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IN CAMMINO VERSO LA

CITTADINANZA RESPONSABILE
Educare alla globalità, educare al futuro
La cittadinanza responsabile
Il termine cittadinanza esprime un vincolo, che è anche un diritto, di appartenenza a una città o a
uno stato da parte di un individuo, nativo o naturalizzato, detto cittadino. In ambito giuridico, il
termine indica l’insieme dei diritti e dei doveri di chi appartiene a un determinato stato o a una
determinata comunità. La cittadinanza può essere vista come uno status del cittadino, ma anche
come un rapporto giuridico tra cittadino e stato. Il concetto di cittadinanza si ricollega alla titolarità
di determinati diritti, detti appunto diritti di cittadinanza, enunciati nelle costituzioni e nelle
dichiarazioni dei diritti e che si distinguono in diritti civili, diritti politici e diritti sociali. Ai cittadini in
quanto membri della comunità politica spettano in genere alcuni diritti che prendono il nome di
diritti politici: ad esempio il diritto di voto, di essere eletti alle cariche pubbliche, di associarsi in un
partito politico, di accedere ai pubblici uffici. In Italia questi diritti sono solennemente enunciati
dalla Costituzione, che riconosce fra l’altro al cittadino italiano il diritto al lavoro, alla libera
circolazione, alla riunione e all’associazione. A tutte le persone in quanto esseri umani e
indipendentemente dal possesso della cittadinanza spettano invece alcuni diritti che prendono
tradizionalmente il nome di diritti della persona: ad esempio il diritto alla manifestazione del
pensiero e il diritto alla libertà religiosa.

La Cittadinanza Responsabile si realizza quando ogni attore sociale (individui, istituzioni, imprese) decide
di assumersi maggiori responsabilità per adottare , nel proprio ambito di competenza, logiche, criteri e
comportamenti consapevoli delle innovazioni e del cambiamento che da essi ne derivano, impegnandosi
inoltre a verificare ed eventualmente modificare le proprie certezze e norme comportamentali, al fine di
migliorare il benessere pubblico e del prossimo e sempre rispettosi dei diritti e dei doveri reciproci.
Il concetto di Cittadinanza Responsabile comprende diritti e doveri, obblighi condivisi di rispetto
reciproco e di solidarietà che si devono manifestare all’interno del corpo sociale, in modo che esso sia
tale, fornendo nuove basi e regole per la convivenza civile e per uno sviluppo sostenibile.
La cittadinanza digitale

In una società come la nostra, in cui la dimensione digitale sta prendendo sempre più piede
diviene man mano sempre maggiormente preponderante il concetto di cittadinanza digitale.
Internet, tramite la sua diffusione seppur non omogenea in tutto il mondo, ha infatti
rivoluzionato il modo di informarsi e comunicare. Si è venuta infatti a creare una vera e
propria comunità parallela nel mondo digitale, una “società digitale” composta da “cittadini
digitali” con dinamiche sociali proprie. Proprio per tale motivo è fondamentale delineare in
maniera chiara: Diritti, doveri, libertà e regole da rispettare al fine di una convivenza pacifica.
Tale codice comportamentale, venutosi a formare nel corso del tempo anche su iniziativa
istituzionale, suggerisce un uso responsabile e consapevole delle tecnologie del web, che
consenta anche di navigare insicurezza (evitando rischi che possono danneggiare la nostra
privacy o le nostre proprietà), ma anche il mantenimento di un atteggiamento civile nei
confronti altrui. Nonostante il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero tramite
qualsiasi mezzo (internet incluso) sia garantito oltre che dalla Costituzione italiana anche dalla
Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani, bisogna tenere sempre a mente l’insieme di regole
da rispettare in rete che tiene conto sia del “luogo digitale” in cui ci troviamo che del nostro
interlocutore, facendo sì che tutti abbiano la possibilità di intraprendere conversazioni od
esposizioni pacifiche e misurate. Proprio a tale fine è essenziale l’utilizzo di quello che
possiamo definire come “Etichetta digitale”. Essa esiste anche al fine di evitare il proliferare di
comunicazione violenta o falsa sul web, ad esempio “Hate speech” o “Fake news”,
rispettivamente espressioni di odio diffuse attraverso la rete e diffusione di notizie false,
proprio tale fenomeno ha assunto particolare rilevanza negli ultimi anni con l’obiettivo di
influenzare l’opinione pubblica e che deve essere arginato mediante un controllo comune e
sistematico dell’affidabilità delle fonti, il cosiddetto “fact-checking”. Nonostante vi siano
innumerevoli altri rischi come la dipendenza dai social e la questione dei “big
data”, dall’altro vi sono anche opportunità come la libera circolazione di idee positive e la
possibilità di disporre una conoscenza praticamente infinita, aperta a tutti e relativamente
gratuita. Per fare un uso versatile della rete e di renderla un posto maggiormente accessibile
ed inclusivo per tutti, bisogna avere quindi una conoscenza ampia delle “regole” del web. La
conoscenza di tali “regole” del web è quindi fondamentale al fine di rendere l’ambiente
digitale e la rete dei luoghi il più inclusivi e versatili per ogni individuo.
What is hater ?

"Hater" is a label used to refer to people


who use negative and critical comments
and behavior to bring another person
down by making them look or feel bad.
These hurtful and negative comments can
be delivered in person, online, or in texts
and apps. Often, the comments and
behavior are repeated over time. Haters
are often anonymous (especially online)
but they can also be acquaintances, peers,
or people who were once considered
friends. Hateful, critical behavior is
another form of bullying or cyberbullying.
Like bullying, hater behavior is something
that a person does – it is not who they are,
and it can be changed.
Often, haters pick on people whom they
perceive as being different from
themselves. Being the focus of negative
and critical comments can be upsetting
and trigger feelings of anger, hurt, and
confusion, and cause the person being
criticized to question their self-worth and
behavior. If the negative comments are
posted online, it can also make someone
afraid to use their social media accounts
or feel ashamed of what is happening
there.

Dealing with haters isn’t that different from dealing with bullying and cyberbullying. Teens who feel
overwhelmed by all the drama on social media will often unfriend or unfollow people online to disengage.
How to Deal with Haters Ignore it. Walk away. Don’t react or respond to negative comments. If it continues,
there are other things you can do. If someone threatens you, report it to a parent, teacher, or other trusted
adult! Block online haters. If someone is making negative or hateful comments on your posts or account, or is
cyberbullying, block them. If they’re threatening you, tell your parents, report it to the platform, and take
screenshots. Be kind and respectful, even to haters. It shows that you’re in control of your emotions and that
you aren’t letting negativity bring you down. Stick with supporters. Having a friend nearby if you think you
might encounter a hater not only makes it less likely that an incident might happen, but also means you’ll
have positive reinforcements just in case. Remind yourself that comments from a hater are a reflection of
them and aren’t really about you. People who feel good about themselves don’t need to put others down.
Understand criticism can be a sign of pain. People sometimes lash out because they have other life struggles.
Negative comments may have nothing to do with you. Acknowledge your feelings. Talk to a trusted adult or
friend and get some encouragement and support. Keep being you. Keep moving forward, pursuing your
interests, and being who you are.
Una minaccia latente
Purtroppo nella società non tutti seguono tali principi, che dovrebbero appunto essere alla base
del vivere civile. Si vengono quindi a creare fenomeni di criminalità che possono andare dalla
semplice delinquenza, fino addirittura alla vera e propria criminalità organizzata. Proprio
quest'ultima rappresenta uno dei principali problemi del nostro paese, un problema per molto
tempo sottovalutato ed ignorato. Dopo anni si è ormai capito che il fenomeno mafioso, oltre che
nelle aule di tribunale, va combattuto anche sul piano culturale e sociale. In territori come il nostro
(Calabria), dove tale problematica era considerata fino a poco tempo fa secondaria se non una
vera e proprio invenzione, ha avuto la possibilità di estendersi arrivando a toccare gli ambiti più
disparati della società procurando seri danni a quest’ultima oltre che ai territori oggetto della sua
diffusione. Le mafie nel corso degli anni grazie a ciò hanno accresciuto sempre di più il
proprio potere, potendo fare affidamento in particolare sul fenomeno dell’omertà. Essa ha
permesso l’affermarsi di quelle che potremmo definire “mentalità mafiose” nel senso
proprio del termine, che persistono anche nelle generazioni più giovane e che si esprimono
in atti quali ad esempio: Intimidazioni, pressioni a fini politici o economici (usura), per non
parlare del più comune spaccio e così via.

Le mafie proprio per la loro elevata nocività in ambito sociale vanno combattute tramite una vera e
propria “educazione alla legalità” che riguardi in particolare le generazioni più giovani ma anche
quelle più anziane, educandole al rispetto delle norme etiche fondamentali. Di primaria
importanza è il non partecipare a qualsiasi attività possa
finanziare le attività criminali e soprattutto sostenere quelle iniziative comuni che cercano di
arginare i comportamenti illegali, limitandone il processo di omologazione e proliferazione in aree
fragili del paese, e proponendo modelli alternativi.
Le origini poco chiare di tale fenomeno

Tutt'oggi non è facile identificare delle coordinate spazio-temporali per lo sviluppo di tale
fenomeno, tuttavia un importante punto di partenza da cui iniziare tale indagine sono le
condizioni economico-sociali del meridione italiano, sia prima che dopo l'unificazione, oltre che
nel fenomeno del brigantaggio. Per interpretare correttamente la situazione economica e sociale,
bisogna considerare che il Regno delle due Sicilie non era una realtà uniforme al proprio interno,
e che anzi le differenze regionali erano più marcate di quelle dell'Italia moderna. In generale, la
ricchezza aumentava dall'entroterra alle coste, e dalle campagne alla città. Napoli, era in assoluto
tra le prime città d'Europa per popolazione. La sua provincia (forte anche delle rendite del
governo e della corte) poteva competere con le province più sviluppate del nordovest mentre
esistevano aree estremamente povere, come l'entroterra calabrese, siciliano e lucano. Secondo
Giustino Fortunato tale stato di profonda differenza tra la città di Napoli e le province povere del
regno avrebbe influito sulle vicende risorgimentali nel sud. In seguito all'unificazione nel
Mezzogiorno, più gravi di quelli del liberismo furono i danni prodotti dall’insicurezza dei traffici
interni determinata dal brigantaggio, oltre alla diminuzione nella richiesta di beni e servizi per il
fatto che Napoli non era più capitale e che le commesse pubbliche e le concessioni statali erano
aperte al mercato nazionale e non più limitate al solo Meridione. L’antico sogno dei contadini
meridionali era la riforma agraria, cioè la distribuzione delle terre a coloro che ne erano privi.
Dopo la spedizione dei Mille il nuovo stato italiano aveva messo in vendita alcune terre demaniali
(di proprietà dello stato) e altre che erano state tolte alla Chiesa. Nella maggior parte dei casi le
terre erano finite in mano ai ricchi e ai latifondisti, i cosiddetti “galantuomini”, gli unici che
avessero il denaro per acquistarle e per farle coltivare. Così la vendita dei terreni rinforzò i vecchi
proprietari terrieri. Per giunta, poiché le terre dello stato erano state vendute ai privati, i contadini
persero il diritto di andarvi a far legna e di portarvi le bestie al pascolo. L’irritazione delle
popolazioni meridionali fu inasprita dall’ aggravarsi delle tasse (fra cui la tassa sul macinato che
Garibaldi aveva abolito nel 1860) e soprattutto dall’imposizione del servizio di leva obbligatorio,
che in Sicilia era una novità. L’allontanamento dei figli nel pieno vigore delle forze portava alle
famiglie contadine un danno così grave che molti genitori preferivano far registrare i figli maschi
come femmine per sottrarli al servizio di leva. Proprio per questo fra il 1861 ed il 1865 la
disperazione dei contadini meridionali esplose nella violenza del Brigantaggio.
In Italia il Brigantaggio ebbe maggior sviluppo nelle province del Mezzogiorno. Nel 1861 numerose
bande occuparono la Calabria e la Basilicata. Diventavano briganti i comuni criminali ma anche molti
giovani che non trovavano lavoro, quelli che volevano evitare il servizio militare e i poveracci che non
avevano soldi per le tasse. Dopo l’unità si fecero briganti anche molti soldati borbonici rimasti fedeli
all’ex-re Francesco II (Franceschiello). Organizzati in bande, i briganti scendevano da inaccessibili rifugi
montani e rubavano, saccheggiavano, ammazzavano, seminando il terrore. C’erano con loro anche delle
donne che a volte prendevano parte ai combattimenti. A capo delle bande c’erano molti ex ergastolani,
ma anche ufficiali dell’ex regno borbonico. I contadini, i preti e a volte anche le autorità locali, spesso li
proteggevano, perché ai loro occhi il brigante era un alleato contro la prepotenza dei “signori” e dei
“Piemontesi”, un vendicatore dei torti subiti, addirittura un eroe.
Di Fronte a una rivolta così estesa alcuni politici proposero di abbandonare il meridione al proprio
destino, ma altri si rifiutarono di farlo. In parte per una sorta di volontà civilizzatrice del sud, ma
soprattutto per non vanificare l’eroica impresa dei mille di Garibaldi.
Il Regno d’Italia, che si era costituito da poco, non poteva tollerare la ribellione, ma non fece
nemmeno il tentativo di eliminarne le cause sociali (la miseria, la fame, il bisogno di terra) e si
limitò ad inviare contro i briganti l’esercito italiano e i carabinieri, sostenendo una lotta sanguinosa
e lunghissima. Il governo proclamò quindi lo stato d’assedio.
I soldati Savoia bruciarono
interi paesi e uccisero
uomini, donne e bambini,
fucilandoli in massa. Alla fine
i morti che si contarono da
entrambe le parti
superarono il numero dei
caduti di tutto il periodo del
Risorgimento. Alcune stime
valutano in 20.000 il numero
dei briganti uccisi, ai quali
devono essere aggiunti i
preti e i vescovi esiliati e un
gran numero di arresti di
coloro che erano considerati
complici (manutèngoli).

Il Brigantaggio fu stroncato, ma a prezzo di una lotta fratricida che durò cinque anni e che ancor
oggi è ricordata, per la sua ferocia, nelle leggende contadine. La repressione dello stato comunque
non risolse la “Questione meridionale”. Negli stessi anni in cui l’esercito soffocava il Brigantaggio,
in Sicilia si rafforzava un’organizzazione criminale denominata Mafia, che si rivelò presto
difficilissima da combattere. Brigantaggio e Mafia non possono essere però mescolati e confusi,
anche se fra i due fenomeni ci sono diversi punti di contiguità. Il brigantaggio fu dettato dalla
fame, dalla necessità di sottrarsi all’obbligo di leva istituito dal governo Sabaudo e può essere,
almeno in parte, addebitato ai “piemontesi”, la stessa cosa non si può affermare per la Mafia.
Tuttavia la Mafia fece un “salto di qualità” quando i piemontesi, impotenti a governare
direttamente il territorio siciliano e incapaci di comprenderne i problemi, ritennero più semplice
mettere a capo dei municipi personaggi ai quali era demandata per intero l’amministrazione,
favorendo così il dilagare della corruzione, degli intrallazzi e della guerra tra bande criminali.
Oltre alla mafia esistevano altre organizzazioni di tipo mafioso: nel napoletano c’era la “Camorra” e
in Calabria la “ ‘Ndrangheta”. Più tardi, in tempi molto più vicini ai nostri, sorse in Puglia la “Sacra
corona unita”.
Criminalità organizzata ed arte, che rapporto vi è tra le due?
E' ben noto come ormai dopo armi e droga il traffico illecito di opere d’arte è stimato come il terzo
mercato criminale più lucroso, con profitti globali stimati intorno agli 8 miliardi di euro. Una catena
criminale che va dal furto, alla falsificazione, fino all’opera dei cosiddetti “tombaroli”, cioè coloro che
effettuano abusivamente scavi archeologici. Lo stesso ex procuratore nazionale Antimafia Pietro
Grasso non ha esitato nel dire che il «traffico di opere d’arte è tra i principali guadagni delle mafie».
Alcune indagini rivelano addirittura che per singoli traffici di opere d’arte si organizzino gruppi criminali,
che una volta terminate le operazioni di falsificazione, furti e reimmissione sul mercato, si dissolvano
immediatamente. L’Italia è considerata il maggior fornitore a livello mondiale per il traffico illecito di
opere d’arte, data non solo la rilevanza del patrimonio nazionale, ma anche e soprattutto la
qualificazione, da parte dell’Unesco, di molti tra i suddetti beni come patrimonio mondiale dell’umanità.
Secondo una stima effettuata dalla Commissione Parlamentare Antimafia, il valore economico dei beni
trafugati mediante scavi clandestini e furti, nel quadriennio 2014-2017, giungerebbe a superare i
duecentosettanta milioni di euro. Rispetto al passato oggi le associazioni criminali in tutto ciò sono
favorite anche dal mondo digitale ed internet. Partendo da quest'ultimo sono stati effettuati sequestri
da parte del reparto tutela patrimonio culturale dei Carabinieri per circa 65mila opere nel biennio
2011-2012 quello del web tuttavia riguarda un mercato più «di massa».

I vantaggi di un tale business sono subito intuibili, si tratta infatti di un settore redditizio e adatto per
riciclare milioni di denaro sporco, con opere d’arte che escono e rientrano dall’Italia dopo essere state
all’estero, mentre, come spiegano gli investigatori «diventano conti correnti, moneta di scambio nei
paradisi fiscali, società, attività imprenditoriali e beni». Occultare capitale, trasformarlo e riciclarlo,
diventa perfino semplice, soprattutto se ci si affida a esperti del settore, veri e propri “broker” che da
anni conoscono bene il “giro” del mercato dell’arte riuscendo a ottenere i guadagni più alti. Tuttavia
non bisogna pensare che vi siano solo "Loschi figuri" in tali giri, proprio a dicembre 2012 gli agenti del
reparto TPC di Roma a un’insospettabile ci sono arrivati: ai domiciliari è finito Christian Gregori Parisot,
presidente degli Archivi Modigliani e perfino collaboratore di Jeanne Modigliani, figlia del Maestro. Tale
fenomeno nel corso degli anni è venuto solamente ad aumentare, segno anche questo di come la
associazioni criminali siano in continuo mutamento.

Di seguito alcuni grafici e tabelle per far meglio comprendere l'entità di tale fenomeno:
Quanto affermato in precedenza era stato ben intuito dal boss della Mala del Brenta, Felice Maniero,
egli amava vivere nel lusso e non disdegnava affatto le opere d’arte, specie quelle di grande valore.
Per effetto di una rogatoria internazionale il pubblico ministero Francesco Saverio è riuscito a
recuperare recentemente nel caveau di una banca di Lugano cinque preziosi dipinti che farebbero
parte dell’immenso tesoro accumulato nel corso degli anni da “faccia d’angelo”. Si tratta di un Renoir,
un de Chirico, un Semitecolo e altre due opere di autori francesi del ‘700. Vi è poil'ex boss della
Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi cui sono stati confiscati oggetti d'antiquariato e opere d'arte
moderna per circa un milione di euro:. Nell'appartamento romano in cui viveva con la famiglia in
piazza Fontana di Trevi, i finanzieri del GICO e i carabinieri del ROS hanno rinvenuto quadri, mobili,
sculture e oggetti. Questi sono i cosiddetti crimini dal colletto bianco. Ovvero commessi da soggetti
di alto status socioeconomico i quali, riescono efficacemente a prevenire la criminalizzazione dei loro
comportamenti, a preservare pratiche opache e a deflettere l’attenzione dell’opinione pubblica e del
sistema di giustizia penale. Prendiamo come esempio il già citato Maniero il quale, in quanto
collaboratore di giustizia, non scontò quasi alcuna pena.

Di seguito un frammento di video durante il sequestro delle opere d'arte all'ex-boss veneto in cui
viene inquadrata una delle opere in questione:

Un caso emblematico fu il furto, nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, della tela della
Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi del Caravaggio fu trafugata, grazie anche alla
mancanza di misure di sicurezza adeguate, dal luogo in cui si trovava, da circa tre secoli
ovvero l'oratorio di San Lorenzo a Palermo. Secondo le testimonianze, il furto sarebbe stato
commesso da alcuni uomini incappucciati che successivamente sono fuggiti con un furgone.
Da tale momento nonostante il grande numero di indagini avviate e di piste seguite del
capolavoro caravaggesco non vi è traccia. Si stima che il valore del dipinto ad oggi si aggiri
intorno ai 30 milioni di euro, tanto da valere l'ingresso nella "Top Ten Crimes" dell' FBI
americana. Le piste da seguire, nonostante fossero tutte legate alla criminalità organizzata
della zona di Palermo, erano però molte. Secondo una di queste l'opera, dopo essere stata
rivenduta varie volte, sarebbe finita poi per essere seppellita nelle campagne palermitane
assieme a droga e denaro illecito dal boss Gerlando Alberti.
Anche se tale pista rimane una delle meno
accreditate. Un'altra pista venne invece proposta
dal giornalista britannico Peter Watson, secondo
cui l'opera sarebbe stata sul punto di essergli
ceduta in provincia di Salerno nella notte del 23
novembre 1980, quando il tremendo terremoto
dell'Irpinia sembrerebbe però aver fatto saltare la
compravendita. Poi, il collaboratore di giustizia
Francesco Marino Mannoia dichiarò a Giovanni
Falcone di essere uno degli autori materiali del
furto e che, nello staccare la tela e nell'arrotolarla,
questa si sarebbe danneggiata irrimediabilmente. A
ciò sarebbe seguita quindi la distruzione dell'opera.
Il Nucleo tutela del patrimonio artistico dei
Carabinieri accertò però che il furto di cui parlava
Mannoia riguardava un altro quadro. Nel 1996
Giovanni Brusca riferì che il dipinto sarebbe invece
stato riconsegnato in cambio di un alleggerimento
dell'applicazione dell'articolo 41 bis. Lo Stato
italiano rifiutò l'offerta.

Un altro pentito, Salvatore Cancemi, dichiarò che la Natività sarebbe stata esposta durante alcune
riunioni della "Cupola" quale simbolo di potere e prestigio. Nuove informazioni sul destino del dipinto
sono arrivate il 9 dicembre 2009, quando durante una deposizione in tribunale il pentito di mafia
Gaspare Spatuzza riferisce che la Natività sarebbe stata affidata negli anni Ottanta alla famiglia Pullarà
(capimafia del mandamento di Santa Maria del Gesù). I Pullarà avrebbero nascosto l'opera in una
stalla fuori città, dove, senza protezione, fu rosicchiata da topi e maiali. I resti della tela sarebbero stati
poi bruciati. Nel 2017, il mafioso Gaetano Grado asserisce che la tela sarebbe stata nascosta, ma
all'estero: nel 1970 il boss Gaetano Badalamenti l'avrebbe trasferita in Svizzera in cambio di una
notevole somma di franchi ad un antiquario svizzero, giunto a Palermo per definire l'affare. Grado
riferisce anche che Badalamenti gli avrebbe detto che il quadro era stato scomposto per essere
venduto sul mercato clandestino. Probabilmente quindi il proposito del mercante era quello di
tagliare la tela lungo il profilo delle cuciture in modo da poterla poi ricostruire e trarre maggiori utili
grazie alla volontà di possedere l'opera per intero dei vari collezionisti. Proprio in Svizzera, sede come
abbiamo visto anche delle opere di Maniero, si stanno attualmente concentrando le indagini, L'ipotesi
che il dipinto di Caravaggio sia stato trasferito nei porti franchi svizzeri e che vi sia ora custodito è
altamente verosimile, grazie anche alla ben nota fama di tali depositi. Nonostante tutto questo tempo
del capolavoro Caravaggesco ancora non vi è traccia. Si tratta forse del dipinto più ricercato al mondo.
I danni dal furto si sono inestimabili, non solo per averci privato di un prezioso capolavoro, ma anche
per aver messo in evidenza le penurie di un contesto culturale dove anche ciò che dovrebbe essere un
bene comune come l'arte diviene oggetto di giochi di potere all'interno di intricate dinamiche criminali
ed economiche.
Lo stato Hegeliano come modello da cui ispirarsi

Il filosofo delinea il proprio concetto di stato all'interno dello scritto "La filosofia dello spirito", in
particolare all'interno dell'Eticità. Tale sezione sarà suddivisa in: Famiglia, Società Civile e Stato. La
famiglia è la prima istituzione in cui l’egoismo individuale viene messo a tacere, per questo motivo
il filosofo ne ebbe un’alta considerazione: egli non la ritenne un semplice contratto, bensì una
comunità spirituale basata su amore e consenso, poiché all’interno della stessa due individui
scelgono liberamente di unirsi in matrimonio per educare la prole e gestire il patrimonio.
Conseguentemente agiscono per il bene di questo nucleo, mettendo da parte i propri interessi.
Una volta cresciuti, i figli abbandoneranno la famiglia d’origine per costituirne una propria.
L’insieme delle famiglie comporta la nascita della società civile, dal filosofo anche chiamata
«società dei bisogni»: proprio per soddisfare questi ultimi viene determinata la suddivisione in
classi, a ciascuna delle quali è affidato un determinato lavoro. Le classi o corporazioni
professionali sono quella sostanziale, formata dagli agricoltori, quella formale, costituita da
artigiani, commercianti ed industriali, ed infine quella generale, composta da funzionari che si
occupano dell’amministrazione dello Stato e della trasgressione delle leggi. Si può intendere
quindi come il potere giudiziario sia competenza della società civile. All’interno della società civile
si scontrano tuttavia i vari egoismi che tornano nuovamente ad emergere, poiché ciascuno vuole
realizzare i propri interessi: ecco perché Hegel introdusse una terza istituzione in grado di trovare
sintesi e conciliare famiglia e società civile, ovvero lo Stato. Quest’ultimo infatti supera la
conflittualità presente nei rapporti fra gli uomini della società civile, per creare l’unità, differente
tuttavia da quella familiare poiché basata sulla razionalità (e non sull’amore), che affonda le
proprie radici in un «comune sentire», anche denominato ethos. Il filosofo di Stoccarda si pose, in
tale ambito, in contrasto con il pensiero liberale, i cui principali esponenti sostennero l’esistenza di
una condizione prestatuale o «stato di natura» da cui l’uomo sarebbe uscito attraverso la stipula
di un patto o contratto che a sua volta avrebbe dato origine allo Stato, il cui compito sarebbe la
tutela dei diritti degli uomini. Hegel infatti criticò il contrattualismo affermando che non è l’uomo a
creare lo Stato, bensì che quest’ultimo sia anteriore agli individui contribuendone peraltro alla
formazione e dando conseguentemente senso all’identità del singolo individuo ed anche a quella
comunitaria. L’insieme di valori che costituisce quel «comune sentire» alla base dello Stato si
trasmette alle varie generazioni, tuttavia bisogna comunque tener conto che spesso i popoli
hanno identità diverse che generano tensione e conflittualità.
Per quanto concerne il rapporto fra gli Stati, il
filosofo ritenne che gli scontri tra gli stessi non
possano risolversi in maniera pacifica attraverso il
diritto internazionale (critica al cosmopolitismo), ma
considerò unico strumento utile alla risoluzione
delle tensioni la guerra, in quanto in grado di
permettere allo stato migliore di emergere. Nella
riflessione hegeliana lo Stato migliore è la Prussia,
denotando un accenno nazionalista, inoltre è anche
ravvisabile una prospettiva storicista, vicina al
Romanticismo: secondo il filosofo infatti, come già
detto, lo Stato non nasce da un contratto, bensì ò. Il
fatto poi che l’individuo sia subordinato allo Stato si
predispone a due possibili interpretazioni: da un
lato una organicistica, secondo cui ogni singolo
individuo ha importanza solo in funzione dello
Stato, dall’altra una totalitaria, non realizzata dal
filosofo e derivante dall’adesione dell’individuo allo
Stato stesso. Se nella dottrina liberale si
costituirono quindi i presupposti di uno «Stato
minimo», a cui spettava di occuparsi unicamente di
quelle mansioni non realizzabili dal singolo, in
quella di Hegel invece si verifica esattamente il
contrario: allo Stato spettano quasi tutte le funzioni
volte a tutelare la famiglia e la società civile. Questa
fusione tra l’individuo e lo Stato sarebbe avvenuta,
secondo il filosofo, nella polis greca dove non
esisteva alcuna separazione fra la sfera pubblica e
la sfera privata. Sarebbe però scorretto identificare
il pensiero del filosofo di Stoccarda con il
totalitarismo, in quanto in Hegel si parla di «Stato
etico», ovvero di una forma di governo rispettosa
delle leggi e che non si comporta in maniera
arbitraria. È necessario aggiungere che, come
forma di governo migliore, Hegel individuò la
monarchia costituzionale all’interno della quale
distinse il potere legislativo, da quello esecutivo e
«sovrano», quest’ultimo col compito di coordinare i
vari poteri. Il simbolo dell’unità dello Stato diventa
quindi il sovrano stesso
L'agenda 2030 ed il goal 13

L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un


programma d’azione per le persone, il pianeta e
la prosperità, sottoscritto nel settembre 2015
dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Essa
ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile
in un grande programma d’azione per un totale
di 169 traguardi.
• Lo sviluppo sostenibile è definito come uno
sviluppo che soddisfa i bisogni del presente
senza compromettere la capacità delle
future generazioni di soddisfare i propri
bisogni.
Per raggiungere uno sviluppo sostenibile è
importante armonizzare i tre elementi
fondamentali: la crescita economica,
l’inclusione sociale e la tutela dell’ambiente.
• L’Agenda 2030 con i 17 Obiettivi di Sviluppo
Sostenibile (SDGs), esprime un chiaro
giudizio sull’insostenibilità dell’attuale
modello di sviluppo, non solo sul piano
ambientale, ma anche su quello economico
e sociale. In questo modo viene
definitivamente superata l’idea che la
sostenibilità sia unicamente una questione
ambientale e si afferma una visione
integrata delle diverse dimensioni dello
sviluppo.
Goal 13
"I cambiamenti climatici"

Il cambiamento climatico rappresenta una sfida


centrale per lo sviluppo sostenibile. I mutamenti del
sistema climatico globale dovuti al riscaldamento
dell’atmosfera terrestre compromettono le basi
esistenziali di ampie parti della popolazione nelle
regioni meno sviluppate, mentre nelle zone sviluppate
sono soprattutto l’infrastruttura e singoli rami
dell’economia a essere esposti a tali rischi.
L’obiettivo 13 invita gli Stati a integrare misure di
protezione dell’ambiente nelle proprie politiche
nazionali e di sostenersi reciprocamente di fronte alle
sfide. Riconosce la Convenzione quadro delle Nazioni
Unite sui cambiamenti climatici come principale forum
intergovernativo per le negoziazioni volte a individuare
una risposta globale ai cambiamenti climatici.

A integrazione di tali negoziati, l’obiettivo prevede un rafforzamento della resilienza alle catastrofi
naturali provocate dai mutamenti climatici e ribadisce la promessa dei Paesi più sviluppati di
raccogliere congiuntamente, entro il 2020, 100 miliardi di dollari all’anno provenienti da varie
fonti per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai mutamenti climatici

Gli obiettivi del Goal 13 sono i seguenti:


•13.1: Rafforzare in tutti i paesi la capacità di ripresa e di adattamento ai rischi legati al clima e ai
disastri naturali;

•13.2: Integrare le misure di cambiamento climatico nelle politiche, strategie e pianificazione


nazionali;

•13.3: Migliorare l’istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale per quanto


riguarda la mitigazione del cambiamento climatico, l’adattamento, la riduzione dell’impatto e
l’allerta tempestiva;

•13.a: Rendere effettivo l’impegno assunto dai partiti dei paesi sviluppati verso la Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, che prevede la mobilizzazione – entro il
2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, provenienti da tutti i paesi aderenti all’impegno preso, da
indirizzare ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, in un contesto di azioni di mitigazione
significative e di trasparenza nell’implementazione, e rendere pienamente operativo il prima
possibile il Fondo Verde per il Clima attraverso la sua capitalizzazione;

•13.b: Promuovere meccanismi per aumentare la capacità effettiva di pianificazione e gestione di


interventi inerenti al cambiamento climatico nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari in
via di sviluppo, con particolare attenzione a donne e giovani e alle comunità locali e marginali.
Il cambiamento climatico è divenuto, come abbiamo potuto osservare nelle precedenti
diapositive, una delle principali tematiche che l’umanità si trova ad affrontare. Toccherà in
primis agli stati più avanzati affrontare quest’ultima, tuttavia per riuscire in tale impresa sarà
necessaria la collaborazione di tutti da quelli più avanzati a quelli in via di sviluppo, responsabili
oggi di buona parte delle immissioni di CO2. Vi è quindi bisogno di uno sforzo totalizzante che
non tenga conto per una volta di fattori quali il colore politico o il mero guadagno, anche perché
se la situazione dovesse peggiorare questi ultimi assumerebbero ben poca rilevanza in uno
scenario simile. In particolare i paesi in via di sviluppo hanno il dovere di innestare le proprie
economie, ancora in uno stato embrionale, su un percorso di sviluppo a zero emissioni.
Similmente deve essere fatto dagli stati più avanzati, al fine di poter giungere il più presto
possibile ad un’economia globale «net-zero» ovvero zero emissioni.
E’ questa la sfida che la nostra generazione ha il dovere di affrontare e l’obbligo di vincere.

Di seguito la dichiarazione delle Nazioni Unite alla nascita dell'agenda 2030:

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