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Diritto e morale in FICHTE

Diritto e morale si distinguevano per Kant come l’esterno e l’interno, l’azione e l’intenzione, la
legge coattiva e l’obbligazione della coscienza. Questa distinzione resta sostanzialmente
immutata per Fichte, il quale, però, invece di farne due aspetti della stessa cosa, ne ha fatto
due momenti dialetticamente successivi del medesimo processo.

La sfera del diritto è la sfera delle azioni, considerate come estrinsecazioni della soggettività.

Due aspetti del problema sono qui da considerare:

1. Aspetto soggettivo: personalità individuale (a tale proposito Fichte parla di “diritto


originario”, che appartiene a ogni uomo come tale)
2. Aspetto oggettivo: l’estrinsecazione della persona in rapporto ai propri simili e alle cose del
mondo materiale.

A questo secondo aspetto sociale del diritto Fichte dà un fortissimo rilievo. Già Kant aveva
negato il significato del diritto di proprietà come diritto reale (ius in re) e ne aveva fatto un
diritto della persona in confronto ad altre persone. Fichte eleva a principio generale il suddetto
caso particolare formulato da Kant e afferma che “non ha senso parlare di un diritto sulla
natura, sulla terra, sugli animali come tali”. La ragione umana ha su queste cose solo potenza,
non diritti … Solo in quanto altri pretendono insieme a me una cosa, sorge un diritto su di
essa”.

Ma la coesistenza degli uomini che il diritto contempla è, per Fichte come per Kant, sempre
quella esterna e questa esteriorità del diritto implica la coattività delle sanzioni giuridiche,
quindi l’esistenza di uno stato che le somministri. Il diritto di imporre le sanzioni giuridiche è
dunque condizione e non conseguenza dell’ordinamento politico; lo Stato sorge come soluzione
del problema di “realizzare una forza mediante la quale tra persone che vivono insieme può
essere imposto un diritto”. Il mezzo per risolverlo è ancora, per Fichte, il contratto sociale,
concepito alla maniera di Rousseau, con qualche clausola più radicale suggerita dalle più
recenti esperienze della rivoluzione francese. Fichte introduce infatti il principio che ognuno
debba poter vivere del proprio lavoro.

Dal diritto alla morale vi è per Fichte progresso dialettico. Il diritto concerne le azioni nella loro
esteriorità, in quanto esse fanno presa sulle cose del mondo sensibile. Ciò, però, non vuol dire
che il diritto coincida con la bruta e immediata natura; esso è una disciplina della natura,
quindi un che di mezzo tra natura e spirito. ma l’infinita attività dell’Io non può appagarsi di
nessuna manifestazione finita: la molteplicità dei soggetti esige l’unità, gli impulsi materiali e
sensibili esigono impulsi universali e formali, la natura esige lo spirito.

La sfera della moralità abbraccia appunto questi elementi superiori che emergono dal
movimento dialettico dell’Io. Con tale veduta, Fichte tende a superare il dualismo kantiano tra
la sensibilità e la ragione pratica, mostrando che la vita etica non consiste nella compressione
dell’una a favore dell’altra, ma in una liberazione dell’una per mezzo dell’altra, cioè in un
processo di elevazione, attraverso il quale gli impulsi naturali si purificano.

Un’altra conseguenza della concezione fichtiana è che, non potendo questa natura in noi essere
eliminata, ma esercitando essa una continua resistenza alle forze più alte della moralità, il fine
di quest’ultima non è mai realizzato, ma sempre in via di realizzarsi. Il concetto del dovere
esprime appunto tale esigenza infinita, che non ha una meta fissa innanzi a sé, ma una meta
mobile, la quale si sposta a misura che noi ci sforziamo di avvicinarvisi. Essa è l’ideale morale,
incommensurabile, nella sua infinità, con ogni realizzazione finita e adeguato solo all’impulso
infinito dell’Io puro che lo suscita.

Lo stesso si può dire della libertà che, se nella sua essenza coincide con l’Io puro, nella sua
pratica esplicazione è invece un divenire continuo, un superamento della schiavitù dagli impulsi
naturali. la sua formula è “debbo agire liberamente per diventare libero”. L’autonomia del
volere non è mai un possesso, ma un’esigenza e una meta.

La funzione della natura in questo processo di liberazione spirituale è più complessa che nelal
concezione kantiana. Per Kant, la natura è un ostacolo da superare; per Fichte è da una parte
mera resistenza e inerzia (mediante una lunga abitudine si riproduce all’infinito e diviene infine
tale impotenza al bene che coincide col male radicale), dall’altra è, quella stessa resistenza,
condizione positiva dell’esplicazione della vita morale: è per essa, infatti, che nasce l’esigenza
di una forza che la superi, la conservi nel medesimo tempo trasfigurata ed epurata.

In conformità con queste premesse, la dottrina fichtiana dei doveri comprende non soltanto
doveri formali, ma anche doveri per così dire materiali. Il primo e precipuo dovere formale è
“agisci secondo la tua coscienza”, dove la parola coscienza non esprime una mera
consapevolezza teorica, ma un convincimento profondo e infallibile. Doveri materiali sono
invece quelli che concernono la funzione del limitare e del promuovere (in una parola
dell’educare) gli elementi della natura sensibile, per volgerli al servizio della moralità.

Se dalla moralità volgiamo lo sguardo alla tappa oltrepassata del diritto, vediamo trasformarsi i
suoi rapporti coattivi in più elevati e liberi vincoli di coscienza. L’obbligo giuridico ed esteriore
di rispettare la libertà degli altri diviene un obbligo interiore. La mia autonomia è condizionata
da quella altrui, perciò io sono, dalla essenza stessa della libertà, tenuto a limitarmi nelle mia
azioni libere, in modo da lasciare a ogni altro uomo la possibilità di agire egli stesso
liberamente. E lo stato, organo della coazione giuridica, si trasforma a sua volta, nella
coscienza morale, in un mezzo per promuovere la solidarietà etica degli uomini tra di loro. Alla
comprensione di questi compiti è dedicata l’opera “La missione del dotto”.

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