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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

I Sofisti
Dalla demonizzazione tradizionale all’odierna rivalutazione
Anticamente il termine sapiente era sinonimo di saggio e alludeva a un uomo esperto,
conoscitore di pratiche particolari e dotato di una vasta cultura generale. I sofisti nel V sec
aC sono gli intellettuali che della sapienza facevano una professione, insegnandola dietro
compenso (alla mente aristocratica appariva scandaloso). Platone e Aristotele a
demonizzarono culturalmente i sofisti, giudicandoli falsi, sapienti negozianti di merce
spirituale, interessati al successo, ai soldi più che alla verità. L’enorme influenza di Platone e
Aristotele fece si che nel mondo greco e soprattutto attraverso i secoli, i sofisti fossero
“marchiati” come pseudo-filsoofi e che lo stesso termine “sofista” divenisse sinonimo di
“cavillatore in mala fede” o di “maestro di ragionamenti capziosi”.

Oggi l’aggettivo sofistico ha perso il significato filosofico originario e spesso, nel linguaggio
comune equivale a falso, artificioso, truccato (si parla di cibi sofisticati). Per quanto riguarda
la critica filosofica invece essa oggi appare più obiettiva e favorevole a una rivalutazione
della sofistica e della sua importanza storica e filosofica.

L’ambiente storico-politico
I sofisti operano una vera e propria rivoluzione filosofica, spostando l’asse della
speculazione dalla natura all’uomo. Invece di ricercare il principio del cosmo, essi si
concentrarono sulla politica, leggi, religione, lingua, educazione. Questo si spiega con la
sfiducia nella ricerca naturalistica che aveva ormai battuto tutte le strade allora possibili
senza giungere a un’unanime consenso. Ma si comprende anche in relazione al mutato
contesto storico-politico dell’Atene del V sec aC uscita vittoriosa dalla guerra contro i
persiani. Sociologicamente parlando, i dati più importanti di questo periodo sono:
• crisi dell’aristocrazia
• Accrescimento potere della borghesia cittadina
• Espansione dei commerci
• Raffinarsi delle tecniche
• Avvento della democrazia.

Ciò comporta l’affermarsi di nuovi parametri di giudizio e di una maggiore consapevolezza,


da parte dell’uomo greco, delle proprie prerogative.

Pericle: l’elogio di Atene democratica

Di questa mutata atmosfera socio-politica è documento eloquente la famosa orazione


funebre di Pericle, scritta da Tucidide, nella quale il leader della democrazia ateniese
afferma: “Il nostro sistema politico non compete con istituzioni vigenti altrove. Noi capiamo

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i nostri vicini, ma cerchiamo di essere un esempio. Il nostro governo favorisce i molti invece
dei pochi: per questo è detto una democrazia. Le leggi assicurano una giustizia eguale per
tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un
cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo stato, non
come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un
impedimento. […]

La libertà di cui godiamo si estende anche nella vita quotidiana; noi non siamo sospettosi
l’uno dell’altro e non infastidiamo il nostro prossimo se preferisce vivere a suo modo. […]
Ma questa libertà non ci rende anarchici. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e le
leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è
stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede solo
nell’universale sentimento di ciò che è giusto.

La nostra città è aperta al mondo; noi non cacciamo mai uno straniero. […] Noi siamo liberi
di vivere proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi
pericolo. […] Noi amiamo la bellezza senza indulgere tuttavia a fantasticherie e benché
cerchiamo di migliorare il nostro intelletto, non ne risulta tuttavia indebolita la nostra
volontà. […] Riconoscere la propria povertà non è una disgrazia presso di noi; ma riteniamo
deplorevole non fare alcuno sforzo per evitarla. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici
affari quando attende alle proprie faccende private. […] un uomo che non si interessa dello
stato, non lo consideriamo innocuo, ma inutile; è benché soltanto pochi siano in grado di dar
vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione
come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire
saggiamente. […] Noi crediamo che la felicità sia frutto della libertà e la libertà è frutto del
valore e non ci tiriamo indietro di fronte ai pericoli di guerra. […] Insomma, io proclamo che
Atene è la Scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice
versatilità, la prontezza a fronteggiare le situazioni e la fiducia in se stesso.

Democrazia e insegnamento sofistico

La democrazia rappresenta il presupposto e lo spazio operativo entro cui storicamente si


mosse la corrente dei sofisti. Vivere attivamente in democrazia significa partecipare ad
assemblee, prendervi la parola, far valere con efficace discorso la propria opinione
frammezzo alle altre; e perciò saper pesare le varie accezioni e sfumature dei vocaboli, avere
nell’orecchio le più felici espressioni dei poeti, riuscire a disporre i periodi in un ordine che
incateni l’attenzione, accenda le fantasie e susciti i consensi; significa, insomma possedere
quel complesso di cognizioni che costituisce l’arte dell’eloquenza.

A questa necessità vengono incontro i sofisti che si ritengono sapienti nel senso antico del
termine, cioè nel senso di rendere gli uomini abili nelle loro faccende. I sofisti si propongono

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di insegnare, dietro pagamento, al ceto dirigente tale sapienza. La connessione tra sofistica
e democrazia risulta strettissima.

Le caratteristiche culturali della sofistica


1. La sofistica è stata definita come una sorta di illuminismo greco poiché in essa i miti e le
credenze della tradizione vengono esplicitamente criticati e sostituiti con nozioni
razionali, o che almeno si credono tali. In questo senso la funzione della sofistica
consiste nella liberazione critica dal passato in nome della religione.
2. I sofisti riconoscono il valore formativo del sapere e, per primi, elaborano il concetto
occidentale di cultura, intesa non come un’insieme di conoscenze specialistiche, ma
come la formazione globale di un individuo nell’ambito di un popolo o di un contesto
sociale. Con la sofistica il problema educativo viene in primo piano, poiché si ritiene che
la virtù dipende dal sapere. Da ciò il loro sforzo di agganciare il sapere alla pratica della
vita e di renderlo accessibile.
3. In virtù della loro stessa professione, che li costringe a viaggiare, i sofisti, andando oltre
gli angusti limiti della polis, si fanno portatori di istanze panelleniche e cosmopolitiche.
Parallelamente, i sofisti hanno:
• chiara coscienza della molteplicità dei costumi umani
• rinunciano alla dogmatica assolutizzazione dei modi di vita vigenti nelle loro città.
4. I sofisti non costituiscono una scuola compatta di pensatori, poiché presentano dottrine
distinte e talora opposte. Per orientarsi, è bene distinguere tra:
• celebri maestri della “prima generazione”: Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia, Antifonte.
• meno noti della “seconda generazione”: Eristi che segnalano la fase di crisi e di
dissoluzione della sofistica.

Protagora
Il primo è più importante esponente della sofistica è Protagora di Abdera che nacque nel
490aC. Tenne scuola in numerose città e soggiornò più volte ad Atene, dove godette
dell’amicizia e dell’ammirazione di Pericle. Proprio qui, tuttavia, le sue idee spregiudicate in
fatto di religione gli crearono notevoli opposizioni. Tra le opere di sicura attribuzione
protagorea ricordiamo i Ragionamenti demolitori (citati anche con Sulle verità) e le Antilogie.
Il filosofo compose altri scritti di cui ci rimangono pochi frammenti.

La dottrina dell’uomo-misura e le varie interpretazioni


La tesi fondamentale di Protagora risiede nel principio “L’uomo è misura di tutte le cose,
delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono”. Alla
lettera, questa espressione vuol dire che l’uomo è il metro della realtà o irrealtà delle cose,

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del loro modo di essere e del loro significato. Sul preciso senso filosofico della tesi esistono
varie interpretazioni, a seconda del valore che si attribuisce alle nozioni di uomo e cose.
1. Interpretazione tradizionale e risalente a Platone, intende che per “uomo” l’individuo
singolo e per “cose” gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Le cose appaiono
diversamente a seconda degli individui che le percepiscono e dei loro stati fisici e psichici,
per cui: tante teste e tante situazioni, tante misure. Ad esempio, un cibo appare dolce o
amaro a seconda delle persone che se nutrono e delle circostanze in cui esse si trovano.
2. interpretazione attribuisce alla parola “uomo” il significato universale di “Umanità” e alla
parola “cose” il significato di “realtà in generale”. Da questo punto di vista, gli individui
giudicano la realtà tramite parametri comuni tipici della specie razionale a cui
appartengono, cioè dell’umanità (in questo senso qualcuno ha tentato di accostarlo a
Kant).
3. interpretazione "l’uomo” sarebbe la comunità o la civiltà cui l’individuo appartiene e le
“cose” sarebbero soprattutto i valori o gli ideali che ne stanno alla base. In altre parole
ognuno valuta le cose secondo la mentalità del gruppo sociale cui appartiene.

Probabilmente questi tipi fondamentali di lettura, pur contenendo ognuno una parte di verità,
sono insufficienti se presi singolarmente e risultano veri solo se combinati insieme. Infatti
l’uomo protagoreo è misura delle cose ai vari livelli. Riteniamo che Protagora parlando
dell’uomo, non intendesse richiamare unilateralmente uno dei tre significati, ma li avesse tutti
indistintamente sinteticamente presenti.

Umanismo, fenomenismo e relativismo.


La posizione di Protagora è dunque una forma di:
• umanesimo: in quanto ciò che si afferma o si nega intorno alla realtà presuppone sempre
l’uomo come soggetto del discorso o criterio di valutazione
• fenomenismo: in quanto noi non abbiamo mai a che fare con la realtà in sé stessa, ma
con il fenomeno, ossia con la realtà quale appare a noi.
• relativismo conoscitivo e morale: in quanto non esiste una verità assoluta, cioè sciolta
dai vari punti di vista, ma ogni verità, è relativa a chi giudica nell’ambito di una certa
situazione.

Il relativismo culturale, ovvero la molteplicità delle


credenze e dei costumi
Alla prima metà del IV sec aC risale probabilmente lo scritto anonimo Ragionamenti doppi, in
cui ci si propone di dimostrare che le stesse cose possono essere buone o cattive, belle o
brutte, giuste o ingiuste. La seconda parte dello scritto è particolarmente interessante perché
contiene l’esposizione di quello che oggi si chiama “relativismo culturale”, cioè del
riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alle diverse civiltà umane.

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Considerazioni di questo genere ricorrono frequentemente nell’ambiente sofistico:


• Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si
congiungano con un uomo, e dopo le nozze è brutto. Presso i Greci, è il contrario.
• Presso i Traci, il tatuaggio per le fanciulle è un ornamento; presso gli altri popoli, il
tatuaggio è una pena che si impone ai colpevoli.
• I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’essere sepolti nei
propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, verrebbe
cacciato e morirebbe con infamia, come autore di cose terribili.
• I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come le donne e si
congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci sono cose turpi e
contro legge.

L’utile come criterio di scelta, ovvero la razionalità debole


di Protagora
Il relativismo conoscitivo e morale dei sofisti poteva condurre alla tesi dell’equivalenza
delle opinioni, cioè alla dottrina secondo cui, in teoria tutto è vero. Una forma di
soggettivismo anarchico, ma non fu così, perché Protagora credeva, nonostante tutto, in un
principio di scelta. Ma se non esistono verità teoriche assolute, quale può essere il criterio
della scelta? Perché si accetta il punto di vista di alcuni anziché di altri?

Protagora rispondeva che nel vuoto di verità forti, l’unico criterio al quale l’uomo può
attenersi è il principio debole di utilità privata e pubblica delle credenze. L’utile, inteso
come bene del singolo e della comunità, diviene cosi lo strumento di verifica e di
legittimazione delle teorie stesse. Alla concezione oggettivistica e assolutistica della verità,
secondo cui il vero è qualcosa di dato e scoperto per sempre, che si impone a tutti nello
stesso modo, Protagora sostituisce una concezione umanistico-storicistica, secondo cui la
verità è l’umanamente verificato come ciò che si è dimostrato storicamente e
socialmente utile all’individuo, alla comunità e a alla specie.

L’utile protagoreo non implica la negazione di qualsiasi criterio di verità ma soltanto di un


criterio assoluto. La teoria di Protagora non rappresenta la legittimazione di un atteggiamento
amoralistico e spregiudiciato, ma l’abbozzo di una concezione della responsabilità
dell’uomo di fronte a sé stesso e alla società. Inoltre, nella teoria protagorea si può scorgere
anche un lungimirante invito a mettersi d’accordo almeno su ciò che, al di là delle varie
credenze o convinzioni ideali, può e deve unire gli individui e i popoli: la pubblica utilità e la
sopravvivenza della specie.

Utilità e polis
Il sofista per Protagora, si presenta soprattutto come un propagandista dell’utile, ossia come
un intellettuale che, mediante l’arte della parola, tenta di modificare le opinioni meno utili e

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più dannose in base al principio dell’utilità in un’opinione più utile e proficua. Di


conseguenza, l’esercizio della retorica da parte di Protagora non deve essere visto come fine
a se stesso, ma come subordinato a questa funzione politico-educativa. La filosofia
protagorea concepiva piuttosto l’utile e le leggi in prospettiva del benessere comune della
polis. Soltanto più tardi, come vedremo, alcuni sofisti teorizzeranno la legge del più forte.

Gorgia
Gorgia di Lentini, che nacque nel 485 in Sicilia, è discepolo di Empedocle ed esercitò la
propria retorica in molte città della Grecia sopratutto Atene. Tra le sue opere ricordiamo Sul
non essere, sulla natura, l’encomio di Elena.

L’impensabilità e l’inesprimibilità dell’essere


Nella prima opera gorgia stabilisce le sue tre tesi fondamentali:
• Nulla esiste
• Se anche qualcosa esiste, non è conoscibile dall’uomo
• Se anche è conoscibile, è incomunicabile agli altri.

1. Nella prima tesi non vuole far sparire la realtà testimoniata dai nostri sensi, bensì intende
probabilmente negare la possibilità logica e ontologica dell’essere, in particolare di
quella struttura metafisica di cui i vari pensatori presofisti erano andati alla ricerca. Il
filosofo vuole appunto chiarire che tale struttura non risulta filosoficamente asseribile. Il
suo obiettivo è innanzitutto Parmenide.
2. Nella seconda tesi afferma che se anche una tale struttura (l’essere) esistesse noi non la
potremmo conoscere, in quanto, per conoscerla, dovremmo presupporre che la nostra
mente sia una fotografia esatta della realtà, ma cosi non è. Infatti se pensiamo spesso
l’inesistente, ciò significa che il pensiero non rispecchia necessariamente la realtà, o che
la realtà non si rispecchia necessariamente nel pensiero. In tal modo Gorgia colpisce al
cuore l’equazione eleatica “pensiero=essere”.
3. Nella terza tesi afferma che se anche la realtà fosse conoscibile, non sarebbe
comunque spiegabile con parole, poiché il linguaggio è altra cosa dalla realtà e NON
possiede un’adeguata capacità rivelativa nei confronti di essa.

Lo scetticismo metafisico e gnoseologico


Le tesi di Gorgia acquistano ulteriore densità speculativa se riferite a quella realtà assoluta
che va sotto il nome di Dio.

Il messaggio più profondo di Gorgia sembra essere lo scetticismo metafisico (o


agnosticismo metafisico) cioè la persuasione dell’impotenza umana a parlare dell’essere e
delle strutture ultime del reale. In questo senso, il risultato conclusivo della sua dottrina

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sembra consistere nella distrazione di ogni possibile metafisica, cosmologia o teologia e


nella sfiducia completa nelle possibilità conoscitive della nostra mente, soprattutto quando,
andando oltre l’esperienza, essa pretenda di accedere a qualche assoluto metafisico.

Sganciati dall’essere e dalla verità, anche il pensiero e il linguaggio perdono ogni valore
(scetticismo gnoseologico): per Gorgia se nulla è vero, cioè dimostrabile come tale, allora tutto
è falso. Mentre in Protagora abbiamo ancora un criterio di verità, ossia l’utile (ciò che giova
all’uomo), in Gorgia non troviamo più alcun criterio. L’unica cosa che conta, in assenza di
qualsiasi verità o certezza, è la potenza del linguaggio, forza ammaliatrice che permette il
dominio degli stati d’animo, in quanto riesce a calmare la paura e ad eliminare il dolore, a
suscitare la gioia e ad aumentare la pietà. Da ciò la celebrazione gorgiana della retorica.

La visione tragica della vita


Un altro aspetto molto importante del pensiero gorgiano è la concezione tragica del reale. In
contrasto con il razionalismo e ottimismo del filosofi precedenti, Gorgia sembra ritenere che
l’esistenza sia qualcosa di fondamentalmente irrazionale e misterioso. Egli ritiene che le
stesse azioni degli uomini non siano rette dalla logica e dalla verità, bensì dalle
circostanze, dalla menzogna, dalle passioni, e da un ignoto destino.

I sofisti e la religione
Nell’ambito della sofistica troviamo alcuni rilevanti pronunciamenti intorno alla religione.

1.Protagora diceva:
Degli dei non sono in grado di sapere ne se sono, ne se non sono, ne quali sono: molte
sono infatti le difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la
limitatezza della vita umana.
Questa affermazione rappresenta la prima professione filosofica di agnosticismo religioso
secondo cui Dio non è razionalmente affermabile o negabile, in quanto non si possiedono
strumenti mentali adeguati per ammetterne o escluderne l’esistenza.

2.Prodico di Ceo, secondo la testimonianza di Sesto Empirico, osservava come l’uomo


avesse divinizzato quegli aspetti della natura grazie ai quali viveva:
Gli antichi consideravano dei, in virtù dell’utilità che ne derivava, il sole, la luna, i fiumi,
le fonti e in generale tutte le cose che giovano alla nostra vita, come per esempio, gli
egiziani il Nilo. E per questo il pane era considerato come Demetra, il vino come
Dioniso.
Prodico riduce gli dei a proiezioni dell’utile e del vantaggioso, sottintendendo l’ipotesi di
un’origine umana del fenomeno religioso.

3.In Crizia, c’era la denuncia del carattere strumentale della religione, inventata e utilizzata
dai potenti come strumento di controllo: i governanti, non potendo colpire con la loro

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diretta oppressione ogni atto dei loro sottoposti, li hanno indotti a credere nell’esistenza di
una divinità invisibile che conosce e punisce i comportamenti proibiti dalle leggi imposte
da chi governa.

Il problema delle leggi


Anticamente, si credeva in una derivazione extra-umana delle norme sociali, che venivano
concepite come decreti degli dei; i sofisti ne proclamano invece l’origine tutta umana. Del
resto democrazia significa infatti dibattito di pareri di fronte a un’assemblea, la quale poi
traduce le deliberazioni in leggi, facilitando cosi la presa di coscienza del carattere umano
e sociale delle norme. In Protagora, pur non derivando dagli dei e pur essendo invenzione
umana, le leggi devono essere rispettate, perché senza di esse non ci sarebbe la società,
quindi neppure l’uomo.

Le leggi e la natura
Se in Protagora esiste una certa continuità tra natura e legge (l’uomo, attraverso la società,
realizza appieno la propria natura e il proprio utile), nei sofisti a lui posteriori troviamo l’idea di
un’antitesi tra questi due termini. In Ippia di Elide si fa strada per la prima volta una
distinzione netta tra legge naturale immutabile, valida in ogni Paese e nel medesimo modo e
legge umana mutevole.

Le leggi e i potenti
Trasimaco di Calcedonia riprende la problematica delle leggi su un piano diverso. Egli afferma
che la pretesa giustizia è in realtà una maschera che nasconde gli interessi dei potenti.
Essa è l’utile del più forte e le leggi sono semplicemente degli strumenti di cui si servono i
gruppi al potere per tutelare i propri interessi.
Callicle dirà che le leggi civili sono soltanto mezzi di difesa inventati dai deboli per
salvaguardarsi dai potenti. Anche il dibattito sulle leggi è estremamente ricco e stimolante.

L’arte della Parola


L’importanza della parola non solo nella vita sociale, ma anche nella riflessione filosofica è una
delle grandi scoperte dei sofisti, come dimostra la centralità da essi attribuita all’arte della
retorica.

Nel loro argomentare, i sofisti facevano ricorso alla:


• Macrologia/discorso lungo: piuttosto articolato, per fornire adeguate motivazioni a
favore di una certa tesi e prevenire possibili obiezioni.
• Brachilogia/discorso breve: immediato e pungente, per distruggere le posizioni degli
avversari.

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La dialettica, dal verbo “dialegesthai” dialogare, la capacità di confrontare le opinioni,


sostenendo le proprie tesi e difendendole dai detrattori.

L’eristica è l’arte di prevalere nella discussione, cercando i mezzi e gli espedienti retorici
più appropriati per questo fine. Essa non va necessariamente alla ricerca della verità; anzi
spesso vi rinuncia consapevolmente al fine di prevalere esclusivamente nella discussione.

L’antilogia (dal greco “anti” contro, e “logos” discorso) o discorso doppio, è l’arte di opporre
una tesi a un’altra, per far vedere che esse si escludono vicendevolmente o si
contraddicono, allora gli argomenti di Zenone contro la molteplicità e contro il movimento
sono antilogici.

La tecnica antilogica dei sofisti era abbastanza definita: essi muovevano dall’assunzione
provvisoria della tesi dell’avversario; quindi le opponevano una tesi contraria, che la
escludeva o la contraddiceva, costringendo l’interlocutore ad abbandonarla o quantomeno
a modificarla, accettando anche delle ragioni che all’inizio aveva escluso.

Anticamente si pensava che su ogni argomento esistessero un unico punto di vista vero e
un unico discorso capace di esprimerlo. Protagora ritiene invece che non esista situazione
non considerabile secondo un’altra prospettiva, dando origine a un discorso diverso o
nuovo. Intesa in questo senso, l’antilogia può configurarsi come una salutare forma di
reazione a ogni assolutismo teorico e pratico che pretenda di spacciare una possibile
interpretazione della verità e della realtà per la “Verità” e la “Realtà” misconoscendo la
molteplicità dei punti di vista sulle cose e la complessità inesauribile degli angoli prospettici
dai quali si può osservare il mondo.

In questa prospettiva, l’antilogia rivela la propria connessione storico-politica con la


democrazia e con il confronto dialogico su cui si fonda. L’esperienza democratica della polis
insegnava infatti che intorno a ogni problema vi possono essere opinioni opposte e che il
dibattito è costruttiva apertura a coloro che la pensano diversamente.

Il problema del linguaggio


I sofisti non si limitarono a mettere a punto raffinate tecniche retoriche, né a celebrare la
potenza della parola, bensì tematizzarono quest’ultima sul piano filosofico, studiando i
problematici rapporti del linguaggio con la realtà e con la verità. In Parmenide ciò che vale
sul piano logico, o del pensiero, vale anche sul piano della realtà e viceversa. Da qui
l’equazione “pensiero=essere=verità”. Il linguaggio, la parola esprime la realtà.

La parola, in Gorgia perde ogni potere rivelativo nei confronti della realtà e della verità, e si
rende completamente autonoma. Con Gorgia, la retorica si trasforma da arte del ben parlare
in arte della suggestione e della persuasione: chi la detiene può veramente dire di avere in
mano le chiavi della città.

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Le tesi paradossali di Gorgia stimolarono la meditazione filosofica sul problema del


linguaggio. Ci si chiese, infatti, se il linguaggio avesse un’origine naturale, capace di
spiegare la connessione tra parole significante e cosa significata, oppure se esso fosse
convenzionale, e quindi del tutto autonomo rispetto alla realtà.

Prodico di Ceo si occupa di questo problema:


• accettò la teoria dell’autonomia e della convenzionalità del linguaggio, confermata a suo
avviso dall’esistenza dei sinonimi
• non escluse una certa connessione, almeno primitiva, di esso con la realtà, dimostrata
dall’etimologia delle parole.

Le discussioni sul rapporto linguaggio-realtà segnarono comunque la problematica filosofica


e posero una serie di questioni che ancora oggi costituiscono tema di dibattito tra i filosofi.

La crisi della sofistica


Con la seconda generazione dei sofisti, si assiste alla crisi e alla dissoluzione del
movimento.

Estremizzando il metodo antilogico di Protagora e la teoria gorgiana dell’autonomia del


linguaggio nei confronti della realtà, la sofistica giunge infatti a configurarsi come pura
eristica, ossia come arte di avere la meglio, nelle discussioni, sulle affermazioni
dell’avversario, confutandole senza riguardo per la loro intrinseca verità o falsità
concettuale. Spesso era anche un virtuosismo verbale fine a sé stesso.

È evidente che tale posizione porta a un impoverimento della filosofia, la quale finisce per
risolversi completamente nella retorica.

Occorre notare che l’eristica rifletteva anche il venir meno dei presupposti storici che
avevano favorito il nascere della sofistica, cioè la democrazia ateniese, la fioritura culturale
del V secolo aC e la libertà greca.

Socrate e i Socratici
Vita di Socrate
Nacque ad Atene nei primi del 469 da uno scultore e da una levatrice. La sua prima
educazione fu quella propria dei figli della piccola borghesia che godevano di un certo agio. Fu
cittadino che rispettò i suoi doveri e le leggi. Buon soldato, buon marito (falsa sembra la
notizia di fonte cinica che la moglie di lui, Santippe, sia stata donna rissosa e insopportabile),
buon padre (ebbe tre figli), Socrate non si allontanò mai da Atene, se non per compiere i
suoi doveri di soldato. Durante una battaglia nella campagna di Potidea salvò Alcibiade ferito
e volle che il premio andasse a quest’ultimo. Nel 424 combatte a Delo e durante la ritirata

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dell’esercito ateniese di fronte ai beoti, riuscì a salvare Lachete. Nel 421 combatte ad
Anfipoli.

Nel 406 come membro del Consiglio dei cinquecento fece parte della Pritania. Fu l’anno che
Atene vinse la battaglia navale della Arginuse. I generali vittoriosi furono accusati di non
aver cercato di salvare i soldati rimasti in acqua per l’affondamento di 25 navi e di non aver
dato sepoltura ai morti. Durante il processo i generali presenti stavano riuscendo, uno per
uno a discolparsi. Ma il popolo voleva veder giudicati gli accusati ancor prima che tutte le
testimonianze avessero chiarito la posizione di ciascun imputato. Si chiese che i generali
fossero giudicati tutti sotto un solo capo d’accusa. Il procedimento era illegale, ma la
pritania cedette al volere del popolo e i generali furono condannati. Socrate si oppose nel
404, quando furono a potere i trenta tiranni, al volere di Crizia che gli comandava di
arrestare il democratico Leonzio di Salamina. Crizia emanò allora una legge con cui si
vietava di insegnare l’arte della discussione. Caduti i trenta tiranni e restaurata la
democrazia, nel 399 Socrate su pubblica accusa venne processato poiché accusato di:
• non riconoscere gli dei tradizionali della città, ma di introdurre divinità nuove
• corrompere i giovani.

Venne condannato a morte dal tribunale di 500 cittadini, con una maggioranza di 140 voti.
La sentenza fu eseguita un mese quando tornò la nave sacra da Del per le feste Delie. Socrate
attendeva in carcere, conversando e discutendo con gli amici. L’ultimo giorno Socrate si rifiutò
di fuggire e si suicidò con la cicuta.

Formazione e problematica di Socrate


Si dice che Socrate giovanissimo ebbe contatti con Parmenide e con Zenone e abbia
conosciuto Anassagora. Si narra anche fu in dimestichezza con Aspasia, l’amica di Pericle,
che ebbe contatti con sacerdoti e sacerdotesse, che s’interessò delle scienze più varie. Può
darsi che tutto questo sia leggenda; ma certo ci presenta Socrate uomo aperto e sensibile e
curioso di quella che fu la cultura del suo tempo e la situazione di Atene. Di Socrate prima
della guerra del Peloponneso sappiamo poco.

Fin dall’inizio non abbiamo né un Socrate professionista di una o altra arte, né un esperto
maestro di una tecnica, né insegnante di cultura, né un dottrinato. È vicino ad ogni ogni
forma di discorso, a ogni indagine e dottrina, vive ad Atene in quel tempo in cui Tucidide fa
dire a Pericle: Ad Atene noi rettamente riflettiamo e apertamente giudichiamo sugli affari privati
e pubblici, convinti che i discorsi non nuocciono all’operare, ma ad esso nuoce piuttosto il
passare ai fatti, prima di aver chiarite nei discorsi le idee.

Si capisce cosi come i sofisti, Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia, abbiano vivamente
interessato Socrate. Egli comprese tutto il significato della loro istanza, che accantonando il
problema dell’essere e del divino, poneva l’indagine entro i termini dell’orizzonte umano. Senza
dubbio Socrate, che mai, disprezzò le indagini naturalistiche e scientifiche, le esigenze religiose
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trovò che, in quella situazione storica l’atteggiamento dei sofisti, la loro esigenza di riforma, era
esatta. Sotto questo aspetto Socrate rientra perfettamente entro quella che fu
l’atmosfera della prima sofistica. Ma poiché Socrate fu sempre ironico e sprezzante nei
confronti di ogni posizione cristallizzata e ripetuta assunse un atteggiamento critico e
ironico tanto nei confronti dei sofisti, quanto nei confronti di coloro che ne accoglievano
supinamente l’insegnamento. E atteggiamento critico egli assumeva anche di fronte a quegli
stessi sofisti che si proclamavano tecnici di una certa tre, la politica e la retorica.

Il rifiuto di farsi maestro di dottrine. L’”esame” e i “semi


socratici”
Si comprende così perché Platone, e anche Senofonte, abbia potuto far dire a Socrate ch’egli
non fu maestro, che mai per le sue parole volle essere retribuito, ch’egli non ebbe alcuna
dottrina, che non fu né un tecnico della politica, né un oratore, né un sapiente, ma
semplicemente un esaminatore. Si capisce anche nei perché possano essere state infinite le
interpretazioni che dopo Socrate si sono date di lui, e soprattutto perché egli non abbia
scritto neppure un rigo di proposito. Socrate:

• non vuole rendere gli uomini più dotti, ma consapevoli: richiamare sé e gli altri a
rendersi conto delle proprie idee e delle proprie azioni.

• Sostiene che non ci sono maestri: che ogni insegnamento, ogni dottrina vanno sottoposti a
critica, non vanno accettati, ma discussi, e che è proprio attraverso questa discussione e
ricerca che ciascuno costruisce sé stesso.

• Insegna il seminare: un fare si che ciascuno partorisse se medesimo, fosse se stesso. Noi
di Socrate non abbiamo niente, se non quei tali semi che hanno germogliato, Platone,
Senofonte, Euclide, Antistene, Aristippo, ognuno dei quali quanto più fu stesso, quanto più
fu, forse, alla fine, lontano da Socrate e diverso dagli altri, tanto più, in questo senso, fu
socratico. Proprio qui la difficoltà di ricostruire quella che fu l’autentica posizione di
Socrate.

La figura di Socrate e il suo interrogare


La critica moderna è convinta che la testimonianza di Aristotele ha falsato la reale figura di
Socrate presentandolo come colui che, in opposizione con i sofisti, avrebbe sostenuto un
radicale intellettualismo etico. Oggi si cerca di ritrovare il Socrate reale e vivente in Atene,
che discorreva e esaminava, sulla piazza e al ginnasio, i suoi concittadini. Il Socrate che
caricaturalmente presenta il commediografo Aristofane nelle Nuvole, coincide con il Socrate
spregiudicato e critico di tutti i chiacchieroni del bene, della tradizione, della sanità, che
rimette in discussione tutte i venerabili insegnamenti, che irrita, che fa vergognare di sé la
gente felice e contenta nelle proprie raggiunte e pacificanti concezioni.

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Come sottolinea Platone ”tessendo le parole di Socrate nel Convito, quando si ascolta te
restiamo stupefatti e affascinati. Quando al contrario ascoltavo Pericle, o altri bravi oratori,
capivo si che per parlare vanno bene, ma non provavo niente di simile, non si scompigliava
l’anima mia, non si incolleriva come se mi fossi trovato in servaggio.

Ciò che importa a Socrate è di porre dell’animo del suo interlocutore il turbamento, di porlo
nel dubbio, nell’oscillazione, di intorpidirlo, come avviene a chi tocca la torpedine marina,
per riprendere l’immagine usata da Platone nel Menone.

Il “che cosa è?” Il non sapere di Socrate


“Che cosa è” il bene, virtù, santità? Socrate non voleva giungere alle definizioni bene, di
virtù, di santità, di cultura, ma attraverso la discussione, facendo finta di accettare la tesi
dell’interlocutore, voleva giungere a fare vedere che se lui non lo sapeva cosa sono, neppure
l’altro lo sapeva, pur dandosi l’arie d’esserne dotto. E quando Socrate sottolineava che il
vero sapere era di non sapere, diceva cose molte serie:
• non è dato all’uomo sapere niente delle cose, dell’essere e della realtà in sé
• l’uomo serio, che agisce e pensa seriamente, non ha la formula che gli dice come
comportarsi, non sa, cosa sia il bene o la virtù.

La virtù come sapere. Il “conosci te stesso”


L’uomo deve rientrare in sé stesso per cogliere il suo vero essere. E questo non è affatto in
contraddizione con l’altra espressione socratica, che la virtù è sapere e che tutte le virtù si
riducono al sapere. Socrate giocava tra i possibili diversi significati di sapere, sapere
teoretico, sapere tecnico e sapere morale. Sul piano morale non vale il sapere teoretico
inteso come conoscenza di un certo contenuto già dato. Sul piano morale ciò che vale è
prendere coscienza di sé, non agire perché cosi sta scritto o perché questo è il vero, ma
volta a volta discendere nella propria coscienza, dialogare con sé (e con gli altri) sarà da
questo dibattito interiore, da questo ragionare che volta a volta, scaturisce il bene, ciò che è
da fare. Questo razionalismo morale di Socrate, un invito a suscitare sempre in se il
dibattito a ragionare, cioè a dialogare. Dalla raggiunta consapevolezza scaturisce ciò che si
deve fare, il bene. E si badi che non si tratta del bene assoluto, di cui nessuno sa niente, ma di
un bene concreto, cioè di un bene che diviene tale di volta in volta, ma che domani può
essere non bene.

In altri termini il sapere di cui parla Socrate è, attraverso il ragionare, sapere quando è bene
fare fare quella o questa azione, che diviene buona in quanto so che, ora, è bene farla. E lo
stesso sapere non è un sapere già costituito, che si può apprendere nei libri o dai maestri,
ma è un sapere che scaturisce da quel ragionare, da quel rendersi consapevoli ragionando,
dalla consapevolezza di se stessi.

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Il sapere tecnico deve sciogliersi in sapere morale, ma a sua volta il sapere morale rimane
astratto, senza contenuto, cioè insistente, se non è anche sapere tecnico. Socrate non si
rivolge mai all’uomo in sé, in astratto, ma, sempre, a uomini reali, concreti non dice loro:
fate questo perché questo è il Bene, ma invita ciascuno a rendersi conto di ciò che davvero sa.
D’altra parte ciascuno fa il calzolaio, il fabbro, il medico, il fisico, ma per fare ciò bisogna
conoscere il proprio mestiere. E allora la conoscenza di sé. Per Socrate non c’è differenza tra
conoscenza del proprio mestiere e conoscenza delle proprie condizioni umane, perché
l’una si concreta nell’altra.

In altri termini ancora, ciascuno per essere virtuoso deve essere se stesso: ciò significa che
deve far bene il proprio mestiere. Ma fare il proprio mestiere significa sapere che è bene far
bene il proprio mestiere. Una sola è, dunque, la virtù: sapere volta a volta, quand’è che il
bene è bene, e questo implica conoscenza di sé. Il male è ignoranza di sé, poiché chi
conosce sé non può volere il male, che sarebbe un andar contro se stesso: di qui, appunto, il
famoso corollario socratico: “nessuno fa il male volontariamente”

La temperanza
La vita morale, dunque, non ha un suo contenuto specifico, ma il suo contenuto lo trova
volta a volta mediante la ricerca stessa. La scienza del bene e del male consiste nella
stessa discussione di sé, nella consapevolezza critica di se stessi e dei propri mezzi di
realizzazione e di successo (sapere tecnico). Il bene, cioè sta proprio in questo discutere, in
questo conoscere la propria anima, attraverso la discussione; e poiché non si discute se
non attraverso gli altri, non si ragiona se non attraverso un interlocutore, il bene sta nel
costruire sé insieme agli altri, nella consapevolezza di sé e della libertà altrui. Tanto è vero
che, se dopo la morte c’è un aldilà, i casi sono due:
• tutto è finito
• sussistiamo in quanto uomini seguiteremo ad essere uomini discutendo e costruendo
noi stessi.

Ironia - Dialettica - Maieutica


Evidentemente se chiedessimo quale fu il contenuto dell’insegnamento socratico,
vorrebbe dire che non si è compreso che proprio questo Socrate non avrebbe potuto né
voluto dire. Socrate avrebbe detto che a lui spettava solo svegliare alla vita seria, portare la
gente dabbene e chiusa o gli incompetenti che si ritengono competenti a irritarsi con se
medesimi: ecco l’ironia socratica, che unita alla dialettica gli permetteva di opporre infinite
verità contraddittorie portando l’altro al dubbio, alla consapevolezza di non sapere. Di qui,
ancora, attraverso il dialogo e la confutazione, intendeva portare i suoi interlocutori a
partorire la verità; ed ecco la maieutica (o arte del partorire).

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Ciascuno faccia bene ciò che gli compete. Il “demone”


Socrate non fu né un predicatore né un moralista né un dottrinario né un eroe né un santo,
ma un uomo vissuto in una certa ben determinata epoca della storia di Atene, che volle
richiamare i suoi contadini alla consapevolezza critica del proprio comportamento.

Socrate cercò sempre d’essere se stesso, d’essere con se, come con gli altri, ironico e
maieutico. Tale, appunto, la funzione di quella sua voce interna, quella demonica voce, che
mai a lui diceva ciò che doveva fare, ma lo tratteneva dal parlare e dall’agire a caso.
Socrate, dunque, ritenne che la sua funzione fosse quella di servire da svegliarino ai suoi
contadini.

Scorate e la legge. Significato della sua morte


Coerentemente con la sua affermazione che l’uomo è uomo in quanto è dialogo e rapporto,
cioè in quanto è societas, si capisce come per Socrate comincia ad esservi uomo quando
c’è la legge, quando si costituisca vita politica. Poiché non esiste uomo e legge in astratto,
l’uomo è sempre uomo in un certo momento storico, la legge è sempre legge in un certo
Stato. E la legge di questo o quello stato, potrà essere modificata, ma in quanto discussa e,
insieme agli altri, sostituita. L’uomo, dunque, che si sottrae alla legge di questo o quello
stato, cessa di essere uomo, a meno che non accetti la legge di altro stato, nel quale appunto
continuerebbe ad essere uomo e ugualmente fecondo e utile nel rapporto umano.
• Se Socrate, condannato a morte dalla legge dello stato, avesse durante il processo chiesto
l’esilio, che gli sarebbe stato concesso, o avesse accettato di non filosofare più, e, se,
anche durante il processo, non si fosse ostinato e, quando già in carcere, come gli era
possibile, fosse fuggito e fosse andato in altro luogo, avrebbe davvero cessato di essere
uomo.
• Invece, morendo, in nome di una legge che poteva essere stata ingiustamente applicata,
Socrate rimane uomo, ostinandosi e a far vergognare di sé i suoi concittadini, che, invece
d’incontrarlo in piazza o al ginnasio, come quando era vivo, lo incontrano dentro sé stessi,
senza poterlo più sfuggire, demone a loro e forse sempre all’umanità.

La dialettica socratica e l’interpretazione dei socratici


Socratici sono detti quei pensatori che, per un verso o per l’altro, sono stati fortemente
influenzati da Socrate, o meglio che, ciascuno a modo suo, a seconda della propria
personalità, della propria formazione, hanno fatto fruttare i semi di Socrate. Essi furono:
• Antistene da cui prese poi le mosse la corrente “cinica”
• Aristippo, i cui seguaci furono, detti “cirenaici”
• Euclide, la cui corrente fu detta “megarica”
• Platone.

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Un aspetto del socratismo fu la dialettica, l’arte mediante cui si ragiona. La dialettica


socratica:
• Venne interpretata positivamente (ad esempio da Platone): dall’opposizione delle varie
opinioni e dalla confutazione di esse si giunge a porre il problema della definizione di ciò
che è, oggetto di ricerca, per cogliere con la definizione l’essenza e per fondare su di essa,
una conoscenza universale e necessaria.
• poteva insistere sull’aspetto del dubbio socratico, essere interpretata negativamente; in
tal caso essa serve a mostrare come ogni opinione non può restare che tale, per cui sono
tutte vere, non solo, ma poiché si dimostra l’impossibilità di cogliere l’essenza di
qualsiasi cosa, il discorso rimane sempre nell’ambito dell’opinione. Sia pure in modi diversi,
questa è l’interpretazione che hanno dato della dialettica socratica Antistene ed Euclide di
Megara.

Platone
Vita
Platone nacque ad Atene in una famiglia aristocratica nel 428-27 a.c. . Da parte di padre
sembra discendesse dal mitico re Codro, e pare che iI suo vero nome sia stato quello di
Aristocle, Platone fu il soprannome che gli venne attribuito più tardi, forse alludendo alla sua
ampia (platus) costituzione. Educato secondo la tradizione aristocratica, ebbe i primi contatti
con la filosofia per mezzo dell'eracliteo Cratilo. Nel 408 si dice che conobbe Socrate, e
Socrate fu con la sua vita e la sua morte il grande problema di Platone.

Dopo un primo viaggio a Megara, avvenuto subito dopo la morte di Socrate, un secondo
lungo viaggio lo portò a contatto con gli ambienti più vari della cultura del tempo
(probabilmente conobbe allora il matematico Teodoro di Cirene, il pitagorico Archita di Taranto,
e visitò Creta, l'Egitto e altri paesi). Circa nel 388 a.c. fu a Siracusa dove era tiranno Dionisio I
e dove si legò in amicizia con Dione (parente di Dionisio I). Con Dione tentò, senza riuscirvi, di
ottenere da Dionisio I una riforma dello Stato. Sfuggito ai pericoli siracusani, Platone tornò nel
387 a.c. ad Atene, dove fondo l'Accademia, cosi detta perché venne usato un edificio un
tempo dedicato all'eroe Academo. Nel 367 a.c. fu di nuovo a Siracusa ove sempre con Dione
tentò, sotto Dionisio II, di attuare quella riforma che nel 388 a.c. era rimasta un sogno. Gravi
dissensi sorti fra Dionisio II e Dione misero lo stesso Platone nuovamente in pericolo. Dione
fu mandato in esilio, Platone fu trattenuto a Siracusa e fece ritorno ad Atene solo nel 365
a.c.. Di nuovo a Siracusa nei 361 subì un’altra delusione, Dionisio II si mostrò sempre più
nemico di Dione, e Platone difese apertamente l’amico e il significato del suo filosofare e
della sua politica, tanto da rischiare la sua stessa vita. In quel frangente lo salvò l’intervento di
Archita di Taranto, che riuscì a farlo tornare ad Atene (360 a.c.). Nel 353 a.c. Dione veniva
ucciso e oramai ottantenne, nel 348/47 a.c., lo stesso Platone morì in Atene senza aver
portato a termine il suo intento riformatore.

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Opere
Di fondamentale importanza per una più precisa interpretazione del pensiero di Platone e della
sua storia sarebbe avere esatte cognizioni sulla cronologia delle sue opere. La questione è
tuttavia ancora aperta e in parte ipotetiche sono le conclusioni della critica relativamente alla
datazione dei dialoghi di Platone. Oggi si è soliti raggruppare le opere platoniche in:
• dialoghi socratici (o scritti giovanili), dove la problematica di Platone è connessa alla
presentazione e interpretazione della figura di Socrate, ricordiamo: Apologia di Socrate,
Critone, Eutifrone, Jone, Ippia minore, Lachete, Liside, Carmide, Alcibiade I, Alcibiade II
(incerto), Protagora, Trasimaco (o Repubblica I) e Ippia maggiore.
• dialoghi in cui si delinea la problematica più intimamente platonica (o scritti della
maturità). Di questa fase ricordiamo tra gli altri i seguenti testi, Gorgia, Menone, Clitofonte
(discusso), Menesseno, Fedone, Convito, Repubblica (libri dal II al X) e Fedro.
• I dialoghi posteriori al 368 a.c. (o scritti della vecchiaia), in cui Platone avrebbe
rielaborato in parte il suo pensiero sia discutendo le posizioni a lui avverse, sia
approfondendo alcune sue dottrine. Di questo più tardo periodo del pensiero platonico
ricordiamo le seguenti opere: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Crizia, Timeo,
Eutidemo, Cratilo e Le leggi (divise successivamente in dodici libri).

Ci sono inoltre pervenute tredici Lettere, di cui certamente platoniche sono la VII
(fondamentale per la ricostruzione del suo pensiero) e la VIII, composte tra il 353 e il 351 a.c..
Infine, apocrifi, sono ritenuti diversi testi tra cui ricordiamo: Assioco, Del Giusto, Demodoco,
Epinomide (o XIII libro delle Leggi), Erissia, Ipparco, Minor, Rivali (o Amanti) e altre.

Di Platone si pensa siano anche un certo numero di Epigrammi (33 frammenti).

La morte di Socrate e il problema dello Stato giusto


Molte e complesse sono le fasi dello sviluppo del pensiero di platonico. Platone si è mosso
rappresentando di volta in volta, mediante dialoghi, gli aspetti vivi, molteplici e in contrasto
della cultura del tempo, è perciò difficilissimo ricavare un sistema compiuto del suo pensiero.
In effetti tale sistema non c'è, se non in suggestioni e problematiche aperte.

Il dramma di Socrate e di Atene fu il dramma etico-politico di Platone, da cui prende le


mosse tutta la sua filosofia. Ad una lettura attenta delle opere di Platone, per quanto possibile
in ordine cronologico, si rivela come Platone sia stato sensibile alla situazione storica di
Atene tanto da riproporre ogni volta nelle sue opere il problema delle condizioni culturali
che hanno portato Atene alla sconfitta (contro Sparta) e alla decadenza. Il tutto con lo scopo
di dimostrare razionalmente quale dovesse essere la via per salvare Atene, sotto questo
aspetto Platone fu uomo politico di primo piano. Egli, così, tentò di inserirsi nella lotta politica
sostenendo che l'unità della polis e la salvezza dello Stato si potevano realizzare solo
andando al di là dei contrasti tra Sparta e Atene e realizzando tra gli Stati greci un'armonia
che facesse da baluardo contro l'aspirazione dei “barbari”. A più riprese Platone insistette sulla

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

necessità di porre termine alle guerre tra greci, di far sì che le diverse polis greche,
innestandosi sulla tradizione, ritrovassero la propria civiltà in una nuova civiltà, di cui Platone
si sentì senza dubbio il profeta. Una nuova civiltà che doveva essere fondata sulla ragione e
la misura, risolvendo il conflitto tra i diversi poteri e salvando il valore dell'unità greca.

Nel quadro di questo complesso orizzonte politico la condanna ingiusta di Socrate ebbe per
Platone un significato del tutto particolare giacché poneva in modo estremamente acuto ed
esplicito il problema dello Stato fondato secondo giustizia. Come poteva essere accaduto,
infatti, che lo Stato ateniese, nel quale era stata restaurata la democrazia avesse
condannato un uomo come Socrate, che non solo era giusto, ma che poco prima stava per
essere condannato dallo Stato retto dai “Trenta tiranni”? Questo si spiegava, secondo
Platone, esclusivamente con il fatto che nello Stato fondato soltanto sulle opinioni mutevoli
e soggettive, nonché sugli interessi particolari e privati, non vi può essere giustizia. In altri
termini, là dove manca la conoscenza scientifica di ciò che è “giusto in sé” al di sopra delle
particolari condizioni storiche e dell'ordinamento di un singolo Stato, Socrate, il giusto,
sarà sempre condannato. Occorreva, dunque, prima rendersi conto di quale fosse la
condizione perché si realizzasse uno Stato giusto, condizione che può essere data soltanto
dalla filosofia come conoscenza certa (cioè come scienza) di che cos'è la giustizia nella
vita pubblica e privata.

La polemica contro i sofisti e la dottrina delle idee.


Per risolvere, adeguatamente il problema politico è dunque necessaria la garanzia di una
conoscenza che ci sollevi al di sopra delle passioni e degli interessi particolari, ossia al di
sopra dell'opinione. Per questo verso, il programma filosofico e politico di Platone porta
direttamente alla polemica contro alcuni sofisti incapaci di distinguere la retorica, intesa
come arte del discorso persuasivo come è detto nel Gorgia, dalla dialettica, intesa come
capacità di saper ragionare. Infatti, mentre la retorica dei sofisti produce solo una credenza
priva di ogni valore scientifico, è mutevole come le opinioni soggettive, la dialettica, invece,
usando un metodo analogo a quello matematico, produce una persuasione fondata sulla
scienza. Tale è l'impostazione dialettico-dialogica dei cosiddetti dialoghi socratici. Gli uomini,
come detto da Platone nella Repubblica, si distinguono sostanzialmente in due tipi: alcuni
ammettono soltanto l'opinione, altri invece riconoscono anche una scienza (cioè una
conoscenza certa) che ha per oggetto l'essenza effettiva delle cose. Insomma gli uomini si
distinguono a seconda che si rendano o non si rendano conto che esiste un bello in sé, un
giusto in sé, un buono in sé, un vero in sè e così via.

Platone, dunque, approfondisce l'insegnamento socratico con la ricerca di un fondamento


oggettivo e reale della scienza. Per lui, non basta, in altri termini, tener sempre desto il senso
della ricerca, ossia il momento critico e confutatorio dell'insegnamento socratico, ma occorre
e svilupparne l'aspetto maieutico, ossia la capacità di portare alla luce, attraverso la
conoscenza di sé, un ordine intellegibile che è fondamento dell'ordine del tutto e quindi
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anche di quell'ordine su cui deve basarsi la vita politica perché vi sia giustizia. Ma non si tratta
solo di cogliere valori assoluti, per esempio cos'è il bene, cos'è il giusto, cos’è il vero e via di
seguito, ma in tutto l'ambito della conoscenza è necessario approfondire il senso della
domanda “che cos'è?”. Bisogna, cioè chiedersi sempre che cos’è questo o quello, per
cogliere di ogni cosa la sua verità profonda, la sua essenza, vale a dire quello per cui
ciascuna cosa veramente è, al di là del mutamento continuo che domina il mondo sensibile.
Cos'è, dunque, che consente di conoscere scientificamente le cose e di darne una definizione
sottratta alla mutevolezza e arbitrarietà delle opinioni?

Per Platone, ciò che permette la definizione di una cosa, per cui si può dire che questo o
quello oggetto è quello che è, è l'essere stesso della cosa, è ciò senza di cui la cosa non
sarebbe ed è perciò essenza e causa della cosa, la sua forma, il suo aspetto o detto in
greco antico “eidos” (idea). Le forme o idee sono perciò gli archetipi o modelli della cosa
che raccolgono in unità un complesso di cose per cui si possono definire sotto un solo nome e
senza di cui le cose non sarebbero. L'idea, dunque, non va intesa nel senso, oggi molto
diffuso, di semplice rappresentazione o contenuto della nostra mente, bensì indica la forma, il
modello, l’archetipo delle cose. Le idee, in quanto modello, essenza delle cose, sono
logicamente anteriori alle cose stesse. Per questo con un mito Platone potrà dire che esse,
le idee, hanno una propria esistenza nel mondo Iperuranio e, viceversa, potrà dire che le
cose sensibili esistono e sono questa o quella cosa proprio perché partecipano di questa
o di quella idea, cioè imitano questa o quella idea.

Al di là, dunque, del mondo sensibile dobbiamo cogliere le idee (eidos). Le idee nel loro
complesso costituiscono una realtà oggettiva, eterna, per questo Platone dice che le idee
sono Iperuranie, ossia al di là del cielo, il quale segna l'ambito dello spazio e del tempo, per
cui esse sono a-spaziali e a-temporali. Al contrario, le cose del mondo sensibile sono
imitazioni e partecipazioni delle idee e in questa distinzione e contrapposizione tra sensibile
e intelligibile, tra cose ed idee, si ha la radice di quel cosiddetto dualismo platonico che
condiziona e determina pure l'intera sua concezione della politica, della morale, della
poesia e dell'educazione.

Le idee, siccome costituiscono la struttura reale di tutto, sono pure il principio di


intelligibilità del mondo sensibile e quindi non possono in nessun modo derivare da esso.
Ad esempio, dice Platone, due oggetti li possiamo giudicare uguali in quanto abbiamo già (in
noi) l'idea dell'uguaglianza, allo stesso modo possiamo dire che un oggetto è circolare
perché già è in noi l'idea del cerchio. Tanto più, quanto appena detto, è vero, secondo
Platone, quanto più ci si rende conto che il cerchio sensibile, l'uguaglianza sensibile sono
sempre inadeguati rispetto all'idea cerchio e all'idea uguaglianza e allora l'idea
uguaglianza, l’idea circolo, l'idea di bene, l'idea di bello, l'idea di buono e via di seguito non
sono né le cose che diciamo uguali, né i circoli che rappresentiamo con un tratto, né le cose
che giudichiamo belle, né gli uomini che crediamo buoni, ma soprattutto non derivano da
essi.

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Rossini Michele Teoria 1 3BLSA

Nella maturità del suo pensiero Platone distingue nettamente due tipologie di Idee:
• le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, estetici e politici, come: il Bene in
sé, il Giusto in sé, il Bello in sé ecc.
• le idee matematiche, corrispondenti alle entità e ai principi matematici dell’aritmetica e
della geometria, come, uguaglianza, circolo (cerchio), numero ecc..
• Tuttavia, Platone, talvolta, parla anche delle idee delle cose naturali (per esempio l’idea di
“Uomo”) e artificiali (per esempio l’idea di “letto”) che raggruppano sotto un’unica classe di
cose più oggetti, seppur su questa tipologia di Idee rimane incerto e contradditorio.

Infine, a questo punto va ricordato che il termine mito in Platone è semplicemente il ricorso
ad un vero e proprio espediente “didattico” per trattare e spiegare argomenti molto
complessi. Cioè, si tratta di una sorta di “metafora” per far capire il senso del discorso.

La reminiscenza e l’immortalità dell’anima.


Se le idee sono indispensabili per spiegare il sorgere della scienza, come conoscenza
universale, diversa dalla semplice opinione, da dove ne ricaviamo la conoscenza? Secondo
Platone non certo dalla realtà sensibile, che può fornire soltanto opinioni mutevoli e che
anzi, per essere compresa e giudicata, presuppone appunto le idee. Le idee sono anteriori
a ogni conoscenza sensibile e l'anima (da intendere come capacità di ragionare) non le
trae dalle cose mutevoli e sensibili.

Finché l'uomo resta sensibilità preso dalle cose, dal fluire delle opinioni, l'uomo è come se
non esistesse dimentico della capacità di ragionare. Il corpo, esclama Platone, è tomba
dell'anima. Quando, invece, l'uomo dimenticando sé, come corporeità, sensibilità,
rientrando in sé, ragionando, in un dialogo dell'anima con l'anima, coglie in sè stesso le
condizioni che permettono giudizio, allora, l'uomo attraverso sè stesso si oltrepassa
rintracciando in sé quelle forme, quelle idee, che gli permettono di conoscere. Ecco
perché, secondo Platone, conoscere è ricordare, è reminiscenza, anamnesi. Sarà, dunque,
necessario ammettere un'esistenza antecedente dell'anima, durante la quale essa ha
contemplato le idee di cui ravvisa ora le copie e le imitazioni nelle cose sensibili.

Questa tesi viene svolta in modo brillante nel Menone, dove Platone ricorre al celebre
esperimento destinato a dimostrare che l'uomo può sviluppare argomentazioni razionali,
mai prima conosciute, senza bisogno di alcun ricorso all'esperienza, ma per semplice via
deduttiva. Platone, infatti, immagina che Socrate presentando a uno schiavo, del tutto a
digiuno di nozioni geometriche, domande ben orchestrate, lo porti a poco a poco a
dimostrare da sé un teorema di geometria, ossia una proposizione scientifica di cui mai
aveva avuto conoscenza. In tal modo, si manifesta il senso più profondo del “conosci te
stesso” di Socrate. Questo prova che la conoscenza è reminiscenza, anamnesi, ricordo e
che l'anima esiste anteriormente e indipendentemente dal corpo e, quindi, è immortale.
Infatti, Platone affermerà “io non so di sapere” quindi io non ricordo di possedere in me il

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sapere, ma posso tornare a ricordare il sapere in me attraverso il dialogo dell’anima con


l’anima. Questa tesi platonica capovolge la prospettiva di Socrate che invece aveva affermato
“io so di non sapere”.

Si noti che l'immortalità non si deve intendere nel senso cristiano di passaggio unico e
irreversibile dell’anima dalla vita terrena a quella celeste, bensì come esistenza permanente
dell'anima razionale che singolarmente si incarna e cade nei vari corpi e perciò, con una
mitica immagine, essa passa attraverso i singoli corpi, trasmigra (metempsicosi),
attraverso varie singole vite. Sono temi che trovano ampio sviluppo soprattutto nel Fedone e
nella Repubblica con il mito di Er.

Nel Fedone, infatti, all’approssimarsi della morte, Socrate conforta gli amici rassicurandoli
circa il suo destino e nel giro di questo discorso viene affrontato il problema dell'immortalità
dell’anima con quattro argomentazioni principali: quella dei contrari, quella della
reminiscenza, quella della somiglianza e quella dell'anima come vitalità.
• Argomentazione dei contrari: prendendo le mosse dal fatto che, ogni contrario genera
reciprocamente il suo contrario, il caldo genera il freddo, il sonno genera la veglia, la vita
genera la morte, Platone conclude che dalla morte si genera la vita se non vogliamo che la
natura sia zoppa, per cui appunto dopo la morte del corpo, l'anima rivive.
• Argomentazione della reminiscenza: il filosofo riprende la dottrina dell’anamnesi, del
ricordo, presentata già nel Menone (e vista in precedenza). Qui egli afferma che, poiché non
possiamo non constatare che almeno certe idee, come i concetti matematici (abbiamo
visto ad esempio il concetto di uguaglianza), non derivino dai dati sensibili (non potremmo
dire che due cose sono uguali se non ricordandosi dell'uguaglianza in sé, l’uguaglianza infatti
non può derivare dall’ esperienza dato che nulla vi è di uguale nel mondo sensibile), tali
idee devono necessariamente essere in noi ed essere state accolte in una vita prenatale.
• Argomentazione della somiglianza: deriva dalla constatazione che tutto ciò è visibile con
l'occhio fisico è divisibile, mutabile, cioè corporeo, Platone, quindi, trae la conclusione che
le idee in quanto idee, cioè in quanto visibili con l'occhio dell'intelletto, in quanto
intellegibili, sono indivisibili, non corporee, identiche a sé, immutabili, e poiché l'anima non
è visibile con l’occhio fisico, essa pure è intellegibile, cioè simile alle idee e dunque come
l'idee è immutabile, ossia immortale, per cui nell'atto in cui il corpo si disfa, cioè muore,
l'anima andrà a ciò che le è simile.
• Argomentazione dell'anima come vitalità: prende le mosse dalla constatazione che
l'anima è vitalità e fonte di vita, tanto che regola e domina il corpo, ne è il soffio vitale.
Se l'anima, dunque, è vita, essa partecipa dell'idea di vita, onde non può accogliere in
sé l'opposta idea, l'idea della morte.

Già nel Fedone appaiono poi, in forma mitica, indicazioni di notevole importanza sul significato
etico-religioso della dottrina dell'immortalità dell'anima e della reminiscenza. Proprio perché
il mondo delle idee è il mondo della vera realtà da cui l'anima è caduta “incarnandosi” nel

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corpo, compito dell'uomo è “prepararsi” alla morte, liberandosi dalle opinioni ingannevoli e
dalle passioni che gli oscurano la vista delle idee. Fino a che quest'opera di purificazione non
sarà sufficientemente compiuta l'anima sarà condannata a ulteriori periodi di pena e di
espiazione attraverso la trasmigrazione in diversi corpi.

A questo proposito è molto importante il mito di Er, che si trova alla fine della Repubblica.
Secondo il mito, un guerriero di nome Er, morto in battaglia, è ritornato miracolosamente
alla vita poco prima che il suo cadavere fosse secondo la consuetudine, bruciato su una
pira. Questo è avvenuto per volere degli Dei, affinché Er, tornando tra gli uomini, potesse
raccontare loro quanto aveva visto nell'aldilà in modo che ne traessero ammaestramento.
Er, infatti, si è trovato nel luogo del giudizio dove le anime sono chiamate da Necessità
(intesa come divinità), attorniata dalle Parche, a scegliere il loro futuro destino. L’ordine con
cui le anime sono chiamate a scegliere viene estratto a sorte, ma le possibilità di scelta
(vita umana, oppure animale, vita gloriosa e illustre, oppure umile e ignota, vita ricca o povera
ecc.) sono più numerose delle anime stesse, per cui vi è una certa libertà nella scelta stessa. Si
rivela qui, come già detto, la funzione determinante della filosofia come preparazione alla
morte, infatti, soltanto l’anima capace di un’effettiva conoscenza del bene e del male saprà
compiere la scelta più giusta per tornare a ciò che le simile.

Il mito della caverna e i quattro gradi della conoscenza.


La filosofia, però, come detto all’inizio, ha una funzione determinante non solo per la vita
delle singole anime, bensì e soprattutto per la realizzazione di una giusta convivenza nello
Stato costruito secondo giustizia. Eppure, come ha dimostrato ancora una volta la morte di
Socrate, questa sua funzione non solo non viene riconosciuta, ma viene decisamente
osteggiata, fino a giungere all’aperta condanna del filosofo. Platone, anche in questo caso si
avvale di un mito per spiegare meglio la sua tesi. Nello specifico si tratta del famoso mito della
caverna (Repubblica), dove viene descritta la difficoltà dell'uomo a innalzarsi dal mondo
sensibile a quello intellegibile, dall'opinione e dalla passione alla scienza e al bene. Viene
spiegata, quindi, la riluttanza, anzi l'aperta ostilità degli uomini, schiavi delle opinioni e delle
passioni ad ascoltare l'insegnamento del filosofo. Platone immagina una caverna sotterranea
dove stiano incatenati fin dall'infanzia uomini legati in modo da poter guardare soltanto
verso la parete di fondo, opposta all'ingresso, senza mai volgere il capo all'intorno e
all'indietro. Alle loro spalle, alto e lontano, brilla un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri passa,
in alto, una strada con un muricciolo, lungo la quale vanno degli uomini che portano su di
sé, sul capo, oggetti di ogni sorta, che sorpassano il muro, si tratta di statuine di legno o di
pietra raffiguranti cose, animali, ecc.. I prigionieri della caverna non vedranno altro per
tutta la vita che le ombre di queste statuine riflesse sulla parete loro antistante e non
potranno certo immaginare che quelle ombre non siano vera realtà o tantomeno che
derivino da oggetti solidi e reali di cui per il momento non hanno nessuna conoscenza.
Se, però, uno dei prigionieri si liberasse e potesse finalmente volgere il capo, stenterebbe

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in primo tempo a riconoscere di avere sempre creduto reali soltanto delle ombre. Se, poi, il
prigioniero fosse portato alla luce del sole, in un primo momento gli sarebbe certo
impossibile contemplare la luce direttamente e dovrebbe limitarsi a vedere le immagini delle
cose reali riflesse nell'acqua dei fiumi e dei laghi, soltanto gradualmente e con fatica potrebbe
poi giungere a contemplare direttamente la luce e la sua fonte, il sole. Se, dopo tutto ciò, il
prigioniero tornasse nella caverna, quest'uomo stenderebbe certo molto a persuadere gli
altri ancora prigionieri che l'intera loro conoscenza ha per oggetto soltanto ombre
evanescenti e inconsistenti. Questo è esattamente ciò che accade al filosofo che vuole
richiamare gli uomini alla conoscenza delle idee e del bene, simboleggiato dal sole per la
sua funzione di tutto animare e illuminare.

Il senso del mito si definisce poi in modo assai più preciso al cospetto della dottrina dei
quattro generi della conoscenza, della quale, anzi, il mito della caverna vuole essere
espressione più facilmente comprensibile. Infatti, gli uomini chiusi nella caverna
rappresentano gli uomini prigionieri della conoscenza sensibile o opinione (A) che si
suddivide a sua volta in due gradi a seconda che:
• opinione vera e propria, (A1): fermarsi alle semplici immagini. In questa condizione ciascun
uomo opina reale l'immagine che vede proiettata sulla parete di fronte a sé.
• Fede, (A2): confrontare le immagini con gli oggetti sensibili. In questa condizione si suppone
che uno di questi uomini scontento e con fatica riesce a rompere i lacci che lo legano,
quindi, potendosi almeno guardare intorno, si accorge che quello che riteneva reale, non
era che un insieme di immagini, o meglio ombre, allora opinerà che reali non sono le
immagini del muro, ma che al di là di esse esistono cose, oggetti, per questo, assumerà fede
nell'esistenza di cose accanto cose.

A questo punto, Platone sottolinea che, chi sia capace anche di uscire dalla caverna alla luce
del giorno, nel mondo reale, entra nel mondo della scienza, cioè della conoscenza
intellegibile (B). Anche questo stadio della conoscenza è diviso in due gradi:
• diànoia o discorso intellettivo (B1): coincide con il ragionamento di tipo matematico.
Infatti, il prigioniero appena uscito dalla caverna guarda la vera realtà nelle forme riflesse
nei laghi e nei fiumi, non potendola ancora guardare direttamente per la troppa luce,
proprio come il matematico che guarda, studia, la realtà più vera mediante assiomi,
postulati, ipotesi, e ragionamenti che si dimostrano validi in generale dati certi precisi
presupposti (si pensi al teorema di Pitagora che vale per tutti i triangoli rettangoli). In tal
senso il matematico ci rimanda la realtà vera con le sue connessioni razionali, ma di
riflesso attraverso figure e leggi.
• nòesis o intellezione (B2). Questo è il momento in cui l’ex prigioniero, oramai libero e fuori
dalla caverna, riuscirà a cogliere l’intera realtà con la sua luce che tutto illumina e rende
intellegibile. È questo il momento più alto del conoscere, detto, intellezione, nòesis, appunto
e coincide con la filosofia. Ora per l’ex prigioniero tutto assume un senso, tutto diventa
chiaro, tutto assume il suo giusto posto in modo immediato. Ora lui è in grado di cogliere e

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accogliere la Vera realtà e sa vedere come in essa ciascun aspetto si articola e si lega
all'altro secondo uno schema dialettico e razionale. I due mondi ora non sono più due mondi
separati, ma si fanno uno solo.

La filosofia, secondo Platone, così si sviluppa essenzialmente come dialettica, in quanto la


conoscenza intellettiva coglie le idee esclusivamente nel loro nesso e nella loro subordinazione
all'idea suprema che è l'idea del Bene, rappresentata nel mito della caverna dal Sole che tutto
illumina e tutto rende visibile. Quindi per Platone la conoscenza del Vero coincide con la
filosofia, la quale a sua volta coincide con la dialettica, la quale esprime i rapporti tra le
Idee.

Il Bene e la dialettica
Mediante l’intellezione (nòesis, o sapere filosofico o sapere dialettico a dir si voglia) si coglie
che tutto si scandisce e ritma come è bene che sia, in questo senso Platone può dire che lo
stesso ordinarsi delle idee presuppone il Bene come ragion d'essere delle idee e del loro
articolarsi dialettico. Il Bene, dunque, non è un'idea accanto alle altre, ma è l'Idea delle idee.
Platone dice che il Bene è come il sole e che quello che è il sole nel mondo sensibile e visibile,
è il Bene nel mondo intellegibile. Come il sole non è nessuna delle cose, ma è ciò senza di cui
le cose non vivrebbero, non sarebbero, così il Bene è ciò senza di cui le idee non
sarebbero e non sarebbero intellegibili.

Scienza del Bene e Filosofia vengono a così coincidere. Il Bene è la condizione suprema
del tutto, per cui il tutto non appare più disordinato, ma dialetticamente uno. Il Bene e la
scienza del Bene sono “Scienza della Scienza” e la dialettica è la condizione delle scienze e
del sapere nella sua totalità. La dialettica, come “arte del saper ragionare”, concerne i
rapporti tra le idee e ha per suo compito di suddividerle (diaresis, dicotomia) e di
riunificarle in base ai loro rapporti.

All'esame della dialettica e dei suoi presupposti sono dedicati alcuni grandi dialoghi platonici,
tra cui soprattutto il Sofista e il Parmenide. Dire che la filosofia è dialettica, ossia un passare
da idea a idea cogliendone i nessi e le differenze, comporta una presa di posizione nei
confronti di Parmenide. Come dice Platone stesso, si tratta di un vero e proprio “parricidio” nei
riguardi del grande filosofo eleate o, come affermato da alcuni critici, un “Parmenicidio”. Infatti,
attraverso la dialettica platonica, ci si rende conto che non si può restare legati al mondo
delle opinioni, ma neppure si può restare legati all’Essere parmenideo. Per Platone, infatti,
l'Essere, è articolato secondo le stesse strutture della dialettica, per cui le idee non vanno
intese come enti per sè, qualità per sè stanti, e come tali quindi incomunicabili, ma vanno colte
come le “forme uniche dispiegate nei molti”.

Se si ammette con Parmenide che solo l'Essere è e il non-Essere non è, diventa difficile
garantire la validità logica e la legittimità di ogni discorso che si allontani da questa
semplice proposizione e che consenta di pensare insieme l'uno e i molti. Quindi se si resta

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legati alla proposizione parmenidea entra in crisi anche la stessa necessaria molteplicità
delle idee, senza di cui neanche si può comprendere e spiegare la molteplicità delle cose nella
loro essenza. Ora, la difficoltà può essere superata solo se il non-essere non viene
contrapposto in modo assoluto all’essere, ma viene inteso invece nel suo senso logico di
diverso. Allora, dire, ad esempio, che il cerchio è una figura geometrica come il quadrato, ma
se ne distingue perché non ha quattro lati, non significa affatto ammettere un non-Essere
assoluto, bensì semplicemente comprendere l'alterità o diversità del cerchio rispetto al
quadrato. In tal modo, si può riconoscere la completa omogeneità delle idee tra di loro in
quanto idee e nello stesso tempo la loro molteplicità. Proprio in quanto tutte le idee sono
legate da un nesso di identità e di diversità si spiega il carattere dialettico della filosofia
come conoscenza dell'intellegibile, di un mondo che è dunque contemporaneamente: essere,
identico e diverso. Questi sono gli attributi fondamentali di tutte le Idee. Le Idee, quindi,
coincidono con l’Essere parmenideo. Inoltre, ai primi tre attributi fondamentali delle idee
Platone aggiunge altri due generi (cioè attributi delle Idee) quello della quiete (cioè ogni idea
può starsene in sé) e quello del movimento (cioè ogni idea può entrare in comunicazione con
le altre). Tutti insieme gli attributi sono detti da Platone i cinque generi sommi dell’Essere.

Tuttavia le idee non sono semplicemente connesse tra loro da una serie di relazioni reciproche
ma hanno un ordine, perché ciascuna è là dove è bene e giusto che sia, risolvendosi,
appunto, nell'unica idea del Bene, che è Idea delle idee. Le idee, infatti, non costituiscono
soltanto l'essenza delle cose, ma anche il loro fine, il modello che esse devono realizzare, la
perfezione a cui devono mirare e in questo senso tutte le idee partecipano dell'idea di Bene. Il
fatto che tutte le idee siano subordinate a quella di Bene fa sì che in tutto l'universo vi sia
una tendenza alla perfezione di cui Platone si vale per spiegare non solo il mondo politico e
morale, ma anche quello fisico.

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