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Il <<Principato>>

.1 Tipologie di principato
Oltre alla dedica al Magnifico Lorenzo de’ Medici, il Principe machiavelliano comprende XXVI
capitoli, divisibili in vari “blocchi” tematici, benché collegati tramite appositi nessi. Il primo di tali
“blocchi”, composto dai primi undici capitoli, è dedicato al principato e alla sua creazione.
Nel primo capitolo, dopo aver affermato che tutti gli Stati sono <<o repubbliche o principati>>,
Machiavelli distingue i secondi in ereditari, <<de' quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo
tempo principe>>, e nuovi, a loro volta distinguibili in quelli <<nuovi tutti>> (come quello milanese
di Francesco Sforza) e quelli <<membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista>>
(come il regno napoletano del re di Spagna). A loro volta, sia i principati interamente nuovi, sia i
territori che si aggiungono a uno Stato già esistente e gli conferiscono una nuova fisionomia, sono
distinti in base all’originario assetto costituzionale, ma soprattutto alle modalità della conquista, che
può avvenire <<o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù>>. Inoltre, i territori
annessi possono <<vivere sotto uno principe, o usi a essere liberi>>1.
Machiavelli passa quindi a trattare dei <<principatii ereditarii>>. Intende concentrare l’attenzione
sui soli principati, e precisamente su come essi <<si possino governare e mantenere>>, piuttosto
che <<ragionare delle repubbliche>>, già esaminate <<altra volta a lungo>>2. A tal riguardo, gli
appare relativamente più facile conservare il possesso dei <<principati ereditarii>> che di quelli
<<nuovi>>, a patto di <<non preterire l’ordine de’ sua antenati>>3. Forse per questo, dedica poi
una prolungata analisi ai principati “misti”, nei quali appaiono preponderanti la <<virtù>> e le
<<armi proprie>> del governante4. Essi vengono analizzati con riguardo ai rapporti internazionali,
al rispetto di varie regole di condotta politica, e al diverso grado di resistenza opposto all’invasore 5,
Il capitolo titolato Cur Darii regnum quod Alexander occupaverat a successoribus suis post
Alexandri mortem non deficit [Per qual cagione il regno di Dario, il quale da Alessandro fu
occupato, non si ribellò ai sua successori dopo la morte di Alessandro] individua due tipi di
principati: <<o per uno principe, e tutti li altri servi e' quali, come ministri per grazia e concessione
sua, aiutono governare quello regno (…) o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia
1 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. I, p. 15.
2 Machiavelli ovviamente si riferisce ai “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”. Quel “ragionamento”
tuttavia non viene evitato del tutto, poiché resta l’esigenza di istruire il principe su cosa bisogna fare quando
gli Stati di cui si impadronisce sono <<consueti a vivere con le loro leggi et in libertà>>, ovvero sotto una
costituzione repubblicana. Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. V, pp. 27-28.
3 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. II, pp. 15-16.
4 E’ stato osservato che <<Il terzo, il quarto, il quinto capitolo sono dedicati ai “principati misti”, frutto di
una vittoriosa politica espansionistica>>. Cfr., G. Cadoni, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali,
Jouvence società. editrice., Roma 1994, p. 93.
5 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III, pp. 16-24.

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del signore, ma per antiquità di sangue tengano quel grado>>6. Nel primo tipo di principati,
amministrati per mezzo di semplice funzionari i cui poteri sono mero riflesso di quello del principe,
questi assume piena autorità, <<perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per
superiore se non lui>>. L’esempio è la Turchia, appunto governata da un unico signore di cui tutti
gli altri risultano <<servi>>. Essa è tanto difficile da conquistare, quanto facile da mantenere. Il
principe domina su ogni elemento costitutivo dello Stato, ha l’obbedienza illimitata dei “potenti” in
quanto <<li muta e varia come pare a lui>>, e tale “unità” rende difficile pure la corruzione degli
schiavi, che non troverebbe il favore del popolo: <<onde, chi assalta el Turco, è necessario pensare
di averlo a trovare unito; e li conviene sperare più nelle forze proprie che ne’ disordini d’altri>>.
Ma, chi sconfiggesse un tale governante <<in modo che non possa rifare eserciti>>, e ne eliminasse
pure la discendenza sicché <<il quale spento, non resta alcuno di chi si abbia a temere>>, potrebbe
poi con facilità mantenere il principato: infatti nessun altro potrebbe reclamarlo, e il nuovo principe
erediterebbe il vecchio accentramento del potere. Invece nel secondo tipo di principati, amministrati
per mezzo di feudatari, i baroni <<hanno stati e sudditi proprii, li quali riconoscono per signori et
hanno in loro naturale affezione>>: nel loro feudo sono equiparati al principe, e tale potere non gli
è pervenuto da lui, ma dalla loro stessa discendenza “di sangue”. L’esempio è il regno di Francia,
facile da conquistare, ma poi difficile da mantenere. Infatti, i baroni malcontenti, bramosi di
migliorare la propria condizione, <<ti possono aprire la via a quello stato e facilitarti la vittoria>>,
ma questa vittoria è poi messa a rischio sia da coloro che <<ti hanno aiutato>>, sia da coloro che
<<hai oppressi>>: solo con una grande virtù il principe può “affrontare” i nobili che gli permisero
di conquistare il potere7.
Più concisa, ma non meno impegnativa, risulta l’analisi <<dei principati al tutto nuovi, e di
principe e di stato>>. Essi sono stati conquistati con <<armis propriis et virtute>>, sicché la loro
precedente forma costituzionale dovrà adattarsi ai <<nuovi ordini e modi>> che è necessario
introdurre8. Vi sono poi, speculari a essi, i principati <<qui alienis armis et fortuna acquiruntur>>,
e qui il modello comportamentale proposto al governante può essere incarnato da Cesare Borgia 9.
Diverso il caso dei principati acquisiti con le << armi proprie>>, ma mantenuti senza <<virtù>>. E’
questo il caso del regno guidato da quanti, come Agatocle siciliano, raggiungono il potere per
<<scelera>>, non potendosi <<ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini, tradire li amici,
essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione>>: questi, anche se riusciranno ad ottenere il

6 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. IV, pp. 24-27.


7 L’esempio di tale virtù è fornito dai Romani, mentre il parallelo tra la Francia e l’impero ottomano è stato
considerato uno degli archetipi della tradizione storiografica che rivendica la superiorità degli Stati
occidentali su quelli dispotici, orientali. Cfr., F. Chabod, Storia dell’Italia di Europa, Bari 1961, cap. II.
8 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. VI, pp. 28-31.
9 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. VII, pp. 32-38.

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principato, non otterranno mai la <<gloria>>10. Non va poi dimenticato il <<principato civile>>, al
quale si ascende <<non per scelleratezza o per altra intollerabile violenza>>, bensì con <<una
astuzia fortunata>>, che non renderebbe necessario fare affidamento né sulla sola virtù né sulla sola
fortuna. Tale principato, in ultima analisi, non lo si ottiene con la forza delle armi, bensì
procurandosi accortamente il favore del <<populo>> o dei <<grandi>>11. Perciò diviene importante
esaminare la <<considerazione>> del principe, per prevedere se egli, in caso di necessità, potrà
<<reggersi>> sul solo suo Stato, o se dovrà ricorrere alla <<defensione d’altri>>12. Infine,
l’undicesimo capitolo presenta il singolare tipo di principato rappresentato dallo Stato della Chiesa,
il quale si acquista o per virtù o per fortuna, <<e sanza l’una e l’altra si mantengono>>13.
Come è stato giustamente osservato, Machiavelli, dopo aver posto i criteri secondo i quali aveva in
animo di distribuire la materia, si è rapidamente liberato dei “principati ereditari” e ha affrontato la
questione che sembra stargli a cuore, il “principato nuovo”, <<esaminando una serie di casi in cui
l’intervento di un singolo individuo sconvolge una situazione sostanzialmente statica: conquista,
altrui concessione, impiego delittuoso dell’inganno>>14. Così, possiamo ricondurre la tipologia di
principati a due grandi tipi, cioè a quello ereditario e a quello misto.
Per quanto concerne il primo, molti autori sostengono che Machiavelli abbia scritto in tutta fretta i
primi due capitoli del Principe, per giungere cosi al terzo, al quale sembra riservare maggiore
interesse. Come è stato giustamente osservato, <<Dei principati ereditari, egli si sbriga rapidamente
nel secondo capitolo, limitandosi a rilevare che “sono assai minori difficoltà a mantenerli che nei
nuovi, perché basta solo non preterire l’ordine de sua antenati e di poi temporeggiare con li
accidenti”. Si sente che il Machiavelli ha fretta di serrare da presso l’argomento che più gli sta a
cuore, il principato nuovo che comincia ad affrontare dal terzo capitolo. Il suo esordio con quella
curiosa avversativa posta all’inizio del primo periodo tradisce l’impazienza dell’autore di arrivare al
punto, e sembra quasi esprimere un certo sollievo per esserci arrivato>>15. Un simile atteggiamento
non risulta difficile da spiegare, se si considera che <<Gli stati in cui la successione al trono è
regolare e stabilita non possono attrarre la sua attenzione (…) La monarchia è il regime troppo
facile da conservare, un caso troppo privilegiato perché il nostro autore abbia bisogno di insistere su
di esso. Ecco quindi sin d’ora esclusi i regni e Stati a stabile regime dalle nostre riflessioni. La
stabilità acquisita, l’abitudine divenuta natura non interessa il nostro autore; da ora in avanti
l’oggetto della trattazione sarà il passaggio dall’instabilità alla stabilità, dal nuovo al pienamente
10 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. VIII, pp. 38-42.
11 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. IX, pp. 42-45.
12 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. X, pp. 45-47.
13 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. XI, pp. 47-49.
14 Cfr., G. Cadoni, ed. cit., p. 168.
15 Cfr., G. Procacci, Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo, volume terzo
Umanesimo e Rinascimento, Unione tipografico- Editrice Torinese, 1987 p. 269
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realizzato, dal potere usurpato al riconosciuto>>16. Quindi, sembra di poter dedurre che a
Machiavelli non interessano, se non in modo superficiale, le situazioni in cui l’andamento della
politica quotidiana non richiede alcuna “genialità”: è questo il caso del principe ereditario, che deve
solo evitare le “imprudenze” poiché, <<se estraordinarii vizii non lo fanno odiare, è ragionevole
che naturalmente sia benevoluto da’ sua>>17.
Per quanto concerne il secondo, Machiavelli inizia a trattarne nel terzo capitolo, ove lo presenta
minacciato dalle insidie comuni a tutti i “principati nuovi”. Esso nasce dalla conquista di una
provincia, che viene così aggiunta come “membro” a uno Stato preesistente. A proposito delle
annessioni di nuovi territori, è stato giustamente notato che nello studio machiavelliano il problema
della legittimità sembra venir meno, poiché, certamente, il segretario fiorentino mostra differenti
mezzi di acquistare un nuovo principato, ma senza addentrarsi nei problemi giuridici e morali che
ne derivano: <<non occorre sapere se questa o quella procedura nella conquista del potere è
ammissibile e riconosciuta, o cercare un fondamento di diritto all’autorità, non occorre provare ai
sudditi che, rispondendo il principe a tali requisiti, l’obbedienza da parte loro consegue
naturalmente>>18. Quindi, l’autore sembra tralasciare, disinteressato, ogni considerazione morale
sulla legittimità della conquista, riferendosi soltanto all’atto avvenuto. In altri termini, il nuovo capo
affermerà il proprio potere, e questo poi troverà sufficiente fondamento nella realtà effettuale. Ma
cosa succederà una volta conquistato il nuovo territorio? Qui il discorso si indirizza verso il nostro
specifico oggetto d’indagine. Il nuovo principe, l’occupante, è destinato a recare offesa alle
popolazioni sulle quali stabilisce il suo dominio. Egli, poiché <<e con gente d’arme e con infinite
altre iniurie che si tira drieto el nuovo acquisto>>, sarà ben presto circondato da fila di nemici,
nelle quali confluiranno <<tutti quelli che tu hai (il nuovo principe) offesi in occupare quello
principato>>. Né potrà far assegnamento su <<quelli che vi ti hanno messo>>, i quali, insoddisfatti
del vecchio ordine di cose, hanno favorito la sua impresa <<credendo migliorare>>: sarà costretto a
deludere le loro aspettative per l’impossibilità di <<non li potere satisfare in quel modo che si
erano presupposto>>, e, visto l’obbligo di gratitudine contratto nei loro confronti che gli impedisce
l’impiego di <<medicine forti>>, sarà l’ostilità stessa dei suoi antichi partigiani che lo renderà
particolarmente vulnerabile. Per queste ragioni, sostiene Machiavelli, Luigi XII di Francia occupò
in breve Milano, ma altrettanto presto la perdé.

.2 Conquista e mantenimento

16 Cfr., P. Mesnard, Il pensiero Politico Rinasvcimentale, a cura di Luigi Firpo, Editori Laterza, Bari 1963, p.
54
17 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. II, p. 16.
18 Cfr., P. Mesnard, ed. cit., pp. 54-55.

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La stabilità politica sembra quindi maggiore, quando il principe vede ridursi il suo “obbligo di
gratitudine” verso i sudditi, come accade ad esempio dopo una loro rivolta. Infatti, secondo
Machiavelli <<è ben vero che acquistandosi poi la seconda volta e’ paesi rebellati, si perdono con
più difficoltà>>19. In altre parole, la conquista assume un aspetto diverso, quando viene effettuata
per la seconda volta. Basti pensare al re di Francia, al quale per fargli perdere Milano bastò la prima
volta <<uno duca Lodovico>>, mentre nella seconda fu necessario l’aver avuto <<contro, el mondo
tutto>>20. Il principe detronizzato, se ri-occuperà <<e’ paesi rebellati>>, dopo la <<rebellione>>
potrà essere meno <<rispettivo>>, non più legato da alcun tipo di vincolo nei confronti di chi gli ha,
la prima volta, permesso di entrare nel “nuovo territorio”. Non dovendo, quindi, avere alcun
riguardo, potrà cosi finalmente prendere i provvedimenti necessari per fondare il suo potere su
meno fragili basi21. Per quanto concerne i mezzi necessari <<ad assicurarsi>>, Machiavelli vi
dedica poco più di un accenno, notando che il comportamento richiesto implica di <<punire e’
delinquenti, chiarire e’ sospetti, provvedersi nelle parti più deboli>>, e ciò sembra confermare
l’impressione che egli, per un paradosso solo apparente, veda nella ribellione una opportunità di
rafforzare la stabilità politica22. Impressione che ricompare anche più tardi, nel cap. X, ove si dice
che <<quando uno principe acquista uno stato nuovo, che come membro si aggiunga al suo
vecchio, allora è necessario disarmare quello stato, eccetto quelli che nello acquistarlo sono suti
tua partigiani; e quelli ancora, col tempo e con le occasioni, è necessario renderli molli et
effeminati, et ordinarsi in modo che tutte l’arme del tuo stato sieno in quelli soldati tua proprii, che
nello stato tuo antiquo vivono appresso di te>>. Il passo che suggerisce questi espedienti sembra
completare quello suddetto del III capitolo, circa il comportamento che il principe deve tenere nei
confronti dei propri partigiani.
Abbiamo visto che l’annessione di un nuovo territorio conduce inevitabilmente il principe a
“offendere” le nuove popolazioni, generando cosi forti inimicizie sia nella popolazione annessa sia
nei “partigiani” che, credendo di migliorare, hanno inizialmente sostenuto l’ingresso del principe,
ovvero l’annessione. Egli è impossibilitato, da un lato, a <<mantenere amici>> coloro che lo hanno
sostenuto e facilitato, perché non può soddisfarli adeguatamente, dall’altro a usare contro di loro

19 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III, p. 17. Nell’ottobre del 1499 Luigi XII, dopo essersi
accordato con i veneziani a Blois, fece occupare Milano da un esercito guidato dal fuoriuscito Giangiacomo
Trivulzio, il quale, resosi odioso alla cittadinanza, facilitò l’effimero ritorno di Ludovico Sforza.
20 La Lega Santa di Giulio II, infatti, aveva raccolto e coalizzato le forze antifrancesi.
21 Come è stato giustamente osservato, <<non a torto il Machiavelli fa notare che questi capoversi mettono a
disagio il lettore, procurandogli l’inammissibile impressione che poco o nulla si possa fare per possedere con
sicurezza un paese sin da quando lo si conquista per la prima volta>>. Cfr., G. Cadoni, ed. cit., p. 172.
22 In tal senso, <<poco importa che questi suggerimenti appartengono alla descrizione del comportamento di
colui che la “rebellione” avrà finalmente reso “meno respettivo”: un principe degno di questo nome non
attenderà che la rivolta lo abbia sciolto dai suoi “obblighi” per sacrificare ogni esitazione morale alla dura
logica dell’utile>> Cfr., G. Cadoni, ed. cit., p. 173.
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<<medicine forti>>, essendo verso di loro, in ogni modo, obbligato. L’importanza di questo passo
risiede nel fatto che ciò che frena l’azione del principe è un comprensibile, ma fatale, scrupolo
morale. Ciò lascerebbe indurre, tra l’altro che, nelle terre di conquista, i problemi interni si possono
risolvere tutti attraverso l’uso deciso e spregiudicato delle <<medicine forti>>. Non si avvede il
motivo per cui, allora, queste “medicine” non possono essere impunemente usate prima che la
necessità di ricorrervi sia stata resa a tutti evidente dalla rivolta delle popolazioni sottomesse. In
ogni caso, tuttavia, <<a quale imperativo politico si ispira la prudente gradualità con cui il principe
deve procedere nei riguardi dei suoi infidi partigiani, lo scrittore non lo spiega. Si tratta
evidentemente, della necessità di non offuscare la propria immagine; ma sarebbe vano tentare di
determinare se questa necessità si imponga per non compromettere i rapporti con i sudditi del suo
“antiquo” stato, o per non esasperare il risentimento di quelli dello “stato nuovo”, o, ancora, per non
offrire un esempio che potrebbe porre fine alle sue conquiste, rivelando quale sorte spetti a chi
riponga in lui mal concepite speranze>>23.
Sembra quindi di poterne concludere che, sebbene le difficoltà si riducano notevolmente quando un
paese viene occupato per la seconda volta dal medesimo conquistatore, ciò non vuol dire che solo
allora esse siano superabili. Così, dopo aver esaminato le cause “universali” - non quelle particolari
- della prima sconfitta subita dalla politica italiana di Luigi XII, Machiavelli si concentra su quelle
della seconda, che fecero di nuovo perdere a Luigi XII lo Stato di Milano, col preciso scopo di
<<vedere quali rimedii lui ci aveva, e quali ci può avere uno che fussi ne’ termini sua, per potersi
mantenere meglio nello acquisto che non fece Francia>>. Come è stato giustamente
osservato,<<l’autentico pensiero dello scrittore emerge tuttavia non appena, dall’esame delle
“difficultà” si passa a quello dei “rimedii”, che rivelano immediatamente la loro vera natura di
misure politiche destinate a consolidare il successo riportato da chi è riuscito a rendersi padrone di
una “provincia externa”, in maniera da evitare che si renda necessario conquistarla una seconda
volta>>24.
La difesa dei nuovi possedimenti diventa impossibile, se non si ricorre ad almeno uno di quei
<<remedii>>, che egli indica accuratamente. Essi, dunque, rendono il principe più sicuro nel
mantenimento di un territorio, rispetto all’uso amorale delle <<medicine forti>>, soprattutto se tale
uso è diretto nei confronti di chi l’ha prima sostenuto. Perciò vengono suggeriti non solo al
conquistatore di popolazioni <<della medesima provincia e della medesima lingua>>, che non
offrono particolari resistenze purché si osservino alcune elementari norme di prudenza politica, , ma
anche e soprattutto a quello che <<acquista stati in una provincia disforme di lingua, di costumi e
di ordini>>, poiché <<qui sono le difficoltà>>. Come detto, il conquistatore deve affrontare le

23 Cfr., G. Procacci, ed. cit., pp. 187-190.


24 Cfr., G. Cadoni, ed. cit., p. 178

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reazioni che la sua fortunata impresa può suscitare all’interno di quello Stato, e i migliori
<<rimedii>> che Machiavelli propone sono due: <<che la persona di chi acquista vi andassi ad
abitare>>, o la creazione locale di <<colonie>>. Tra i due rimedi, quello che risulta assumere un’
importanza maggiore per l’autore è il primo, <<che la persona di chi acquista vi andassi ad
abitare>>. Le ragioni per cui esso risulta <<uno de’ maggiori remedii e più vivi>> che abbia chi
<<acquista stati in una provincia disforme>> sono tre: primo, perché gli consente di ovviare
tempestivamente ai disordini che potrebbero nascervi; secondo, perché impedisce che i territori
conquistati vengano depredati da funzionari troppo avidi; terzo, perché offre ai locali la possibilità
di un immediato ricorso alla giustizia del principe, <<donde hanno più cagione di amarlo, volendo
essere buoni, e volendo essere altrimenti, di temerlo>>. Abitandovi, infatti, <<chi degli esterni
volessi assaltare quello stato, vi ha più respetto; tanto che, (abitandovi), lo si può con grandissima
difficultà perdere>>.
Machiavelli passa poi a illustrare <<l’altro migliore rimedio>>, ponendo in secca alternativa il
<<mandare colonie>> nel paese conquistato ed il <<tenervi assai gente d’armi e fanti>>. Esclude
che si possa omettere di fare l’una e l’altra cosa, e si sforza di dimostrare, con argomenti duramente
realistici, quanto sia preferibile ricorrere alle colonie, giungendo a definire <<inutile>> il secondo
termine dell’alternativa, che prevede una occupazione militare. Oltre a non costituire un onere per le
finanze statali, le colonie “offendono” soltanto coloro <<a chi e’ toglie e’ campi e le case, per darle
a’ nuovi abitatori che sono una minima parte di quello stato>>. Quelli che sono stati spogliati dei
loro beni, rimanendo dispersi e poveri, non sono in grado di vendicarsi, mentre tutti gli altri, ai quali
non è recata alcuna lesione, si astengono dall’“errare” per non subire la loro stessa sorte. Al
contrario, chi affida alle proprie truppe il controllo del territorio dovrà gravare fiscalmente la
popolazione, dovrà spendere molto di più <<avendo a consumare nella guardia tutte le intrate di
quello stato>>. Soprattutto, finirà per <<offendere>> maggiormente, in quanto costretto poi ad
enormi spostamenti di alloggi per l’esercito, nocendo così non solo a una piccola parte, come nel
caso delle colonie, ma <<a tutto quello stato>>, cosicché, in ultima analisi, <<ciascuno li diventa
inimico; e sono inimici che li possono nuocere, rimanendo battuti in casa loro>>. Quindi, se anche
possono limitare il danno inferto ai nuovi sudditi e generare un salutare timore, le colonie non
possono produrre i benefici effetti generati dalla presenza del principe, che rimane il rimedio
migliore.

. 3 La politica estera

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L’insieme dei suggerimenti che Machiavelli offre al suo principe, possono forse riassumersi in una
“realistica” considerazione degli insegnamenti storici, secondo la quale <<si ha a notare che li
uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere>>. Ancora una volta, però, bisogna precisare che non si
tratta qui di cieca spregiudicatezza, quanto semmai di una ponderata valutazione politica, se non
altro perché, come è stato giustamente osservato, <<sembra indiscutibile che la massima che
impone di “vezzeggiare o spengere” gli uomini implichi la necessità di “vezzeggiare” per altre vie
coloro che non vengono espropriati e dispersi>> 25. Assunta almeno una di queste precauzioni, si
creeranno le condizioni necessarie per evitare che l’ostilità dei nuovi sudditi travolga il vincitore, il
quale potrà limitarsi a svolgere un’accorta politica estera e cioè a <<farsi capo e defensore de’
vicini minori potenti, et ingegnarsi di indebolire e’ potenti di quella provincia, e guardarsi che per
accidente alcuno non vi entri uno forestiere potente quanto lui>>26. Ma l’oculata politica che il
conquistatore dovrà svolgere verso le potenze maggiori e minori della regione, a cui appartiene il
paese direttamente dominato, non è sufficiente a garantirgli un saldo possesso e diviene anzi
insufficiente, col passare del tempo. Come se i mezzi suggeriti da Machiavelli avessero in sé i loro
limiti, risultando destinati a subire le conseguenze della politica su essi fondata. In breve, riducendo
tutti i paesi vicini alle condizione di potenze minori, egli ha preso il posto degli antichi “potenti”, e
d’ora in poi la sua sorte è affidata alla capacità di impedire che <<per accidente alcuno>> non
avvenga l’ingresso di un <<forestiero potente quanto lui”>>. Di qui l’importanza del rapporto
stabilito con le popolazioni dominate, che, come sappiamo dai paragrafi precedenti, deve sia
includere il timore che includere l’odio. Sebbene sia necessario che le armi restino saldamente in
mano di <<quelli soldati tua proprii che nello stato tuo antiquo vivono appresso di te>>27, non si
riesce a vedere come potrebbe operare con successo un esercito costretto a combattere contro un
nemico che gode il favore di quasi tutti gli Stati coinvolti nel conflitto. Quindi, ancora una volta,
torniamo alle due sole vie, che richiedono di andare ad abitare nei paesi conquistati o di inviarvi
colonie.
Del resto, simili criteri comportamentali permisero ai Romani di costruire un vasto impero, e
avrebbero permesso a Luigi XII di conservare il possesso dello Stato di Milano se egli non li avesse
sistematicamente violati, con sconsiderata leggerezza. Ecco perché Machiavelli distingue con tanta
cura, nel capitolo III del Principe, l’esempio positivo dei Romani da quello negativo della Francia
di Luigi XII. Machiavelli ricorda che i Romani <<nelle provincie che pigliorono, osservorono bene
queste parti; e mandorono le colonie, intratennono e' men potenti, sanza crescere loro potenzia,
abbassorono e' potenti, e non vi lasciorono prendere reputazione a’ potenti forestieri>>. Quindi i

25 Cfr., G. Cadoni, ed. cit., p. 178.


26 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III p. 19.
27 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. XX, p. 80.

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consigli che Machiavelli ha sin d’ora formulato sono pienamente realizzati nella storia dei Romani,
che riuscirono a fare <<quello che tutti e’ principi savii debbono fare>>28.
Così, al re di Francia si rimprovera proprio di non aver seguito tale esempio, e di non essere
neppure andato ad abitare nei territori italiani di cui si era impadronito: <<elli ha fatto>>, sostiene
Machiavelli, <<el contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato disforme (…)
Aveva, dunque, Luigi fatto questi cinque errori: spenti e' minori potenti; accresciuto in Italia
potenzia a uno potente [papa Alessandro VI], messo in quella uno forestiere potentissimo [Il re di
Spagna Ferdinando il Cattolico], non venuto ad abitarvi, non vi messo colonie>>29. E’ necessario
constatare che la sua prima sconfitta italiana non è determinata soltanto dalle “naturali” difficoltà
della situazione interna, come indurrebbe a credere l’inizio del capitolo III, poiché, dopo l’ingresso
nel ducato di Milano, egli violò una delle principali regole a cui avrebbe dovuto attenersi, <<dando
aiuto a papa Alessandro, perchè occupassi la Romagna>>. Questo primo errore gli alienò tutte le
potenze minori, che gli avevano concesso fino a quel momento collaborazione e sostegno. Tuttavia,
più avanti nello stesso capitolo si precisa che quei <<cinque errori>> non sarebbero stati così
importanti se egli non ne fosse compiuto un sesto, e cioè quello di “torrè lo stato a’ Viniziani”,
creandosi ulteriori nemici, quando tra l’altro aveva già reso <<grande la Chiesa>> e <<messo in
Italia la Spagna>>. Ma neanche la seconda e definitiva sconfitta da lui subita merita indulgenza, in
quanto proprio il fatto di essersi trovato a combattere contro <<el mondo tutto>> dimostra la
incredibile insipienza politica di cui egli diede prova. In altre parole, come è stato giustamente
osservato, le difficoltà del 1500 non sarebbero state insuperabili, se Luigi XII avesse condotto una
politica meno sprovveduta nei confronti degli stati italiani, e quelle del 1512 non lo sarebbero
divenute, se non avesse operato in modo tale che tutti gli Stati più potenti si coalizzassero contro di
lui30. Questo il senso della risposta data da Machiavelli a un alto prelato francese, nel corso di un
incontro da lui stesso descritto: <<dicendomi el cardinale di Roano che li Italiani non si
intendevano della guerra, io li risposi che e' Franzesi non si intendevano dello stato (…) perché, se
se n' intendessino, non lascerebbono venire la Chiesia in tanta grandezza. E per esperienzia s’è

28 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III, p. 20. A tal proposito, il Procacci nota che il segretario
fiorentino, quando parla dei Romani, accenna all’aiuto prestato loro dagli Etoli, ma omette di ricordare che la
lega Etolica si unì ad Antico III di Siria per espellere l’invasore. Eppure questi avvenimenti gli erano ben
noti, com’è dimostrato nel capitolo XXI, né è a dire che, mentre scriveva il terzo capitolo, dal quale Antioco
III non è del tutto assente, essi potessero sfuggire alla sua attenzione, quindi risulterebbe sorprendente che il
testo prosegua parlando dei “meriti degli Achei e degli Etoli”. Tuttavia, si deve supporre che la volontà di
non indebolire la forza delle sue argomentazioni abbia distolto Machiavelli dall’affrontare un tema che
l’avrebbe inevitabilmente ridotta, dimostrando come i “minori potenti” fossero spinti contro il conquistatore
dalla medesima logica che li aveva gettati nelle sue braccia al momento dell’invasione. Cfr., G. Procacci, ed.
cit., pp. 181-184.
29 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III, p. 23.
30 Cfr., G. Cadoni, Machiavelli, Regno di Francia e “principato civile”, Bulzoni Editore, 1974., pp. 180 e
sgg.
9
visto che la grandezza, in Italia, di quella e di Spagna è stata causata da Francia, e la ruina sua
causata da loro>>31.
Sembra quindi che nel pensiero machiavelliano la politica estera segua criteri simili a quelli che
guidano il principe all’interno del suo territorio, tanto che, chiarito come la Francia stessa causò la
<<ruina>> della sua politica espansionistica in Italia sottovalutando la crescente “grandezza” della
Spagna e della Chiesa, il segretario fiorentino ne ricava una massima “universale” di grande rigore
logico, <<una regola generale, la quale mai o raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente,
ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l’una e l’altra di
queste due è sospetta a chi è diventato potente>>. Ne deriva quindi, in primo luogo, che la
possibilità di assicurarsi un dominio duraturo dipende dai rapporti instaurati dal principe con coloro
che ha sottomesso. I rapporti tra dominanti e dominati non debbono infatti fondarsi sulla mera
repressione, ma su un complesso vincolo di timore e di gratitudine: ricordiamo la massima di
Machiavelli, più volte ripetuta, anche in questa sede, e cioè che per il principe è molto importante
farsi temere ma non odiare. In secondo luogo, che tali rapporti non possono fondarsi esclusivamente
sulla repressione, alla quale pure può essere necessario ricorrere, né sul terrore, che bisogna ad ogni
costo evitare, come insegna il capitolo De crudelitate et pietate. In terzo luogo, che la maniera più
efficace di stabilire positivi rapporti con i nuovi sudditi, o per lo meno con la maggior parte di essi,
consiste nel trasferirsi nel paese conquistato o, nell’inviarvi colonie, offrendo nel medesimo tempo i
benefici di una corretta amministrazione.
Unica, tragica, eccezione è quella degli Stati “consueti a vivere con le loro leggi e libertà” 32, alla
“gestione”dei quali si dovrà dedicare un apposito capitolo. In questo caso, le difficoltà si incontrano
sia durante la conquista del potere, sia successivamente, nel suo mantenimento. In tali principati la
popolazione è infatti gelosa custode delle proprie leggi e dei propri ordinamenti, sicché il ricordo
della vecchia libertà, soffocata e vinta, e degli ordinamenti distrutti, sarà sempre fonte di disordini e
ribellioni. Machiavelli, individua allora, allo scopo di mantenerli, “tre modi” possibili: <<el primo,
ruinarle; l’ altro, andarvi ad abitare personalmente; el terzo, lasciarle vivere con le sua legge,
traendone una pensine e creandovi drento uno stato di pochi che te le conservino amiche>>. Il
primo dei tre rimedi risulta, per Machiavelli, l'unico sicuro. Gli Spartani presero Atene e Tebe
creandovi uno Stato “di pochi”, un oligarchia, ma non seppero mantenerlo e <<lo perderono>>33. Al

31 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. III pp. 23-24.


32 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. V pp. 27-28. Quomodo administrandae sunt civitates vel
principatus, qui, antequam occuparentur suis legibus vivebant. [In che modo si debbino governare le città o
principati li quali, innanzi fussino occupati, si vivevano con le loro legge.]
33 Trasibulo cacciò i Trenta Tiranni da Atene (403 a.C.), mentre Epaminonda, unitamente a Pelopida, liberò
Tebe (379 a.C.).
10
contrario i Romani, per tenere Capua, Cartagine e Numanzia, <<le disfeciono, e non le
perderono>>34. Quando invece, in Grecia, vollero seguire l’esempio degli Spartani, <<facendola
libera e lasciandoli le sua legge>>, furono poi costretti a <<disfare>> molte città di quella stessa
provincia, <<per tenerla>>. Cosi, Machiavelli, afferma di nuovo che <<chi diviene patrone di una
città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di esser disfatto da quella; perché sempre
ha per refugio, nella rebellione, el nome della libertà e li ordini antichi sua>>.
Neanche il tempo riuscirà a cancellare i vecchi ordinamenti e le libertà: basti pensare a Pisa, la cui
rivolta nel 1494 conclude un lungo assoggettamento, giungendo <<dopo cento anni che ella era
posta in servitù da' Fiorentini”. Ciò non sarebbe stato possibile qualora la popolazione sia abituata a
vivere <<sotto uno principe e quel sangue sia spento>>. I cittadini che <<viver liberi non sanno>>,
essendo abituati a obbedire, se privati del vecchio principe saranno incapaci di accordarsi per
istituirne uno nuovo, saranno sicuramente <<più lenti a prendere le armi>>, e per il nuovo principe
sarà molto più facile guadagnarsi e assicurarsi la loro fiducia. In conclusione, nelle repubbliche il
conquistatore non può permettersi di <<lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che
la più sicura via è spegnerle o abitarvi>>35.

. 4 Il principato civile
Alla luce di quanto detto sinora, diviene possibile comprendere l’importanza attribuita dall’Autore a
un tipo particolare di principato, nel quale emergono in primo piano le qualità politiche richieste al
governante. Infatti, <<quando uno privato cittadino, non per scelleratezza o altra intollerabile
violenzia, ma con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria, il quale si può
chiamare principato civile (né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna, ma più presto
una astuzia fortunata), dico che si ascende a questo principato o con il favore del populo o con il
36
favore de' grandi>> .

Premesso che <<civile>> è il principe salito al potere <<con il favore delli altri sua cittadini>>, il
testo precisa che egli ascende al potere o col favore <<del populo>> o con quello <<de’ grandi>>.
Mai con quello di entrambi, poiché <<in ogni città si truovono questi dua umori diversi e nasce da
questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano
comandare et opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de' tre
effetti, o principato o libertà o licenzia>>37. Qui sembra di vedere un’eco della nota concezione

34 Infatti i Romani, oltre a ridurre all’impotenza i Capuani (211 a.C.), distrussero Cartagine (146 a.C.) e la
Numanzia (133 a.C.).
35 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. V, p. 28.
36 Cfr., Il Principe, ed. cit., cap. IX, p 42.
37 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. IX, pp. 44-45.

11
aristotelica, secondo la quale in ogni città la divisione fondamentale è quella tra ricchi e poveri. Nel
nostro caso, mentre i <<grandi>> aspirano a “comandare” e “opprimere” il popolo, il popolo si
sforza di respingere l’oppressione a cui i <<grandi>> vorrebbero sottoporlo. Queste due tendenze
producono una particolare conseguenza, poiché, come è stato giustamente osservato, <<il termine
“libertà” allude all’ordinata dialettica degli “umori” sociali che si svolge nelle repubbliche
organizzate secondo il modello della costituzione mista, mentre la “licenza” riassume in sé tutte le
possibili configurazioni dello stato corrotto, declinante verso l’anarchia, l’oligarchia o la
tirannide>>38. Per venire a capo della suddetta divergenza, quindi, il principe si trova nella necessità
di conquistare il favore del popolo.
Il termine <<popolo>> nel Principe viene usato in senso tanto ampio e generico da includere tutti
coloro che non appartengono al ceto dominante. E’ stato recentemente sostenuto che, con la teoria
del “principato civile”, Machiavelli intende promuovere il riscatto politico della piccola e media
borghesia cittadina e che questa trovi la sua giustificazione nella necessità di assicurarsi stabilmente
il consenso della grande maggioranza dei sudditi, con la sola eccezione dei grandi, che, per il loro
esiguo numero, possono essere controllati e repressi senza eccessiva difficoltà39. In ogni caso,
durante l’intero cap. IX, titolato “De principatu civili”, Machiavelli sostiene più volte l’importanza
che assume per il principe l’appoggio del popolo, anziché quello derivatogli dal consenso dei
<<grandi>>. L’imperiosa necessità di ottenere il favore del popolo, contrastando con ogni mezzo le
oppressive aspirazioni dei <<grandi>>, emerge con esplicito vigore e distingue il “principato
civile” in due specie diverse, anzi opposte: quella fondata sul favore dei <<grandi>> è condannata a
una fatale debolezza e costituisce un modello negativo, poiché <<colui che viene al principato con
lo aiuto de' grandi si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo>>. I
<<grandi>> infatti non tollerano a lungo la supremazia di colui del quale si sono serviti per liberarsi
dal precedente dominio, ma il principe non può tollerare una situazione paritaria nei loro confronti,
benché gli abbiano consentito di imporsi al popolo, poiché in tal caso non potrebbe poi comandarli
né “maneggiare a suo modo”. Chi, quindi, col favore dei <<grandi>> sia giunto al potere, si trova
in una pericolosissima situazione, che, per sua fortuna, può facilmente mutare, volgendosi contro i
suoi antichi alleati. A reprimere i <<grandi>> il principe non può impunemente rinunciare, neanche
qualora siano stati proprio questi a renderlo tale. Del pari, non può rinunciare a ottenere il consenso
popolare, che proprio la repressione esercitata sui <<grandi>> gli procura. Quindi, se guadagnarsi il
“favore del popolo” è fondamentale, non solo per chi è giunto al principato tramite il suo consenso,
ma pure per chi vi sia pervenuto attraverso il favore dei <<grandi>>, Machiavelli indica le modalità
operative richieste da ciascuna delle due situazioni. Chi è pervenuto al principato con il consenso

38 Cfr., G. Cadoni, Machiavelli, Regno di Francia e “principato civile”, Bulzoni Editore, 1974, p. 96.
39 Cfr., G. Cadoni, Machiavelli, Regno di Francia e “principato civile”, Bulzoni Editore, 1974, pp. 84 e sgg.

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del popolo non deve far altro che “mantenerselo amico”, il che <<li fia facile, non domandando lui
se non di non essere oppresso>>. Invece, chi diventa principe con il favore dei grandi <<debbe
innanzi a ogni altra cosa cercare di guadagnarsi el populo: il che li fia facile, quando pigli la
protezione sua>>.
Le ragioni che spingono Machiavelli a indicare il “favore del popolo” (anche se conseguito in un
secondo momento, dopo aver ottenuto il favore dei <<grandi>>) come conditio fondamentale per la
sopravvivenza stessa del principe, sono di varia natura. Al contrario dei <<grandi>>, il popolo è
generalmente composto da individui pronti a obbedire, e inoltre, benché povero, è così numeroso
che <<del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi; de' grandi si
può assicurare, per essere pochi>>. Soprattutto, appare portatore di un’istanza morale più elevata,
<<perché quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e
quello non essere oppresso>>. Dunque, Machiavelli sostiene che senza l’amicizia del popolo un
principe non ha alcun rimedio nelle avversità. Ciò consente di accettare la conclusione di quanti,
come il Cadoni, ritengono che non sia la maniera in cui il principe si è reso padrone dello Stato,
bensì l’esercizio filo-popolare del potere, a conferire l’attributo della “civiltà” al suo principato 40.
Tuttavia, dalla considerazione che il “principato civile” debba essere filo-popolare, non segue che
ogni principato fondato sul favore del popolo sia “civile” 41. Soprattutto, tale “civiltà” non implica in
affatto una riduzione del potere sovrano, ossia non è affatto incompatibile con un potere assoluto.
Infatti, nell’ultimo capoverso del capitolo IX Machiavelli nota che <<questi principi, o comandano
per loro medesimi, o per mezzo de' magistrati>>. Sono così distinti, tra i prìncipi civili, quelli che
governano in prima persona e quelli che esercitano il potere tramite alti funzionari. Dei secondi,
<<è più debole e più periculoso lo stare loro>>, perché dipendono interamente dalla volontà dei
cittadini preposti alle magistrature, i quali, <<massime ne’ tempi avversi, li possono torre con
facilità grande lo stato o con farli contro o con non lo obbedire>>. E’ questo l’esatto contrario di
ciò che avverrebbe <<ne’ tempi quieti>>, ove i cittadini, bisognosi dello Stato, arrivano addirittura a
morire per esso. In altre parole, Machiavelli avverte il principe affinché si premuri al più presto di
<<pigliare l’autorità assoluta>>, poiché una volta che le minacce sempre incombenti sullo Stato
siano divenute una concreta realtà, non avrà più modo di farlo, né quindi di salvare lo Stato stesso.
Anche se spesso risulta impraticabile, tale autorità assoluta resta la via della salvezza in frangenti
critici quali l’insubordinazione di <<cittadini e sudditi>>, propensi in caso di conflitto a seguire non
gli ordini del principe bensì, come di consueto, quelli emanati <<da’ magistrati>>. Per il principe,

40
Cfr., G. Cadoni, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali, Jouvence società. editrice., Roma 1994, p.
95 e sgg.
41 Infatti, non si possono chiamare “principi civili” Agatocle e Cesare Borgia, che, pure, debellati i
<<grandi>>, si assicurano il sostegno del popolo vegliando attivamente sul suo “benessere”.
13
allora, la “necessità” di mirare all’autorità assoluta coincide con quella di sconfiggere ed esautorare
i “magistrati ribelli”, di governare <<per sé medesimo>>. Questo, non altro, significa <<pigliare
l’autorità assoluta>>. Parimenti, visti i consigli filo-popolari finora dati da Machiavelli, <<salire
dall’ordine civile allo assoluto>> non significa attribuire al potere connotati tirannici o antipopolari,
ma piuttosto passare dalla situazione in cui il potere viene esercitato <<per mezzo de’ magistrati>>
a quella in cui lo si esercita in prima persona. Non vi è motivo quindi di ritenere che la transizione
all’“ordine assoluto” sia sconsigliata. Metterne in rilievo la difficoltà è la premessa indispensabile,
per sottolineare il rischio che si producano circostanze che la rendano, al contempo, urgente e
impraticabile. Poiché non può impedire che giunga il momento in cui qualche <<periculo>> lo
sovrasta, il principe dovrà provvedere a esautorare i “magistrati” prima che esso si verifichi, oppure
fare in modo che il popolo non lo abbandoni malgrado il pericolo e la rivolta dei magistrati. Così,
l’“ordine assoluto” a cui è indispensabile <<salire>> appena possibile è quello che vige laddove,
eliminati i “magistrati”, il signore governa <<per se medesimo>>, invece l’“ordine civile” è quello
che caratterizza gli Stati dei principi che governano <<per mezzo de’ magistrati>>. Entrambi però
appartengono al “principato civile”, anche se non è sempre facile mantenere tale distinzione 42.
Infatti, come è stato giustamente osservato, <<nel medesimo capitolo l’aggettivo “civile” assume
significati diversi, a seconda che si riferisca al principato, come accade nel primo capoverso, oppure
all’“ordine”, come accade nell’ultimo; e “assoluto” si contrappone soltanto al secondo significato di
“civile”. In conclusione tra “principato civile” e “ordine civile” non vi è identità, una cosa essendo
l’ “ordine” e un’altra il principato. Il termine “principato” definisce la forma costituzionale dello
stato; il termine “ordine” indica il tramite attraverso cui il potere viene esercitato: gli antichi
magistrati o funzionari di nomina reggia. Cosi come, non vi è opposizione tra “principato civile” e
“ordine assoluto”. Identità vi è tra “ordine civile” e “comandare per mezzo de’ magistrati” da un
lato; dall’altro, tra “ordine assoluto” e “comandare per sé medesimo”; opposizione, se cosi ci si
vuole esprimere, tra queste due coppie di identici, che, si ripete, appartengono entrambe al
“principato civile>>43 .
Ma in ultima analisi, se il principe, quale che sia la sua <<virtù>>, nei <<tempi avversi>> non fosse
mai in grado di resistere ai magistrati, il suggerimento implicito in questa tesi lo lascerebbe in balia
della <<fortuna>>, unica fonte delle circostanze da cui dipende il successo dell’impresa, poiché
42 <<Dire, in ultima analisi, che cosa abbia indotto Machiavelli a servirsi delle espressioni “ordine civile” e
“ordine assoluto” per distinguere i diversi tramiti attraverso cui viene governato lo stato non è, forse,
possibile. Tuttavia si può congetturare che sul rigore terminologico e concettuale abbia prevalso l’ossessiva
presenza della convinzione che, se non avesse operato con la necessaria accortezza, il principe avrebbe
perso, nel tentativo di esautorare i “magistrati”, il favore del popolo, senza acquisire per questo quello dei
grandi, e, costretto a tentare di conservare un potere inviso ai grandi e non amato dal popolo, non più “civile”
avrebbe dovuto essere definito, ma, come il tiranno, “assoluto”>>. Cfr., G. Sasso, Principato civile e
tirannide, Bologna 1993, p. 386.
43 Cfr., G. Cadoni, Machiavelli, Regno di Francia e “principato civile”, Bulzoni Ed., 1974., pp. 108 e sgg.

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nulla assicura che i <<tempi avversi>> siano preceduti da quelli definiti <<quieti>>. Sembrerebbe
che l’intento primario dell’opera machiavelliana soggiaccia qui alla consapevolezza del proprio
limite, tuttavia, come è stato giustamente osservato, <<nel quarto capoverso, la facilità di cui parla
lo scrittore con inconsueto ottimismo esiste soltanto per chi sia sufficientemente “virtuoso”; ma non
si potrà concedere che essa si converta in assoluta impossibilità per chi non sia, altresì, assistito
dalla “fortuna”. Il Principe nasce dalla volontà politica di non cedere alla dilagante violenza della
fortuna, anzi di contrastarla e vincerla; tanto più vigorosa quanto più consapevole dell’ineliminabile
presenza della fortuna nella trama della storia, questa volontà è alla radice dell’estremo tentativo,
che quest’opera svolge con lucida passione, di costruire una virtù capace di controllare questa forza,
di prevederne il primo sorgere, di vincerla>>44.
Possiamo in ogni caso concluderne che godere il favore popolare è condizione necessaria ma non
sufficiente per conservare il potere <<civile>>, se si vuole evitare di essere esautorati dalla scarsa
lealtà di <<quelli cittadini che sono preposti a’ magistrati>>. Tali magistrati, quali “mezzi” di cui si
avvale il principe per comandare, possono con facilità variare il loro <<umore>>, soprattutto nei
<<tempi avversi>>. Egli deve liberarsi al più presto di tali temibili intermediari, perché a nulla gli
gioverebbe, qualora ne avesse necessità, rivolgersi ai propri sudditi, ormai avvezzi a obbedire a
coloro che intendono rovesciarlo. In altre parole, svolgere una politica filo-popolare può essere
insufficiente, se il popolo non è consapevole che dal principe, e non dai magistrati, proviene il suo
<<bene essere>>. Del resto, Machiavelli sembra dubitare che si possa salire il potere solo tramite il
“favore dei concittadini”45. Il principato civile non necessita certo di un’abilità personale minore
rispetto a quella richiesta dagli altri modi: la sua acquisizione sarà dunque l’opera del più astuto, e
poiché l’astuzia non rientra nelle categorie della <<fortuna>> né della <<virtù>>, occorre un’altra
via di accesso. Come la <<scelleratezza>>, il <<favore del populo>> sarebbe allora l’espressione
del “tatticismo” machiavelliano, e restano solo i primi due mezzi per giungere al potere: l’azione
personale del principe, che conquista lo Stato con le armi o con l’astuzia, e le circostanze propizie,
che senza intervento attivo gli rendono possibile avvicinarsi alla sovranità.

. 5 Il concetto di Stato nel Principe


Può essere utilissimo ricorrere all’opera machiavelliana per chiarire il significato che il termine
“Stato” aveva nel Cinquecento. Nell’Europa del Rinascimento, infatti, l’organizzazione statuale già

44 Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli, vol. I: Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 409-414.
45 Cfr., P. Mesnard, Il Pensiero Politico Rinascimentale, a cura di Luigi Firpo, Editori Laterza, Bari 1963,
pp. 54-57.
15
esisteva, ma era ancora in fase di elaborazione, sia politica-istituzionale che concettuale. Quindi si
deve fare attenzione alle oscillazioni semantiche del termine, per evitare di attribuirgli un significato
già pienamente moderna. In altre parole, come è stato giustamente osservato, <<Tale termine fu più
sfruttato per significare "autorità", "potere politico", "preminenza" e, a volte, "dominio",
"estensione territoriale". Altro concetto che dobbiamo tenere presente, nell’individuare il significato
che Machiavelli attribuisce allo “Stato”, è che egli scrive avendo presente l'Italia del suo tempo:
disunita, corrotta e pervasa da lotte senza esclusione di colpi per il potere. In tale situazione, da
buon patriota auspica l' avvento di un Principe capace di assicurare ordine, sicurezza e soprattutto
unità. Indica perciò una condotta di governo che ponga questo obiettivo come assoluto, e che usi
ogni mezzo pur di raggiungere questo fine. Ed è cosi che, nel Principe, lo Stato è concepito come la
creazione di un individuo dotato di potere e di straordinaria virtù, il principe appunto, che deve
saper usare, in caso di necessità, anche la violenza nell'esclusivo interesse della comunità>> 46. Del
resto, sembra che il Machiavelli non pensi ancora all’unità politica dell’Italia. Il principe nuovo, che
dovrebbe mettersi a capo della lotta contro lo straniero, in realtà avrebbe dominio diretto su un
territorio limitato, probabilmente sulla sola Italia centrale, e tuttavia l’invocazione machiavelliana è
una delle più potenti espressioni dello spirito nazionale italiano 47. Anche per Abbagnano lo Stato di
Machiavelli si identificherebbe nella figura e nella personalità del “principe”, sicché <<al politico
incombe un compito immediato, il solo realizzabile nelle circostanze storiche del tempo: quello di
un principe unificatore e riordinatore della Nazione Italiana (da ciò deriva la delineazione della
figura del principe). Se una comunità non ha altro modo di uscire dal disordine e dalla servitù
politica se non quella di organizzarsi in principato, la realizzazione di questo principato diventa un
compito che trova la sua norma e la sua giustificazione in se stesso>>48 .
E’ noto come Machiavelli sia stato il primo a introdurre il termine “Stato” per significare una
“organizzazione statale” in senso moderno, facendone oggetto di specifici <<ragionamenti>>49. Fu
lui a creare il significato del termine “Stato” nell'uso pratico moderno, e tramite i suoi scritti questa
parola iniziò a designare un ente politico sovrano: la forza organizzata, sovrana nel proprio
territorio, che persegue una politica consapevole di ingrandimento, si configurò così come la tipica
e più potente istituzione politica della società moderna, sino a riconoscerle poi il diritto e l'obbligo
di regolare e controllare tutte le altre istituzioni sociali, e di renderle funzionali ai propri interessi.

46 Cfr. M. Martinelli, Niccolò Machiavelli Il Principe, Sansoni ed., Firenze 1971, pp. 258, 264.
47 Cfr., Eugenio Dupré-Theseider, Niccolò Machiavelli diplomatico. L' arte della diplomazia nel
Quattrocento, Marzorati, Como 1945, pp. 401-402.
48 Cfr., N. Abbagnano, Storia della Filosofia, vol. II, UTET, ristampa aggiornata della terza edizione, p. 40.
49 Il passo più noto ove si riporta il termine “Stato” è contenuto in una lettera a Francesco Vettori: <<la
fortuna ha fatto, che non sapendo ragionare né dell’arte della seta, né dell’arte della lana, né dei
guadagni né delle perdite, e mi conviene ragionare dello Stato, et mi bisogna o botarmi di star cheto,
o ragionare di questo>>. Cfr. G. Barthouil, Machiavelli attuale,Longo Editore, Ravenna 1982, p. 52.
16
Tuttavia, nel Principe non bisogna dare a quel termine un contenuto solo formale, altrimenti ne
deriverebbe una falsa interpretazione della sua stessa teoria politica. Infatti, è stato notato che
Machiavelli considera lo Stato <<come la capacità militare complessiva di un principato: cioè la
potenzialità del dominio in uomini e denaro. L’organizzazione dell’esercito è di tale importanza in
ogni momento della vita statale che difficilmente noi possiamo pensare ad esso senza pensare
contemporaneamente a tutte le possibilità che ne derivano alla vita generale della nazione, in
rapporto con la vita degli altri popoli>>50 . Lo Stato infatti non può reggersi senza un esercito, quale
base di un governo che, per definirsi solido, deve poter usare mezzi coercitivi per assicurare
l’osservanza delle leggi. Esso non si basa sull’economia, sull’artigianato, sul commercio o sulla
sicurezza dei trasporti, né sulla protezione dei traffici e dell’industria, bensì sulla capacità di
difendersi, di fare la guerra, e di rafforzarsi mediante la legge e l’educazione. Ciò tuttavia non
significa che il concetto machiavelliano dello Stato sia limitato alla sola organizzazione militare.
Infatti, nel capitolo XXI del Principe egli consiglia di favorire tutte le occupazioni e le professioni,
poiché il governante <<debbe onorare gli eccellenti in una arte (…) debbe animare li suoi cittadini
di potere quietamente esercitare gli eserciti loro, e nella mercanzia e nella agricoltura e in ogni
altro esercizio degli uomini; e che quello non tema di ornare le sue possessioni per gli timore che le
gli sieno tolte, e quell’altro di aprire un traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a
chi vuol, fare queste cose, e a qualunque pensa, in qualunque modo, ampliare la sua città o il suo
Stato>>51. Come è stato giustamente rilevato, Machiavelli usa il termine “Stato” dandogli un
significato concettuale molto più profondo di quanto comunemente si è creduto, anche se è vero che
nei suoi scritti non tratta minuziosamente di economia e industria 52. Lo Stato è una condizione di
vita, un corpo omogeneo la cui esistenza è legata a un ben preciso territorio: è un organismo
vivente, di natura quasi meccanica, munito di un’ossatura e di una muscolatura, cioè l’esercito, e di
un cervello, cioè il governo o la direzione politica amministrativa. Quindi deve sempre avere un
governo sovrano, che si occupi di tutto quanto accade nel suo ambito - leggi, educazione, religione,
economia e cosi via - nonché una forza militare da usare se necessario nei confronti di altri Stati. Ne
consegue che tutti i cittadini di un determinato territorio devono fare parte dello Stato, sulle cui
norme devono regolare le loro vite: in questa senso, si potrebbe dire che tutti gli Stati moderni sono
eredi di quello di Machiavelli, per la profonda coscienza della propria onnipotenza53 .
50 Cfr., Federico Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Milano 1985, pp. 147-150.
51 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit., cap. XXI p. 86
52 Cfr. G. Barthouil, ed. cit., pp. 51-60.
53 Anche il De Sanctis sottolinea il carattere autonomo e indipendente dello Stato machiavelliano, che <<ha i
suoi fini ed i suoi mezzi in sé stesso, e perciò ha in sé la sua legittimità; onde ha bisogno né dell’investitura
del papa, né di quella di Cesare, né della sanzione del diritto municipale. Lo Stato non solo è per tal modo
indipendente, ma è autonomo: esso non è né religione, né moralità, né scienza. Però tutti questi elementi
sono nel suo seno senza essere lo Stato. Quindi la religione che vuol divenire stato è usurpatrice; come
usurpatore sarebbe del pari ogni altro di quegli elementi che si trovano nello stato, se volesse a questo
17
Di contro, tuttavia, per il Machiavelli il termine “Stato” è intimamente collegato, più di quanto lo
sia per i moderni, con i termini “regno” e “patria”. In molti passi egli usa questi termini senza tra
loro distinguere, quasi come sinonimi. Così, parlando degli <<uomini laudati>> mette al primo
posto quelli che sono stati fondatori e ordinatori delle religioni, poi vengono quelli che hanno
fondato repubbliche o regni, infine i capi militari che <<hanno ampliato o il regno loro o quello
della patria>>. Lo Stato, il regno, la repubblica, la patria, indicano lo stesso concetto politico
fondamentale, l’unità strutturata in forma di rapporto politica. Si potrebbe allora concordare che per
Machiavelli la virtù, la patria, la gloria tre <<parole sacre>>54. Tuttavia, bisogna precisare, non la
virtù quale la si intende oggi, bensì l’agire attivamente, nel senso della virtù romana che era tempra,
energia. E poiché l’obiettivo di questa virtù era la patria, alla quale l’individuo immolava sé stesso,
il suo premio era la gloria, conseguente al raggiungimento del fine: ecco le leve con le quali il
Machiavelli voleva muovere il mondo moderno.
Ancora identificato con il regno e la patria, lo Stato è però dotato di una sua forza autonoma,
indipendente dalla religione e dalla morale. Ma perché esso risulti forte ed unito, è necessario il
contributo di un principe <<virtuoso>>, in grado di perseguire un fine <<illustre>>: e ciò tanto più
in Italia, ove la costituzione di uno Stato forte richiede la preventiva unificazione nazionale 55. Non
si può però passare sotto silenzio come con Machiavelli i fattori morali, religiosi ed economici
diventino forze sociali, che un politico può piegare e volgere a vantaggio dello Stato. In tal senso
egli rovesciò la gerarchia dei valori teoricamente accettata fino a quel momento. Lo Stato non è più
in funzione della realizzazione di una convivenza basata su valori etici (solidarietà, uguaglianza,
giustizia, ecc.), bensì questi possono essere ignorati, se costituiscono ostacolo alla sicurezza della
nazione, al suo interesse e al suo rafforzarsi. Nasce così l’ultimo capitolo del Principe, l’esortazione
rivolta agli italiani affinché uniscano tutte le proprie forze fisiche e intellettuali per liberare la patria
da <<questo barbaro dominio>> che <<a ognuno puzza>>56. Machiavelli crede che in Italia sia
giunto il momento di <<introdurre un nuovo sistema>>: un nuovo principe dovrebbe porsi a capo
della nazione, che è <<pronta e disposta a seguire una bandiera purché ci sia uno che la pigli>>.
Machiavelli ritiene per certo che i <<barbari>> non sarebbero in grado di fronteggiare l’urto delle
sostituirsi. Quegli elementi si trovano nello Stato medesimo con il nome di “forze sociali”. Da ciò deriva che
lo stato si spoglia di tutti gli elementi estranei, acquista coscienza, acquista un fine proprio e mezzi propri, e
con ciò si genera la scienza dello stato>>. Cfr., De Sanctis, Saggi critici, vol. II, a cura di Luigi Russo,
Edizioni Laterza, Bari 1965, pp. 13-16.
54 Cfr., De Sanctis, ed. cit., pp. 17-18.
55 A tal proposito, è stato giustamente osservato che <<come pensatore e politico legato alle cose concrete,
come diplomatico e organizzatore di milizie, come osservatore della politica, Machiavelli è giunto alla
conclusione che l’unica speranza per l’Italia è appunto la sua unificazione, in questo consistendo la forza
della patria. Machiavelli non è quindi solo un pensatore fiorentino o toscano, ma italiano>>. Cfr. R.
Menighetti, Le idee che diventano politica. Linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa,
Roccalibri, Cittadella 2004, cap. III, p 128.
56 Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, ed. cit, cap. XXVI, p. 97.

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forze italiane, unite sotto un nuovo principe: <<non si debba adunque, lasciare passare questa
occasione, acciò che l’Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore>>. Analizzando l’Italia
occupata dallo straniero, la incolpava di non aver avuto la virtù di Francia e di Spagna, capaci di
riannodare le loro membra57. Proprio in questo rimpiangere per l’Italia la mancanza della virtù di
costituirsi, anzitutto attraverso la cacciata dello straniero, consiste l’intuizione machiavelliana del
concetto unitario di Stato nazionale58.

57 Inoltre, “l’asserzione che l’Italia rappresenti una unità geografica ben distinta, sul cui suolo i barbari
stranieri non avevano diritto di risiedere, è un punto fondamentale del pensiero politico umanistico e, risulta
abbastanza che il rinnovarsi di un periodo di invasioni straniere, iniziato con la spedizione di Carlo VII,
condusse ad un risveglio del sentimento nazionale presso gruppi sempre più numerosi. Una politica di
cooperazione tra gli stati italiani avrebbe potuto avere successo, e l’Italia fu invece rovinata perché si preferì
anteporre l’interesse dei singoli stati a quello comune. L’appello di Machiavelli non si distingue né per la
sua preoccupazione della questione in generale né per il suo tentativo di indirizzare la sua politica pratica al
mantenimento della libertà ed indipendenza italiane, ma per il suo consiglio di perseguire tale politica al di
sopra dei singoli stati, fidando nel sentimento delle masse>>. Cfr., F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Il
Mulino, Bologna 1977, pp. 209-220.
58 A tal riguardo, per il De Sanctis addirittura <<L’Italia non è nazione, secondo il Machiavelli; perciò è
calpestata dallo straniero. Può essa divenirla? Vi ha nelle membra la materia acconcia a costituirla. In Italia
non si ha ancora il concetto di unità, ma un sentimento che ne fa le veci: l’odio contro lo straniero>>. Cfr.,
De Sanctis, ed. cit., p. 23.
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