Allontanato dal governo di Firenze Machiavelli è costretto a risiedere nella sua casa in campana, da
cui indirizza una serie di lettere al suo amico Vettori, ambasciatore alla corte del papa, sperando
che possa aiutarlo a ritrovare un ruolo con i nuovi signori della città. Infatti, in queste lettere si trova
spesso il tentativo di Machiavelli di accreditarsi un posto presso la corte dei de’ Medici per rientrare
nello spazio della politica.
In campagna Machiavelli si è dovuto adeguare al nuovo stile di vita, andando anche a caccia dei tordi.
Con la sua autoironia descrive il suo cammino per la caccia, trasportando talmente tante gabbie che li
facevano sembrare allo schiavo Geta, protagonista di una novella del tempo. Inoltre, anche se non è il
suo hobby preferito (la caccia dei tordi) quando finisce la stagione egli ne sente la mancanza, a
sottolineare la noia della vita in quei campi.
Altro hobby è andare ogni mattina a seguire i lavori dei taglialegna ascoltando i loro racconti e le loro
contese tra lavoratori. Prosegue poi il racconto della sua giornata: egli si reca ad un campo destinato
alla caccia degli uccelli e qui legge le poesie amorose dei classici, come Dante e Petrarca. Passa così,
piacevolmente, il tempo. Successivamente va all’osteria del villaggio, dove si intrattiene con le
chiacchiere dei passanti, tornando poi a casa dove l'attende il suo pasto modesto, consentito dalle sue
ridotte finanze. Questa vita tanto immiserita è descritta con la parola di sua invenzione
“m’ingaglioffo”, ossia “mi involgarisco”. Questo abbrutimento è un modo per sfogare la malignità
della propria sorte. Il suo stile si adegua anche alla situazione con l’uso di termini popolari.
Alla fine della giornata ritorna allo studio dei testi antichi: si sveste dai panni del giorno, e indossa
gli abiti destinati alle corti. Questo è il momento in cui si nutre del cibo spirituale dimenticando tutti i
suoi affanni. I testi che legge sono quelli storici e dei filosofi del passato (e non quelli poetici), che
trattano i temi di politica e di governo che più lo interessano. Nacque così la sua riflessione sul
principato. In questa parte della lettera si allontana dal parlato popolare, moltiplicando i latinismi,
ed elevando il lessico.
Accenna in questo modo la sua stesura del “Principe”, breve scritto sui principati che spera possa
essere gradito al principe, dedicandolo così a Giuliano e a Lorenzo de’ Medici. Inoltre spiega, in
questo momento, perché non può raggiungere Vettori a Roma: a Roma è in esilio Pier Soderini,
gonfaloniere fuggito da Firenze, e incontrarlo sarebbe molto pericoloso per lui. Machiavelli inizia così
a pensare su come possa inviare l’opuscolo a Giuliano de’ Medici, evitando che un altro se ne
appropri. Egli, inoltre, è spinto ad inviare l’opuscolo anche per esigenze economiche e dal desiderio di
ritornare alla vita politica.
Il Principe
Il Principe (1513-14) è rivolto a un preciso interlocutore, tuttavia Machiavelli propone un modello di
azione pratica che, pur essendo legato ad un tempo determinato, illumina i meccanismi della
fondazione e conservazione di uno Stato e può servire in altre occasioni. Il lettore di oggi, in pratica,
può ricavare un modo di pensare la politica.
Il Principe rinvia alla tradizione dei trattati sul buon governo che descrivevano le qualità del principe
ideale e la sua educazione. Essi erano conosciuti come “specula principum”, ossia proponevano di
indicare al principe le qualità utili al buon esercizio del potere, ponendoli di fronte a una sorta di
specchio nel quale vedevano come dovevano essere. Tuttavia, Machiavelli rovescia le attese dei
lettori: secondo lui non basta che il principe si “specchi” nel trattato, ma deve saper adattare il
proprio comportamento in base alle circostanze. Il Principe non attribuisce così alcuna importanza
alle virtù ideale dell’uomo di governo, ma l’attenzione è incentrata sul suo comportamento, come, ad
esempio, la necessità di armarsi per instaurare ed espandere uno Stato. Infine si conclude con un
invito all’azione immediata. In poche parole, Machiavelli non adula le virtù del principe, ma gli
indica una strada ambiziosa e difficile, senza nascondere i pericoli che lo minacciano.
La struttura
Il Principe ha una finalità pratica immediata, e ciò spiega la sua brevità, la sua stretta connessione
tra gli argomenti e la sua intenzione dimostrativa. Esso può essere diviso in 5 sezioni tematiche:
1. I-XI : le tipologie dei principati;
2. XII-XIV : la necessità dell’esercito escludendo le milizie mercenarie;
3. XV-XXIII : virtù e comportamenti che si addicono al principe;
4. XXIV-XXV : situazione italiana e potere della fortuna sugli uomini;
5. XXVI : esortazione finale.
La fortuna
Il mondo di Machiavelli non è governato dalla provvidenza divina o da una fatalità universale, ma è
un mondo in cui le circostanze costringono solo in parte l’azione umana, lasciando un margine di
agire libero. Questa rete di necessità è ciò che Machiavelli definisce “fortuna”, una potenza
sovrumana a cui l’uomo si deve in parte adeguare perché non la può cambiare, ma che gli lascia
spazi per agire secondo la sua libertà. L’uomo virtuoso è colui che sa prevedere questi mutamenti e
predisporre in tempo le opportune difese. Il principe, inoltre, è colui che capisce quando la fortuna è
dalla sua parte e dunque agisce nel momento giusto. Bisogna essere quindi capaci di adeguare il
proprio comportamento al variare degli eventi.
Lo stile
Machiavelli si avvale per quest’opera di uno stile nuovo, di una prosa nuova, che favorisca
l’adesione immediata del lettore alla materia trattata, senza vane distrazione, ma attraverso intensi giri
di frasi. La lingua prescelta è il fiorentino, mescolato con espressioni del parlato, parole colte e
termini tecnici diplomatici e militari. Vi sono anche vivaci metafore e similitudini. Infine il modo di
argomentare procede attraverso affermazioni generali ed esempi particolari.
La Mandragola
Nella Mandragola Machiavelli insiste sul carattere comico, e definisce l’opera come un “badalucco”,
ossia un passatempo leggero per alleggerire il peso dei suoi giorni, dato che non gli è stato concesso
di mostrare la sua virtù in opere più serie. Il riso suscitato dalla Mandragola non è spensierato, ma
forzato e amaro, poiché tutto ruota intorno alle furbizie di personaggi governanti dell’utile e del
piacere. E’ stata scritta intorno al 1513, ed è divisa in 5 atti. Si svolge nell’arco di un giorno e su
un’unica scena, una strada di firenze dove si trovano 2 case una di fronte all’altra. L’argomento
centrale è raccontato nel Prologo, ed è scritto in versi, mentre il resto è in prosa. In quest’opera
Machiavelli non si ispira solo alla tradizione teatrale latina, ma riprende anche la novella
boccacciana e lo stile comico rinascimentale, prendendo spunto anche da Ariosto.
La Trama
La Mandragola è costruita intorno ad un inganno, architettato per realizzare un obiettivo passionale.
Callimaco si è innamorato della bella Lucrezia, la quale lo induce a lasciare la Francia e a trasferirsi
a Firenze, dove gli viene in aiuto l’amico Ligurio, intermediario che adopera la sua intelligenza per
escogitare stratagemmi per far cadere Lucrezia ai piedi di Callimaco. Poiché Nicia, marito di
Lucrezia, non ha, dopo 6 anni di matrimonio, ottenuto ancora un figlio dalla sua unione, Callimaco si
fingerà medico e gli proporrà di somministrare alla moglie una pozione ottenuta dalla radice della
mandragola, capace di rendere fertili le donne sterili. Nicia dovrà però credere che congiungersi alla
moglie dopo questo trattamento sarebbe mortale; Callimaco gli suggerirà quindi di mettere nel letto un
giovane perditempo, ossia lo stesso Callimaco, che avrà così l’occasione per dichiararsi all’amata e
diventare suo amante. Convincere Nicia risulta assai facile, mentre appare più difficile superare la
resistenza religiosa di Lucrezia. Ligurio convincerà così il confessore di Lucrezia, fra Timotea, e
Sostrata, madre di Lucrezia, a indurre la donna ad unirsi con un estraneo. Durante la notte degli
inganni tutto fila liscio. La commedia si conclude con una benedizione in Chiesa di tutti i
protagonisti, ognuno contento di aver ottenuto quello che voleva.
La Mandragola e il Principe
Nel Principe sono numerose le dichiarazioni sulla natura degli uomini, e queste caratteristiche le
vediamo in atto anche nella Mandragola, ma per uno scopo infimo e volgare (capriccio sessuale).
Machiavelli mette in scena uomini e donne che provano a ottenere ciò che vogliono ciascuno per la
propria via e senza alcuno scrupolo: c'è chi domina, usando qualità razionali che erano considerate
qualità imprescindibili del principe, come Ligurio, e c’é chi ne è la vittima, come lo sciocchino di
Nicia. Ligurio, tuttavia, dimostra di utilizzare tali qualità per un obiettivo vile e degradato, e non
superiore. Altro grande personaggio è Lucrezia, che incarna la virtù più difficile: la capacità di
adattarsi alle circostanze, qualità tanto necessaria quanto rara descritta nel Principe.
Per orientarsi
Callimaco spiega a Siro di essersi innamorato di Lucrezia perché è la donna più bella che abbia mai
visto. Conquistarla appare però difficile: ella è infatti onesta e devota a suo marito. Callimaco si affida
così a Ligurio, che ha promesso di aiutarlo in cambio di un buon compenso. Callimaco si finge così
medico e riesce a impressionare Nicia, il quale cede al tranello architettato da Ligurio.
Lo sciocco di Nicia
In questo testo risalta la stupidità di Nicia, il quale gli basta sentire Callimaco parlare in latino perché
la sua ignoranza ne sia soggiogata. Inoltre accompagna la sua stoltezza con la presunzione: quando
con discrezione Callimaco mette in forse la sua potenza sessuale egli reagisce come un trionfo
galletto, neppure sfiorato dal sospetto che la mancanza di figli possa essere imputata a lui.
La Dedica
Nella parte iniziale del trattato, Machiavelli afferma di voler riprendere le caratteristiche degli specula
principum, e sostiene di non voler dare al principe oggetti materiali, ma bensì la conoscenza delle
azioni degli uomini grandi, in modo tale da poterli imitare. Egli dichiara che le fonti del suo sapere
politico le ha acquisite attraverso esperienza e riflessione, e invia il frutto del suo sapere al principe,
in forma di fascicolo, in modo tale che possa apprendere in poco tempo ciò che l’autore ha imparato
in tanti anni. Per Machiavelli, l’obiettivo è ovviamente quello di creare una relazione con il principe,
sperando di poter rientrare nella vita politica al servizio dello Stato.
Inoltre, la forma del volume non è quella elaborata e decorativa con cui gli scrittori sono soliti ornare
le proprie opere, ma è nuda e rigorosa, senza vane distrazioni. Il valore è unicamente affidato al
contenuto vario e serio. Inoltre lo stile appare alto e ornato, poiché si tratta di un discorso dedicato
direttamente al principe. Tuttavia, può sembrare presuntuoso che un uomo di bassa condizione sociale
osi dare consigli al principe, e vi è qua la ricorrente richiesta di scuse (excusatio). Machiavelli sposta
così l’accento sulla propria bassa posizione sociale: egli afferma infatti che solo chi appartiene al
popolo ha la possibilità di descrivere con chiarezza la natura di un principe.
Machiavelli invita così Lorenzo a leggere con benevolenza e attenzione il breve trattato. Infine vi è la
richiesta dell’autore: se il principe gradirà l’opera potrà allora provvedere a mutare la condizione di
colui che gliela invia.
Machiavelli ricorre all’esempio di 4 antichi principi: Ciro, Mosè, Romolo e Teseo. Essi sono tutti
uomini che hanno saputo lottare solo con le loro forze, senza chiedere aiuto, per affermare il proprio
dominio. Machiavelli individua così nella virtù personale la chiave del successo dell’azione; tale
virtù consiste nel riconoscere l’occasione offerta dalla fortuna (dalle circostanze date) e nell’agire
con tempestività per dare alla luce ciò che si desidera. Tuttavia l’occasione non è sempre positiva, ma
spiega che spesso sono proprio i casi più nefasti a consentire al principe di manifestare la propria
virtù: esempio è Mosè, che ha trovato il suo popolo schiavo degli Egizi, e Teseo, che aveva di fronte a
sé un popolo frammentato e disperso.
Tuttavia fondare uno stato è difficile, soprattutto se lo si fa solo con le proprie forze. Il principe
incontrerà molti ostacoli, come coloro che ricavavano vantaggio dalla situazione preesistente, o da
coloro che non credono fermamente a lui. Il tutto richiede fatica, incertezza e pericolo, ma se il
principe saprà superare questa fase, il suo cammino sarà molto più agevole. Machiavelli introduce
anche il discorso sulla necessità di ricorrere alla forza (propria): dato che gli uomini tendono
continuamente a cambiare opinione, occorre usare la violenza, come fecero Mosè e Romolo (ecc…).
Chi invece non seppe farlo fu Savonarola, il quale aveva ispirato gli ordinamenti repubblicani di
Firenze, senza però avere armi per difendersi dai suoi avversari. Tutto è difficile all’inizio per i
principi nuovi, ma se essi sono capaci di liberarsi degli oppositori, si assicurano l’appoggio dei
cittadini e consolidano il proprio potere.
Dato che i modelli riportati fin qui potrebbero sembrare troppo “alti”, Machiavelli introduce l’
esempio “minore” di Ierone, divenuto capo dei Siracusani per combattere i nemici esterni, per finire
essere nominato signore della città. Già da semplice contadino mostrava di avere la virtù del principe,
ed iniziò così a creare e a consolidare il proprio potere.
In questo caso è assai difficile mantenere il potere, poiché il nuovo principe deve ora procurarsi quelle
forze e alleanze che avrebbe già dovuto possedere se avesse agito con la propria forza. Occorre quindi
impegnarsi fin da subito per costruire saldi legami e alleanze. Egli utilizza anche una similitudine
naturale per enfatizzare il suo discorso: i principi nuovi sono come piante giovani che crescono troppo
in fretta e non hanno radici abbastanza profonde per resistere alle forze avversarie. Machiavelli
utilizza anche in questo passo 2 esempi contemporanei: Francesco Sforza, divenuto dura per la sua
virtù, e Cesare Borgia, divenuto signore grazie l’appoggio del papa, ossia per fortuna. Qua
Machiavelli ribadisce che chi diventa principe per fortuna non avrà vita facile, ma sottolinea come il
duca Valentino abbia saputo agire in modo esemplare dopo l’ascesa al potere, tanto da diventare un
modello nonostante il suo fallimento, attribuito alle circostanze avverse (sfortuna). Anche qua usa la
metafora delle “barbe”, ossia delle radici, e quella dell' “architetto", che rappresenta l’idea che lo
Stato debba essere costruito con pazienza e cura, come un edificio.
Nella parte successiva passa a descrivere le difficoltà incontrate da Alessandro VI per assicurare il
figlio il dominio della Romagna: per affrontare le ostilità di Milano, Venezia e dei baroni romani si
allea con i francesi, conquistando la Romagna. Cesare Borgia, una volta divenuto signore, si libera
poi dei francesi e si rende così indipendente, e ricorre anche all’inganno per neutralizzare i baroni
romani che si erano uniti contro di lui. Tuttavia, è altrettanto importante provvedere subito al
benessere del popolo, in modo da acquisirne l’appoggio. Gli abitanti della Romagna erano stati fino
ad allora governati da signori incapaci, e ovunque erano diffusi disordini e delitti. Cesare affida così
il potere a Ramiro de Lorqua, che riporta la pace e la sicurezza con metodi violenti e crudeli.
Consapevole però dell’eccessiva brutalità del suo luogotenente, Cesare lo priva di ogni potere e si
libera di lui facendolo trovare una mattina tagliato in 2 pezzi su una piazza.
Nel passo successivo descrive il modo in cui Cesare Borgia provvede a estendere e stabilizzare il suo
potere (importante è cercare nuove alleanze), ma deve tenere conto di dover in ogni modo evitare che
un nuovo potere gli sia ostile. La sua azione è allora rapida e risoluta: elimina i discendenti dei
signori che ha spodestato (possibili nemici), si guadagna la grazia dei gentiluomini romani (per tenere
a freno un eventuale papa non amico) e si adopera per portare dalla sua parte il collegio dei cardinali.
Infine prosegue la sua politica di espansione territoriale.
Quando il papa, suo padre, muore, il principato di Valentino non è ancora consolidato. Ma soprattutto,
alla morte del padre, il duca di trova gravemente ammalato, e Machiavelli si mostra convinto che
questa sia la ragione della sua caduta, che non è quindi da attribuire alla responsabilità di Cesare,
poiché le sue azioni sono sempre state avvedute e prudenti. All’elezione di Giulio II, Machiavelli di
trova a Roma e incontra lo stesso Cesare, il quale dichiara a Machiavelli di avere previsto le
difficoltà che avrebbe potuto incontrare lungo il suo cammino, ma di non aver potuto immaginare la
propria malattia.
Nonostante la sua caduta, nella conclusione del capitolo vi sono riassunte una serie di ragioni per cui
il suo comportamento deve essere imitato da coloro che, come lui, sono giunti al potere grazie alla
fortuna e con le armi altrui. Tuttavia, nonostante l’immensa sfortuna, vi fu un errore di Cesare, il
quale non seppe accorgersi della possibile elezione di Giulio II della famiglia delle Rovere, nemica
dei Borgia. L’errore del duca è di essersi fidato delle promesse del papa Alessandro VI, mostrando
così a Lorenzo un possibile errore da non compiere.
In che modo i principi devono tener fede alla parola data (cap.
XVIII)
In questo passo Machiavelli affronta la questione della possibilità per il sovrano di comportarsi sia
come uomo e sia come bestia, usando astuzia, inganno e ricorrendo alle armi. Esistono 2 modi di
combattere, con la legge, propria dell’uomo, e con la forza, propria della bestia. Machiavelli propone
così il modello del centauro, mezzo uomo e mezzo bestia. La parte bestiale, in questo caso, si divide
in “volpe” e “leone”, entrambe necessarie al principe, perché la volpe non sa difendersi dai lupi, e il
leone non sa evitare le trappole. L’astuzia, in questo caso, si manifesta nel venir a meno dei compiti
dati e nel non mantenere la parola data, qualora questo servisse per il bene dello stato. In poche
parole, il principe ha il dovere di non comportarsi in modo etico qualora le circostanze lo
richiedano.
Altro esempio di “principe” che ha sempre ingannato il prossimo è papa Alessandro VI Borgia,
figura già analizzata ed elogiata per i suoi metodi “virtuosi”. Di fatto, i papi vengono equiparati da
Machiavelli a dei sovrani temporali, essendo capi di uno Stato vero e proprio, la Chiesa.
Già altri in precedenza hanno potuto sperare di guidare l’Italia verso la sua redenzione, ma hanno
fallito perché la fortuna li ha respinti; è il caso di: Cesare Borgia, Alessandro VI e Giulio II. Il
fallimento di questi ha lasciato l’Italia indifesa, in attesa di un capo che possa porre fine alle violenze
dei popoli stranieri. Machiavelli si rivolge così a Lorenzo: il momento è favorevole per la casa dei
de’ Medici, che controlla Firenze e lo Stato della Chiesa, per farsi promotrice della redenzione
d’Italia. Non sarà un’impresa impossibile se il nuovo principe saprà seguire i modelli dei grandi
uomini del passato. Si tratta di saper cogliere l’occasione al volo, e di farlo con le armi. Il passo si
conclude con una serie di toni biblici e profetici.
2 sono le ragioni per cui fino a quel momento non è stato possibile svoltare per l’Italia: nessun capo
politico ha saputo fondare un nuovo esercito, e sono mancati capi valorosi capaci di affermarsi sugli
altri. Ciò ha determinato numerose sconfitte per l’Italia, ma se Lorenzo saprà dotarsi di una propria
forza militare costituita da cittadini, e non mercenari, non potrà fallire. Machiavelli rivolge così 2
appelli a Lorenzo: creare uno Stato fondato su nuovi ordinamenti e nuove leggi, e mettersi a capo di
un esercito, di italiani (non mercenari), proprio. Inoltre non si risparmia nemmeno di esporre i difetti
delle 2 fanterie più forti d’Europa, quella svizzera e quella spagnola. Infatti è convinto che sia
possibile dare vita in Italia a un nuovo esercito capace di superare, di potenza, queste 2 formazioni
recuperandone i punti di forza. Tenta così, nuovamente, di recuperare un ruolo politico per sé.
Nelle ultime righe ritorna con insistenza il tema dell’occasione, che deve essere colta al volo perché è
finalmente giunto per l’Italia l’occasione per liberarsi dagli stranieri. Nessuno degli italiani si
opporrebbe di fatto a un nuovo principe che volesse liberarla. Il trattato si conclude inoltre con una
citazione poetica di Petrarca: i versi riportati sottolinearne il valore superiore delle milizie italiane in
confronto al “furore” dei barbari. Tuttavia il Principe non ottenne lo scopo desiderato: i Medici,
assai più mediocri di quanto l’autore pensasse, manifestarono riluttanza in tutto ciò, e rifiutarono di
assumersi tale compito, manifestando anche diffidenza nei confronti dell’autore. Egli non ottenne così
l’auspicato incarico e dovette assistere al rapido fallimento del suo programma politico e civile.