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Epicuro nacque a Samo nel 341, all'intera filosofia del primo el- piri, contenuti nella biblioteca

sei anni dopo la morte di Plato- lenismo; tuttavia le fonti e le della villa dell'epicureo Filode-
ne, da genitori ateniesi. Intrapre- testimonianze permettono una mo (I secolo a.C.): si tratta dei
se lo studio della filosofia a quat- ricostruzione abbastanza sicura resti di 9 dei 37 libri di cui era
tordici anni, presso il platonico del complesso del suo pensiero. composta l'opera Sulla natura
Panfilo, proseguendolo a Teo, Diogene Laerzio, nel X libro (Perì physeos), esposizione
presso il democriteo Nausifane. delle Vite dei .filosofi, oltre a non divulgativa della fisica di
A trentadue anni iniziò l'attività esporre il pensiero di Epicuro Epicuro.
di insegnamento a Mitilene, nel- riporta le tre epistole in cui il Altre informazioni essenziali
l'isola di Lesbo; fu quindi a maestro compendiava la sua sulla dottrina provengono da
Lampsaco; nel 306 si trasferl ad dottrina: a Erodoto (sulla fisi- opere di seguaci, come lo stesso
Atene, dove acquistò una casa e ca), a Pitocle (sui fenomeni Filodemo, Diogene di Enoanda
un orto in cui stabilì la sua scuo- celesti), a Meneceo (sull'eti- (II sec. d.C.) e, soprattutto,
la: (donde il termine "Giardi- ca), nonché una raccolta di dal poema in esametri De re-
no", Kepos, con cui essa viene massime, sorta di "catechismo" rum natura di Tito Lucrezio
abitualmente designata). Nel da mandare a memoria, le Mas- Caro (I sec. a.C.), il principale
Giardino Epicuro visse e insegnò sime capitali. Un'altra silloge di sostenitore e divulgatore dell'e-
sino alla morte, avvenuta nel massime, non attribuibili diret- picureismo a Roma. Su molti
270, circondato dai suoi disce- tamente a Epicuro ma alla punti costituiscono poi una te-
poli. scuola, le Sentenze Vaticane, è stimonianza preziosa le esposi-
Fu scrittore fecondissimo: Dio- stata scoperta nel 1888 in un zioni contenute in opere di av-
gene Laerzio gli attribuisce cir- manoscritto conservato nella versari di Epicuro, come Cice-
ca quaranta titoli. Gran parte Biblioteca Vaticana. Alla metà rone, Plutarco, Sesto Empirico,
della sua opera è andata perdu- del Settecento son.o venuti alla e in alcuni appartenenti alla
ta, come è accaduto del resto luce a Ercolano importanti pa- scuola stoica.

I. EPICURO
LETIERAAMENECEO

•La Lettera a Meneceo è un compendio dell'etica di Epicuro; si affianca


alla Lettera a Erodoto (sulla fisica) e alla Lettera a Pitocle (sull'astronomia). Si tratta di
testi "di scuola", rivolti ai discepoli «perché possano ritenere sufficientemente nella memo-
ria i principi fondamentali» della dottrina e servirsene agevolmente. Non sono quindi
luoghi di ricerca, di discussione, di problematizzazione, ma esposizioni dogmatiche che
permettono di avere la dottrina sempre "sottomano". Proprio per il suo fine eminente-
mente pratico, terapeutico, la filosofia non deve rimanere sospesa nel dubbio, ma mettere
capo alla certezza. Questo carattere dogmatico è un aspetto peculiare della dottrina di
Epicuro e ne spiega la sostanziale stabilità nel corso dei secoli.
• La fisica e la teoria della conoscenza hanno, come abbiamo visto, una
funzione essenzialmente liberatrice: non occorre quindi, ai fini della felicità, che tutti ne
ripercorrano il difficile cammino, per impadronirsene: è sufficiente sapere che esiste una
teoria capace di allontanare la paura degli dèi e della morte e conoscerne le proposizioni
fondamentali. Nel caso dell'etica, invece, la teoria va vissuta nell'esperienza e trova solo
nell'agire quotidiano la sua conferma. Essa deve costruire un abito mentale, attraverso un
esercizio instancabile di meditazione. La Lettera a Meneceo è dunque un testo di medita-
748 zione. La numerazione laterale indica la suddivisione in paragrafi del testo.
UNITÀ 16 / FellciNI

Epicuro saluta Meneceo.


Non indugi il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nes-
suno mai è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell'anima.
Chi dice che l'età per filosofare non è ancora giunta o è già trascorsa, è
come se dicesse che non è ancora giunta o è già trascorsa l'età per la
felicità. Devono filosofare sia il giovane sia il vecchio; questo perché,
invecchiando, possa godere di una giovinezza ·di beni, per il grato
ricordo del passato; quello perché possa insieme esser giovane e
vecchio per la mancanza di timore del futuro. Bisogna dunque eser-
citarsi in ciò che può produrre la felicità: se abbiamo questa posse-
diamo tutto; se non la abbiamo, cerchiamo di far di tutto per posse-
derla. ·
123 Le cose che ti ho di continuo raccomandate, falle ed esercitati in
esse, considerandole i principi del ben vivere. Per prima cosa devi
ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, così
come è suggerito dalla comune nozione del divino, e non attribuirle
niente che sia estraneo all'immortalità e discorde dalla beatitudine;
pensa invece di essa tutto ciò che può essere atto a preservare la
felicità insieme con l'immortalità. Gli dèi esistono: abbiamo di essi
conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepi-
sce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma
in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del
volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi: infatti i
giudizi di questo circa gli dèi non sono prenozioni, ma supposizioni
124 false; e in base a tali supposizioni si usa ricondurre agli dèi i più
grandi danni e i più grandi benefizi. Non avendo intimità che con le
proprie virtù, essi accolgono quelli che son loro simili, considerando
straniero chi non è tale.
Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene
e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto
privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per
noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non
prolungando indefinitivamente il tempo, ma sopprimendo il deside-
rio dell'immortalità. Nulla c'è di temibile nel vivere per chi si sia
125 veracemente convinto che nulla di temibile c'è nel non vivere più. E
così anche stolto è chi afferma di temere la morte non perché gli
arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arreca dolore il fatto di
sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano
che ci addolori nell'attesa. Il più terribile dei mali dunque, la morte,
non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la
morte non c'è, e quando essa sopravviene noi non siamo più. Essa
non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli
uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non· sono più. Ma il volgo
ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora invece <la
cerca> come cessazione <dei mali> della vita. <Il saggio, al contra-
126 rio, non chiede di vivere> né teme il non vivere: non è contrario
alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male. E così come
del cibo non aspira al più abbondante ma al più gradevole, del
tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce.
Chi esorta il giovane a ben vivere, il vecchio a .ben morire, è uno
stolto; e non solo per ciò che la vita ha di piacevole, ma anche 749
La filosoflla nell'età ellenisffco•romana

perché uno solo è l'esercizio del ben vivere e del ben morire. Ma
assai peggio fa chi dice: bello sarebbe non esser nati, o
«non appena nati, subito passar le porte dell'Ade».
127 Se è persuaso di ciò che dice, perché non esce dalla vita? ciò è in suo
potere, se questa è la sua salda convinzione. Ma se scherza, è stolto a
farlo riguardo a cose cui non si conviene.
Occorre ricordare che il futuro non è né del tutto nostro né del tutto
fuori dalla nostra portata, e di conseguenza non aspettarci che si
avveri del tutto né disperare che possa avverarsi.
Bisogna anche considerare che dei desideri alcuni sono naturali,
altri vani; e tra quelli naturali alcuni sono anche. necessari, altri
naturali soltanto; tra quelli necessari poi alcuni lo sono in vista
della felicità, altri allo scopo di eliminare la sofferenza fisica, altri
ancora in vista della vita stessa.
128 Una sicura conoscenza di essi sa rapportare ogni atto di scelta o di
rifiuto al fine della salute del corpo e della tranquillità dell'anima, dal
momento che questo è il fine della vita beata; è in vista di ciò che
compiamo le nostre azioni, allo scopo di sopprimere sofferenze e
perturbazioni. Una volta che ciò sia sfato raggiunto, si dissolverà ogni
tempesta dell'anima, non avendo l'essere vivente altra esigenza da
soddisfare né altro che possa render completo il bene dell'anima e
del corpo. Abbiamo infatti necessità del piacere quando, per il suo
mancarci, soffriamo; <ma quando non soffriamo più>, anche il
bisogno del piacere viene meno.
Per questo diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felice-
mente. Lo consideriamo infatti come un bene primo e connaturato a
noi, e da esso muoviamo nell'assumere qualsiasi posizione di scelta o
129 di rifiuto, così come ad esso ci rifacciamo nel giudicare ogni bene in
base al criterio delle affezioni. Poiché esso è il bene primo e innato,
non cerchiamo qualsiasi tipo di piacere, ma talora rifiutiamo molti
piaceri quando ne seguirebbe per noi un dolore maggiore; e consi-
deriamo anche molti dolori preferibili al piacere, per il piacere mag-
giore che in seguito deriva dall'averli lungamente sopportati. Ogni
piacere è un bene per il fatto che ha natura a noi congeniale; non
tutti i piaceri sono però da ricercarsi, come non tutti i dolori da
fuggirsi, anche se il dolore è di sua natura un male. Bisogna giudi-
care in merito di volta in volta, in base al calcolo e alla considera-
130 zione dei vantaggi e degli svantaggi: giacché certe volte un bene
viene ad essere per noi un male e un male per contro un bene.
Consideriamo bene grande l'autosufficienza, non perché in ogni
caso dobbiamo attenerci al poco, ma perché, se non abbiamo molto,
dobbiamo saperci contentare del poco, schiettamente convinti come
siamo che quelli che con maggior diletto godono dell'abbondanza
sono proprio quelli che di essa hanno minor bisogno, e che tutto ciò
ch'è secondo natura è facile a procacciarsi, ciò ch'è vano è difficile ad
ottenersi. E i cibi frugali danno lo stesso piacere che un cibo son-
tuoso, una volta che sia eliminato il dolore. che viene dal bisogno;
131 una focaccia e un sorso d'acqua danno il più alto piacere a chi li
gusti avendone realmente bisogno. L'abituarsi a un cibo semplice e
non sontuoso da un lato dà salute, dall'altro rende l'uomo solerte
750 nelle occupazioni necessarie della vita; e quando, _di tanto in tanto,
UNITÀ 16 / Felicità

ci accostiamo a ricche mense, tale abitudine ci dispone meglio nei


loro confronti e ci rende intrepidi dinanzi alla sorte.
Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo
affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come cre-
dono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano
male; ma alludiamo all'assenza di dolore nel corpo, all'assenza di
132 perturbazione nell'anima. Non dunque le libagioni e le feste ininter-
rotte, né il godersi fanciulli e donne, né il mangiare pesci e tutto il
resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice; ma quel
sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di
rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali grande
turbamento s'impadronisce dell'anima.
Principio di tutto ciò e massimo bene è la prudenza. Perciò la pru-
denza appare ancor più apprezzabile che la filosofia, giacché da essa
provengono tutte le altre virtù, in quanto ci insegna che non è
possibile vivere piacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e
giustamente, <e di contro che non è possibile vivere saggiamente e
bene e giustamente> se non anche piacevolmente. Le virtù sono
infatti connaturate alla vita felice e questa è inseparabile dalle virtù.
133 Chi, quindi, potresti ritenere superiore a colui che ha pie credenze
nei riguardi degli dèi, non nutre alcun timore nei riguardi della
morte, sa comprendere che cosa sia veramente il bene secondo
natura, e sa che il sommo dei beni è facilmente raggiungibile e facile
a conseguirsi, mentre il sommo dei mali ha breve durata o intensità
lieve; colui che deride quel <destino> da alcuni addotto come
supremo potere, <e afferma che alcune cose avvengono per neces-
sità>, altre per sorte, altre per nostra azione e che vede bene come la
necessità sia irresponsabile, la sorte instabile, il nostro arbitrio libero,
sì che ad esso consegue naturalmente lode o biasimo? E in verità
sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dèi che non rendersi
134 schiavi di quel fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una
speranza con la possibilità di placare gli dèi con onori, mentre nel
fato vi è una necessità implacabile. Un uomo siffatto non considera la
sorte una divinità, poiché la divinità non fa niente che sia privo di
ordine; ma neanche una causa priva di fondamento reale poiché, se
non crede che da essa provengano agli uomini bene e male in ordine
alla vita felice, crede però che da essa possa semplicemente prove-
135 nire l'avvio a grandi beni e mali. E crede che sia preferibile cadere
nella sfortuna con retta ragione che avere grande fortuna con stolto
consiglio; è meglio infatti che, fra le nostre azioni, qualcuna pur
compiuta con retto giudizio <non sia condotta a buon fine dalla
sorte piuttosto che un'azione senza retto giudizio> sia poi condotta a
buon fine dalla sorte.
Esercitati notte e giorno nella meditazione di questi precetti, e di
altri a questi simili, in te stesso e verso chi è simile a te: forte di essi,
sarai libero da turbamento sia nel sonno che nella veglia, e vivrai
come un dio fra gli uomini. Poiché in niente è simile a un mortale
l'uomo che viva fra beni immortali.

da Epicuro, Lettera a Meneceo, in Opere di Epicuro, a cura di M. Isnardi Parente,


Utet, Torino 1974. 751
La filosofia nell'età ellenislico·romana

SCHEDA DI ·LETTURA
LmERAAMENECEO

Proprio per la sua destinazione Epicuro e il confronto con testimonianze posteriori, al


"divulgativa", la Lettera a l'etica del IV secolo. Va inoltre fine di ottenere una
Meneceo è un testo "facile": integrata, in taluni punti, con comprensione non superliciale
essa tuttavia presuppone in altre fonti (in particolare con dell'etica epicurea. La SCHEDA·
ogni passaggio il riferimento le Massime capitali e con le DI LETIURA fornisce elementi in
alla dotj:r:ina generale di Sentenze Va~icane) e con le tal senso.

L'esortazione alla filosofia L'esortazione che apre la lettera ne definisce il carattere protret-
(par.122) tico, esortativo, fondato sulla concezione che Epicuro ha della
filosofia. Se per Platone la filosofia costituiva il vertice di un
sapere da acquisire in un lungo percorso di studi, per Epicuro
l'attività del filosofare non richiede una particolare mediazione
culturale: «Ti dichiaro beato, o Apelle - scrive a un discepolo nel
frammento 171 - perché sei venuto alla filosofia puro da ogni
cultura». La filosofia accompagna tutta la vita, come la felicità, che
può essere conseguita in ogni momento. Non per questo, tuttavia,
la felicità è a portata di mano: coincidendo con la saggezza, essa è
frutto di tensione ed esercizio continui.

La concezione della divinità La polemica di Epicuro si rivolge in primo luogo contro la reli-
(parr. 123-124) gione popolare che, sin da Omero, aveva immaginato un inter-
vento diretto e decisivo degli dèi nella vita delle città e degli
uomini. Ma essa sottende anche il rifiuto delle concezioni filosofi-
che della divinità come "demiurgo", intelligenza che dà forma al
cosmo e ne governa armonicamente i processi (Platone). Epicuro
vi contrappone la teologia su base fisica che abbiamo descritto
nella parte introduttiva dell'Unità. Una simile teologia pone diffi-
cili problemi in una concezione materialistica ed "empiristica"
come quella di Epicuro: l'immortalità degli dèi e la loro conoscibi-
lità per via d'esperienza (per spiegare la quale Epicùro è costretto
a immaginare che gli dèi emettano simulacri sottilissimi e velocis-
simi che colpiscono direttamente l'anima, senza p~ssare per gli
organi di senso) sono due esempi di tali difficoltà. E prevalsa per
lungo tempo la tesi dello stoico Posidonio (II secolo a.C.)
secondo la quale Epicuro avrebbe sostenuto l'esistenza degli dèi
per ragioni di "opportunità politica", al fine di evitare un'accusa di
empietà che, ciononostante, accompagnerà per secoli la dottrina.
Gli studi più recenti tendono invece a sottolineare la "autenticità"
della religiosità epicurea e il nesso tra la teologia e il complesso
della dottrina. La divinità è presentata come modello realizzato e
perletto di felicità: dio, in altre parole, è il saggio realizzato. Inattivo
nella sua beatitudine (il contrario contrasterebbe con la sua per-
fezione ), esso è tuttavia oggetto di aspirazione da parte dell'uomo
(vi sono evidenti punti di somiglianza con la divinità aristotelica -
motore· immobile - anche se nella concezione epicurea prevale
l'aspetto etico ed è presente un marcato antropomorfismo).

La morte non è un male Per non ridurre il ragionamento di Epicuro sulla morte a un vuoto
perché di essa non si può sofisma, occorre legarlo strettamente alla fisica e alla teoria della
avere esperienza (par. 124, conoscenza e sottolineare l'istanza fortemente razionalistica che lo
rr. 4-127, riga 6) anima. Nel momento in cui dimostra la vanità della paura della
morte, Epicuro in realtà propone un approccio positivo al pro-
blema, fondato sul concetto del limite. Dal punto di vista fisico-
gnoseologico, la morte è esclusa come esperienza possibile: non vi
è infatti passaggio dalla vita alla morte, ma successione fra due
"istanti", due diverse unità di tempo: o c'è vita o c'è morte. La vita è
un bene, ma la morte non è un male, perché in essa non vi è dolore
752 né sensazione né esperienza. La contrapposizione alla dottrina
UNITÀ 16 / Felicità

pitagorico-platonica dell'anima conduce a un atteggiamento di


fronte alla morte simmetrico rispetto a quello platonico. Se il
Socrate del Pedone platonico esalta il valore dell'immortalità (la
mortalità del corpo è positiva perché libera l'anima dalla sua pri-
gione), Epicuro esalta quello della mortalità del composto anima-
corpo: la meditazione filosofica sulla morte diviene esaltazione
della vita (di qui la polemica contro il tradizionale "pessimismo"
greco - vedi il verso di Sofocle citato nel testo). Il terrore della
morte nasce infatti dal falso desiderio dell'immortalità, che altro
non è se non una manifestazione dell'incapacità di vivere il pre-
sente. Il bene non è nella durata, ma nella purezza del piacere:
solo la consapevolezza della finitezza rende possibile la gioia della
vita. L'argomento mira alla costruzione di un atteggiamento che
sposta l'attenzione dal futuro (incerto e fuori della nostra possibi-
lità di controllo) al presente, con un mutamento di prospettiva
destinato a divenire un vero e proprio "luogo comune" nella cul-
tura ellenistico-romana (si ricordino il carpe diem e il laetus in
praesens oraziani).

I desideri (par. 127, Il tema del piacere e del dolore (proposizioni 3 e 4 del quadrifar-
rr. 7-128,riga IO) maco) è introdotto da un'analisi del desiderio, la tensione alla
soddisfazione del bisogno. Integrando il testo con altre fonti, otte-
niamo la seguente classificazione dei desideri:

NECESSARI (crno, ACQUA, CALORE)


NATURALI- [
NON NECESSARI (AMORE, CIBI RAFFINATI)
[
DESIDERI- .
VANI --------+ (ONORI, RICCHEZZE, POTENZA)

Il criterio di discriminazione è fornito dalla natura. Quest'ultima è,


per Epicuro, un insieme di eventi meccanici, di fatti, non un
ordine normativo e finalisticamente orientato. Come può una
natura così intesa fornire una norma d'azione? Ciò avviene perché
essa definisce il limite dei desideri. Abbiamo appena considerato
la fallacia del desiderio dell'immortalità; altrettanto avviene per
gli altri desideri: sono vani, vuoti, quelli che non hanno corrispon-
denza in natura; sono naturali, ma non necessari, quelli che
eccedono la soglia di necessità fissata dalla natura («Grida la
carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo», Sentenze
Vaticane, 33). Bisogna dunque fuggire i desideri vani; soddisfare
eccezionalmente e con moderazione quelli non necessari; sce-
gliere come regola di vita la soddisfazione di quelli necessari.

La dottrina del piacere Seguendo l'ordine del testo, fissiamo i seguenti punti della dot-
(par. 128, rr. 12-132, riga 6) trina epicurea del piacere: Epicuro riprende lo schema formale
dell'etica greca post-socratica: a} determinazione della natura
dell'uomo; b) concezione del bene come realizzazione di questa
natura. Diverso è il contenuto: ciò che la natura comunica imme-
diatamente all'uomo, attraverso la sensibilità, è l'identità fra bene e
piacere, male e dolore. Platone, nella Repubblica e nel Filebo,
aveva escluso questa identificazione: il piacere sensibile, infatti,
consiste nella soddisfazione di un bisogno che si ripropone conti-
nuamente; dunque il piacere non ha limite, non ha conclusione
in se stesso, non può essere fine. Inoltre esso non è mai "puro",
essendo sempre accompagnato dal dolore. Anche Aristotele, pur
rivalutando l'importanza del piacere sensibile, aveva escluso che
esso possa costituire il fine della vita, l'unico piacere che è fine
essendo quello che si realizza nella vita contemplativa. Per Epi-
curo dunque qualsiasi piacere è in sé buono; la valutazione
riguardo al godimento o al rifiuto di un piacere va fatta in rela- 753
zione alle conseguenze. Qui interviene il calcolo (loghismòs},
una commisurazione puramente quantitativa dei piaceri e dei
dolori che conseguono alla realizzazione di un desiderio.
Il piacere, in quanto soddisfazione di un bisogno (come in Pla-
tone}, consiste nell'eliminazione del dolore: •Il limite di gran-
dezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore•, Massime capitali,
III. Ciò significa che il r.iacere non è aumentabile indefinitamente
in intensità e durata •non aumenta il piacere della carne una
volta che sia tolto il dolore per ciò che ci mancava, ma solo si
varia•, Massime capitali, XVIII). I cirenaici (vedi SCHEDA Le
scuole socratiche minori), riprendendo una opinione comune,
consideravano piacere e dolore come "variazioni" di uno stato
medio di "indifferenza" che caratterizza l'esistenza ordinaria. Per
Epicuro, invece, piacere e dolore si escludono a vicenda. La spari-
zione del piacere coincide con il limite superiore del dolore, sia
rispetto all'intensità che alla durata.
Ancora in opposizione ai cirenaici, che considerano il piacere in
termini di movimento, Epicuro distingue due ordini di piaceri (la
distinzione, fondamentale, è presupposta ma non esplicitata nel-
l'ultimo capoverso della sezione che stiamo esaminando): i pia-
ceri "in movimento", o cinetici, e i piaceri stabili, o catastematici.
Il godimento che si prova nel bere quando si è assetati appartiene
alla prima categoria, e cessa col venir meno del bisogno. Il non
avere sete è piacere catastematico: non un movimento quindi, ma
uno stato caratterizzato dall'assenza di bisogno, cioè di dolore.
Ecco perché la felicità non consiste nella "crapula", ma nell'auto-
sufficienza (autàrcheia), nella libertà dal bisogno.

L'ideale della saggezza Prudenza (phrònesis} è termine aristotelico che indica la saggezza
(par.132,rr. 7-15) pratica. Subordinata, in Aristotele, alla sophìa, questa "tecnica del
vivere" viene elevata da Epicuro a fondamento della virtù e della
felicità. Il modello di felicità disegnato da Epicuro non coincide
dunque né con la soddisfazione irriflessiva del desiderio né con il
"lasciarsi vivere" senza desiderio; al contrario, la concentrazione
sul piacere catastematico, sulla stabile gioia dell'esistenza per se
stessa, richiede un grande sforzo, quel •sobrio ragionare• che è
tensione al controllo di sé, ricerca e amore per la vita autentica.

La libertà e la fortuna Il saggio epicureo vive nel giusto rapporto con gli dèi, con la morte,
(par.133) con il piacere e con il dolore: questa sua vita lo rende simile a un
dio. Fondamento di questa concezione è che l'uomo abbia la possi-
bilità di decidere, che sia, quindi, libero (la polemica contro il
•fato che predicano i fisici• è rivolta probabilmente a Democrito).
Necessità, caso e spontaneità (che hanno il loro corrispettivo fisico
nella caduta perpendicolare, negli urti e nel clinamen degli atomi)
si mescolano nell'agire dell'uomo: questi non è né del tutto libero,
né del tutto determinato, né del tutto esposto alla fortuna. In
questa mescolanza, ognuno ha tuttavia la possibilità di scegliere
intorno a ciò che è in suo potere; in ogni circostanza, la felicità è
una conquista possibile per la phrònesis.

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