diritto naturale. Riteneva che il governo dev’essere deposto, quando persegue solo il suo
privato beneficio e non il bene della società politica. Al potere legislativo spetta anche il
compito di "correggere" il governante.
1.7. Legge di natura e diritto naturale
L'idea di legge di natura fa riferimento a due universi concettuali non separabili, ma
autonomi. Con questa espressione ci si riferisce alle regole che stanno alla base
dell'universo fisico, della "natura umana", o delle relazioni sociali e politiche con affermazioni
tipo "al livello del mare, l'acqua bolle a cento gradi", "l'uomo è un animale che non conosce
appagamento", "'vivere in società produce mutuo vantaggio". L'espressione è anche
utilizzata per definire i principi di ciò che è giusto diventando una guida per la ricerca della
giustizia. Un'ambiguità di fondo caratterizza tutti i discorsi politici intorno alla "legge di
natura", perché utilizzata sia in relazione alle regole alle quali è vincolato il comportamento
umano a causa dell'universo in cui l'uomo vive, sia rispetto alle norme che dovrebbero
esistere affinché la natura dell'uomo possa realizzarsi. Da una descrizione dell'uomo e da
una precisa visione della sua natura deducono una chiara percezione di ciò che è giusto.
L'intera costruzione del diritto naturale violerebbe la legge di Hume (chiamata così dai filosofi
due secoli dopo il creatore David Hume (1711-1776)) che afferma che non è logicamente
possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive: da una descrizione sul
mondo "come è" non può logicamente derivare un "dover essere". Il linguaggio scientifico
non ammetterebbe salti di questo genere e ci obbligherebbe alla netta separazione dei fatti
dai valori. Grande divisione che preclude la possibilità di fondare un'etica normativa, in grado
di stabilire con certezza cosa è bene o giusto fare e al tempo stesso esclude che in ambito
etico si possa argomentare sulla base di principi razionali. La conclusione di Hume: le regole
della morale "non sono le conclusioni della nostra ragione" sarebbe una messa in mora
dell'intera costruzione fondata sulla legge di natura; perché i pensatori che hanno utilizzato
questo edificio teorico nel corso dei secoli hanno ritenuto di poter costruire una sorta di
scienza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, una scienza capace di distinguere il bene
dal male. Per Hume l'universalità della morale dipende dalla natura comune a tutti gli uomini,
che provano sentimenti simili in circostanze simili, vale a dire, la morale sta nel sentimento
del soggetto, non è un predicato dei fatti (non può esistere "una scienza del bene e del
male"). La storia dell'Occidente è segnata da una meditazione tra diritto naturale e leggi di
natura. Dietro ogni teoria del diritto naturale si cela la ricerca di un ordine politico fondato
sulla ragione, sul senso morale, sulle leggi immutabili dell'universo, sulla "natura umana".
Contro sta visione è la nozione: ciò che piace al Principe ha forza di legge: Cioè la legge è la
semplice volizione del potere sovrano, in cui trova la propria giustificazione. Le dottrine
fondate sul diritto naturale presentano alcuni elementi comuni: la natura è conoscibile
dall'uomo attraverso l'uso della sua ragione, la natura fornisce precisi valori sui quali
orientare l'azione e tali valori sono universali nella loro applicazione, immutabili nel
contenuto ultimo e moralmente vincolanti per tutto il genere umano. La prima tappa è
l'Antigone di Sofocle del 441 a. C., che narra la storia di due fratelli, Eteocle e Polinice, che
appartengono alla stirpe maledetta di Edipo, e sono morti in battaglia. Il primo ha difeso
Tebe e ha diritto a essere sepolto, l'altro si è rivoltato contro la sua città, ora in mano a suo
zio Creonte. Quest'ultimo emana un decreto che stabilisce che il corpo di Polinice debba
essere lasciato in pasto a cani e uccelli, destinato a non trovare quiete dopo la morte. La
civiltà omerica rifiutava di seppellire i morti banditi dalla comunità e secondo l'etica dei
guerrieri era lecito oltraggiare il cadavere scandalo in pasto agli avvoltoi. Antigone, sorella
dei due, sfidando le ire dello zio, dona degna sepoltura al fratello caduto combattendo contro
tebe. Creonte chiarisce: è impossibile penetrare a fondo anima, intelligenza, carattere di un
uomo se costui non ha rivelato se stesso nell'esercizio del potere e delle leggi, chi governa
la polis senza attenersi alle decisioni più giuste, ma tiene la bocca chiusa per qualche paura,
non da ora io stimo un essere spregevole; e parimenti non ho nessuna considerazione per
chi tiene un amico in maggior conto della propria patria. Solo navigando su una prospera
polis possiamo assicurarci dei veri amici. Per Creonte contano solo i comandi della città, a
cui si deve l’obbedienza, non se ne può contestare il contenuto, pena l'anarchia. Si deve
obbedienza a chi comanda, in ogni caso. Antigone affronta Creonte e spiega i motivi che
l'hanno indotta a disobbedire al suo ordine diventando l'eterna eroina del diritto naturale.
Antigone rappresenta la legge eterna: la giustizia si persegue nei precetti divini, per Creonte
non esistono limiti esterni al potere. Il contrasto fra polis e famiglia, legge umana e divina,
decreto di un capo e legge naturale, leggi della terra e giustizia divina.
Secondo Hegel (1770-1831) il contrasto rappresentato dalla tragedia è quello tra legge
morale e legge pubblica e fa sì che l'unità etica del mondo greco sia compromessa fin dal
principio da un dissidio profondo tra legge umana che organizza alla luce del sole la vita
comunitaria e una divina, della famiglia, basata sull'elemento femminile. La totalità della vita
etica viene reclamata da entrambe rendendo il conflitto insolubile (Hegel è a favore di
Creonte). Gli stoici ritengono che la natura sia governata da una legge universale razionale
di origine divina, ben conoscibile dalla mente umana. Per gli stoici il massimo bene
individuale consiste nel vivere secondo natura, conformemente alla ragione. In campo
sociale, le leggi, prodotte dalla ragione universale e comune, possono realizzare la giustizia.
A difesa dell'idea che vi sia una legge superiore al potere politico e che non si può mai
violare si trova in Cicerone: Noi siamo nati per la giustizia, il diritto non è stato fondato per
convenzione, ma dalla natura stessa, qualunque sia la definizione di uomo, una sola è valida
per tutti, la ragione, con la quale ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo
congetturare, argomentare, controbattere, discutere, eseguire qualsiasi cosa, è certamente
comune a tutti gli uomini. Nel suo il De re publica (55-51 a.C.), ribadisce l'esistenza di una
legge vera dettata dalla ragione e da Dio, immutabile, eterna, unica per ogni tempo e
ogni luogo, presente in tutti gli uomini e individuabile attraverso la retta ragione. Il fatto che
gli stoici utilizzassero dio al singolare permette al mondo cristiano non correzioni. Nel mondo
antico l’idea che la legge naturale fosse superiore a quella civile non si traduce in una
rivoluzione. La legge di natura non veniva utilizzata come critica "politica" rispetto alle leggi
civili, ma che la legge di natura fosse sempre superata da qualunque legge civile. Nel
mondo romano il diritto naturale svolgeva un ruolo pratico, riconosciuto come quel diritto che
è proprio dell'essere umano in quanto tale, a prescindere dalla sua appartenenza a una
convivenza politica. Il diritto naturale si affiancò allo ius gentium (diritto comune alle genti). Il
pretore era titolare di una funzione creatrice, che utilizza anche nozioni di diritto naturale. Il
problema pratico era di adeguare le leggi dei popoli conquistati - mai pienamente integrati in
un modello unitario - all'ordinamento romano. Il concetto di ius naturalis serve per le
controversie fra cittadini romani e non, fra chi era sottoposto allo ius civile e chi no. L'età
cristiana utilizzò molto le nozioni ciceroniane, in particolare dell'idea della legge come editto
della natura e non la volizione del comandante supremo. Paolo di Tarso fu il primo a
impiegare l'espressione "iscritta nel cuore degli uomini" per la legge di natura, e Colui che
l'aveva iscritta era Dio. Si tratta di qualcosa che ci insegna a distinguere ciò che è giusto da
ciò che è sbagliato. La legge, rivelata da Dio per mezzo di Mosé e confermata da Cristo nel
Vangelo, è stata iscritta dal Creatore nella natura umana. Esiste una legge intimamente
legata alla natura dell'uomo in quanto essere intelligente e libero e questa legge trova
risonanza nella sua coscienza. Nel periodo in cui si incominciò a strutturare il diritto canonico
intorno al 1100, i pensatori cristiani iniziarono a utilizzare il diritto naturale. Il testo
fondamentale è il Decretum Gratiani, o Concordia discordantium canonum del 1141. Il
monaco Graziano afferma la piena identità di Scritture e diritto naturale, nel Decretum: La
razza umana è governata da due strumenti, il diritto naturale e gli usi. Il diritto naturale è ciò
che è contenuto nella Legge e nel Vangelo, per mezzo dei quali viene comandato di fare agli
altri ciò che si vuole che gli altri facciano a noi. Se la legge di natura è ascrivibile a Dio e
l’autenticità si ritrova nelle Scritture, scavalca qualunque altra norma ed è vincolante per
tutti, tanto che le leggi contrarie si devono considerare nulle e inesistenti. La Legge e il
Vangelo contengono alcune istanze o casi di diritto naturale, che si fonda sull'instinctus
nature comune a tutti gli uomini. Il diritto naturale è il complesso delle norme giuridiche che
l'uomo, creatura di Dio, scopre nella propria natura e promulga nella sua propria ragione nel
nome di Dio (la riflessione dell'uomo e i dettami di Dio coincidono). Il filosofo cristiano che ha
lasciato il più ampio corpus è Tommaso d'Aquino. La Summa Teologica è una "cattedrale di
pensiero" fondata sulla consapevolezza che il diritto che oggi chiameremmo "positivo" (la lex
humana) deve essere posto in un complesso rapporto con le fonti legge divina, naturale, di
diritto superiore (la lex naturalis e la lex divina). Le tre fonti (legge divina, naturale e umana)
si compenetrano in un disegno nel quale l'uomo partecipa del piano divino per la salvezza. Il
diritto naturale deve calarsi in una realtà mutevole con saggezza, sapienza e competenze di
ordine tecnico. I suoi principi primi appaiono auto-evidenti, sono indimostrabili ma colti
immediatamente dall'intelletto. La prima fonte della giustizia è la ragione divina, che dà luogo
alla legge divina e guida verso la beatitudine eterna: dove l'uomo si sottoporrà con umiltà. La
seconda è la legge naturale, conoscibile per mezzo della ragione e fondata su principi
universali, comuni a tutti gli uomini. La legge umana deve basarsi sulla legge divina e su
naturale. Se la dignità dell'uomo consiste nell'obbedire alla legge di natura, per Tommaso
esiste il "libero arbitrio": i doveri che la legge di natura impone possono essere compiuti solo
da persone libere e consapevoli. La ragione riconosce il bene e la legge di natura sarebbe
proprio la naturale inclinazione verso il bene. La legge di natura non è direttamente la
volontà divina, ma è il modo attraverso il quale il singolo individuo partecipa al piano di Dio
per l'umanità: l'uomo, seguendo la legge di natura, si scopre libero di compiere il piano di
Dio per l'uomo stesso. Il diritto naturale fonde cultura greca con quella romana e poi classica
e cristiana nel Medioevo e diventerà la filosofia morale dominante in Occidente, cruciale per
comprendere la nascita e lo sviluppo del costituzionalismo e le ideologie dominanti delle
Rivoluzioni d'America e di Francia.

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