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SISTEMA HEGELIANO

Il sistema hegeliano sarà fonte di ispirazione per tutta la dottrina filosofica dell'idealismo e del periodo
successivo. Infatti il sistema hegeliano parte dall'idea, la quale secondo Hegel è in sé, in se stessa, ed è priva
di contenuto e per riuscire ad ottenere quest'ultimo deve uscire fuori da sé ed elaborare un contenuto
diverso rispetto ad essa; tale contenuto lo ritroviamo nella natura: da qui si sviluppa ciò che Hegel chiama la
"filosofia della natura" secondo la quale l'idea è appunto fuori di sé. Ma prima di approdare a questa fase
bisogna analizzare il momento chiamato "logica" in cui l'idea è solamente in sé. Questa prima fase si articola
a sua volta in tre fasi: l'essere, l'essenza e il concetto. L'essere si identifica con l'essere parmenideo secondo
cui "l'essere è" sia come sostantivo, in quanto esiste, sia come copula, ma non bisogna prendere in
considerazione l'aspetto ontologico, ma solamente l'aspetto logico in quanto bisogna porre l'essere
logicamente per evitare di ricadere nell'equivoco filosofico secondo il quale è necessario avere un principio
sostanziale cioè il Dio teologico, creatore della vita e del mondo. Ma tale principio risulta illogico poiché non
si può creare dal nulla, il nulla stesso (ovvero Dio). L'essere è quindi il primo principio logico astratto.
L'essere nella sua evoluzione si trasformerà in essenza e qui va ricordata la definizione aristotelica secondo
cui l'essenza è ciò che fa si che una cosa sia tale e non qualcos'altro; l'essere quindi deve concretamente
riempirsi di tale contenuto in modo da potersi distinguere dalle altre sostanze. Infine, la sintesi è quindi
rappresentata dalla capacità di concettualizzazione, ovvero di elaborare un concetto e ciò avviene nel
momento in cui da un'idea generale si ritagliano tutti gli essere particolari che godono di una propria
identità.

LA LIBERTÀ HEGELIANA

L’uomo è libero nel momento in cui fa la storia, l’uomo è libero non essendo consapevole che alle sue spalle
c’è un Dio che ha dei progetti più grandi che all’uomo non è dato sapere. Quindi per l’uomo è una libertà
illusoria. Le azioni dell’uomo vengono giustificate, la guerra è uno strumento necessario per far evolvere
l’uomo, quindi tutto è giustificato attribuendo a Dio delle volontà più grandi. L’intelletto dell’uomo è
limitato, lui non riesce a concepire i piani di Dio. Qual è secondo l’uomo storico, il fine ultimo del suo
destino? Il fine che giustifica le azioni è la realizzazione piena della libertà, lo hanno detto anche Kant e
Fichte dove il fine del perfezionamento morale si raggiunge attraverso un processo evolutivo che è iniziato
dalle prime civiltà, si comporta quindi da antropologo, affermando che la libertà delle prime civiltà si è
fermata con un processo continuo avente grado molto basso di perfezione, un esempio di libertà limitata è
la schiavitù. L’unico uomo libero nella civiltà egizia per esempio era il faraone, il Dio sulla terra che dettava
leggi tutto derivava da lui. Questa evoluzione che attribuiamo al fenomeno della libertà, avviene attraverso
3 momenti: il momento più basso dove la libertà è limitata, primitiva, ed è detto da lui “Tesi” ed è un
processo dialettico, pian piano l’uomo si evolve e la libertà comincia ad estendersi non essendo limitata
nelle mani di una sola persona, ma accomuna diversi soggetti passando ad un momento più evoluto rispetto
a prima, processo dialettico chiamato “Antitesi”. L’uomo deve aver prima provato la tesi per arrivare
all’antitesi. L’evoluzione è stata lenta e graduale, non c’è un salto, si è proceduto gradualmente. Dal primo
momento si è passato al momento successivo. La civiltà greco-romana è vero che c’era la civiltà, ma è anche
vero che ci sono altri organismi che avevano il potere decisionale, abbiamo il passaggio graduale dove non è
più no solo che decide, ma ne sono tanti. Però il processo non è ancora ultimato, il culmine di questo
processo è la “sintesi”, momento ancora più alto che rappresenta il culmine. Il momento della sintesi è
caratterizzato dalla civiltà cristiano germanica. Perché comunque la libertà dello stato prussiano è una
libertà che godono tutti, è di dominio pubblico, è un qualcosa che riguarda tutti e bisogna ringraziare il
cristianesimo, il quale ha condannato la schiavitù e l’oppressione in nome dell’uguaglianza di tutti gli uomini
dinanzi a Dio.

HEGEL IDENTITÀ E DIVERSITÀ Se oggi la molteplicità fisico-naturale non è più un problema, lo è però quella
socioculturale. Se la logica identitaria su cui si è fondata tutta la riflessione filosofica occidentale da
Parmenide all’idealismo tedesco ha potuto garantire una metafisica della sostanza, dell’essere e una
teologia cristiana (e islamica, come troppo spesso si dimentica) fondate sull’idea di permanenza e di
immutabilità, l’avvento della modernità, con la sua idea di un individuo libero, autonomo, capace di
autodeterminazione e di valutare (e criticare) razionalmente tradizioni, norme, autorità ha modificato
radicalmente il quadro di quella logica. Mentre la logica identitaria ha separato radicalmente l’identità dalla
differenza, marginalizzando l’alterità come qualcosa che rendeva “impura” la logica e l’ontologia da essa
derivata, con Hegel assistiamo – a mio avviso per la prima volta – al tentativo di pensare sia l’identità che
l’alterità, di comprenderle nella loro implicazione reciproca. Hegel mette cioè in discussione quel principio o
legge dell’identità in base alla quale noi ragioneremmo, penseremmo, ci rappresenteremmo la realtà. Scrive
Hegel al § 115 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche che “Nessuna coscienza pensa, né ha
rappresentazioni, né parla, secondo questa legge; nessuna esistenza, di qualsiasi sorta, esiste secondo
questa legge”. Hegel sostiene infatti che è l’identità stessa a porre la differenza, oppure che la differenza è
posta nel momento stesso in cui si pensa l’identità. Pluralità significa allora che quando pensiamo una cosa
la pensiamo sempre in relazione a un’altra: per Hegel, quindi, la relazione, il rapporto, è costitutivo del
pensare in generale. Questa acquisizione della dialettica hegeliana implica un grande rivolgimento: il
passaggio da una logica identitaria a una logica del riconoscimento. Ma non si tratta di un semplice
rivolgimento logico-concettuale, cioè del semplice “primato della relazione”: anche per Platone, infatti,
pensare significa connettere, legare, col-legare (la famosa symploké platonica). Questo rivolgimento ha
infatti almeno tre conseguenze etiche e pratiche. Se l’identità non è fondante, ma fondata, se ne ricava che:

1. Per sapere chi sono “io” devo pormi necessariamente in relazione, ho cioè bisogno prima ancora di
essere tale, che ci sia qualcun altro che mi riconosca come un “io” (si pensi alla relazione asimmetrica
madre-figlio: ciascuno di noi è divenuto tale perché la madre lo ha riconosciuto, prestandogli cure, tempo,
affetto, amore).

2. In questo senso l’altro, ciò che io non sono, è la vera condizione del mio comprendermi come “io”, come
“me stesso”, come “identità personale”.

3. Non posso conoscere se non sono stato prima “riconosciuto” da altri, che hanno reso possibile “me
stesso” come coscienza: conoscere, quindi, significa riconoscere.

Bisogna fare molta attenzione a queste conseguenze concettuali e alle loro implicazioni etico-pratiche,
perché hanno risvolti importanti e decisivi nella nostra vita morale e politica. Esse implicano infatti che non
possiamo mai assolutizzare alcuna identità o pensare di poterla definire una volta per tutte. La complessità
legata alla pluralità deriva piuttosto dal fatto che noi siamo persone, il frutto di una totalità di relazioni di cui
non disponiamo, e quindi che noi condividiamo già da sempre un’identità con altri membri di un
determinato gruppo. Come scrive Amartya Sen nel suo Identità e violenza, “Il mondo suddiviso secondo un
unico criterio di ripartizione è molto più conflittuale dell’universo di categorie plurali e distinte che plasma il
mondo in cui viviamo. Un’immagine del genere (…) contrasta con l’idea che siamo diversamente differenti.
La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara
delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano
un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile”. Dal punto di vista
culturale, la logica identitaria ci spinge a pensare alle culture come fortezze compatte, castelli con ponti
levatoi, territori con confini netti e stabiliti una volta per tutte o, per riprendere un’immagine usata da vari
antropologi, “palle da biliardo” lisce e lucide, senza alcuna porosità. Non siamo abituati – perché la logica
identitaria che governa la nostra cultura ci ha imposto di associare continuità, permanenza, stabilità, ordine
all’identità – a pensare alla nostra identità culturale come qualcosa di plurale, di composito, frutto di
innumerevoli stratificazioni storiche, processi di riconoscimento (ma anche di misconoscimento), ibridazioni
e incroci. Di fronte all'”altro” – lo straniero, l’estraneo, il “foresto” – scatta subito la legge gestaltica di
raggruppamento: esso deve venir inserito in una categoria, rubricato, classificato in base alla provenienza e
all’origine, come se l’arché, l’origine, potesse raccontarci tutta la sua storia, potesse esaurire la sua
“identità”.
Allo stesso modo per la nostra logica identitaria è difficile accettare il fatto del pluralismo politico, spesso
confuso con il relativismo, con una generica idea per cui tutte le culture sono sullo stesso piano, hanno lo
stesso valore (cosa diversa che riconoscerne la pari dignità). Pluralismo, infatti, è assumere la diversità, la
differenza, l’alterità stessa come valore in sé (cosa ben diversa che affermare, come fa un certo relativismo,
che tutti i valori si equivalgono) e quindi non equivale a un generico “multiculturalismo”. Questo è infatti la
moltiplicazione delle identità culturali in nome della loro “differenza specifica”; e che esso sia “thick” o
“thin”, come vogliono alcuni autori (Fullinwider, Kukathas, Chandran, Galston), resta il fatto che esso è in
linea di massima ostile alla diversità, alle affiliazioni multiple, alla possibilità – che invece il pluralismo
garantisce – di trovare un terreno comune di convivenza civile, valori laicamente condivisi. Esso vede
l’integrazione dell’identità culturale di gruppo nella società come il male da evitare a tutti i costi e quindi
propugna una sorta di separatismo culturale (la “mia” identità – tirolese, ladina, carnica, gaelica, scozzese,
basca, ecc. è intoccabile, sacra, inviolabile, anche perché in passato è stata negletta, misconosciuta,
colonizzata, ecc.), mettendo capo a un’idea di società multiculturale come un arcipelago di comunità
separate da confini netti, decisi una volta per tutte.

MARX

Marx critica lo Stato Moderno riprendendo il concetto hegeliano di separazione tra società civile e Stato,
non presente nell’antica polis greca, in cui l’individuo era unito con la comunità e non c’era distinzione tra
sfera individuale e sfera sociale. Nel mondo moderno, infatti, l’uomo vive due vite: una in terra come
“borghese”, nell’ambito egoistico degli interessi atomistici della società civile, mentre l’altra in cielo come
“cittadino”, nella sfera dello Stato e dell’interesse comune. Quest’ultimo è però illusorio e falso, in quanto
non è lo Stato che sussume in sé la società civile, innalzandola al bene comune, ma al contrario è la società
civile ad abbassare lo Stato a strumento delle classi sociali per perseguire i loro interessi particolari, invece
che perseguire mete generali. Infatti l’uguaglianza formale di tutti davanti alla legge mutuata dalla
Rivoluzione francese sottolinea la loro disuguaglianza sostanziale, e i cittadini, tutti disuguali nella società
civile, si consolano pensando di essere uguali davanti allo Stato. Ciò porta Marx a rifiutare il liberalismo e la
democrazia, quindi il principio della libertà individuale (atomismo borghese) e della rappresentanza
(scissione individuo stato), e a concepire un’ideale di società simile a quella di Hegel, caratterizzata dalla
componente organica: una compenetrazione perfetta tra individuo e comunità nella quale ognuno è solo un
momento dell’intero popolo. L’unico modo per realizzare questa comunità è per Marx abolire il fondamento
di ogni disuguaglianza sociale, ovvero la proprietà privata (mentre per Hegel si devono usare degli strumenti
politici come le corporazioni).

HEIDEGGER

Secondo Heidegger (1959, pp. 29-30) la riflessione filosofica sul linguaggio non può non prendere le mosse
da un’iniziale e fondamentale presa di distanza di natura metodologica dalle diverse discipline (dalla
linguistica alla psicologia) che si occupano del linguaggio. Se esse infatti tendono sostanzialmente a definirlo
come un sistema di segni utili a veicolare dei significati (che corrisponde alla concezione più diffusa) la
filosofia si occupa del linguaggio in se stesso. Pur riconoscendo il valore di tali discipline, la riflessione
filosofica deve poterne prescindere, deve cioè poter porre tra parentesi il dato del senso comune secondo il
quale si parla per dire qualcosa, trasmettere un messaggio (ivi, p. 30). La concezione del linguaggio come
comunicazione considera lo stesso su un livello di esteriorità [1], rispetto alla quale la riflessione filosofica
deve dunque astrarre. Nella prospettiva filosofica heideggeriana il linguaggio in se stesso è portatore di
un’intrinseca connotazione ontologica. Il parlare infatti non è semplicemente l’espressione di un messaggio
tra due esseri dotati di parola, ma fonda l’essere stesso delle cose di cui esso parla: la parola è già in sé cosa
di per se stessa (Heidegger, 1959b, p. 151). Colto in tale prospettiva, come qualcosa di più di un semplice
strumento in dotazione agli esseri umani per condividere esperienze, il linguaggio (Λογος) si rivela essere
legato all’atto del posare (λέγειν), al puro stare-dinnanzi delle cose (Heidegger, 1954b, p. 145-146). Il
linguaggio è legato alla presentazione delle cose in un «posare-raccogliente», e, per questo motivo, può
esser colto in tale valenza ontologica da un preciso tipo di ascolto: ascoltare il silenzio del linguaggio
significa andare ben oltre il semplice battere meccanico del suono sul timpano. Il linguaggio, in quanto,
richiede cioè un ascolto che si differenzia dall’udire (“sordo”) del vivere quotidiano. Si vede bene come sia
nella prospettiva filosofica heideggeriana che in quella psicoanalitica lacaniana il linguaggio vada ben oltre
la pura e semplice comunicazione tra individui [4], quali soggetti che si scambiano, in piena coscienza e
consapevolezza, messaggi e significati, quasi come si trattasse di merci [5]. L’uomo è piuttosto parlato dal
linguaggio e, anzi, è traumatizzato fin nel corpo dal significante. Un rapporto che in psicoanalisi è spesso
sintetizzato con il gioco di parole motérialité (Lecoeur, 2016, p. 33), quale sintesi di parola e materia, per
indicare l’effetto materiale che hanno le parole sul soggetto, sul suo corpo (la parola è già cosa).
Quanto l’uomo sia segnato dal linguaggio si nota sin dalle prime fasi dello sviluppo infantile. Sin dalla nascita
l’uomo è gettato in uno stato di incompletezza biologica e carenza istintuale che lo rendono estremamente
dipendente dal proprio ambiente, ciò obbliga l’infans a costruirsi degli strumenti per esprimere le proprie
necessità e a indirizzarle all’Altro da cui dipende in maniera totale (Romano, 1989, p. 178). In tale stato di
dipendenza già il vagito, il pianto, il grido diventano delle forme primordiali di comunicazione, fino a che la
parola non si istaura come rappresentazione di qualcosa che manca (simbolo), come domanda rivolta
all’altro rispetto ad un proprio appetire che tuttavia già nell’essere comunicato è mancato. La domanda così
mediata dalla parola si sazia non dell’oggetto che essa potrebbe ottenere come risposta ma del gesto stesso
di risposta da parte dell’Altro (cioè del significante). Così il linguaggio fin dal principio possiede l’uomo nei
suoi bisogni, dai quali questi risulta sempre essere decentrato: le sue domande non chiedono soddisfazione
specifica in un oggetto ma veicolano un desiderio, il quale a sua volta si soddisfa della propria
insoddisfazione, di quel vuoto che corrisponde al desiderio stesso che è il desiderio dell’Altro. La dipendenza
fondamentale che chiede accudimento diviene così, nella mediazione simbolica del linguaggio, domanda di
riconoscimento (Romano, 2002, p. 34). In questo senso il linguaggio è per l’uomo ben più che
comunicazione, esso è la cifra stessa del proprio desiderare, cioè (nel riconoscimento) del proprio esser
soggetto e, quindi, del proprio stare al mondo.
A partire da tale strutturazione del rapporto tra soggetto e linguaggio si rileva come quest’ultimo funga da
operatore delle relazioni interpersonali garantendo una funzione di terzietà, di mediazione e garanzia
simbolica della relazione. L’effetto di riconoscimento e regolazione delle relazioni sociali assume consistenza
specifica nell’istituzione della Legge, quale organizzazione della soggettività in rapporto alla struttura
sociale. Un luogo simbolico in cui il soggetto trova un proprio orientamento nel vivere sociale, organizzando
il proprio agire e desiderare entro l’orizzonte del Terzo (l’Altro della Legge e del linguaggio).

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