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MACHIAVELLI

Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469 - ivi, 1527) è stato il principale prosatore e scrittore politico
del Cinquecento, nonché uomo politico e funzionario di Stato prima al servizio della
Repubblica di Firenze e poi dei Medici, nel tentativo (non sempre riuscito) di trasformare
l'esperienza accumulata sul campo in opere letterarie di pubblica utilità, a cominciare dal
Principe che è il trattato politico più importante del Rinascimento e della letteratura italiana
in genere. Machiavelli è stato il fondatore della politica come scienza e il primo autore a
separare nettamente la sfera dell'agire pubblico da quella della morale e della religione, in
modo talmente esplicito da attirare su di sé varie critiche e la condanna postuma della
Chiesa.

● Biografia
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, dal padre Bernardo, dottore in legge e
da Bartolomea de' Nelli. Della sua prima formazione siamo poco informati, ma sembra che
studiasse grammatica e latino allo Studio della città e di certo studiò autori classici del
calibro di Tito Livio e Lucrezio, destinati a influenzare profondamente il suo pensiero
filosofico e politico. Nel 1498, dopo che Savonarola venne giustiziato, entrò nella vita politica
della Repubblica fiorentina (i Medici erano stati rovesciati nel 1494) e ricoprì vari incarichi
diplomatici, svolgendo missioni in Francia e presso Cesare Borgia, il famoso duca Valentino;
l'osservazione diretta del governo di questi Stati avrebbe in seguito stimolato la sua
riflessione sull'agire politico dei sovrani, specie nel caso del Valentino protagonista di alcune
famose pagine del Principe e presentato quale modello, in positivo e in negativo, di uomo
politico capace di costruirsi la propria fortuna. Nel 1501 sposò Marietta Corsini, dalla quale
ebbe numerosi figli.
Dopo il 1502 divenne il principale collaboratore di Pier Soderini, eletto gonfaloniere e col
quale Machiavelli ebbe una solida amicizia.
Nel settembre 1512 i Medici rientrarono a Firenze in seguito all'intervento delle armi
spagnole e Machiavelli venne allontanato dalla vita pubblica in quanto troppo compromesso
con l'attività della Repubblica: la sua situazione divenne critica quando venne sospettato di
aver preso parte alla congiura anti-medicea e fu arrestato, anche se non ci sono prove di un
suo effettivo coinvolgimento, fatto sta che venne rilasciato poco dopo e confinato in una sua
proprietà presso S. Casciano, e qui scrisse il Principe, come lui stesso ci informa nella famosa
lettera a Francesco Vettori del 10 dic. 1513.
In questa fase Machiavelli si rammaricava di essere stato estromesso dalla vita pubblica e la
composizione del trattato doveva dimostrare ai Medici la sua esperienza maturata al servizio
della Repubblica. Nonostante ciò godeva comunque di una discreta libertà di movimento e
iniziò a frequentare gli Orti Oricellari, una sorta di circolo politico-culturale che si
raccoglieva intorno alla figura di Cosimo Rucellai.
Fu in questo contesto che scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, l'altra grande
opera politica dedicata proprio alle repubbliche.
La morte di Lorenzo de' Medici si attenuò la diffidenza della famiglia Medici nei confronti di
Machiavelli e l'anno seguente poté riavvicinarsi a loro ottenendo i primi incarichi
diplomatici. Ma dopo il famoso sacco di Roma, del 1527, e il tracollo politico di Papa Clemente
VII ci furono delle ripercussioni politiche immediate, tra cui il rovesciamento dei medici e il
ritorno della Repubblica: Machiavelli, per la recente collaborazione con la signoria venne
estromesso dalla vita pubblica, le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e morì
il 21 giugno dello stesso anno a Firenze.

● IL PRINCIPE

Machiavelli si dedicò alla stesura del Principe nel corso del 1513, durante il soggiorno forzato
a San Casciano, con l'intento dichiarato di produrre un trattato che dimostrasse ai Medici la
sua competenza nell'arte politica e indurli ad assegnargli un incarico pubblico nel loro
governo, anche di modesta entità (è lui stesso a darne notizia nella lettera all'amico
Francesco Vettori, datata 10 dicembre 1513, in cui dichiara di aver scritto un "opuscolo"
intitolato De principatibus in cui spiega "che cosa è principato).
Il trattato, il cui titolo originale doveva forse essere De principatibus, è di argomento
storico-politico e non presenta la struttura dialogica spesso utilizzata dal trattato
rinascimentale, mostrando anzi una relativa brevità.
L'opera circolò in forma manoscritta quando Machiavelli era ancora vivo e non venne mai
stampata ufficialmente dell'autore, mentre la prima edizione è postuma e risale al 1532, già
col titolo, poi diventato quello tradizionale, di Principe. Il testo si compone di 26 brevi capitoli
ed è accompagnato da una lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici, che funge in certo modo
da introduzione generale e fu scritta nel 1516, poiché in un primo tempo Machiavelli pensava
di dedicare il trattato a Giuliano de' Medici poi prematuramente scomparso.
Ogni capitolo è preceduto da una rubrica in latino che sintetizza l'argomento trattato e la
struttura dell'opera è rigidamente definita, con un primo capitolo di introduzione generale (I),
l'elenco dei vari tipi di principato esistenti (II-XI), il tema delle milizie e degli eserciti
(XII-XIV), le qualità che deve avere il principe (XV-XXIII), il rapporto virtù-fortuna
(XXIV-XXV), l'esortazione finale ai Medici per l'unificazione dell'Italia (XXVI).

Il trattato si rivolge del resto a un principe "ideale", da non identificare necessariamente con
Lorenzo de' Medici cui l'opera era dedicata, ma Machiavelli spiega come deve governare e
fornisce indicazioni pratiche per il mantenimento dello Stato.

● L’INCIPIT DEL PRINCIPE (CAP. I e II): Nel primo brevissimo capitolo Machiavelli
enuncia in estrema sintesi il contenuto generale dell’opera, operando una prima
distinzione tra repubbliche e principati, le uniche forme di Stato esistenti all'epoca
secondo lo scrittore, e come dirà nel cap. II la sua trattazione riguarderà unicamente i
principati, dal momento che la Repubblica era già stata oggetto dei Discorsi.
È interessante la definizione che Machiavelli fornisce di "stato", che per lui si qualifica
come "imperio sopra gli uomini" e che presenta dunque una forma di dominio di pochi
o di uno solo sulla massa dei sudditi. Qui l’arte politica è presentata essenzialmente
come l'esercizio della forza e del potere sulla società per mantenere l'ordine ed evitare
l'anarchia, per cui lo Stato (principato o repubblica che sia) nasce come mezzo per
mantenere la pace e l'ordine. Poi seguono varie distinzioni dei principati, che possono
essere ereditari o nuovi: I principati ereditari non costituiscono un grande interesse
per Machiavelli, e se ne occupa una volta per tutte nel brevissimo secondo capitolo
portando come esempio il Ducato di Ferrara, la cui solidità politica dipendeva
dall’antichità del dominio Estense.
● CAP. III-V: (I principati misti - Perché, dopo la morte di Alessandro, i suoi successori
non persero il regno di Dario che Alessandro aveva conquistato - In che modo si
debbano governare le città o i principati che, prima di esser conquistati, avevano un
proprio ordinamento )dal terzo capitolo si ribadisce il vero oggetto dell'analisi
machiavelliana, ovvero non i principati in generale, ma quelli in tutto o in parte
nuovi, e di conseguenza non la figura del principe in generale, ma quel principe che si
trova davanti al compito di creare uno stato nuovo, e di gestire la drammatica
transizione da un vecchio regime, che sia principesco o repubblicano; nel V capitolo si
analizzano le repubbliche in quanto oggetto di conquista da parte del principe "nuovo";
Machiavelli dichiara che non c'è modo di conquistarle se non distruggendole
completamente, come nel caso di Roma con Cartagine, infatti le istituzioni
repubblicane rendono le repubbliche strutturalmente superiori ai principati.
● CAP. VI: (I principati nuovi conquistati con armi proprie e con virtù). Il
capitolo è strettamente legato al successivo, poiché in questo passo l'autore esamina il
caso di chi è diventato sovrano con virtù e armi proprie, mentre nel cap. VII tratterà
del caso opposto (chi è diventato principe per fortuna e milizie altrui, come Cesare
Borgia). In questo capitolo gli esempi presentati sono alcuni "grandissimi" personaggi
del passato, come Mosè, Ciro il Grande, Romolo, Teseo, scelta motivata dall'autore con
la necessità di indicare dei modelli quasi inarrivabili per chi deve necessariamente
pensare in grande, come l'arciere che per colpire il bersaglio mira più in alto sapendo
che la freccia poi scenderà nella sua parabola verso il basso. La scelta degli esempi
rivela una certa approssimazione da parte dell'autore, che mescola personaggi tratti
dal mito e dalla storia, tuttavia i modelli sono accomunati dal fatto di essere stati
grandi condottieri e di aver riscattato il loro popolo dalla schiavitù di popoli stranieri.
Non a caso tre di questi personaggi (Mosè, Ciro, Teseo) torneranno nel cap. XXVI
durante l'esortazione finale ai Medici, poiché essi colsero la favorevole opportunità
presentata dalla sorte per liberare i loro popoli, come i Medici dovrebbero fare
cacciando dall'Italia i "barbari.
● CAP VII: (I principati nuovi conquistati con armi altrui e con fortuna). In questo passo
è analizzato il caso opposto, di privati cittadini diventati principi con armi altrui e
l'aiuto della fortuna: la riflessione di Machiavelli è incentrata soprattutto sulla figura
di Cesare Borgia (1475-1507), il duca Valentino figlio illegittimo di papa Alessandro VI e
capace di creare dal nulla un nuovo Stato tra Urbino e la Romagna, con l'aiuto del
padre che gli fornì inizialmente la forza militare necessaria. Il duca Valentino è un
eccellente esempio secondo l'autore di condottiero che, dapprima, è aiutato dalla
fortuna: Cesare è infatti supportato dal padre che gli fornisce l'aiuto militare degli
Orsini e l'appoggio del re di Francia per consentirgli di invadere le Romagne e creare il
proprio Stato. Secondo l'attenta analisi di Machiavelli, il Valentino sarebbe di certo
riuscito ad ampliare i suoi domini anche in Toscana a danno di Firenze, se il padre
Alessandro VI non fosse morto improvvisamente nel 1503 (si disse avvelenato) e lui
fosse riuscito a manovrare efficacemente l'elezione del nuovo pontefice, facendo salire
al soglio pontificio un suo alleato o almeno uno che non fosse un suo nemico; invece
venne in seguito eletto Giulio II della Rovere, nemico giurato dei Borgia, e per colpo di
sfortuna Cesare era gravemente malato nei giorni dell'elezione papale, quindi non poté
far molto per opporsi a questa scelta. Secondo Machiavelli questo fu l'unico e più
grave errore del Valentino, poiché si fidò delle promesse di Giulio II (che si era
impegnato a sostenere il suo Stato nelle Romagne) e poi venne osteggiato dal papa,
che lo fece imprigionare e causò l'ultima sua disfatta. L'esempio del Valentino
anticipa quanto Machiavelli dirà circa il rapporto tra virtù e fortuna, poiché Cesare
avrebbe dovuto prevedere ogni eventualità riguardo alla morte del padre e premunirsi
per tempo, invece la malasorte lo colse impreparato e a causa dell'elezione di papa
della Rovere perse tutti i territori conquistati in precedenza.
● CAP. XV: (Le qualità per le quali gli uomini e specialmente i principi sono lodati o
criticati ) Si apre la parte del trattato dedicata alla descrizione dei comportamenti che
il principe deve tenere nell'azione concreta di governo; quindi elenca le diverse qualità
che possono essere attribuite a un sovrano e specifica che sarebbe bello se il principe
potesse dimostrare solo le qualità considerate "buone", ma poiché ciò è impossibile,
data la natura malvagia degli esseri umani, egli dovrà essere capace di usare l'una o
l'altra a seconda delle circostanze, quindi dovrà essere bugiardo, traditore, violento
quando ciò sarà indispensabile per mantenere intatto lo Stato. Machiavelli non vuole
affatto esortare il principe a comportarsi in maniera malvagia né scrivere un manuale
per tiranni, come pure molti lo accusarono di aver fatto, ma solo affermare che il fine
principale del sovrano è il mantenimento dello Stato. Alcuni comportamenti crudeli
e immorali sono adottabili solo dal politico e solo se strettamente necessari per questo
bene superiore. Ma la stessa affermazione “il fine giustifica i mezzi”, pur usata per
riassumere questo pensiero, è inesatta e inoltre l’attribuzione a Machiavelli di questa
affermazione si può facilmente escludere leggendo Il Principe. Infatti, questa frase non
si trova scritta né qui né tanto meno in altre sue opere. Oltretutto, egli fa un’esplicita
distinzione tra “principi” e “tiranni”: i primi operano a vantaggio dello Stato, e, se
usano metodi immorali, lo fanno per il bene pubblico; i secondi sono crudeli senza
necessità, e solo a proprio vantaggio.
● CAP. XVIII: (In che misura i principi debbano mantenere la parola data)Questo è uno
dei capitoli più scandalosi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata
questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e violenza,
e utilizza una metafora: quella della volpe che simboleggia “l’astuzia” e quella del leone
che simboleggia la “violenza”, entrambe necessarie all'azione di governo poiché la
volpe non si difende dai lupi, il leone non si guarda dalle trappole e dai lacci, quindi
chi volesse governare unicamente con la forza sarebbe destinato a cadere (ciò sembra
una condanna implicita della tirannide e della monarchia assoluta), L'astuzia si
manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non
mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato.
Il capitolo è interessante anche perché Machiavelli ribadisce la necessità per il
sovrano non deve necessariamente avere tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui,
ma deve "parere di averle", e soprattutto deve sembrare pio e religioso in quanto ciò è
utilissimo a conquistare il favore popolare, a tal proposito Machiavelli fornisce anche
un esempio concreto di un simile comportamento "doppio", ovvero re Ferdinando il
Cattolico di Spagna (sia pure citato in modo indiretto) che, a parole, "non predica mai
altro che pace e fede", mentre nella realtà concreta "è inimicissimo" di entrambe.
Un altro esempio che cita è papa Alessandro VI Borgia, il padre naturale di Cesare che
era stato il principale artefice della fortuna e dell'ascesa politica del figlio. I papi
vengono di fatto equiparati da Machiavelli a dei sovrani temporali, essendo i capi di
uno Stato vero e proprio quale era la Chiesa nel XVI sec., e ciò dimostra ancora una
volta la totale separazione tra etica religiosa e politica del trattato
● CA-.XXVI: ( L’esortazoone finale ai Medici)
Composto probabilmente nel 1516 come la lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici, il
capitolo conclusivo del trattato è una appassionata e retorica esortazione ai signori di
Firenze perché si mettano alla testa di un moto di riscossa nazionale e guidino una
sorta di ribellione armata contro gli eserciti stranieri che percorrono l'Italia e ne
causano, secondo la visione dell'autore, la decadenza politica e militare, L'egemonia
degli Stati stranieri in Italia agli inizi del Cinquecento viene definita un "barbaro
dominio" che "puzza" a tutti gli abitanti della Penisola, con un implicito paragone tra
l'Italia "schiava" e quella del periodo romano che imponeva la sua supremazia su tutto
il mondo. L'Italia viene poi paragonata a un corpo malato e pieno di "piaghe" ormai da
lungo tempo "infistolite" (incancrenite), per cui ha bisogno di un condottiero che risani
le sue ferite.

● Lingua e stile dell’opera


Machiavelli scrisse tutte le sue opere principali in volgare, scelta abbastanza "rivoluzionaria"
in un periodo in cui la trattatistica storica e politica era perlopiù in latino, e la lingua da lui
usata anche nel Principe è il fiorentino contemporaneo, da lui considerato strumento più
efficace e di più immediata comprensione rispetto al fiorentino trecentesco teorizzato da
Bembo nelle Prose (la posizione di Machiavelli è espressa nel Discorso intorno alla nostra
lingua, operetta a lui attribuita con qualche riserva). Come spiegato nella lettera dedicatoria a
Lorenzo de' Medici, nel Principe l'autore rinuncia in modo preliminare ad abbellire il testo
con orpelli retorici e punta soprattutto sulla novità del contenuto, esprimendosi in una
lingua essenziale e a tratti nervosa, addirittura si rivolge direttamente al suo interlocutore
ideale dandogli del "tu" e il lessico è spesso diretto e informale.
Qualche decennio più tardi Leonardo Salviati, tra i fondatori dell'Accademia della Crusca,
lodò la chiarezza, l’efficacia e la brevità" di Machiavelli, paragonabili a quelle di Cesare o
Tacito, ma ne condanna "lo stile e la favella", senza alcuna cura nella scelta delle parole.

● Il principe e i totalitarismi del Novecento


Si è visto come le teorie di Machiavelli siano state criticate e condannate nel XVI-XVII sec.,
quando Machiavelli veniva accusato di voler essere un "maestro di tiranni", e come avvolte
una certa interpretazione "obliqua" abbia poi cercato di giustificare la sua opera
attribuendogli la volontà di denunciare le malefatte dei tiranni, svelando "alle genti" le
lacrime e il sangue che grondano dallo scettro dei sovrani (Foscolo): è tuttavia innegabile che
Machiavelli e il Principe abbiano esercitato un certo fascino proprio su alcune figure sinistre
di dittatori del Novecento (Mussolini, Hitler, Stalin) che conobbero e apprezzarono il trattato e
vi ispirarono in maniera più o meno dichiarata, alimentando in seguito il dibattito critico
intorno a un libro controverso che continua tutt'oggi a suscitare interpretazioni opposte

.I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

L'altro grande trattato di argomento storico-politico di Machiavelli nacque negli anni intorno
al 1516-17, l’opera si configura come una serie di riflessioni sui primi dieci volumi degli Ab
Urbe condita libri del grande storico latino Tito Livio, che Machiavelli aveva letto con
interesse e che cita indirettamente in molte altre opere. Il trattato, diviso in tre libri, non ha
la struttura salda e unitaria del Principe e presenta una serie di divagazioni dedicate al tema
delle repubbliche, così come la precedente opera si occupava delle monarchie; costante è il
raffronto tra gli Stati moderni e l'esempio dell'antica Roma.
I Discorsi affrontano comunque alcuni nuclei tematici in cui si ritrovano molti capisaldi del
pensiero dell'autore, ovvero la politica interna e l'organizzazione delle repubbliche (I libro), la
politica estera e militare (II libro), l'analisi di alcune figure di grandi personaggi dell'antica
Roma (III libro).
Riguardo alla politica interna Machiavelli analizza le dinamiche sociali dell'antica
repubblica romana e individua il conflitto fondamentale tra patrizi e plebei, da lui
paragonato a quello tra aristocrazia e popolo minuto nella Firenze del XIV-XV sec. e che fu
risolto a Roma con una redistribuzione dei poteri che fu causa di progresso per lo Stato; nel
conflitto tra nobili e popolo afferma che il popolo non vuol essere oppresso, quindi è difficile
per un sovrano regnare senza l'appoggio popolare, per cui viene respinta l'idea di una
monarchia assoluta.
Fondamentale per lui anche il ruolo della religione a Roma, perché la religione deve poi
affiancarsi all'attività legislativa, poiché solo la legge può garantire l'ordine sociale ed evitare
lo scivolamento nell'anarchia (egli cita le figure di Romolo e Numa Pompilio come legislatori
d'eccezione).
Riguardo alla politica estera la sua attenzione va alle conquiste degli antichi Romani e in
particolare all'organizzazione del loro esercito, che in età repubblicana era formato da
cittadini-soldati e capeggiato da funzionari dello Stato: è evidente che tale modello militare
viene esaltato contro quello delle soldatesche mercenarie del mondo moderno, che lui critica
in quanto le considera inaffidabili e causa prima del declino politico dell'Italia del
Cinquecento.
Grande attenzione è riservata al rapporto virtù-fortuna, ripreso anche nel cap. XXV del
Principe, con l'affermare che le conquiste di Roma furono dovute più alle virtù militari di
consoli e soldati che non al caso e tale tema si collega anche al contenuto del terzo libro, in
cui vengono esaminate alcune importanti figure di personaggi romani (Furio Camillo, i Fabi,
Attilio Regolo...) additati come modelli da imitare da parte dei moderni.
Interessante anche la riflessione circa le teorie dello storico greco Polibio (vissuto a Roma
nel II sec. a.C.) e già oggetto di trattazione da parte di Cicerone, secondo il quale uno Stato
può assumere la forma di monarchia, aristocrazia o democrazia (intesa come repubblica
popolare), ma è destinato a degenerare in tirannide, oligarchia, oclocrazia (dominio della
massa), per cui un buon compromesso è proprio la Repubblica di Roma che compendiava
tutti e tre i poteri, quello monarchico dei consoli, quello aristocratico del senato, quello
popolare dei comizi. È evidente che Machiavelli estende tale considerazione al mondo
moderno, in particolare al caso di Firenze che aveva sperimentato sia la forma repubblicana
che quella monarchica sotto i Medici, simpatizzando per un regime in cui il potere del popolo
è bilanciato dall'azione correttiva dell'aristocrazia.

LA MANDRAGOLA
Machiavelli si dedicò anche alla composizione di commedie, benché tale attività fosse
marginale rispetto alla stesura delle opere storiche e politiche, e il suo testo teatrale più
famoso è senza dubbio la Mandragola, che divenne anche la commedia più nota e apprezzata
dell'intero Cinquecento italiano: non sappiamo precisamente quando la scrisse, ma alcuni
indizi interni al testo permettono di datarla al 1518, certamente prima della composizione
dell'altra sua commedia meno nota (la Clizia).
La commedia venne rappresentata proprio nel 1518 a corte, in occasione dell'annuncio delle
nozze di Lorenzo de' Medici e più volte replicata a Roma, a Venezia e a Modena, riscuotendo
grande successo. Machiavelli si è rifatto a diversi modelli e si è ispirato variamente sia alla
letteratura antica (molti sono i riferimenti alle commedie di Plauto), sia al teatro comico del
Cinquecento (ad es. la Calandria del Bibbiena, specie per il tema della beffa ai danni di un
personaggio sciocco), ma anche alla novellistica del XIV sec., in particolare al Decameron di
Boccaccio (il protagonista, Nicia della Mandragola, sembra modellato sulla figura di
Calandrino). L'opera è interessante non solo riguardo allo sviluppo del teatro comico in età
rinascimentale, ma soprattutto per la visione del mondo e della società contemporanea che
la commedia riflette e che presenta molte analogie con quella presente nelle opere politiche,
a cominciare dal Principe ( infatti, Machiavelli descrive un mondo pervaso dalla corruzione,
in cui tutti sono pronti a ingannare il prossimo per raggiungere i propri fini).
La Mandragola è ambientata nella Firenze dei tempi dell'autore ed è scritta in prosa, anche
se i cinque atti sono chiusi da delle canzoni in endecasillabi e settenari che esprimono il
punto di vista dell'autore e, in qualche caso, ammiccano ironicamente al pubblico. La lingua
usata è il fiorentino popolare e contemporaneo.

● Trama
Il dottore in legge Nicia, uomo molto ricco e altrettanto ingenuo, è sposato con la bellissima
Lucrezia, donna più giovane di lui e dalla quale lui vorrebbe figli che però non arrivano. Il
giovane Callimaco, ricco borghese appena rientrato da Parigi, è perdutamente innamorato di
Lucrezia e pur di farla sua ricorre a un elaborato inganno: con l'aiuto dell'amico e parassita
Ligurio fa credere a Nicia che il solo rimedio alla presunta sterilità della moglie è farle bere
una pozione ricavata dalla mandragola, pianta dalle proprietà medicinali, per cui chi andrà a
letto con lei subito dopo la renderà incinta ma assorbirà il veleno dell'intruglio e morirà entro
una settimana. Nicia viene dunque convinto a far bere la pozione a Lucrezia e a far sì che
uno sconosciuto abbia un rapporto con la donna, in modo che sia lui e non il marito a morire:
ovviamente a infilarsi nel letto della moglie di Nicia sarà lo stesso Callimaco, che in tal modo
potrà soddisfare i suoi desideri amorosi. Bisogna tuttavia superare le resistenze di Lucrezia,
donna molto religiosa che non vuol tradire il marito, e si incaricano di questo fra Timoteo, il
confessore della ragazza che esercita su di lei pressioni e le fa credere che questo atto non
sarà peccato, e la stessa madre di lei, Sostrata, ben contenta che la figlia possa avere un figlio
in seguito a questa tresca.
Alla fine Lucrezia accetta a malincuore e Nicia, Ligurio e Timoteo (travestito da Callimaco)
rapiscono un giovane per strada che, in realtà, è Callimaco a sua volta camuffato e che viene
poi portato nella camera della donna. Qui Callimaco sente il bisogno di svelare il proprio
amore a Lucrezia e le spiega tutto l'inganno, al che la donna non solo approva pienamente
quanto è accaduto, ma farà in modo che la relazione possa proseguire anche in futuro
all'insaputa del marito, che al termine della commedia risulta cornificato, beffato e derubato
dei danari che ha dovuto pagare a fra Timoteo per indurlo a fare da mezzano.

● I personaggi
Callimaco: è il classico innamorato della commedia antica, tuttavia la passione che egli
nutre per Lucrezia finisce per consumarlo e lo spinge ad architettare un complicato inganno
pur di farla sua, anche se alla fine sente il bisogno di confessare alla giovane il suo amore
anziché approfittare della situazione favorevole.
Ligurio: è l’amico e parassita, che agisce in modo apparentemente disinteressato per il solo
gusto di beffare lo sciocco Nicia.
Nicia: è presentato come un ingenuo che crede a qualsiasi fandonia, modellato sul
personaggio di Calandrino delle novelle del Decameron, tuttavia è pieno di altezzosità per la
sua scienza giuridica, che non lo preserva dall'essere ingannato da Callimaco che si finge un
medico e lo induce a credere al rimedio miracoloso della mandragola.
Fra Timoteo: è il confessore di Lucrezia che appare ben poco religioso e molto attento al suo
profitto personale, poiché accetta di fare pressioni sulla ragazza in cambio di denaro e poi
ricorre a pretesti cavillosi (sofisticati) per convincere la giovane Lucrezia del fatto che
l'adulterio non costituirebbe un peccato. Il frate è forse la figura più odiosa della commedia e
quella in cui Machiavelli esercita una critica corrosiva alla Chiesa, mostrando tra l'altro
Timoteo come assai astuto e abile a capire i raggiri di Ligurio ai suoi danni (anche il suo
nome è "parlante" e significa "devoto a Dio", con ovvi risvolti ironici).
Sostrata: è la madre di Lucrezia che spinge a sua volta la figlia a compiere l'adulterio per il
desiderio che lei abbia figli, più per motivi di decoro familiare e opportunità che non per
amore.
Lucrezia: è l’unica che fa eccezione, che si presenta come una fanciulla timorata di Dio e
fedele al marito, che a malincuore accetta di compiacerne i voleri e, quando Callimaco le
svela la verità, lo sceglie come proprio amante e decide di proseguire la relazione anche in
seguito, mostrando una certa iniziativa e capacità di sfruttare la situazione (alcuni studiosi
l'hanno paragonata al principe delineato da Machiavelli nell'opera principale, in quanto abile
a cogliere la propria "fortuna").

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