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sei anni dopo la morte di Plato- lenismo; tuttavia le fonti e le della villa dell'epicureo Filode-
ne, da genitori ateniesi. Intrapre- testimonianze permettono una mo (I secolo a.C.): si tratta dei
se lo studio della filosofia a quat- ricostruzione abbastanza sicura resti di 9 dei 37 libri di cui era
tordici anni, presso il platonico del complesso del suo pensiero. composta l'opera Sulla natura
Panfilo, proseguendolo a Teo, Diogene Laerzio, nel X libro (Perì physeos), esposizione
presso il democriteo Nausifane. delle Vite dei .filosofi, oltre a non divulgativa della fisica di
A trentadue anni iniziò l'attività esporre il pensiero di Epicuro Epicuro.
di insegnamento a Mitilene, nel- riporta le tre epistole in cui il Altre informazioni essenziali
l'isola di Lesbo; fu quindi a maestro compendiava la sua sulla dottrina provengono da
Lampsaco; nel 306 si trasferl ad dottrina: a Erodoto (sulla fisi- opere di seguaci, come lo stesso
Atene, dove acquistò una casa e ca), a Pitocle (sui fenomeni Filodemo, Diogene di Enoanda
un orto in cui stabilì la sua scuo- celesti), a Meneceo (sull'eti- (II sec. d.C.) e, soprattutto,
la: (donde il termine "Giardi- ca), nonché una raccolta di dal poema in esametri De re-
no", Kepos, con cui essa viene massime, sorta di "catechismo" rum natura di Tito Lucrezio
abitualmente designata). Nel da mandare a memoria, le Mas- Caro (I sec. a.C.), il principale
Giardino Epicuro visse e insegnò sime capitali. Un'altra silloge di sostenitore e divulgatore dell'e-
sino alla morte, avvenuta nel massime, non attribuibili diret- picureismo a Roma. Su molti
270, circondato dai suoi disce- tamente a Epicuro ma alla punti costituiscono poi una te-
poli. scuola, le Sentenze Vaticane, è stimonianza preziosa le esposi-
Fu scrittore fecondissimo: Dio- stata scoperta nel 1888 in un zioni contenute in opere di av-
gene Laerzio gli attribuisce cir- manoscritto conservato nella versari di Epicuro, come Cice-
ca quaranta titoli. Gran parte Biblioteca Vaticana. Alla metà rone, Plutarco, Sesto Empirico,
della sua opera è andata perdu- del Settecento son.o venuti alla e in alcuni appartenenti alla
ta, come è accaduto del resto luce a Ercolano importanti pa- scuola stoica.
I. EPICURO
LETIERAAMENECEO
perché uno solo è l'esercizio del ben vivere e del ben morire. Ma
assai peggio fa chi dice: bello sarebbe non esser nati, o
«non appena nati, subito passar le porte dell'Ade».
127 Se è persuaso di ciò che dice, perché non esce dalla vita? ciò è in suo
potere, se questa è la sua salda convinzione. Ma se scherza, è stolto a
farlo riguardo a cose cui non si conviene.
Occorre ricordare che il futuro non è né del tutto nostro né del tutto
fuori dalla nostra portata, e di conseguenza non aspettarci che si
avveri del tutto né disperare che possa avverarsi.
Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali,
altri vani; e tra quelli naturali alcuni sono anche. necessari, altri
naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista
della felicità, altri allo scopo di eliminare la sofferenza fisica, altri
ancora in vista della vita stessa.
128 Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di
rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquillità dell'anima, dal
momento che questo è il fine della vita beata; è in vista di ciò che
compiamo le nostre azioni, allo scopo di sopprimere sofferenze e
perturbazioni. Una volta che ciò sia sfato raggiunto, si dissolverà ogni
tempesta dell'anima, non avendo l'essere vivente altra esigenza da
soddisfare né altro che possa render completo il bene dell'anima e
del corpo. Abbiamo infatti necessità del piacere quando, per il suo
mancarci, soffriamo; <ma quando non soffriamo più>, anche il
bisogno del piacere viene meno.
Per questo diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felice-
mente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a
noi, e da esso muoviamo nell'assumere qualsiasi posizione di scelta o
129 di rifiuto, così come ad esso ci rifacciamo nel giudicare ogni bene in
base al criterio delle affezioni. Poiché esso è il bene primo e innato,
non cerchiamo qualsiasi tipo di piacere, ma talora rifiutiamo molti
piaceri quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore; e consi-
deriamo anche molti dolori preferibili al piacere, per il piacere mag-
giore che in seguito deriva dall'averli lungamente sopportati. Ogni
piacere è un bene per il fatto che ha natura a noi congeniale; non
tutti i piaceri sono però da ricercarsi, come non tutti i dolori da
fuggirsi, anche se il dolore è di sua natura un male. Bisogna giudi-
care in merito di volta in volta, in base al calcolo e alla considera-
130 zione dei vantaggi e degli svantaggi: giacché certe volte un bene
viene ad essere per noi un male e un male per contro un bene.
Consideriamo bene grande l'autosufficienza, non perché in ogni
caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto,
dobbiamo saperci contentare del poco, schiettamente convinti come
siamo che quelli che con maggior diletto godono dell'abbondanza
sono proprio quelli che di essa hanno minor bisogno, e che tutto ciò
ch'è secondo natura è facile a procacciarsi, ciò ch'è vano è difficile ad
ottenersi. E i cibi frugali danno lo stesso piacere che un cibo son-
tuoso, una volta che sia eliminato il dolore. che viene dal bisogno;
131 una focaccia e un sorso d'acqua danno il più alto piacere a chi li
gusti avendone realmente bisogno. L'abituarsi a un cibo semplice e
non sontuoso da un lato dà salute, dall'altro rende l'uomo solerte
750 nelle occupazioni necessarie della vita; e quando, _di tanto in tanto,
UNITÀ 16 / Felicità
SCHEDA DI ·LETTURA
LmERAAMENECEO
L'esortazione alla filosofia L'esortazione che apre la lettera ne definisce il carattere protret-
(par.122) tico, esortativo, fondato sulla concezione che Epicuro ha della
filosofia. Se per Platone la filosofia costituiva il vertice di un
sapere da acquisire in un lungo percorso di studi, per Epicuro
l'attività del filosofare non richiede una particolare mediazione
culturale: «Ti dichiaro beato, o Apelle - scrive a un discepolo nel
frammento 171 - perché sei venuto alla filosofia puro da ogni
cultura». La filosofia accompagna tutta la vita, come la felicità, che
può essere conseguita in ogni momento. Non per questo, tuttavia,
la felicità è a portata di mano: coincidendo con la saggezza, essa è
frutto di tensione ed esercizio continui.
La concezione della divinità La polemica di Epicuro si rivolge in primo luogo contro la reli-
(parr. 123-124) gione popolare che, sin da Omero, aveva immaginato un inter-
vento diretto e decisivo degli dèi nella vita delle città e degli
uomini. Ma essa sottende anche il rifiuto delle concezioni filosofi-
che della divinità come "demiurgo", intelligenza che dà forma al
cosmo e ne governa armonicamente i processi (Platone). Epicuro
vi contrappone la teologia su base fisica che abbiamo descritto
nella parte introduttiva dell'Unità. Una simile teologia pone diffi-
cili problemi in una concezione materialistica ed "empiristica"
come quella di Epicuro: l'immortalità degli dèi e la loro conoscibi-
lità per via d'esperienza (per spiegare la quale Epicùro è costretto
a immaginare che gli dèi emettano simulacri sottilissimi e velocis-
simi che colpiscono direttamente l'anima, senza p~ssare per gli
organi di senso) sono due esempi di tali difficoltà. E prevalsa per
lungo tempo la tesi dello stoico Posidonio (II secolo a.C.)
secondo la quale Epicuro avrebbe sostenuto l'esistenza degli dèi
per ragioni di "opportunità politica", al fine di evitare un'accusa di
empietà che, ciononostante, accompagnerà per secoli la dottrina.
Gli studi più recenti tendono invece a sottolineare la "autenticità"
della religiosità epicurea e il nesso tra la teologia e il complesso
della dottrina. La divinità è presentata come modello realizzato e
perletto di felicità: dio, in altre parole, è il saggio realizzato. Inattivo
nella sua beatitudine (il contrario contrasterebbe con la sua per-
fezione ), esso è tuttavia oggetto di aspirazione da parte dell'uomo
(vi sono evidenti punti di somiglianza con la divinità aristotelica -
motore· immobile - anche se nella concezione epicurea prevale
l'aspetto etico ed è presente un marcato antropomorfismo).
La morte non è un male Per non ridurre il ragionamento di Epicuro sulla morte a un vuoto
perché di essa non si può sofisma, occorre legarlo strettamente alla fisica e alla teoria della
avere esperienza (par. 124, conoscenza e sottolineare l'istanza fortemente razionalistica che lo
rr. 4-127, riga 6) anima. Nel momento in cui dimostra la vanità della paura della
morte, Epicuro in realtà propone un approccio positivo al pro-
blema, fondato sul concetto del limite. Dal punto di vista fisico-
gnoseologico, la morte è esclusa come esperienza possibile: non vi
è infatti passaggio dalla vita alla morte, ma successione fra due
"istanti", due diverse unità di tempo: o c'è vita o c'è morte. La vita è
un bene, ma la morte non è un male, perché in essa non vi è dolore
752 né sensazione né esperienza. La contrapposizione alla dottrina
UNITÀ 16 / Felicità
I desideri (par. 127, Il tema del piacere e del dolore (proposizioni 3 e 4 del quadrifar-
rr. 7-128,riga IO) maco) è introdotto da un'analisi del desiderio, la tensione alla
soddisfazione del bisogno. Integrando il testo con altre fonti, otte-
niamo la seguente classificazione dei desideri:
La dottrina del piacere Seguendo l'ordine del testo, fissiamo i seguenti punti della dot-
(par. 128, rr. 12-132, riga 6) trina epicurea del piacere: Epicuro riprende lo schema formale
dell'etica greca post-socratica: a} determinazione della natura
dell'uomo; b) concezione del bene come realizzazione di questa
natura. Diverso è il contenuto: ciò che la natura comunica imme-
diatamente all'uomo, attraverso la sensibilità, è l'identità fra bene e
piacere, male e dolore. Platone, nella Repubblica e nel Filebo,
aveva escluso questa identificazione: il piacere sensibile, infatti,
consiste nella soddisfazione di un bisogno che si ripropone conti-
nuamente; dunque il piacere non ha limite, non ha conclusione
in se stesso, non può essere fine. Inoltre esso non è mai "puro",
essendo sempre accompagnato dal dolore. Anche Aristotele, pur
rivalutando l'importanza del piacere sensibile, aveva escluso che
esso possa costituire il fine della vita, l'unico piacere che è fine
essendo quello che si realizza nella vita contemplativa. Per Epi-
curo dunque qualsiasi piacere è in sé buono; la valutazione
riguardo al godimento o al rifiuto di un piacere va fatta in rela- 753
zione alle conseguenze. Qui interviene il calcolo (loghismòs},
una commisurazione puramente quantitativa dei piaceri e dei
dolori che conseguono alla realizzazione di un desiderio.
Il piacere, in quanto soddisfazione di un bisogno (come in Pla-
tone}, consiste nell'eliminazione del dolore: •Il limite di gran-
dezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore•, Massime capitali,
III. Ciò significa che il r.iacere non è aumentabile indefinitamente
in intensità e durata •non aumenta il piacere della carne una
volta che sia tolto il dolore per ciò che ci mancava, ma solo si
varia•, Massime capitali, XVIII). I cirenaici (vedi SCHEDA Le
scuole socratiche minori), riprendendo una opinione comune,
consideravano piacere e dolore come "variazioni" di uno stato
medio di "indifferenza" che caratterizza l'esistenza ordinaria. Per
Epicuro, invece, piacere e dolore si escludono a vicenda. La spari-
zione del piacere coincide con il limite superiore del dolore, sia
rispetto all'intensità che alla durata.
Ancora in opposizione ai cirenaici, che considerano il piacere in
termini di movimento, Epicuro distingue due ordini di piaceri (la
distinzione, fondamentale, è presupposta ma non esplicitata nel-
l'ultimo capoverso della sezione che stiamo esaminando): i pia-
ceri "in movimento", o cinetici, e i piaceri stabili, o catastematici.
Il godimento che si prova nel bere quando si è assetati appartiene
alla prima categoria, e cessa col venir meno del bisogno. Il non
avere sete è piacere catastematico: non un movimento quindi, ma
uno stato caratterizzato dall'assenza di bisogno, cioè di dolore.
Ecco perché la felicità non consiste nella "crapula", ma nell'auto-
sufficienza (autàrcheia), nella libertà dal bisogno.
L'ideale della saggezza Prudenza (phrònesis} è termine aristotelico che indica la saggezza
(par.132,rr. 7-15) pratica. Subordinata, in Aristotele, alla sophìa, questa "tecnica del
vivere" viene elevata da Epicuro a fondamento della virtù e della
felicità. Il modello di felicità disegnato da Epicuro non coincide
dunque né con la soddisfazione irriflessiva del desiderio né con il
"lasciarsi vivere" senza desiderio; al contrario, la concentrazione
sul piacere catastematico, sulla stabile gioia dell'esistenza per se
stessa, richiede un grande sforzo, quel •sobrio ragionare• che è
tensione al controllo di sé, ricerca e amore per la vita autentica.
La libertà e la fortuna Il saggio epicureo vive nel giusto rapporto con gli dèi, con la morte,
(par.133) con il piacere e con il dolore: questa sua vita lo rende simile a un
dio. Fondamento di questa concezione è che l'uomo abbia la possi-
bilità di decidere, che sia, quindi, libero (la polemica contro il
•fato che predicano i fisici• è rivolta probabilmente a Democrito).
Necessità, caso e spontaneità (che hanno il loro corrispettivo fisico
nella caduta perpendicolare, negli urti e nel clinamen degli atomi)
si mescolano nell'agire dell'uomo: questi non è né del tutto libero,
né del tutto determinato, né del tutto esposto alla fortuna. In
questa mescolanza, ognuno ha tuttavia la possibilità di scegliere
intorno a ciò che è in suo potere; in ogni circostanza, la felicità è
una conquista possibile per la phrònesis.