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1/10/22, 4:32 PM La Repubblica, libro VI

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Chi è il filosofo?
La compatibilità fra filosofia e

Il sesto libro della


politica
La metafora della nave
La città come luogo ostile alla
Repubblica filosofia
La possibilità di una città
filosofica
La scienza del bene
La metafora della linea

A cura di M.C. Pievatolo

Chi è il filosofo?
Socrate prosegue con l'illustrazione, cominciata nel libro precedente, delle caratteristiche dei
filosofi, che li rendono adatti a fare i guardiani nella polis ideale. I filosofi hanno accesso ai
paradigmi delle cose, cioè ai loro modelli esemplari in quanto sono esibiti o resi conoscibili
teoreticamente. Questa conoscenza dà loro la possibilità di conservare o istituire, con chiara
visione, le leggi sul bello, sul giusto e sul buono. [484c-d]
I filosofi amano imparare ciò che mostra loro l'ousia la
quale è sempre e non è errante
secondo la vicenda del nascere e del perire. [485b] Il sostantivo ousia, derivante dal verbo
eimi (essere) designa l'essere come essere stabile e immutabile, o anche la sostanza o
essenza. In greco eimi significa sia "essere", sia "essere vero".
I filosofi, amando la sapienza, tendono verso la verità e
odiano la menzogna. Il loro
eros è tutto indirizzato all'apprendere; per questo praticano la sophrosyne o temperanza
senza sforzo, perché il loro desiderio è canalizzato altrove. Al filosofo, semplicemente,
interessano poco le ricchezze, le meschinità e la vita stessa. Per questo sarà anche
coraggioso, e dotato di armonia interiore. [485c ss]

In due momenti significativi, il racconto  fenicio e la descrizione dell'ottima polis nel


V libro, Socrate teorizza esplicitamente la bugia come strumento di legittimazione e di
controllo politico. Nello stesso tempo, egli vorrebbe affidare il potere a persone che
descrive come amanti della verità e aliene dalla menzogna, senza fare nulla per sanare
la contraddizione evidente che così si produce. E' anche bizzarro il fatto che, nel
discorso dichiaratamente utopico e paradigmatico del V libro, vengano introdotte
considerazioni inerenti le modalità di attuazione, come se Platone fosse incapace di
distinguere fra il fine e i mezzi - pur avendolo appena fatto.

Come spiegare questa contraddizione?

E' legittimo fare questa domanda, perché la contraddizione sulla menzogna, nel
dialogo, è troppo evidente per essere involontaria: il tema della menzogna, per di più,
è sottolineato da un mito, in modo tale da non sfuggire neppure a un lettore
disattento.
Un'ipotesi
di risposta potrebbe essere questa: Platone pensa che ogni realizzazione
politica sia filosoficamente deficiente e insoddisfacente, non tanto perché deve
contaminarsi con mezzi inadeguati - problema, questo, che potrebbe essere tenuto
distinto e separato dall'elaborazione di un modello ideale - quanto per un carattere
"strutturale" della convivenza politica. Questo carattere non può essere sanato
semplicemente delegando alcune decisioni a poteri non politici, come quelli familiari ed
economici. Per questo, si deve essere consapevoli che qualsiasi soluzione politica

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comporta la menzogna, cioè richiede decisioni che possono essere messe in atto solo
interrompendo il dialogo filosofico.

La compatibilità fra filosofia e politica


Adimanto fa una obiezione a Socrate: le persone che non praticano la filosofia solo da
giovani, per motivi educativi, ma continuano a dedicarcisi, diventano dei grandi originali, per
non dire di peggio, e sono comunque del tutto inutili alla polis. L'opinione comune, in altri
termini, troverebbe sconsiderata e paradossale la tesi socratica del governo dei filosofi.
[487c-d]

Dietro l'obiezione di Adimanto si nasconde il confronto con un


progetto educativo alternativo a quello platonico, e di grandissimo
successo all'epoca: quello del retore Isocrate, che faceva
professione di osservanza dei valori tradizionali e, nella sua scuola,
insegnava la filosofia esclusivamente come strumento di
argomentazione politica. Adimanto allude, probabilmente, anche
alla vicenda giudiziaria di Socrate e all'ambigua esistenza di
Alcibiade.

La metafora della nave


Socrate risponde all'obiezione con una immagine, cioè con una spiegazione per analogia, cui
si dice costretto a ricorrere perché deve chiarire una esperienza non paragonabile a
nessun'altra, e cioè quella - diremmo noi - di un anticonformista che si trova ad avere idee
più avanzate rispetto a quelle della società in cui gli capita di vivere.

Si pensi a una nave, il cui capitano è più grande e più forte di tutti i marinai, ma - pur non
essendo cattivo - è di vista corta, un po' sordo e inesperto di cose nautiche. I membri della
ciurma stanno a litigare fra loro, contendendosi il timone, pur essendo anch'essi inesperti di
marineria; anzi, affermando che quest'arte non è insegnabile, fanno continue pressioni
sul comandante per ottenere il timone. Se non riescono a ottenerlo con le preghiere,
ammazzano o buttano fuori bordo i concorrenti, o drogano il capitano. E esaltano chi li aiuta
in queste loro intraprese trattandolo come un esperto, anche perché, pur essendo privi di
techne e di pratica, pensano che l'arte del pilota si acquisisca semplicemente
prendendo il governo della nave. Il pilota competente, il quale sa che ci si deve
preoccupare dell'"anno e delle stagioni, del cielo e degli astri", verrebbe trattato come
un inutile chiacchierone con la testa fra le nuvole. [488a ss]

Questa immagine si vale di uno degli elementi  decisivi per l'affermazione della
democrazia ad Atene allo scopo di criticare la pratica politica esistente, dominata da
moralisti tradizionali, retori alla Isocrate e sofisti, la cui conoscenza si riduce all'arte di
manipolare il popolo, qui rappresentato dal capitano, non cattivo ma debole, sordo e
miope.
Il vero
pilota è uno che osserva il cielo e si preoccupa delle stagioni; è, cioè, uno che
guarda lontano, al di là della nave e delle sue relazioni interpersonali. Fa, dunque, cose
apparentemente inutili, dal punto di vista di chi pensa che ciò che conta sia il mondo
ristretto dell'imbarcazione, ma essenziali, per chi sa - come ogni Ateniese sapeva - che
la nave deve navigare in un ambiente molto più ampio e incerto, che si deve affrontare.
Così la filosofia speculativa, che guarda oltre e lontano, fa cose apparentemente senza
senso, a meno che non ci si renda conto che le relazioni interumane e i confini ristretti
della propria cultura non solo non possono darci spiegazioni esaurienti ma forse non
sanno neppure guidarci nelle nostre scelte, se le vogliamo fare in maniera consapevole.
Viviamo in un mondo molto più grande e incerto di quello racchiuso nei confini delle
società umane.

La città esistente come luogo ostile alla filosofia


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Questa immagine può chiarire perché i migliori fra i filosofi sono considerati inutili: la loro
inutilità dipende semplicemente dal fatto che la gente non ne sente il bisogno. I filosofi, dal
canto loro, ritengono che non abbia senso spiegare alle persone perché mai dovrebbero
assumere come proprio un bisogno che esse non avvertono. Ma l'accusa peggiore rivolta alla
filosofia è che la maggior parte dei filosofi siano non solo inutili, ma malvagi.
Anche questo, dice Socrate, si spiega: i caratteri migliori, se non trovano l'ambiente
favorevole e non ricevono una buona educazione, rovesciano tutte le loro doti in vizi. Ciò
avviene, fatalmente, quando l'educazione è dominata da sofisti - ma quanto detto può
applicarsi analogamente a Isocrate - i quali insegnano, in sostanza, soltanto l'arte della
manipolazione del popolo nelle assemblee, ma non offrono gli strumenti per criticare le
opinioni della maggioranza e per ricercare, disinteressatamente, verità di tipo concettuale. In
un simile ambiente la filosofia, pratica minoritaria e per sua natura poco proclive al
conformismo, sarà fatalmente osteggiata, e si farà di tutto per allontanare da essa i giovani
brillanti. Così, la filosofia rimarrà appannaggio di persone pretenziose, e solo raramente
verrà praticata dai migliori, per circostanze variamente accidentali come un esilio, o la
cattiva salute, o il daimonion, o la volontaria astensione da una vita politica che non si
apprezza ma su cui si è impotenti ad influire. [489b ss]

La possibilità di una città filosofica


L'astensione del filosofo dalla vita pubblica, prosegue Socrate, è dovuta al fatto che le forme
di politeia esistenti, a causa delle loro deficienze culturali, non sono un terreno fertile per la
filosofia. Lo potrebbe essere l'ottima polis? Anche qui, sottolinea Socrate, la cosa è tutt'altro
che semplice, perché ci deve essere sempre nella città qualcosa che mantenga lo stesso
logos avuto dal legislatore nel porre le leggi. [497c-d]
Una città filosofica, in altri termini, non è semplicemente
una città fondata in modo
filosofico, proprio perché in essa deve essere mantenuto lo stesso logos con il
quale era stata costruita. Il logos è la parola o il discorso con il quale viene espresso un
pensiero: mantenere il logos, dunque, è qualcosa di più che conservare pedissequamente un
modello. Il discorso filosofico nel quale è nata la città costruita en logois è qualcosa che deve
continuare; qualcosa che rimane tale solo nella misura in cui continua. Ma questo è tutt'altro
che scontato.

...tutte le grandi cose sono precarie


[episphale] [497d]

Socrate propone un suo progetto di educazione filosofica, differente da quello corrente


(isocrateo) che proponeva la filosofia, come disciplina accessoria, agli adolescenti, per poi
abbandonarla senza toccare la parte più difficile, to peri tous logous (la disciplina dei discorsi
o dialettica). Per lui la filosofia va studiata e praticata in età più matura: a questo
bisogna convincere gli ascoltatori, procurando qualcosa di utile per quell'altra vita, quando,
rinati, si imbatteranno in simili discorsi. [498d]

L'allusione alla dottrina (pitagorica) della metempsicosi, che verrà ripresa alla fine del X
libro, con il mito di Er, ha la funzione retorica - come l'immagine del pilota che studia il cielo
e le stagioni - di ampliare l'orizzonte, oltre la città e i suoi valori. Il progetto politico della
Repubblica è solo una parte accessoria di una prospettiva speculativa molto più ampia,
grazie alla quale soltanto è possibile interrogarsi, oltre la storia, sul senso del mondo umano.
Impresa, questa, cui viene associato lo stesso Trasimaco, qui trattato come un amico.

Se ora non accade che i filosofi governino, ciò può essere accaduto nell'infinito (apeiron)
tempo passato, o potrà accadere in futuro, o sta succedendo ora in qualche remoto paese
barbaro. E' sufficiente, in altri termini, ampliare la prospettiva dal qui ed ora ad un tempo e
ad un mondo senza limiti per rendersi conto che la realizzabilità del modello è certamente
difficile - anche a causa della corruzione che si accompagna al potere - ma non impossibile.
[499c-d  ss] Il carattere indefinito dell'esperienza milita a favore della speranza
utopica e contro il realismo, non appena si ampli l'orizzonte spaziale e temporale
del nostro sguardo.

La scienza del bene


I filosofi governanti, per essere all'altezza del loro compito, devono ricevere una accurata
educazione, che deve avere ad oggetto l'apprendimento più grande (megiston mathema). La
conoscenza più grande è quella dell'idea del bene (tou agathou idea), attingendo la
quale il giusto e le altre cose diventano utili e giovevoli. [505a] La conoscenza del bene

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risponde all'esigenza di dare un indirizzo alla pluralità delle nostre cognizioni, cioè un
orientamento che sia unitario e che sia connesso alle nostre domande fondamentali, che
sono di natura pratica e non teoretica. Per Platone le domande che danno origine alla
filosofia non sono "che cos'è l'essere?" o "quali sono gli strumenti per conoscerlo?", ma le
interrogazioni "sul bene dell'uomo e della realtà in cui egli si trova a vivere; la conversione al
mondo delle idee è auspicabile non tanto perché apre la visione del vero essere, ma perché
apre l'accesso a ciò che è bello e buono; così pure la scelta in favore di verità e scienza
contro l'opinione non è sorretta da un naturale impulso contemplativo, ma dal fatto che
scienza e verità sono belle" (F. Trabattoni, Platone, Roma, Carocci, 1998, p. 219). L'interesse
primo della ragione, in altri termini, è pratico.

Il bene, prosegue Socrate, viene dalla maggioranza identificato col piacere, e dai più raffinati
con la phronesis, cioè con la capacità di discernere. Ma poi, quando si chiede loro di quale
phronesis si tratti, sono costretti a rispondere che si tratta della phronesis del bene, come se
fosse già chiaro il senso della parola "bene". Quelli che identificano il bene con il piacere
incorrono in una analoga difficoltà quando sono costretti ad ammettere che vi sono piaceri
buoni e piaceri cattivi. [505b-c]
In altre parole: una volta identificato teoreticamente il bene con qualcosa di definito
- il giudizio o il piacere - , siamo costretti a renderci conto che l'identificazione è
circolare o contraddittoria. Una persona è dotata di phronesis quando sa giudicare sul
bene: ma allora il bene non è la phronesis. Se identifichiamo il bene con il piacere, quasta
definizione si rivela contraddittoria non appena ci mettiamo a classificare i piaceri: e siamo
costretti a fare questa classificazione ogni volta che dobbiamo compiere delle scelte.
Insomma - dice Socrate - è evidente che il bene è una questione controversa.

D'altra parte - prosegue Socrate - per quanto concerne il giusto o il bello, molti
accetterebbero le apparenze (ta dokounta), mentre, per quanto concerne il bene, si cerca ciò
che è [vero] (ta onta) e la doxa viene da tutti disprezzata. [506d]
In altri termini: sul giusto e sul bello ci si può accontentare di una sapere per sentito dire,
delle opinioni convenzionali e delle apparenze, ma questi elementi sono del tutto inutili
quando si vuole conoscere il bene. Per esempio: perché devo essere giusto? Se la mia idea
del giusto è collegata al bene, ho una risposta a questa domanda; se questo collegamento
manca, la doxa - come apparenza, opinione, sapere per sentito dire - non mi offre nessuna
risposta. E, quando le cose stanno così, Trasimaco ha ragione: la doxa del giusto serve solo
al più forte, a colui che ha il controllo del sapere e del potere, per manipolare le persone.
Coloro che sono soggetti a questa doxa, a loro volta, si fanno manipolare perché si fermano
all'apparenza e non si pongono il problema del bene. E' dunque essenziale, conclude
Socrate, che i guardiani dell'ottima polis conoscano il bene.

A questo punto, Adimanto chiede a Socrate la sua opinione sul bene: è scienza, piacere, o
qualche altra cosa? Socrate. dopo molte reticenze, acconsente a parlare, precisando che si
tratta non di scienza, ma di opinione, cioè di cose che sembrano a lui. La conoscenza delle
cose fondamentali, in altri termini, è sempre precaria e menzognera perché ha
luogo tramite una mediazione soggettiva. Scienza e opinione sono potenzialità insite in
tutti, dal più umile ascoltatore di poeti a Socrate stesso, la cui reticenza, per questo, è
qualcosa di più di una esibizione di falsa modestia. Nell'excursus filosofico della VII lettera,
Platone sottolinea che l'anima vorrebbe il "che" - vorrebbe essere nella verità - ma i suoi,
pur indispensabili, strumenti illustrativi, discorsivi e concettuali le offrono solo un "come",
cioè dei metodi e degli strumenti in se stessi contingenti, ma non l'identificazione con la
verità nella sua attualità e presenzialità. [341d ss]

Nel nostro discorso, dice Socrate, diciamo e definiamo molte cose belle, molte cose buone e
così via. Quindi parliamo di un bello in sé (auto kalon), di un bene in sé (auto agathon) e
così via: in questo modo, consideriamo le cose molteplici secondo un'unica idea, e
diciamo che cosa sono veramente. Le cose molteplici di cui facciamo esperienza si
vedono; le idee - i paradigmi concettuali delle cose - si concepiscono (noein) e non si
vedono. [507b ss]
Le cose visibili si vedono con la vista, che ha un carattere speciale: perché il soggetto
senziente possa vedere i suoi oggetti, gli occorre la luce, prodotta dal sole, che, per la
religione greca, è un dio, e che viene detto figlio del Bene. Questa analogia con il sole può
spiegare la funzione del Bene: quello che fa il sole per la vista e le cose visibili, lo fa il
Bene per l'intelletto (nous) e le cose intelligibili. [508c] Come il sole produce la luce
che rende gli oggetti visibili chiaramente agli occhi, così il bene ci mette in rapporto con le
cose intelligibili, dandoci chiarezza nella conoscenza.

Il bene è ciò che conferisce verità (aletheia) alle cose conosciute, e dynamis (facoltà,
potenza) al soggetto conoscente. Essendo causa di episteme (scienza) e di aletheia è a sua
volta conoscibile, ma differente e superiore rispetto ad esse. [508e-509a]
E come il sole dà agli oggetti visibili, oltre alla visibilità, anche la genesi, la crescita e
l'alimento, senza essere genesi esso stesso, così

...anche ai conoscibili dirai che venga dal bene non solo


l'essere conosciuti, ma che l'essere (einai) stesso e la
sostanza (ousia) vengon loro da quello, pur non

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essendo il bene ousia, ma essendo al di là dell'ousia


per dignità e dynamis. [509b]

Il bene, in altre parole, è al di là del piano dell'essere, e anche al di là di ogni definizione


ontologica, di ogni ousia. Questo significa che non se ne può definire l'essenza. Ma il bene è
superiore all'essere e all'essenza non perché ha una propria struttura ontologica, ma perché
ha un potenza (dynamis) e una dignità maggiore. Per questo, proprio perché non è
staticamente, ma è al di là dell'essere e della definizione, è alla base dalla realtà e
della conoscenza. Il bene esprime una esigenza di unità sintattica, e non semantica: come
è possibile avere una conoscenza unitaria? come può esserci una realtà unitaria?

Platone risponde a questa domanda senza far ricorso alla garanzia fornita dalla
sistematicità del concetto, o da un essere supremo perfettamente in atto, alla maniera
di Aristotele: i concetti ci sono offerti attraverso la mediazione dell'opinione, le cose,
così come sono, sono esposte alla critica e al cambiamento. Ogni sistema di idee è
dunque opinabile.
La realtà e la conoscenza può essere una soltanto se è in tensione, se è una potenza
che cerca continuamente di superare se stessa. Si può essere e conoscere soltanto se
si cerca di diventare migliori di quello che siamo, e se si accetta di esporre all'élenchos
ogni nostra pretesa di sapere. Dobbiamo essere consapevoli, pertanto, che, di fronte al
Bene, ogni nostra idea e ogni nostra realizzazione contiene un elemento di menzogna
e che la filosofia esiste solo dove c'è una tensione verso il superamento di sé.
Il sole di Platone era pensato dalla religione greca come un dio. Ma si potrebbe
riproporre, anche oggi, la stessa analogia platonica fra il Bene e il sole semplicemente
ricordando che la vita sulla terra è resa possibile da una gigantesca esplosione
nucleare a otto minuti-luce da noi.

La metafora della linea


Per spiegare meglio il senso dell'analogia visiva con la quale ha cercato di illustrare qualcosa
di intelligibile, Socrate introduce la metafora della linea. Si immagini un segmento diviso
in due parti dal punto C; a loro volta, i due segmenti così ricavati sono divisi
proporzionalmente da D e da E. [509d ss]

AC rappresenta il mondo sensibile; CB rappresenta il mondo intelligibile.

Nel mondo sensibile, DC rappresenta le cose sensibili vere e proprie e AD tutto ciò che
costituisce la loro immagine (ombre, riflessi etc.).

Nel mondo intelligibile, EB rappresenta le idee, mentre non è detto chiaramente che cosa
rappresenti CE.

La proporzionalità rappresenta una analogia: per esempio, come l'opinabile, ciò che appare,
si distingue dal conoscibile, analogamente l'immagine è in rapporto con la cosa sensibile
rappresentata nell'immagine stessa.

Per quanto concerne CE, la prima sezione dell'intelligibile, l'anima, dice Socrate, usa come
immagini gli oggetti sensibili (che fungevano da modello nel segmento del visibile) e si
muove, partendo da ipotesi, non verso il principio (arché) ma verso le conclusioni.
Hypothesis significa, letteralmente, ciò che è posto sotto, e dunque supposizione, ipotesi,
scopo, argomento proposto per la discussione: la ricerca, in altri termini, in CE rimane

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sempre condizionata, perché le ipotesi vengono semplicemente prese per buone, e da esse si
procede fin alla conclusione - valida, dunque, solo a condizione che siano valide le ipotesi. In
EB, invece, la ricerca ha ad oggetto l'anypotethon, il non ipotetico o incondizionato;
anch'essa, però, muove da ipotesi, ma valendosi di idee e non di immagini. [510b]

Il procedimento conoscitivo in CE è simile a quello dei matematici e dei geometri, che


assumono come ipotesi elementi determinati senza ritener necessario darne conto.
Questi, inoltre, fanno uso di immagini visibili, ma le loro argomentazioni si valgono delle
immagini solo a scopo illustrativo, perché le cose di cui parlano sono conoscibili solo con la
dianoia, o pensiero discorsivo. Nel VII libro, Socrate chiarisce che le discipline che fanno uso
della dianoia sono quelle protrettiche alla dialettica, e cioè l'aritmetica, la geometria,
l'astronomia e l'armonia.

L'altra sezione dell'intelligibile è attinta dal logos con la dynamis del dialeghesthai. cioè con
la capacità o la potenza del discutere e del mettere in relazione. Qui le ipotesi non
vengono trattate come princìpi, ma come presupposti o punti di partenza, per arrivare
all'anypotheton o incondizionato, e poi ridiscendere verso la fine, servendosi solo delle idee e
di nulla di sensibile. [511b]

Stando così le cose, possiamo dire che, salendo dal sensibile all'intelligibile, le facoltà
conoscitive in gioco in ciascuno dei quattro segmenti sono:

eikasia (immaginazione)  AD
pistis (credenza)  DC
dianoia (pensiero discorsivo, fondato su ipotesi)  CE
noesis (capacità di dialeghesthai, cioè di discutere e di mettere in relazione idee
arrivando ai princípi)  EB

La metafora della linea: tavola sinottica

La metafora della linea risulta piuttosto oscura, anche perché non viene spiegato con
chiarezza se la dianoia (CE) si esaurisca nella geometria, o la geometria sia un suo
caso particolare, assunto ad esempio.
E' però importante sottolineare che la noesis (EB), qui, non può essere trattata come
una intuizione intellettuale. Essa, piuttosto, è la ricerca dialettica dei princìpi, o,
meglio, il mettere in relazione le idee fra loro per cercare, partendo da ipotesi, ciò che
ipotetico non è, ovvero l'incondizionato.
Ma la ricerca dell'incondizionato è una operazione dialettica, che non può fare a meno
di presupporre ipotesi, di discuterle, e di mettere delle idee in relazione fra loro.
Questo significa che la noesis non è una intuizione intellettuale immediata, ma il fine di
un lavoro di mediazione.

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