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LEGGI E COSTITUZIONI

NEL MONDO ANTICO

Amon P. F. Prof. Francesco

Grigoriadis Ricci
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INDICE
INTRODUZIONE 3

GRECO 4

LATINO 8

COLLEGAMENTI INTERDISCIPLINARI 12

FILOSOFIA 12

ITALIANO 12

STORIA 12

ARTE 12

BIBLIOGRAFIA 14

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INTRODUZIONE

Nel mio elaborato presenterò i pensieri di alcuni dei più grandi autori antichi esistiti: i Greci
Aristotele e Platone, i Latini Marco Tullio Cicerone e Lucio Anneo Seneca. Ciò che
accomuna queste figure è il loro pensiero politico-filosofico; secondo loro, a guidare il popolo
serve una persona che sia in possesso dei giusti valori, i quali possono essere raggiunti
solamente attraverso la vita contemplativa, dedicandosi agli studi filosofici, per mezzo dei
quali una persona può elevarsi rispetto alle altre persone che hanno deciso di non farlo.

Vi è quindi bisogno dei filosofi in politica, i quali sono gli unici che conoscono realmente la
retta via sulla quale guidare il popolo. Il legislatore (o imperatore) saggio dovrà perciò
pensare in modo non egoista, in quanto solo se egli agisce pensando al bene di tutti si riuscirà
a raggiungere la felicità e la salvaguardia dello Stato.

È quindi compito dei filosofi identificare quei vizi che danneggerebbero la formazione
filosofica di qualsiasi persona, suddito o governatore che sia, come viene fatto ripetutamente e
in modo eccelso, a mio dire, da Seneca.

È quindi interesse comune quello di salvaguardare lo Stato e soprattutto la libertà dei suoi
cittadini, ed è per questo che serve essere sapienti se si vuole governare in armonia e
giustamente.

Successivamente esporrò dei collegamenti con i temi che avrò presentato, trovando
similitudini con un grande filosofo, Friedrich Nietzsche, e un grande autore italiano, Gabriele
D'Annunzio, andando anche a toccare i regimi dittatoriali. Chiuderò il tutto con un'opera di
Ambrogio Lorenzetti che condivide pienamente i pensieri degli antichi, secondo cui il bene
comune è ciò a cui il governatore deve puntare.

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GRECO

Aristotele nacque a Stagira, in Macedonia, nel 383/384 a.C. da Nicomaco, medico del re
macedone Aminta III. Riuscì durante la sua vita, dunque ad entrare in contatto con le corti
dell'epoca, restando per un periodo ad Asso presso il tiranno Ermia finché, nel 342, accettò
l'incarico inviatogli dal nuovo re di Macedonia Filippo II che consisteva nel compito di
educare il figlio Alessandro, futuro conquistatore della Persia. Tramite questi stretti contatti
durante la sua vita con intellettuali e vari governatori, e soprattutto alla brillante educazione
che ricevette da ragazzo ad Atene presso l'Accademia platonica, Aristotele, nella sua opera la
Politica, espone la sua concezione politica.

Nel libro I, Aristotele rovescia completamente la visione della comunità di quel periodo: era
difatti opinione comune presso i Greci che la società umana fosse nata solamente per
necessità e utilità reciproca. L'idea dominante di tale pensiero è che gli uomini, come ogni
essere vivente, abbiano come obiettivo il proprio bene e che siano spinti dall'egoismo,
andando a vivere con gli altri solo per ricevere aiuti e non per seguire le leggi della natura;
infatti se gli uomini dovessero seguire il proprio impulso naturale, finirebbero per trascorrere
una vita di violenza, prepotenza ed isolamento. Aristotele, dunque, esprime un pensiero in
netto contrasto con questa ideologia, affermando che, sì, gli uomini si uniscono in una società
per proprio interesse, ma solamente in parte, in quanto ciò che li induce a compiere tale
azione è una spontanea socialità, unita ad un impulso a progredire e vivere meglio.

Ἡ δ᾽ἐκ πλειόνων κωμῶν κοινωνία τέλειος πόλις, La comunità perfetta formata da più villaggi è
ἤδη πάσης ἔχουσα πέρας τῆς αὐταρκείας ὡς ἔπος la città, la quale ha ormai raggiunto il limite
εἰπεῖν, γινομένη μὲν τοῦ ζῆν ἕνεκεν, οὖσα δὲ τοῦ della piena autosufficienza, per così dire; essa è
εὖ ζῆν. Διὸ πᾶσα πόλις φύσει ἔστιν, εἴπερ καὶ αἱ sì nata in funzione del vivere, ma sussiste in
πρῶται κοινωνίαι. Tέλος γὰρ αὕτη ἐκείνων, ἡ δὲ funzione del vivere bene. Perciò ogni città
φύσις τέλος ἐστίν˙ οἷον γὰρ ἕκαστόν ἐστι, τῆς esiste per natura, se tali sono anche le comunità
γενέσεως τελεσθείσης, ταύτην φαμὲν τήν φύσιν precedenti. In effetti questo è il fine di quelle, e
la natura è il fine; infatti quale ciascuna cosa è,
εἶναι ἑκάστου, ὥσπερ ἀνθρώπου, ἵππου, οἰκίας.
quando si sia compiuto il suo processo di
Ἔτι τὸ οὗ ἕνεκα καὶ τὸ τέλος βέλτιστον˙ ἡ
formazione, questo diciamo essere la sua
δ᾽αὐτάρκεια καὶ τέλος καὶ βέλτιστον. Ἐκ τούτων
natura; così diciamo di un uomo, di un cavallo,
οὖν φανερὸν ὅτι τῶν φύσει ἡ πόλις ἐστί, καὶ ὅτι
di un edificio. E ancora, "ciò in vista di cui" e il
ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον, καὶ ὁ ἄπολις fine rappresentano il meglio; e l'autosufficienza
διὰ φύσιν καὶ οὐ διὰ τύχην ἤτοι φαῦλός ἐστιν, ἢ è sia il fine sia il meglio. Dunque da queste
κρείττων ἢ ἄνθρωπος˙ ὥσπερ καὶ ὁ ὑφ᾽Ὁμήρου considerazioni è chiaro che la città va
λοιδορηθεὶς "ἀφρήτωρ ἀθέμιστος ἀνέστιος"˙ annoverata fra le cose che esistono per natura,
[...] Λόγον δὲ μόνον ἄνθρωπος ἔχει τῶν ζῴων˙ che l'uomo è per natura un animale politico e
[...] Tοῦτο [...] πρὸς τὰ ἄλλα ζῷα τοῖς ἀνθρώποις che colui che non vive nella città, per natura e
ἴδιον, τὸ μόνον ἀγαθοῦ καὶ κακοῦ καὶ δικαίου non per caso, o è un miserabile o è superiore
καὶ ἀδίκου καὶ τῶν ἄλλων αἴσθησιν ἔχειν˙ ἡ δὲ all'essere umano, come anche quello schernito
τούτων κοινωνία ποιεῖ οἰκίαν καὶ πόλιν. da Omero "senza relazioni familiari, senza
leggi, senza focolare".
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[...] Soltanto l'uomo, tra gli animali, ha la
parola.
[...] Questo [...] è proprio dell'uomo rispetto
agli altri animali: essere l'unico ad avere la
sensazione del bene e del male, del giusto e
dell'ingiusto e delle altre cose del genere. La
condivisione di queste cose costituisce famiglia
e città.
Traduzione italiana di G. Besso

È ordunque nel passo qui riportato che Aristotele esprime il suo pensiero, affermando che la
πόλις esiste per natura, e che l'uomo è di conseguenza, citando direttamente la definizione che
egli utilizza, un "πολιτικὸν ζῷον", un animale politico, portato per sua stessa costituzione a
vivere con i propri simili. Aristotele inoltre esprime un grande elogio nei confronti della
πόλις, la cui traduzione più adatta può essere ritenuta "comunità"; in questa, appunto, è
possibile raggiungere un grado, ancor maggiore rispetto al normale, di divisione del lavoro e
specializzazione, tale da soddisfare le proprie esigenze spirituali. La πόλις permette all'uomo
certamente di vivere, ma, soprattutto, l’ "εὖ ζῆν" (il "vivere bene"), che altro non è che la
felicità. Quest'ultima si può raggiungere solamente realizzando le proprie potenzialità, le più
alte delle quali, quelle che lo distinguono dagli animali, consistono nella razionalità, nel
λόγος. Aristotele pensa a un modello in cui l'uomo di studio, il saggio, riceve dalla collettività
i mezzi di sostentamento ripagandoli per mezzo dei prodotti della sua attività intellettuale,
soggetti a scambi come ogni altro bene. Si è dunque realmente uomini solamente facendo
parte della πόλις; chi non ne fa parte, chi è ἄπολις, non fa parte a sua volta dell'umanità, ma ne
sta al di sotto o al di sopra: o è un miserabile (il quale non intende realizzarsi spiritualmente) o
è un dio (quindi già pienamente realizzato e dunque anche autosufficiente).

Nel VII libro della sua opera, Aristotele presenta la città buona, la καλλίπολις, ovvero la πόλις
retta da un legislatore saggio, in vista della felicità, che coincide con la vita virtuosa; essa può
essere raggiunta seguendo in primo luogo i beni dell'anima (ovvero le virtù), mentre in
secondo piano devono passare i beni materiali e quelli del corpo. Aristotele dunque tocca
l'antitesi vita pratica/vita contemplativa, analizzando tre tesi: alcuni propendono per la vita
teoretica preferendo evitare la sottomissione al potere sovrano, altri ritengono l'attività politica
l'unica degna via di un uomo e infine altri ancora vedono l'esercizio del potere tirannico come
l'unica fonte di felicità dell'individuo. Aristotele liquida subito la terza tesi mostrando come il
governo dispotico limiti la libertà dell'uomo e dunque anche la sua felicità. La prima è
sbagliata perché il governo può essere sì costante quando chi comanda è superiore ad altri
(citando l'esempio del potere del padre sui figli), ma deve essere a turno quando governante e
governati sono uguali, e quindi la vita pratica è la soluzione migliore sia per la πόλις sia per il
singolo individuo e può condurre alla felicità. Tuttavia il filosofo precisa che la vita pratica
deve includere le attività teoretiche, in quanto l'agire bene è diretto coi pensieri.

Affinché si possa realizzare una situazione di felicitàper tutto il popolo dunque, il legislatore
deve svolgere il suo compito, ovvero dovrà trovare i mezzi necessari che aiuteranno a rendere
possibile il miglioramento della πόλις. L'azione del legislatore saggio deve mirare a

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perseguire la giustizia, eliminare il male e conseguire quindi il benessere e per questo motivo
colui che si occuperà di tali faccende dovrà essere in possesso di virtù; la città infatti sarà
felice perché virtuosa, e potrà essere tale solamente se i cittadini stessi saranno virtuosi.
Inoltre, secondo Aristotele, affinché il popolo diventi virtuoso, il legislatore dovrà mettere in
atto un progetto educativo in grado di renderlo tale. C'è infatti bisogno che governante e
governati siano istruiti allo stesso modo, dato che si alterneranno al comando; è infine
necessarioche nella propria educazione le azioni necessarie quali il combattere dovranno
essere subordinate a quelle che si compiono durante la σχολή (il "tempo libero"), in quanto
educare a quest'ultima significa sviluppare coraggio e temperanza, virtù le quali saranno
utilizzate dall'uomo ad esempio in battaglia se si parla di coraggio, mentre chi è privo di esso
è destinato a diventare schiavo.

Questo pensiero politico del filosofo/saggio che deve governare avendo come obiettivo la
felicità di tutti non è qualcosa che Aristotele tirò fuori dal nulla, per così dire: egli infatti ha
percorso in parte la visione etico-politica del suo maestro Platone, che nacque nel 428/427
a.C. presso Atene, e fu lui stesso un allievo di Socrate.Il pensiero politico platonicoafferma
principalmente che il dovere di un governante è quello di essere giusto e occuparsi del bene
comune, collettivo, e quindi non è ammessa la disuguaglianza, e il buon governo deve allora
tendere alla giustizia e alla virtù. Tutto questo però funziona solamente se chi governa ha una
visione obiettiva, e secondo Platone per formare dei futuri giusti governanti era doveroso
educare fin da giovani gli eredi al trono o gli aspiranti politici per far sì che diventassero
governanti giusti e bravi; l'unico ingrediente fondamentale di una buona formazione politica è
dunque la filosofia. Solo i "re-filosofi" saranno in grado di occuparsi davvero con giustizia del
bene comune. Platone stesso decise di educare il giovane tiranno erede al trono di Siracusa
Dionisio II, per "cambiare il mondo", affinché non venissero più condannate persone
innocenti come era accaduto al suo maestro Socrate. L'esperienza però risultò un fallimento in
quanto Dionisio temette di perdere il proprio potere, e Platone questo ce lo confessa nella
settima delle sue epistole, quella più accreditata di essere stata scritta realmente dal filosofo,
dove però invita ugualmente i parenti di Dionisio a dedicarsi alla filosofia e a consigliarla ad
altri, poiché il fallimento di una sola persona non doveva simboleggiare il fallimento di tutti
nella materia filosofica.

L'opera che contiene la maggior parte dei suoi pensieri politici è la Repubblica, composta
anche durante gli anni della formazione di Dionisio II. Nel I libro in particolare, risulta
importante per capire il suo pensiero il confronto tra Socrate e il sofista Trasimaco;
quest'ultimo afferma, rispondendo a Socrate, che la giustizia non è altro che "l'utile del più
forte", poiché dovunque, in qualsiasi Stato, le leggi sono emanate a vantaggio di chi governa e
di conseguenza a danno di chi è governato, ed è dunque inutile comportarsi giustamente in
quanto si danneggia solo sé stessi in questo modo. Platone ovviamente non considera questa
affermazione veritiera, ma ci vuol far intendere che è questo ciò che accadrebbe se al governo
dovesse salire la persona sbagliata, ed è proprio con lui che la parola τυραννίς ("tiranno")
assume una concezione negativa.Nonostante la tirannia sia una forma di governo che limita le
libertà, Platone non elogia né identifica come migliore costituzione la democrazia, in quanto
perfino in una tale forma di governo, se non si riesce ad unire la politica e la filosofia, non si
avrà giustizia. E la disprezza anche per il fatto che tutti possono salire al governo pur non
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essendo adeguatamente educati. Quindi chi vuole far del bene deve saperlo identificare, e
questo può farlo veramente solo il filosofo, che è colui che conosce il bene di tutti. Platone
anche se tuttavia dopo il trauma della morte di Socrate decide di abbandonare il suo desiderio
di entrare in politica, fonda l'Accademia ad Atene, una scuola destinata a formare i futuri
uomini politici.Ritornando al discorso riguardante la figura dell'ottimo governante, Platone
afferma che quando solo il legislatore è filosofo si ha la καλλίπολις, ovvero la città buona,
meravigliosa, esattamente come dirà Aristotele anni dopo. Affinché egli possa regnare in
armonia e correttezza è necessaria una struttura organica della società, facendo corrispondere
alle tre anime dell'individuo, ovvero quella razionale (λογιστικόν), irascibile (θυμοειδές) e
concupiscibile (ἐπιθυμητικόν), le tre classi della società stessa. Essa deve essere divisa in tre
classi: i δημιουργοί, i "lavoratori", che si occupano di rifornire l'intera città dei beni necessari;
i φύλακες, i "guardiani", della πόλις; e infine gli ἄρχοντες, ovvero i "governanti" che
guideranno la πόλις ispirandosi ai principi della filosofia. Tutti loro corrispondono
rispettivamente alla parte concupiscibile, irascibile e razionale dell'anima; quindi, come
afferma Platone stesso:

"Come nello stato, così nell'anima dell'individuo, l'esercizio di tutte e tre queste virtù, cioè
la vita armonica dell'anima, costituiscono la giustizia e la virtù, che comprende e riassume
tutte le altre"
G. Fassò, Storia della filosofia del diritto

È quindi tramite questi provvedimenti che gli interessi particolari e individuali si


dissolveranno all'interno di un supremo interesse collettivo; Platone è consapevole
dell'impossibilità di tale realizzazione,senza ritenerlo un progetto inutile, in quanto potrà
sempre essere un punto di riferimento normativo per le città esistenti o future, che saranno
tanto migliori quanto più si avvicineranno a tale modello.

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LATINO

Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, nell'odierna provincia di Frosinone, nel 106 a.C. e
ricevette in gioventù un’educazione di alto livello, studiando la filosofia convinto si trattasse
solamente di un valido supporto per la retorica. Presto però essa si rivelò una materia
importante e centrale nella spiegazione di molti suoi pensieri politici, come ci viene esposto in
molte sue opere. Nel De legibus, Cicerone segue il pensiero della filosofia stoica secondo cui
le leggi sono una delle espressioni della provvidenza che regola l'universo e non quindi una
mera convenzione, come la definivano gli epicurei. Inoltre, di fronte alla realtà politica e
sociale del suo tempo, l'Arpinate ribadisce più volte nei suoi scritti che la coscienza dello
Stato come un patrimonio da salvaguardare e delle leggi come un vincolo sacro da rispettare,
avrebbero potuto salvare Roma. Il concetto quindi della difesa dello Stato come suprema
espressione dell'aggregazione umana, riprendendo anche il pensiero aristotelico,espresso, ad
esempio, nel Somnium Scipionis (VI libro del De republica), deve essere interpretata in una
dimensione in cui la tradizione filosofica greca si mescola al senso dello Stato romano.

Cicerone si aprirà sempre più alla filosofia a partire dal 46 a.C., causa la sua lontananza
forzata dalla vita politica dovuta alla dittatura cesariana e vari problemi familiari, quali il
divorzio con la moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia. Questo approfondimento delle
tematiche filosofiche ha quindi avuto per Cicerone una funzione consolatoria, anche se
sempre ha esaltato l'importanza, per il buon oratore, di una solida preparazione filosofica.
Ribadisce poi più volte come l'otium filosofico gli abbia permesso, pur stando lontano dalla
politica, di giovare allo Stato e ai propri concittadini mediante l'opera di divulgazione della
filosofia greca a Roma. Credeva infatti anche lui che all'oratore, al vir bonus, servisse questa
preparazione filosofica che gli avrebbe permesso di capire al meglio come agire e, nel caso
appunto dell'oratore, cosa dire per smuovere il popolo a compiere le cose giuste, fare quindi
ciò che non gioverebbe solamente alla persona politica stessa, bensì a tutto i cittadini dello
Stato.Un’altra opera che ripercorre i pensieri filosofici antichi è il De finibus,composta nel 45
a.C., diviso in tre dialoghi, ed è l'ultimo di questi che ci interessa più degli altri. Esso è
ambientato nel 79 a.C. ad Atene, presso l'Accademia platonica, e Cicerone accoglie in questo
dialogo le idee accademiche del politico romano Marco Pupio Pisone: il sommo bene è sì
pratica della virtù, ma anche attenzione ai bisogni dello spirito e del corpo, e si può realizzare
a pieno solamente in una dimensione sociale. Egli dà grande importanza alla vita sociale
dell'uomo, e che tutti devono contribuire al bene di tutti.

Formicae, apes, ciconiae aliorum etiam causa Le formiche, le api, le cicogne fanno
quaedam faciunt; multo magis haec coniuctio qualcosa anche per gli altri; l'unione degli
hominis. Itaque natura sumus apti ad coetus, uomini fa queste cose molto di più. Perciò
concilia, civitates. Mundum autem Stoici per natura siamo portati all'aggregazione, ai
censent regi numine deorum, eumque esse quasi legami, alla vita sociale. Gli stoici credono
communem urbem et civitatem hominum et che il mondo sia retto dalla volontà degli
deorum, et unumquemque nostrum eius mundi dei, e che sia come la comune città e patria

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esse partem; ex quo illud natura consequi, ut degli uomini e degli dei, e ciascuno di noi è
communem utilitatem nostrae anteponamus. Ut parte di quel mondo; da ciò deriva quella
enim leges omnium salutem singulorum saluti disposizione naturale che ci fa anteporre la
anteponunt, sic vir bonus et sapiens et legibus comune utilità alla nostra. Come infatti le
parens et civilis officii non ignarus utilitati leggi antepongono il benessere di tutti al
omnium plus quam unius alicuius aut suae benessere dei singoli, così l'uomo onesto,
consulit. Nec magis est vituperandus proditor saggio, obbediente alle leggi e non ignaro
patriae quam communis utilitatis aut salutis del dovere civile provvede all'utilità di tutti
desertor propter suam utilitatem aut salutem. Ex più che a quella di un solo individuo o alla
quo fit ut laudandus is sit, qui mortem oppetat propria. Né deve essere biasimato
pro re publica, quod deceat cariorem nobis esse maggiormente il traditore della patria che il
patriam quam nosmet ipsos. Impellimur autem disertore della comune utilità o benessere
natura ut prodesse velimus quam plurimis in per la propria utilità o benessere. Da ciò
primisque docendo rationibusque prudentiae consegue che deve essere lodato colui che
tradendis. va incontro alla morte per lo stato, poiché è
conveniente che la patria ci sia più cara di
noi stessi. D'altra parte siamo spinti dalla
natura a voler giovare a quanto più
possiamo, innanzitutto con l'insegnare e con
il tramandare i principi della saggezza.
De finibus, III, 63-64

Nel testo è quindi esposto uno dei pensieri politici principali di Cicerone, ispirandosi a ciò che
scrissero Platone e Aristotele prima di lui: per natura gli uomini si riuniscono in una
comunità, e conseguenza di questo fatto è la disposizione che fa anteporre il bene comune al
bene privato. Paragonando l'uomo saggio e sapiente, il filosofo, alle leggi stesse, afferma che
anch'egli provvede all'utilità di tutti e quindi quello della res publica, e che sacrifichi
addirittura la propria vita se vede in pericolo lo Stato, facendoci naturalmente ricordare
l'esempio di Catone l'Uticense. La frase finale infine coincide pienamente con il pensiero
aristotelico e platonico; Cicerone afferma che, per natura, l'uomo desidera giovare allo Stato e
quindi si interessa del bene collettivo, tuttavia ciò risulta possibile solamente se uno è
provvisto della saggezza e della sapienza necessaria, richiamando la figura del filosofo, e a
sua volta può aiutare la propria patria e tutti i cittadini solamente divulgando la materia
filosofica. Quindi, solo il vir bonus, l'uomo saggio e capace, è realmente in grado di smuovere
la massa e convincere il popolo di compiere le scelte giuste. Tali ideali furono ripresi in
chiave cristiana nel V secolo d.C., quando Sant'Ambrogio scrisse il De officiis, in cui
trascrisse temi simili a quelli ciceroniani, secondo cui vi deve essere un vir bonus che guidi
verso il sommo bene, in questo caso verso il Paradiso, e che agisca pensando al bene
collettivo.

Nella letteratura latina anche Lucio Anneo Seneca si occupò di esporre ciò che a un
governante serve a garantire il bene comune. Seneca nacque in Spagna, a Cordoba, forse nel 4
a.C., e svolse la sua istruzione retorica e filosofica a Roma, e le sue eccezionali qualità
oratorie lo aiutarono a entrare in politica, diventando il precettore dell'imperatore Nerone fino
al 62 d.C., quando si ritirò a vita privata temendo per mettersi al riparo dall'ostilità del
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princeps stesso. È in questi anni che egli, dunque, si dedica completamente agli studi e
all'attività letteraria.

Molti sono gli scritti che Seneca compone che riguardano vari tipi di comportamenti, quasi
tutti dei quali dedicò a Nerone sperando di poterlo educare nel miglior dei modi, anche se
questo intento poi fallì. Nel De ira egli si propone di combattere l'ira, la passione più odiosa e
pericolosa, e afferma che essa non è mai né utile né accettabile, in quanto è prodotta da un
impulso che offusca la ragione, senza la quale nessuno può governare bene. Tra i numerosi
esempi greci e latini spicca la figura di Caligola, già defunto quando Seneca pubblicò l'opera,
sul quale sfoga tutto il suo odio portando numerose prove della sua ira furiosa che lo ha
condotto alla follia e descrivendolo come un mostro assetato di sangue.Nel De vita beata
invece espone la dottrina morale stoica, che fa consistere la felicità nella vita secondo ragione,
e che indica il sommo bene nella virtù, polemizzando con gli epicurei secondo i quali esso
consisteva nel piacere (voluptas). Nella seconda parte, difendendosi dalle accuse di condurre
una vita dispendiosa e lussuosa, egli sostiene che il filosofo non ama le ricchezze e non
soffrirebbe se ne venisse privato, ma preferisce possederle perché gli dispiegano un più vasto
campo,quale quello politico, in cui esercitare le virtù.

Nel suo De otio, Seneca ripropone il problema tra vita pratica e vita contemplativa come in
passato aveva fatto Aristotele. Il filosofo sostiene la validità della scelta dell'otiumosservando
che la posizione stoica - secondo cui il saggio deve impegnarsi politicamente, a meno che le
circostanze non glielo impediscano - viene a coincidere sostanzialmente con la posizione
epicurea, secondo la quale il saggio non deve partecipare alla vita politica, a meno che la
situazione non glielo imponga. Seneca dice che è impossibile, infatti, trovare uno Stato in cui
il filosofo possa agire coerentemente con i suoi principi. Quindi, quando il sapiente non potrà
partecipare attivamente alla politica, tenterà di giovare ai prossimi.È una cosa che spiegherà
anche nel De tranquillitate animi, affermando che egli dedicandosi all'otium eserciterà gli
officia hominis, i doveri dell'uomo, dato che gli sono stati preclusi quelli del civis. Il filosofo
non servirà più una res publica specifica, ma agirà in un contesto cosmopolita, una res
publica maior. E se neppure ciò sarà possibile gioverà almeno a se stesso; quest'ultima azione
è di pubblica utilità in quanto migliorarsi significa poter preparare una persona che potrà
essere utile se vi sarà ventura d'accedere alla politica.

Seneca poi, descrivendo altre virtù del saggio, scrisse il De constantia sapientis, dimostrando
la tesi stoica secondo cui il saggio non può essere colpito da alcun oltraggio o da alcuna
offesa, poiché la sua forza e la sua superiorità morale lo rendono del tutto invulnerabile di
fronte a qualsiasi attacco esterno: il filosofo non può infatti subire alcun danno, in quanto
l'unico bene consiste per lui nella virtù, qualcosa che nessuno gli può togliere.

Un'opera di grandissima importanza è però certamente il trattato di filosofia politica De


clementia, dedicato a Nerone. L'imperatore è elogiato da Seneca, poiché, pur disponendo di
un potere illimitato, dà prova di possedere la virtù più grande del sovrano: la clemenza,
definita dal filosofo come la moderazione che il governatore adotta spontaneamente
nell'infliggere le pene. È quindi un'esaltazione della monarchia illuminata, e per questo ebbe
un grande successo nel pensiero politico successivo, soprattutto in età moderna. Seneca,
dunque, raccomanda la clemenza, la quale contraddistingue il rex iustus rispetto al tiranno e
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procura a chi governa amore e riconoscenza, garantendo così la stabilità dell'impero assai più
dell'odio che scaturisce dalla crudeltà. Il re giusto instaura difatti con i sudditi un rapporto
paterno, punendo malvolentieri, solo quando è indispensabile, e sempre per il bene dei
sottoposti. Si può notarebene, che al centro del discorso non c'è più la giustizia, come aveva
fatto ad esempio Platone, bensì la clemenza: il punto di riferimento non è più costituito dalle
leggi ormai, a cui tutti i cittadini devono sottostare, ma dalla volontà del principe, che è libera
da ogni limite o vincolo esterni al principe stesso. Seneca cerca di motivare teoricamente la
realtà positiva del principato e trova supporto nella dottrina politica stoica che vedeva la
monarchia come la miglior forma di governo, a condizione che il re fosse saggio. E Nerone è
senz'altro presentato come tale, e ad egli sono attribuite tutte quelle virtù che sono proprie del
sovrano perfetto, a partire dalla clemenza. È quindi essenziale la filosofia come materia
formativa del princeps, seguendo quindi il pensiero stoico e platonico. Secondo gli stoici, la
forma di governo migliore è la monarchia per il semplice fatto che secondo loro il mondo
stesso è retto da un unico principio, il λόγος (la ragione, la razionalità), e quindi il governo
terreno deve essere governato ugualmente da una persona sola, ma per governare bene deve
essere razionale e saggio. Purtroppo, è evidente che il programma politico che Seneca
desidera raggiungere fosse un'utopia, poiché la sua realizzazione dipende interamente dalla
libera e spontanea volontà del sovrano, e anche dall'improbabile eventualità che quest'ultimo
s'identifichi con la chimerica figura del saggio re stoico.

Possiamo tuttavia notare una grande somiglianza di scopi per i quali Seneca e Platone
combattevano, in quanto entrambi composero opere e diedero precetti che avrebbero potuto
aiutare le persone che ambivano ad entrare in politica, a diventare saggi per compiere le giuste
scelte. Anche se entrambi fallirono, cercando di educare alla filosofia le persone che
avrebbero dovuto dare l'esempio,secondo il quale la loro fosse una teoria valida (Nerone e
Dionisio II), furono un grande punto di riferimento per altre persone e, inoltre, per le
generazioni future.

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COLLEGAMENTI INTERDISCIPLINARI

FILOSOFIA

Un concetto simile a quello del vir bonus ciceroniano, l'uomo "superiore" che deve smuovere
le masse, fu espresso nel XIX secolo dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Egli sviluppò il
concetto di superuomo (Übermensch in tedesco), un'immagine metaforica che rappresenta
l'uomo che diviene sé stesso in una futura epoca contrassegnata dal cosiddetto nichilismo, il
periodo di decadenza della cultura occidentale; esso può essere solo superato con un
accrescimento dello spirito personale, che aprirebbe le porte a una nuova era, in cui l'uomo
sarà libero da tutti quei falsi valori etici che vigono in quel periodo. L'Übermensch è quindi
l'uomo che vive la propria vita come opportunità per dispiegare la sua forza e intelligenza,
senza timore dell'età nichilista.

ITALIANO

Gabriele D'Annunzio si rifece, ad esempio, molto al superomismo nietzschiano per la stesura


dei suoi primi romanzi. I temi che tocca infatti sono quelli della ricerca del protagonista di
diventare un asceta, un essere perfetto che possa controllare la natura e le passioni che
provengono da essa, anche se l'ambito del superuomo che D'Annunzio tocca separandosi dal
pensiero di Nietzsche è quello amoroso: non c'è un superuomo in D'Annunzio che sia senza
una sola donna.

STORIA

Tuttavia, il termine Übermensch fu mutato e utilizzato dal regime nazista per descrivere la
loro idea di una razza superiore alle altre che doveva governare il mondo; il pensiero
nietzschiano divenne quindi un fondamento ideologico per il Partito Nazionalsocialista dei
Lavoratori Tedeschi, ma la loro concezione del superuomo era di natura strettamente razziale.
Un termine che fu da essi utilizzato, non presente nelle opere di Nietzsche, è quello di una
razza inferiore (Untermensch), che a detta dei nazisti deve esistere di logica conseguenza. È
anche evidente il distacco di Nietzsche stesso da questi ideali antisemiti e razzisti, definendo
lui stesso gli ebrei come persone«più interessanti dei tedeschi».

ARTE

Anche il concetto del bene comune, dell'interesse collettivo, dettato da tutti gli autori
presentati, viene ripreso nei secoli futuri, e, in particolare, raffigurato allegoricamente nel
famoso affresco di Ambrogio Lorenzetti, che tutt'oggi si trova a Siena, del Bene comune e
delBene proprio, anche se più conosciuto sotto un altro nome, quello del Buono e del
Cattivogoverno, databile intorno al 1338-1339. In esso sono raffigurati in chiave allegorica i
vari valori che caratterizzano i due tipi di governo e, nel caso del bene proprio, le
conseguenze di tale comportamento, che ha ripercussione sulle persone, sulla città e sulla
campagna circostante. Si sa inoltre che all'interno dei piatti della bilancia retta dalla Giustizia
nella parte d'affresco del bene comune, due angeli distribuiscono la giustizia in accordo con le
teorie di Aristotele, lasciandoci intendere che Lorenzetti condivideva probabilmente gli stessi
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valori, il che giustificherebbe maggiormente il primo titolo dell'opera qui riportato. Il concetto
di Bene Comuneera largamente diffuso nella penisola, durante tutto il Medioevo,
testimoniando il filo conduttoremai spezzatosi, dall’antichità all’epoca moderna, e che
ancor’oggi rappresenta motivo di sorpresa e ammirazione.

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BIBLIOGRAFIA

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