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SVF III, 38
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 99. Sì, ma anche quanti opinano che soltanto il bello sia bene legittimano
come dimostrato che, per natura, esso sia scelto anche dagli animali privi di ragione. Giacché noi vediamo,
essi dicono, che alcuni animali di razza, come il toro e i galli, pur senza prospettiva alcuna di diletto e piacere
combattono fino alla morte. E coloro tra gli uomini che danno tutto se stessi fino alla propria distruzione per
amor di patria o dei genitori o dei figli forse non lo farebbero mai, non essendovi speranza alcuna di piacere
dopo la morte, se ciò ch’è dabbene non attraesse naturalmente costoro e sempre ogni creatura di razza alla
scelta di se stesso.
[2] XI, 101. Li si può infatti udire affermare che è soltanto la disposizione saggia dell’animo a ravvisare la
virtù, mentre la stoltezza lo rende cieco a questa diagnosi. Ragion per cui sia il gallo che il toro, non
partecipando della disposizione saggia, non sarebbero in grado di ravvisare né il bello né il buono.
Ethica II.
SVF III, 71
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 3. I seguaci dell’antica Accademia, i Peripatetici ed anche gli Stoici sogliono
discriminare tra le cose che sono ed affermare che alcune di esse sono ‘beni’, altre ‘mali’ ed altre ancora cose
frammezzo a queste, che essi chiamano anche ‘indifferenti’.
§ 1. La nozione di bene
Frammenti n. 72-79
SVF III, 73
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 3. Vi erano poi quelli dell’avviso che il bene è ciò che si sceglie per se stesso.
Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri: ‘Ciò ch’è completivo della felicità’. E la
felicità, come esplicitarono i seguaci di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.
SVF III, 75
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 22. Gli Stoici attenendosi ai concetti, come dire, comuni definiscono il bene in
questo modo: ‘Bene è giovamento o non altro da giovamento’; e chiamano ‘giovamento’ la virtù e l’azione
virtuosa, e ‘non altro da giovamento’ l’uomo virtuoso e l’amico. Infatti, poiché istituisce l’egemonico in un
certo modo di essere e poiché l’azione virtuosa è un’attività secondo virtù, la virtù è senza altre mediazioni
‘giovamento’. L’uomo virtuoso e l’amico, a loro volta, essendo anch’essi dei beni potrebbero essere chiamati
né ‘giovamento’ né ‘non altro da giovamento’ per un motivo di questo genere. I seguaci degli Stoici, infatti,
dicono che le parti sono né lo stesso degli interi né eterogenee agli interi. Per esempio, la mano né è essa sola
l’uomo intero, poiché la mano non è l’uomo intero, ma neppure è eterogenea all’intero, poiché l’uomo non è
pensato come uomo nella sua interezza se non dotato di mano. Poiché dunque la virtù è parte sia dell’uomo
virtuoso che dell’amico e le parti sono né identiche agli interi né altre dagli interi, si dice che l’uomo virtuoso
e l’amico siano ‘non altro da giovamento’. Sicché ogni bene è incluso nella definizione, sia che il ‘giovamento’
capiti per via diretta, sia che si tratti di ‘non altro da giovamento’. Da cui, per conseguenza, essi dicono che il
bene può essere designato in tre modi e delineano ciascuno dei significati, di nuovo, secondo la sua peculiare
accezione. In un primo senso essi affermano infatti che si dice bene ‘ciò per via di cui’ o ‘ciò da cui’ si può
trarre giovamento, e questo era appunto il bene assolutamente originario e la virtù; poiché da questa, come
da un a fonte, scaturisce per natura ogni giovamento. In un altro senso essi chiamano bene ‘ciò secondo cui
avviene di trarre giovamento’; e in questo modo saranno dette beni non soltanto le virtù ma anche le azioni
secondo virtù, se appunto avviene di trarre giovamento anche in relazione ad esse. Nel terzo ed ultimo senso
si dice bene ‘ciò ch’è tale da giovare’, e questa esplicitazione include sia le virtù che le azioni virtuose, gli
amici e gli uomini virtuosi, gli dei e i démoni virtuosi.
[2] XI, 30. Gli Stoici dispongono che nell’appellazione del ‘bene’ il secondo significato sia inclusivo del primo e
che il terzo abbracci i due precedenti.
[3] XI, 33. <Alcuni obiettano> che se davvero il bene è ‘ciò da cui si può trarre giovamento’, allora si deve dire
che soltanto la generica virtù è bene e che ciascuna specifica virtù cade fuori dalla definizione. […] Per
controbattere questa incolpazione <gli Stoici> dicono questo: “Qualora noi si affermi che ‘bene è ciò da cui
avviene di trarre giovamento’ diciamo questo intendendolo equivalente ad affermare che ‘bene è ciò da cui
avviene di trarre giovamento in qualcuno dei casi della vita’. In questo modo ciascuna specifica virtù diventerà
un bene, senza apportare genericamente il giovare ma procurando giovamento in qualcuno dei casi della vita:
per esempio, una, come appunto la saggezza, l’essere saggi; un’altra, come appunto la temperanza, l’essere
temperanti.
SVF III, 77
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 40. Il ‘male’, infatti, è l’opposto del ‘bene’. Il che significa che il ‘male’ è
‘danno’ oppure ‘non d’altro genere del danno’. Dire ‘danno’ è come dire ‘vizio’ e ‘azione insipiente’. Dire
‘non d’altro genere del danno’, è proprio come dire ‘persona insipiente’ e ‘nemico personale’.
SVF III, 79
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 90. […] della stoltezza, che i seguaci della Stoa affermano essere il solo male.
SVF III, 96
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 46. I seguaci della Stoa affermano anch’essi che capita di incontrare tre generi
di beni, ma non li classificano allo stesso modo. Dei beni, infatti, alcuni sono beni attinenti all’animo; alcuni
sono esterni; alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni, poiché essi estirpano dal novero dei
beni il genere di beni attinenti al corpo in quanto li dichiarano non beni. Essi dicono che i beni attinenti
all’animo sono le virtù e le azioni virtuose. Beni esterni sono l’amico, l’uomo virtuoso, i figlioli e i genitori
virtuosi, e cose simili. Bene attinente né agli oggetti esterni né all’animo è l’uomo virtuoso stesso nei
confronti di se stesso, giacché egli non può essere né un bene esterno a se stesso né un bene attinente
all’animo, dal momento che consiste di animo e di corpo.
Ethica III.
Sugli indifferenti
§ 1. La nozione di indifferente
Frammenti n. 117-123
Ethica VII.
Sulle passioni
II. FISICA
Frammenti n. 27-37
SVF III [DB], 32
Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ IX, 133. Zenone soleva prospettare questo ragionamento: “Ragionevolmente si
onorerebbero gli dei; ma quelli che sono non dei si onorerebbero irragionevolmente; dunque gli dei esistono”.
Allineandosi a questo ragionamento, alcuni affermano: “Ragionevolmente si onorerebbero i sapienti; ma quelli
che sono non sapienti si onorerebbero irragionevolmente; dunque i sapienti esistono”. Il che non aveva il
beneplacito degli Stoici, poiché il loro ‘sapiente’ è rimasto fino ad oggi introvabile. Replicando alla
giustapposizione dei due ragionamenti, Diogene di Babilonia afferma che il secondo assunto del ragionamento
di Zenone è potenzialmente di questa fatta: “ma quelli che sono per natura inesistenti si onorerebbero
irragionevolmente”. Se si accetta questo assunto è infatti manifesto che gli dei sono per natura esistenti; e, se
è così, allora gli dei esistono già adesso. Se infatti essi sono mai esistiti una volta, esistono anche ora; come gli
atomi, che se c’erano in passato, ci sono tuttora. Secondo il concetto che ne abbiamo, corpi del genere sono
infatti imperituri e ingenerati, e perciò il ragionamento ne dedurrà una conclusione logica conseguente. I
sapienti, dunque, esistono già ora ma non perché essi debbano essere per natura esistenti.
*FRAMMENTI DI LOGICA
Frammenti n. 16-31