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Byung-Chul Han, ​Nello sciame.

Visioni del digitale,​ 2013

Byung-Chul Han riflette su come il medium digitale modifichi radicalmente i nostri


comportamenti, la nostra percezione, il nostro modo di pensare e di vivere. L’effetto sulla
società è per lui decisamente negativo e la sua visione è molto critica.
La società attuale è dominata dalla mancanza di rispetto, collegata all’assenza di distanza
caratteristica del mezzo digitale che porta alla commistione tra sfera pubblica e privata, e
alla diffusione dell’anonimato. La mancanza di rispetto genera le ​shitstorm,​ ossia le
discussioni pubbliche con uso di un linguaggio spesso violento e le ondate di indignazione
che sono il manifestarsi di uno stato di eccitazione tipico di una società sensazionalistica.
L’autore usa la metafora dello “sciame” per descrivere l’insieme di individui che compongono
la nostra società in contrapposizione al concetto di “folla” teorizzato da Gustave Le Bon nella
Psicologia delle folle​ del 1895. Mentre la folla possedeva un’anima o spirito che permetteva
agli uomini di unirsi attorno a una ideologia e sviluppare un Noi, lo sciame ne è privo ed è
costituito da individui isolati che si raggruppano solo occasionalmente e temporaneamente e
pertanto non sono in grado di sviluppare forze politiche e un’azione comune. L’​homo
electronicus​ del Novecento, secondo Marshall McLuhan, è un uomo della folla ed è un
Nessuno perché la sua identità privata è cancellata di fronte all’affermarsi dei mass media
che offrono una comunicazione a senso unico. L’​homo digitalis​ dello sciame invece non è un
Nessuno. Egli anche nello sciame conserva la sua identità privata, è un Qualcuno che
reclama attenzione, consumatore e produttore insieme di informazioni, ma è un Qualcuno
anonimo. L’uomo della folla produce una sola voce attorno a un’ideologia comune, mentre
l’uomo dello sciame un frastuono che sfocia nella shitstorm dilagante nel web.
Il medium digitale produce “de-medializzazione” ossia rende gli intermediari superflui in
quanto gli individui sono sia riceventi che trasmettenti, sia consumatori che produttori attivi di
informazioni. È un medium di presenza in quanto ciascuno vuole essere direttamente
presente e esprimere la propria opinione nel presente immediato. La de-medializzazione
minaccia però il principio di rappresentanza e la richiesta di trasparenza totale ostacola la
comunicazione politica che necessita invece di riservatezza per rendere possibile una
programmazione strategica a lungo termine.
Il medium digitale allontana dall'Altro eliminando il contatto fisico diretto e privando la
comunicazione dello sguardo. In questo modo si riduce il reale e si totalizza l'immaginario
fomentando il narcisismo. Minimizzando l'irruzione dell'altro si limita inoltre la capacità di
rapportarsi alla negatività in quanto non si interrompe l’auto-rispecchiamento immaginario.
Il medium digitale è “de-fatticizzante”, nel senso che grazie ad esso rifiutiamo il corpo, il
tempo, la morte… Ci rifugiamo nelle immagini che produciamo in enormi quantità come
reazione di difesa per sfuggire ad una realtà che percepiamo imperfetta.
L’autore critica la visione utopistica del digitale di Vilém Flusser che profetizzava l’uomo del
futuro come ​homo ludens,​ che non avrebbe più avuto bisogno delle mani per lavorare, ma
solo delle dita. Secondo Flusser il lavoro sarebbe diventato quasi un gioco, ma non aveva
però considerato il principio di prestazione che toglie al gioco l’elemento ludico
trasformandolo in lavoro e rende il tempo dell’ozio un miraggio. Inoltre i dispositivi digitali
creano una nuova schiavitù trasformando ogni luogo in posto di lavoro, ogni tempo in tempo
di lavoro e ci costringono alla comunicazione.
L’uomo digitale è un “cacciatore raccoglitore” di informazioni che vive nel presente e si serve
delle cose invece di farle maturare. Quest’uomo che vuole rimuovere tutto ciò che impedisce
di vedere in nome della trasparenza e dell’accessibilità si contrappone al “contadino”
teorizzato da Heidegger che coltiva il linguaggio come una terra e scopre la verità, che ama
nascondersi, lentamente.
Secondo Flusser l’uomo è un artista che progetta mondi e la comunicazione digitale ha un
potenziale messianico che libera dall’isolamento e crea un’esperienza di prossimità in grado
di renderci felici. Si tratta di una visione chiaramente utopistica tipica degli albori della
comunicazione digitale che non si è realizzata. Per Byung-Chul Han la connessione in rete
ha anzi aggravato l’isolamento dell’uomo. L’idea che gli uomini siano progetti che
concepiscono e ottimizzano se stessi deve fare i conti con il principio di prestazione che
genera nuove costrizioni e determina il rovesciamento della libertà nel suo opposto.
La comunicazione digitale ha una connotazione spettrale e virale. Come le lettere secondo
Kafka erano mezzi disumani perché indirizzate a fantasmi, internet produce nuovi spettri. Le
cose iniziano a comunicare tra di loro in maniera automatica senza l’intervento dell’uomo e il
mondo viene così ad essere guidato da fantasmi digitali. Le informazioni inoltre si diffondono
immediatamente, come un’epidemia, anche quando di scarsa importanza.
Il medium digitale causa anche disturbi psichici come l’IFS (Information Fatigue Syndrome)
ossia l’affaticamento informativo causato dall’eccesso di informazioni che può provocare il
blocco della capacità di analisi, disturbi dell’attenzione, agitazione o incapacità a sopportare
le responsabilità.
Prima dell’avvento del digitale la fotografia, secondo Roland Barthes, è un​’​emanazione del
referente, rappresenta cioè una verità perché conserva in essa tracce quasi materiali del
referente reale. La fotografia digitale mette in dubbio questa verità e segna la fine dell’era
della rappresentazione. Anche in politica avviene qualcosa di simile: i rappresentanti politici
che per Gustave Le Bon erano gli esecutori della massa lavoratrice ora non rappresentano
più i cittadini ma sono visti come esecutori di un sistema autoreferenziale. I partiti hanno
perso la loro funzione perché ogni singolo individuo è ora un partito che esprime la sua
opinione attraverso la rete.
Secondo la visione utopistica di Flusser il digitale avrebbe permesso lo sviluppo di una
democrazia diretta de-ideologizzata in cui grazie a sistemi interattivi (come la TV via cavo
statunitense diffusa negli anni Settanta) i cittadini avrebbero potuto prendere decisioni di
efficacia immediata su singole questioni rendendo superflua la funzione dei rappresentanti
politici. Anziché dover prendere decisioni esistenziali che comportano valutazioni sulle
conseguenze e dubbi, l’utente avrebbe avuto solo il compito di prendere “decisioni
puntiformi, atomiche”, elementari come scegliere un capo di abbigliamento da acquistare.
Byung-Chul Han sottolinea però come qualunque decisione politica sia esistenziale e farla
scivolare sul piano di una decisione d’acquisto priva di conseguenze sarebbe estremamente
pericoloso perché trasformerebbe i cittadini da agenti attivi a consumatori passivi che
subiscono le influenze del marketing.
L’estrema facilità con cui è possibile raccogliere informazioni e protocollare l’intera vita degli
individui porta alla società della sorveglianza in cui alla fiducia si sostituisce il controllo.
Viviamo in un “panottico digitale” in cui però a differenza del Panopticon, il carcere ideale
progettato da Jeremy Bentham nel 1791, possiamo comunicare intensamente l’uno con
l’altro ed è proprio questa connessione che rende possibile il controllo totale. Viviamo
nell’illusione della libertà mentre ognuno di noi osserva ed è osservato da ogni altro. Anche
le cose ci osservano.
Il “biopotere” che secondo Michel Foucault ha caratterizzato la società a partire dal XVII
secolo (che consiste nell’amministrazione e nel controllo della popolazione influenzando
fattori come il tasso di riproduzione, di mortalità o lo stato di salute) si sta trasformando in
“psicopotere” in grado di leggere e controllare i pensieri. La quantità enorme di dati rende
obsoleti i modelli teorici e rende visibili i modelli di comportamento collettivi. Si può cioè
accedere all’inconscio collettivo e gli uomini possono essere influenzati non dall’esterno ma
dall’interno attraverso una programmazione psicopolitica con inquietanti risvolti totalitari.

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