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Introduzione:

C’era un uomo che ad Atene, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., all’ombra degli alberi
del suo giardino, insegnava la filosofia ai suoi discepoli: era Epicuro.

Epicuro nasce nel 341 a.C. a Samo, fin da subito si interessa alla filosofia, assistendo alle lezioni del
platonico Pànfilo e del democriteo Nausìfane. A circa diciotto anni si trasferisce ad Atene per poi
intraprendere una serie di viaggi, i più importanti sono: Mitilene, incominciando un’attività di
insegnamento in una scuola propria. Poi ad Atene, dove acquista una casa con un giardino: qui tiene
le sue lezioni, tanto che ben presto la sua scuola diventerà nota con il nome “Giardino”

La sua scuola di pensiero perdurò per oltre settecento anni fino al IV secolo d.C., era tenuta in
particolare considerazione presso i Romani, infatti i pochi scritti che ci sono rimasti dei trecento
originali sono stati tramandati integralmente proprio da un Romano, Diogene Laerzio. Ricordiamo
che nella scuola di Epicuro ci si dedicava allo studio e allo scambio di idee.

Possiamo sintetizzare sua filosofia: una vita illuminata dalla ragione è capace di allontanare le
passioni giungendo alla felicità; il fine ultimo appunto della filosofia. La scuola di Epicuro era una
scuola aperta anche alle donne, ricordiamo l’etèra Leonzia. Inoltre i seguaci della sua filosofia
(chiamati “filosofi del giardino”) dovevano attenersi strettamente agli insegnamenti del maestro, per
questo nessuno dei discepoli apportò un contributo originale alla dottrina.

Egli ci ha lasciato molti scritti, soprattutto di natura epistolare; tra questi “La lettera sulla felicità”
avente come destinatario Meneceo.

Lettera sulla felicità

Epicuro saluta Meneceo,

Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello
occuparsi del benessere dell’animo nostro. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di
dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è
ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi
è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo
avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti
in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la
felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla. Pratica e
medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.

L’Epistola presenta due immagini dell’uomo: da un lato quella propria della maggior parte degli
uomini, in preda ai loro pregiudizi e alle loro paure, ma anche ai loro desideri; dall’altro la figura
del saggio. Il saggio si è liberato dai timori, che considera infondati, sa godere dei piaceri senza
perdere l’equilibrio, senza incorrere nei turbamenti: ed è così che raggiunge la felicità. Questa
immagine avrà grande fortuna nella filosofia – e non solo in quella antica. Nel saggio si
identificherà spesso la figura del filosofo, come maestro di saggezza e modello di vita, ideale di una
piena realizzazione umana.
Egli parla della felicità come di qualcosa che può e deve essere raggiunto da tutti, sia giovani che
anziani, perché occuparsi del benessere dell’anima è bello a qualsiasi età. Da giovani è necessario
conoscere la felicità per preparare sé stessi a non temere il futuro, irrobustendosi in essa; quando si
è anziani, invece, in virtù del ricordo positivo di quanto si è stati felici nei tempi trascorsi, per
potersi sentirsi ancora giovani.

Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la
nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre
vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a
tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare,
ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni
ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire
da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono
perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.

Poi abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il
soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che
la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l’inganno del tempo
infinito che è indotto dal desiderio dell’immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi
davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver
paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua
continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La
morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è,
quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti
non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai
mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, cosi non teme di non vivere più. La vita
per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la
quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.

Che cosa impedisce all’uomo di essere felice? Soprattutto le sue paure, in particolar modo quella
degli dei e quella della morte.

Per Epicuro gli dei certo esistono, ma non sono come li presenta la tradizione letteraria greca o il
popolo, ma vivono beati disinteressandosi dei problemi degli uomini. L’angoscia suscitata dalla
presenza del divino non ha quindi senso e l’uomo saggio deve liberarsene accettando di fatto “la sua
terrestrità”, la sua “naturalità” come corpo composto di atomi.

Il padre dell’epicureismo parla poi della morte. Non bisogna avere alcun timore nel non vivere più,
altrimenti afflitti dalla continua attesa della nostra fine finiremmo con il non goderci la vita stessa;
non si ha infatti ragione di temere la morte, perché con la fine della vita scompare ogni possibilità di
percepire piacere o dolore. La consapevolezza di chi non ha paura della morte, non è infatti avere
“l’ingannevole desiderio dell’immortalità”, ma godere la mortalità della vita stessa. La morte non
esiste per noi uomini in quanto come dice lo stesso “quando lei non c’è noi viviamo, quando c’è lei
noi non ci siamo”. (Il tema riguardante la paura della morte è la seconda “medicina” della filosofia
epicurea).
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma
anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa
condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il
piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il
nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e
l’animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e
donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita
felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi
condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e
bene supremo è l’intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile
della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita
felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità,
perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

Epicuro parla poi dei desideri, che se soddisfatti portano l’uomo ad essere felice, classificandoli in
due categorie:

– desideri naturali,che a loro volta possono essere divisi in:

-necessari, essenziali alla vita dell’uomo che nascono da un bisogno fisico, che può essere quello di
bere o mangiare quando si ha fame o sete;

– non necessari, come per esempio mangiare cibi dal sapore ricercato quando non si ha fame.

– desideri vani, superflui che se non soddisfatti non comportano dolore fisico, come per esempio la
brama di ricchezza.

Alcuni desideri necessari sono di primaria importanza per la felicità, altri per il benessere del
fisico(mangiare, bere…), altri per la vita.

Conoscere i desideri porta alla perfetta serenità dell’ animo .I desideri che possiede l’uomo sono
mossi senz’ altro dal piacere, fine e principio della vita felice; ciò perché l’ uomo, se sereno, e
quindi se ha soddisfatto il proprio piacere, non deve più andare alla ricerca del bene per l’animo e
per il corpo. Il piacere è anche privazione di dolore e quindi privazione di male, anche se non
sempre si sa distinguere il bene dal male. Esso è quindi bene ed aiuta pertanto il corpo a non soffrire
. Epicuro parla dei piaceri distinguendoli in due gruppi:

– mobili :che sorgono nel momento in cui si pone di un bisogno (mangiare quando si ha fame);

– stabili: che nascono in assenza di dolore (il piacere che segue la mangiata).

La vita felice non è data dalla grande abbondanza di viveri ,di donne e fonti di divertimento, ma
dalla consapevolezza delle cause di ogni scelta . Bene supremo di ciò è la saggezza, madre di tutte
le virtù e superiore anche alla stessa filosofia. ”Non si dà vita felice senza che sia saggia, né vita
saggia priva di felicità” perché le virtù sono strettamente connesse alla felicità e da questa
inseparabili.

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