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Platone e la fondazione della politica

1. Premessa: cos'è la politica? Prospettive a confronto

Definizione generale di costituzione, organizzazione,


politica: scienza e arte di amministrazione dello Stato
governare

Utile, consenso,
persuasione (Protagora)

Sofisti

Legge del più forte


(Trasimaco, Crizia)
Problema della fondazione
della politica

Platone Fondazione oggettiva della


politica sul Bene: politica =
sapere che conosce e
realizza il bene per la
comunità

Con Platone emerge con particolare chiarezza il problema del rapporto tra filosofia e politica.
Cosa si intende per politica? Basta prendere un qualsiasi dizionario e troviamo più o meno la
seguente definizione: la politica è la scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che
hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato. Su cosa si fonda
la politica? Oggi diremmo, almeno nelle democrazie occidentali, sul consenso. Ma come tenere
assieme il concetto di “scienza”, che rimanda a un ordine oggettivo, col concetto di “consenso”,
che rimanda a un criterio quantitativo, alla volontà della maggior parte? Occorre andare alle origini,
greche, del termine: politica deriva da polis, la città-Stato greca. Ad Atene si confrontano due
posizioni, che potremmo così semplificare: quella dei Sofisti, secondo cui non esiste un criterio
universale nella fondazione della politica se non quello, problematico, dell'utile (quando non si
giunge addirittura ad affermare che la politica si regge sulla legge del più forte); quella socratico-
platonica, secondo cui la politica è quel sapere che si occupa di conoscere e realizzare il bene per la
comunità. Platone costruisce il modello di uno Stato ideale in cui filosofia, etica, politica sono
indissolubilmente legate.

2. L'Atene di Platone: la Lettera VIIa

Nella Repubblica, il più noto dialogo platonico, dedicato alla fondazione della politica, leggiamo:

non ci sarebbe tregua dai mali nelle Città, e forse neppure nel genere umano […] se prima i
filosofi non raggiungessero il potere negli Stati […] sì da far coincidere nella medesima persona
l’una funzione e l’altra, ossia il potere politico e la filosofia1.

Nulla sembra più lontano dalla nostra mentalità di questa auspicata «coincidenza», che pure
costituisce una delle istanze più profonde del pensiero platonico; una coincidenza, allo stesso
tempo, tutt’altro che facile e priva di tensioni, ma che anzi – come stiamo per vedere – si presenta
come un’aspirazione sempre frustrata e in scacco.
Per intendere il senso del rapporto tra filosofia, etica e politica nella cultura attica occorre
considerare anzitutto, sia pure per cenni, il contesto storico dell’Atene a cavallo tra V e IV secolo.
Atene è una polis, e la polis, la città-Stato, è la forma di istituzione politica tipicamente greca. Nella
polis, retta, a seconda dei casi, da un governo democratico o aristocratico, tutti i cittadini liberi sono
sottoposti alle stesse leggi, che normano le relazioni tra gli individui, integrandoli organicamente
nel tessuto della comunità. Per un greco c’è coincidenza tra individuo e cittadino, e la dimensione
politica è una dimensione fondamentale di ciascuno: l’uomo si realizza nella società.

1 Platone, Repubblica, V, 473 c-d.


"Democrazia" di
Pericle

(495-429 a.C.)

Regime dei Trenta


Tiranni (404 a.C.)

Platone: «Mi feci l’idea che tutte le città


soggiacevano a un cattivo governo […]. In tal
Restaurazione della modo, a lode della buona filosofia, fui costretto
Condanna di
"democrazia" (403 a. ad ammettere che solo da essa viene il criterio
Socrate (399 a. C.)
C.) per discernere il giusto nel suo complesso, sia
a livello pubblico che privato. I mali, dunque,
non avrebbero mai lasciato l’umanità finché
una generazione di filosofi veri e sinceri non
fosse assurta alle somme cariche dello Stato».

388, presso Dionigi I


Platone: Dionigi II è mosso solo da ambizione
e si comporta al pari di «coloro che non sono
veramente filosofi e hanno una verniciatura
esteriore di opinioni, come quelli che hanno il
I viaggi di Platone a
367, presso Dionigi II corpo abbronzato al sole»; costoro, «vedendo
Siracusa
quante sono le cose da apprendere e quanto
grande sia la fatica […] non hanno la forza di
impegnarsi nella filosofia e alcuni di loro si
convincono di avere, tutto sommato, già udito
361, presso Dionigi II abbastanza e di non aver più bisogno di altro»

Ricorda il filosofo che


torna nella caverna

Atene, uscita vincitrice dalla guerre persiane, conclusesi nel 479 a.C., si avvia a dominare la scena
culturale e politica greca; dallo scontro tra la vecchia aristocrazia e i nuovi ceti “borghesi”, sono
questi ultimi, con Pericle (495-429 a.C.), ad affermarsi nella polis, instaurando un regime
democratico. Una democrazia, beninteso, ben diversa dalla nostra (dalla vita politica infatti sono
esclusi gli schiavi, le donne, i meteci, cioè i residenti stranieri), ma che comunque apre lo spazio per
il dibattito pubblico tra i cittadini.
Facciamo ora un piccolo salto in avanti e veniamo a una serie di vicende narrate da Platone nella
Lettera VIIa, una sorta di autobiografia politica del filosofo: dopo la sconfitta nella guerra del
Peloponneso contro Sparta, si instaura ad Atene (404 a.C.) il regime oligarchico dei Trenta
Tiranni, tra cui alcuni parenti dello stesso Platone (che, ricordiamolo, era di famiglia aristocratica),
rispetto al quale il filosofo esprime un parere recisamente negativo. Dopo pochi anni (399 a.C.), il
regime dei Trenta Tiranni viene rovesciato e viene restaurata la democrazia. La svolta politica
sembra alimentare le speranze di Platone in un miglior governo della polis, ma ecco che il nuovo
regime fa condannare a morte Socrate, il maestro di Platone, «l’uomo più giusto di allora»2.
Platone comprende allora amaramente che la politica, lasciata a se stessa, difficilmente riesce a
garantire la giustizia e che dunque occorre riformulare le basi stesse dell’attività politica:

«Mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo […]. In tal modo, a lode della
buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il
giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai
lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme
cariche dello Stato»3.

Il filosofo ateniese tenta egli stesso, invano, di realizzare il progetto di un governo retto alla luce
della filosofia: nel 388 a.C., durante un viaggio in Italia, Platone, quarantenne, si reca a Siracusa,
dove stringe amicizia con Dione, cognato del tiranno della città, Dionigi I; e con la collaborazione
di Dionigi, Platone spera di realizzare il proprio ideale politico di uno Stato guidato secondo i
principi della filosofia. Venuto in sospetto al tiranno, Platone – si narra – è però addirittura venduto
come schiavo, e può fare ritorno ad Atene solo dopo essere stato riscattato da Anniceride di Cirene.
Né si rivelano più fortunati i successivi viaggi a Siracusa: morto Dionigi I, Platone ritorna in Sicilia
nel 367 a.C., ma entra in contrasto anche col nuovo tiranno, Dionigi II; esito negativo ha anche un
terzo viaggio a Siracusa nel 361 a.C. A proposito dell’ultimo viaggio presso la corte di Dionigi II,
Platone denuncia la scarsa attitudine del tiranno per la filosofia: Dionigi è mosso solo da ambizione
e si comporta al pari di «coloro che non sono veramente filosofi e hanno una verniciatura esteriore
di opinioni, come quelli che hanno il corpo abbronzato al sole»; costoro, «vedendo quante sono le
cose da apprendere e quanto grande sia la fatica […] non hanno la forza di impegnarsi nella
filosofia e alcuni di loro si convincono di avere, tutto sommato, già udito abbastanza e di non aver

2 Platone, Lettera VII, 324 e.


3 Ivi, 326 a-b
più bisogno di altro»4. La guida politica della città, colui che dunque dovrebbe operare con
avvedutezza per il bene della collettività, non si comporta diversamente da chi, piuttosto che
apprendere con sforzo, si contenta delle convinzioni già in suo possesso, senza passarle al vaglio
della filosofia; e se tali «opinioni», acquisite senza alcuno sforzo, sono fugaci ed esteriori come
l’abbronzatura, dovremo supporre che invece le cose da apprendere «con fatica» siano durevoli e
profonde. Di che si tratta? E che rapporto ha tutto questo con la politica?

3. Excursus filosofico: la dottrina delle idee

La Lettera VIIa introduce a questo punto un excursus propriamente filosofico. Proviamo a


semplificarlo: poniamo di voler comprendere – ci dice Platone – che cosa sia un cerchio. Il cerchio
non è la parola “cerchio” che attribuiamo per convenzione a una determinata serie di “oggetti” e che
varia a seconda delle epoche e delle lingue. Ma il cerchio, il che cos’è del cerchio, l’essenza del
cerchio, non è neanche il cerchio sensibile che volta a volta disegniamo, e che può essere
cancellato. Il che cos’è del cerchio è qualcosa in comune a tutti i cerchi che ho disegnato e che
disegnerò, e anzi posso dire con certezza che, se anche cancellassi ogni cerchio e non disegnassi più
alcun cerchio, l’essenza del cerchio sarebbe pur sempre la stessa. L’essenza del cerchio è ciò che è
comune a ogni cerchio sensibile, quindi è ciò senza di cui nessun cerchio sensibile sarebbe un
cerchio; ma proprio perché è qualcosa di identico a ogni cerchio, l’essenza del cerchio non è alcun
cerchio particolare né la somma di tutti i cerchi. Questo qualcosa di identico è reale, altrimenti
nessun cerchio sarebbe cerchio, ma non è sensibile. Può soltanto essere pensata. Quando infatti
posso dire di conoscere veramente un cerchio? Quando colgo la o le proprietà che riguardano
l’essere cerchio, per esempio quella di avere una circonferenza che è il luogo dei punti equidistanti
da un punto detto centro. Questa definizione è un’espressione linguistica il cui significato non è
però né linguistico né sensibile: esprime quella proprietà che costituisce il cerchio in quanto cerchio
e che rimane tale anche se non disegniamo alcun cerchio, anzi, per quanto possa sembrare
paradossale, anche se non esistesse alcun cerchio sensibile. Solo allora, quando cogliamo le
proprietà essenziali del cerchio, noi non lo stiamo più sentendo, né immaginando, ma lo stiamo
propriamente pensando, cioè lo conosciamo in modo assolutamente vero. Ma, è bene ribadirlo,
pensare l’essenza del cerchio non significa che tale essenza sia solo nella nostra mente: tale essenza
è infatti ciò senza cui nessun cerchio sensibile sarebbe cerchio, e dunque è il vero essere dei cerchi
sensibili, più concreta di questi.

4 Ivi, 340 d-e – 341 a.


Questo elemento comune a ogni cerchio sensibile passato presente o futuro, grande o piccolo,
colorato o bianco, è il cerchio in universale; e se i singoli cerchi possono cancellarsi o ancora non
sono stati disegnati, questo elemento identico sarà per contro eterno e immutabile; e là dove i
singoli cerchi sensibili possono essere visti e toccati, l’essenza del cerchio sarà invece immateriale e
accessibile al solo pensiero, ovvero intellegibile. Questo elemento identico, che costituisce il vero
essere delle cose, che è immutabile, eterno, è chiamato da Platone idea. L’idea è ciò che è visto dal
pensiero, dal logos, ed è l’unità del molteplice sensibile: ciò che tutti i cerchi che disegniamo o
abbiamo disegnato e disegneremo, grandi, piccoli, colorati, hanno in comune è l’essere cerchio,
l’idea di cerchio.
E solo dell’idea possiamo avere conoscenza assoluta: i sensi infatti possono ingannarci, e ciò che
da lontano sembrava un cerchio da vicino si rivela in realtà un ottagono. Ma il pensiero, il logos, se
pensa l’idea, l’immutabile, l’universale, pensa allora il vero, l’incontrovertibile. Il logos, come
abbiamo detto, raccoglie i molti in unità; questa unità è l’idea stessa, e l’idea è ciò che non muta, ciò
che nessun decreto umano o divino potrebbe scalzare dal suo essere come è. Solo dell’idea, in altri
termini, si può avere scienza: scienza in greco è episteme, termine composto da stéme, “stare”, ed
epí, “su”, e che dunque significa ciò che sta su, ciò che si impone contro chiunque voglia negarlo,
ciò che è incontrovertibile. Pensando l’idea, il logos si compie come episteme.
Sintetizzando quanto detto sinora: Platone sta distinguendo due piani della realtà: quello delle
idee, che da Aristotele (discepolo dello stesso Platone) in poi si chiamerà piano metafisico, che
cioè non si riduce alla realtà fisica, sensibile, alla natura (in greco physis), e quello delle “cose”
sensibili; e sta distinguendo due corrispondenti piani della conoscenza: quello dell’episteme, la
forma più alta del logos, la conoscenza dell’incontrovertibile, e quello dell’opinione, doxa in greco,
sempre mutevole e fugace, cioè infondata, che abbiamo intorno alle “cose” sensibili.
Questa distinzione di piani è espressa, in un altro dialogo platonico, il Fedone, con la metafora della
seconda navigazione: proprio perché non avevano colto la differenza tra realtà sensibile e la realtà
ideale –afferma Platone –, i filosofi a lui precedenti erano restati impaniati in difficoltà insuperabili,
simili a quei navigatori il cui veliero, con la bonaccia, non riesce ad avanzare. Non resta che
intraprendere la seconda navigazione, ovvero, nel linguaggio marinaresco, passare dalla vela ai
remi; una navigazione, dunque, più impegnativa e faticosa. Il nuovo viaggio, fuor di metafora, si
affida proprio ai logoi, ai ragionamenti, che non guardano più alle cose particolari, ma hanno di
mira «il Bello in sé e per sé, il Buono in sé e per sé, il Grande in sé e per sé e così di seguito»5.

5 Platone, Fedone, 100 b.


4. Fondazione della politica

Chi è il Selezione dei Ricerca di un Che cos'è la Arte di governare


politico? pretendenti = criterio oggettivo di politica? secondo giustizia
fondare la doxa verità: l'idea

Cos'è la Essere giusti vuol dire dare a ...quindi realizzare un Nel caso dei rapporti
Giustizia? ciascuno ciò che gli compete, ordine, un'armonia... umani: ordine e armonia
proporzionare ciò che si dà ai in ciascun individuo e
meriti di ciascuno... degli individui tra loro

In generale
l'armonia è
l'unificazione di un
mollteplice

Piano Gerarchia delle


ontologico idee armonizzate
secondo il Bene

Piano Armonizzazione
antropologico delle facoltà secondo
la facoltà dominante

Piano politico Armonizzazione


delle classi secondo
la classe dominante
vediamo in dettaglio

Piano Armonizzazione Ordine in cui ciascun Realizzare al meglio


antropologico delle facoltà uomo realizza al la propria funzione =
(funzioni) secondo la meglio la propria definizione greca di
facoltà dominante funzione virtù

Funzioni
dell'anima e
relative virtù

razionale concupiscibile irascibile

temperanza
saggezza coraggio

Governanti=fil Guerrieri
Lavoratori
osofi

Piano politico Ordine fondato


sull'armonia-
gerarchia delle
virtù

Giustizia (fondamento della politica) = armonia gerarchica delle tre virtù / delle tre classi che si realizza
quando ciascun cittadino attende al proprio compito ed esercita la propria virtù

Il fondamento della politica è ontologico: l'idea di Giustizia in quanto strettamente implicata dall'idea
di Bene
Si dirà che quello che Platone ci ha detto sulle idee a che fare con la geometria e non con la politica.
Ma è davvero così? Torniamo nell’Atene democratica che ha appena allontanato i Trenta Tiranni:
l’assemblea proclama la condanna a morte di Socrate; la condanna è stata decisa regolarmente
secondo la procedura prevista dalle leggi della polis e secondo il principio, democraticissimo, della
maggioranza; eppure a venire condannato è «l’uomo più giusto di allora». Come è stato possibile?
La nostra democrazia è certo lontanissima da quella ateniese ma il problema che qui si pone e che
stiamo per affrontare non è forse così mutato. Come funziona una democrazia? Qualcuno, i cittadini
aventi diritto o, in una democrazia indiretta come la nostra, i rappresentanti del popolo, deve
promulgare una legge o farla applicare. Si apre un dibattito, ciascuno esprime la propria opinione su
quella legge secondo le proprie convinzioni, i propri interessi, le linee del partito, il buon senso se
va bene. Ciascuno, in buona o in cattiva fede, avoca a sé il requisito di essere un buon politico.
Ma chi è il buon politico? Ciascuno risponderà alla domanda difendendo la propria opinione,
adducendo casi ed esempi di buona politica, rifacendosi alla tradizione. Opinione, doxa, è
esattamente tutto questo: un punto di vista, più o meno ragionevole, che pretende di essere vero e di
prevalere sugli altri; un punto di vista che si rifà al contesto in cui siamo vissuti, a quello che per lo
più si pensa, ai casi e agli esempi con cui nella nostra esperienza abbiamo avuto a che fare, alla
nostra indole personale. Ma quale tra le opinioni rivali è “corretta”?
Rispondere a questa domanda significa selezionare tra le opinioni quella o quelle vere; o, in altri
termini, fondare, rendere incontrovertibile l’opinione. Bisogna allora trovare un metro di misura
che stabilisca quale tra le opinioni corrisponda, e in che misura, alla verità. Ma per far questo, nel
caso della politica, occorre rispondere alla domanda “che cos’è la politica?”, ovvero qual è
l’essenza della politica? E se la politica è la scienza dell’azione umana secondo giustizia e in vista
del bene della collettività, occorrerà domandarsi “che cos’è il giusto? E cosa il bene?”. Chiedersi
“che cos’è”, qual è l’essenza, significa però, già lo sappiamo, chiedersi qual è l’idea, in questo
caso di giusto e di bene. E per rispondere a tale domanda, l’opinione, il semplice punto di vista, la
tradizione, il buon senso non sono più sufficienti: conoscere l’idea del giusto e l’idea del bene, il
giusto e il bene in universale, è la prerogativa dell’episteme, della filosofia come logos
incontrovertibile. L’idea di giusto e quella di bene non mutano, sono universali, non dipendono dai
diversi contesti storici o dai punti di vista personali, valgono cioè sempre e ovunque; e solo la
conoscenza dell’idea di giusto e di bene, cioè l’episteme, può cogliere un punto stabile e assoluto
che funga da metro di misura di ogni punto di vista particolare intorno alla politica.
Solo l’idea, e la conoscenza dell’idea, l’episteme, può fondare la doxa. E solo la conoscenza
dell’idea del bene e del giusto può fondare l’opinione intorno all’azione buona e giusta per
l’individuo e per la collettività; in altri termini: solo la filosofia può fondare l’etica e la politica.
Possiamo ora comprendere ciò abbiamo letto sopra, nella Lettera VIIa, che solo la filosofia può
fornire «il criterio», per «discernere il giusto, sia a livello pubblico che privato».
Che cos’è allora l’idea di bene? E cosa l’idea di giustizia? Il Bene – ci spiega Platone – non è un
contenuto o un precetto particolare, ma l’idea dell’idea, quell’idea che è al vertice di tutte le idee.
Sappiamo che ogni idea è immutabile e perfetta; questa perfezione coincide con lo stesso carattere
per cui l’idea è l’unità, eterna e immutabile, del molteplice sensibile. Ora, cosa hanno in comune
tutte le idee? Di essere perfette e di essere unità del molteplice. Ogni idea dunque avrà qualcosa di
identico a tutte le altre: l’essere unità e perfezione; questo qualcosa di identico sarà dunque l’idea di
unità e perfezione. Questa idea, semplificando, è proprio ciò che Platone chiama l’idea di Uno o di
Bene, quell’idea, al vertice delle idee, che tutte le unifica in un insieme armonico.
Cosa sia la Giustizia si comprende in modo consequenziale dal ragionamento appena fatto. Cosa
vuol dire essere giusti? Dare a ciascuno il suo, ciò che spetta a ciascuno, proporzionare ciò che si dà
ai meriti di ciascuno. Significa in altri termini realizzare un ordine. Giusto è ciò che è
proporzionato, esatto, congruo (risposta "giusta"). Realizzare un ordine significa realizzare l'unità di
un molteplice.
1) L’ordine, cioè la giustizia delle idee, è il loro essere armonizzate secondo una perfetta gerarchia
che ha al vertice il Bene: quindi “prima” (in senso logico) viene il Bene, poi le altre idee, da ultimo
le “cose” sensibili mutevoli e imperfette.
2) Al livello individuale la giustizia sarà la corrispondente composizione armonica delle facoltà
dell’uomo, ordine in cui ciascun uomo realizza al meglio la propria essenza. Ma realizzare la
propria essenza è la definizione greca di virtù. Ora, noi sappiamo che per Platone, l'anima possiede
tre funzioni: quella razionale, quella irascibile, quella concupiscibile. A ogni funzione
corrisponderà una virtù: rispettivamente: saggezza, coraggio, temperanza (cioè capacità di
disciplinare, di "temperare" i desideri). L'ordine sarà dunque l'armonizzazione di queste virtù: al
vertice, per dir così a dirigere le azioni, ci sarà la ragione, il logos, la capacità dell’anima di cogliere
le idee stesse; poi verranno le passioni, le passioni nobili come il coraggio, che possono essere
facilmente indirizzate e guidate dalla ragione; da ultimo gli istinti, che ci avvicinano agli animali, i
desideri accecanti legati ai sensi, l’aver fame, sete, brama sessuale, ecc, che devono essere
controllati e limitati.
3) E nello Stato? In modo affatto parallelo, lo Stato giusto sarà quello che si fonda sull'ordine delle
virtù: alla guida dello Stato dovranno essere preposti coloro capaci di episteme, cioè di
comprensione delle idee, e dell’idea del bene in particolare, ovvero i filosofi; quindi la difesa della
polis sarà affidata a coloro in cui predomina il coraggio, cioè ai guerrieri; alla base della piramide
politico-sociale si troveranno i lavoratori (agricoltori, commercianti, artigiani), ovvero coloro
inadatti a elevarsi alla conoscenza delle idee e più legati agli istinti. Esiste dunque un perfetto
parallelismo tra piano politico, piano etico e piano ontologico, quello cioè relativo all’essere della
realtà, a ciò che la realtà è nella sua più intima e profonda struttura; ed è proprio quest’ultimo piano
a fondare gli altri due.
Giustizia è dunque l'armonia delle tre virtù e delle tre classi, e si realizza in concreto quando
ciascun cittadino attende al proprio compito ed esercita la propria virtù, rispetta l’ordine sociale e fa
ciò che deve fare (i lavoratori lavorare, i guerrieri difendere e garantire l’ordine, i filosofi
governare).
Platone, certo, era condizionato da una visione aristocratica e dal contesto storico-culturale della
sua epoca, ma i problemi prospettati dalla sua impostazione, cioè dall’impostazione che è alle radici
della cultura occidentale, sono forse ancora attualissimi, anche se spesso dimenticati: è possibile
fondare la politica senza un “metro di misura” universale? È possibile agire bene al livello
individuale senza avere di mira il bene della collettività, e senza che lo Stato promuova e favorisca
il mio bene individuale?
Quanto all’ultima domanda si ponga infatti attenzione a un altro elemento che è comune alla cultura
ellenica e che trova chiarissima espressione in Platone: piano etico e piano politico non possono
essere disgiunti. Per l’uomo greco, a differenza che nella cultura contemporanea, la polis è
l’orizzonte in cui la vita dell’individuo trova senso e compimento: l’uomo non è un individuo
isolato ma un essere sociale, che agisce sempre e solo in un tessuto di relazioni regolato secondo
delle leggi. Uomo e cittadino si identificano: pensare che qualcuno possa conservare una propria
indipendenza rispetto, per esempio, al sistema politico in cui vive, alle scuole che frequenta, alle
regole che normano gli scambi economici, è una semplice astrazione. Così l’azione etica, l’agire
secondo il bene e la giustizia, è anche un agire politico, un agire secondo il bene e la giustizia per la
comunità. E, reciprocamente, il bene della comunità deve promuovere il bene di ogni individuo.
Anche il filosofo, realizzerà pienamente il bene e la giustizia non già limitandosi a contemplare le
idee ma rendendole effettive, cioè agendo per sé e per la comunità secondo la giustizia e il bene.
Come si vede, la concezione platonica della politica è lontanissima dalla nostra mentalità: per noi,
per lo più, lo Stato non deve intervenire nella sfera individuale; deve certo regolare l’interazione tra
gli individui ma senza aver di mira il loro bene morale: l’azione politica, fare e applicare le leggi,
non dice nulla sull’azione buona, su ciò che è bene per me, su ciò che realizza la mia vera natura e
compie così la mia felicità. La politica, nelle società democratiche occidentali, si fonda sul
consenso, non sul Bene; ed è nel suo esercizio, se non ancora nei suoi principi, una politica
“funzionale”: risolve problemi particolari (la crisi economica, la questione dei migranti, ecc.)
sovente senza un’idea, appunto, che la orienti. A darle la “misura” non è un metro ideale e
universale ma, di fatto, l’economia e l’aspirazione al benessere che, come scrive un grande studioso
di filosofia antica, Giovanni Reale, «condizionano così radicalmente e prassi e teoria politica, che
queste, spesso, si limitano a voler essere proprio quel sistema di incremento di beni e di benessere
materiale, in cui Platone vedeva la fonte di ogni male»6.

6 G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 1992, vol. II, p. 290.

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