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Aldo Berselli*

Minghetti e la destra storica

Marco Minghetti non discendeva dalla tradizionale nobiltà cittadina. I suoi antenati erano stati, nel '700,
cultores terrarum, proprietari di un fondo che coltivavano con le loro braccia. Il nonno aveva abbandonato la
terra per venire in città ad esercitare il commercio della canapa e di coloniali. Abile, intraprendente, coraggioso
ma anche fortunato. Gli era appena giunto nel porto di Marsiglia un forte carico di zucchero, caffè e spezie
varie quando Napoleone Bonaparte, da Berlino nell'ottobre del 1806, emanò il decreto del blocco continentale
in base al quale tutti i porti europei erano chiusi al commercio inglese, provocando uno smisurato rialzo dei
prodotti importati e di conseguenza notevolissimi guadagni per il commerciante bolognese. Il figlio Giuseppe,
padre di Marco, abbandonò il commercio e investì nelle terre. Sposò Rosa Sarti, di ricca famiglia borghese
anch'essa proprietaria di terre. Alla morte del padre, Marco venne a trovarsi in una situazione di agiatezza -
come scrive nelle sue memorie - che lo rendeva uomo libero e indipendente. Era in realtà un po' più che
agiatezza. Se proviamo a farne una valutazione approdiamo a dati interessanti. Secondo il Catasto Gregoriano
nel 1835 le proprietà terriere di Minghetti avevano una consistenza di 1598 ettari ed erano sparse in quasi tutti i
comuni della provincia. E' importante aggiungere che egli non era estraneo al mondo delle banche e del credito:
nel 1837, a diciannove anni, è azionista fondatore della Cassa di Risparmio in Bologna e intrattiene, poi, anche
rapporti con la Banca dello Stato Pontificio, ottenendo somme cospicue di denaro per intensificare talune
particolari colture e rendere più produttive le sue terre.
Per quanto riguarda la sua educazione è noto che fu affidato in parte a precettori per le lingue straniere e storia;
ai padri barnabiti per il latino e a Michele Medici, fisiologo e letterato, per gli studi umanistici. Trascurabile
l'insegnamento di Paolo Costa. Per quanto riguarda il suo risveglio alla coscienza politica, esso è dovuto
all'influenza che esercitò su di lui lo zio Pio Sarti. Riferisco due episodi sui quali merita riflettere. Ecco il
primo: nel luglio del 1830 Marco si trovava in campagna a Cadriano quando vede giungere, in gran fretta, su un
carrettino lo zio Sarti che agitava da lontano alcuni fogli: erano i giornali francesi che recavano le notizie della
rivoluzione scoppiata a Parigi. Madre e zio si misero a leggere insieme, lui presente, tutto quanto i giornali
narravano, esaltando le cosiddette le giornate gloriose. Ne traevano grandi speranze per l'avvenire non solo
della Francia ma dell'Europa intera. Lo zio era entusiasta. La rivoluzione spazzava via la monarchia di diritto
divino restaurata dopo la caduta di Napoleone e con essa finiva il dominio di due suoi pilastri: il clero e
l'aristocrazia ereditaria. Creava una nuova monarchia, nuova nel senso che era nata dalla volontà della nazione
la quale, riappropriatasi di tutti i suoi diritti, aveva preparato una costituzione legittimata in particolare dalla
volontà del ceto più illuminato, colto, attivo di produttori e delle professioni, vale a dire dalla borghesia.
Pio Sarti era un fervente fautore dell'idea liberale di lontana incubazione nella nostra città, risalente alla
ribellione del Terzo Stato e al giuramento della Pallacorda, che si era fatta più consapevole, dopo la
restaurazione, in ceti non titolati, di ricchezza più o meno cospicua frutto dell'attività, del lavoro e anche di
professionisti (medici, notai, avvocati, docenti universitari).
Penso ad esempio a Luigi Valeriani, docente di economia politica, il quale nel 1821, quando fiorivano le sette
di varie specie, invitava i giovani studenti a prepararsi, con lo studio severo e l'impegno concreto, al compito di
congregare tutte le terre d'Italia in un'unica unità di nazione indipendente con un solo re ad essa stretto con
mutuo legame di un patto costituzionale.
Un altro vivo ricordo di Minghetti riguarda la mattina del 6 febbraio 1831 quando lo zio andò a prenderlo nella
sua casa di Bologna e lo condusse in Piazza Maggiore: era stata alzata una bandiera tricolore; un mondo di
gente che andava e veniva; vi erano uomini armati di schioppi da caccia; popolani e studenti, non pochi, affiliati
a sette, che gridavano "viva la libertà" e cantavano anche la Marsigliese. Il Prolegato aveva ceduto il potere ad
una commissione di governo da lui nominata con cittadini influenti di tendenza liberale che, sotto la pressione
popolare, fu costretta a dichiarare cessato per sempre di fatto e di diritto il dominio temporale della Santa Sede
sulle provincie sollevate e di lì venne la proclamazione dello Stato delle Provincie Unite con tutto quel che a
essa seguì. Dopo 45 giorni il ritorno degli austriaci pose fine ad una rivoluzione che rendeva evidente
l'impotenza delle insurrezioni.
Ricordando questi due episodi Minghetti maturò la convinzione che era impossibile sottrarsi al governo dei
preti e al loro giogo mediante moti insurrezionali, sommosse popolari, organizzazioni settarie. Il cammino della
nostra libertà era connesso con le evoluzioni, le trasformazioni e le guerre che in Europa avrebbero mutato i
rapporti, a tutti i livelli, non solo fra Stato e Stato, ma anche fra le classi sociali entro ciascun Stato.

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Intanto, in questo contesto, restava solo la possibilità e la volontà di promuovere una decisa attività
riformatrice. Minghetti e altri liberali bolognesi diedero vita nel '39 al rinnovamento della Società agraria, dopo
il '40 alle conferenze agrarie, nel '42 alla fondazione del "Felsineo" che dibatté problemi relativi alle riforme
(lavori pubblici, scuole, ferrovie, sicurezza personale, amministrazione). Minghetti vi tenne una rubrica relativa
ai movimenti che si manifestavano negli stati europei. L'11 giugno redasse un memoriale facendolo pervenire ai
cardinali riuniti in Conclave con l'indicazione di tutte le riforme ritenute urgenti e necessarie. Fu fra i fondatori
della Conferenza Economica che nel maggio del 1847 accolse con grande entusiasmo Richard Cobden
salutandolo come il propugnatore del libero commercio. In quell'occasione prende la parola per esaltare la Lega
di Manchester che ha già "operato immani imprese" e produrrà nel mondo profonde mutazioni nella libertà
commerciale; e conclude che nella libertà commerciale si difende la libertà dell'uomo. Quando viene eletto Pio
IX, il papa che parve voler realizzare il sogno di Gioberti e assicurarne il suo corso, Minghetti accetta la nomina
alla Consulta che egli stesso aveva ideata per collaborare al rinnovamento dello Stato; nel febbraio del '48 è
nominato ministro di Polizia. Dopo l'allocuzione di Pio IX del 29 aprile '48, deluso e sconfortato, abbandona
Roma e raggiunge in Piemonte il campo di Carlo Alberto che ha mantenuto fede allo Statuto concesso. Tornato
a Bologna dopo l'esito infelice delle operazioni militari piemontesi, trova i circoli politici in fermento e orientati
per una Costituente romana. Si rifiuta di promuoverla e si schiera nel partito contrario. Per impeto di coerenza?
Per debolezza d'animo? Il cronista Bottrigari, liberale fervente e deciso anticlericale, esprime un giudizio che
mi sembra molto puntuale: "Marco Minghetti è un diplomatico e non ha slanci di cuore. Non avendo fede nella
Costituente vuol serbarsi intatto per un divenire che vagheggia e che forse non è lontano". Passato il biennio
rivoluzionario, nella funzione di consigliere comunale, indica ancora,con insistenza, la necessità di riforme e
chiede, appoggiato da don Ferranti, la secolarizzazione dello Stato. Nei circoli bolognesi liberali democratici
aperti alla sfida lo definiscono costituzionale pontificio, ma Minghetti non demorde e non cambia la sua tattica
di creare strumenti nuovi, anche per lo sviluppo economico. Esisteva a Bologna una succursale della banca
dello Stato Pontificio, ma i saggi di sconto e i cambi restavano elevatissimi. Nacque l'idea di fondare, con sede
a Bologna, la banca per le Quattro Legazioni (Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì), banca di sconto per il
Commercio, l'Industria e l'Agricoltura. Minghetti fu fra i promotori e i soci fondatori. La banca, nata nel '55, era
indipendente da quella di Roma e autonoma nella gestione. Costituiva un embrione di autonomia in uno Stato
sui generis al quale tale concetto era del tutto estraneo ed era un fatto che aveva un importante significato
politico.
Chiamato in Francia nel '56 da Cavour, che partecipava al Congresso di Parigi, Minghetti collaborò alla stesura
di due note nelle quali si dimostrava la situazione deplorevole e la condizione dolorosa e pericolosa dello Stato
pontificio.
Nell'estate del '57, Pio IX compì un viaggio nelle Legazioni; a Bologna il 6 agosto ricevette Minghetti in un
colloquio che non fu privo di intima e spontanea sincerità. Il pontefice apparve irremovibile a concedere
riforme. Minghetti lo avvertì che il Piemonte sarebbe rimasto l'unico erede delle speranze dei popoli. Il
colloquio si fermò qui. Rappresentò lo strappo definitivo dal suo passato di costituzionale pontificio.
Cavour, entusiasta della collaborazione prestata da Minghetti a Parigi, lo volle a Torino per affidargli l'incarico
di primo segretario al ministero degli Esteri con il compito particolare di seguire gli "affari italiani" e quindi a
diretto contatto con lui. Affrontò le difficoltà con il suo personale metodo fatto di prudenza e di capacità di
decisione. Per quanto riguarda le Romagne, perfettamente d'accordo con Cavour, affermò il principio della
volontà popolare contro quello di legittimità della vecchia Europa. Presidente dell'Assemblea delle Romagne, il
7 settembre '59 presentò e fece votare una mozione da lui stesso preparata la quale dichiarava che "i popoli
delle Romagne, rivendicato il loro diritto, non vogliono più governo temporale".
Nel nuovo Regno d'Italia, nell'ottobre del '60, Cavour lo chiamò al suo fianco come ministro dell'Interno
vincendo a fatica le resistenze del re. Lo riteneva, fra gli uomini politici, il più idoneo per attuare un nuovo
sistema di amministrazione.
Per fare l'Italia Cavour aveva accantonato, ma non certo abbandonato, l'ideale di un Paese nel quale le
autonomie locali fiorissero entro un saldo legame di unità politica. Non diversamente la pensava Minghetti che
era fautore dell'autogoverno degli enti locali cui spettano le attività amministrative che portano a migliorare la
vita dei cittadini. Aveva già dato prova di intendere il valore delle autonomie locali contribuendo alla creazione
della Banca delle Quattro Legazioni. Diventato ministro dell'Interno, sempre più convinto come Cavour che
bisognava realizzare la libertà nell'amministrazione, allargarla, estenderla a un livello più ampio, elaborò un
progetto di riforma di carattere regionale e concepì la regione come consorzio permanente di province per
provvedere all'istruzione superiore, alle accademie di Belle arti, agli archivi storici, a quei lavori pubblici che
non sono essenzialmente retti dallo Stato, né sono propri dei consorzi facoltativi e delle singole province. Da
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questo concetto di regione, come consorzio permanente di province, derivava necessariamente la negazione del
sistema di elezione diretta: la regione come ente autarchico è amministrata da una commissione composta di
membri eletti dai consigli provinciali fra i consiglieri stessi; nel suo aspetto invece di circoscrizione
amministrativa dello Stato, aspetto che vive accanto all'altro, essa è sede di un governatore rappresentante
dell'autorità centrale nella regione, organo esecutivo della regione stessa e figura termine del massimo
decentramento per via di delegazione. La figura del Governatore doveva, secondo Minghetti, garantire contro il
rinascere "di piccoli Stati e di piccoli parlamenti". Spentosi ai primi di giugno improvvisamente Cavour,
Ricasoli, suo successore, si rivelò assolutamente contrario alle regioni: era persuaso che la regione fosse una
ruota non solo inutile ma dannosa, e che il sistema regionale costituisse la "distruzione di ogni governo". Ribadì
questi concetti nel discorso programmatico di governo. Minghetti si dimise. Ricasoli, il barone di ferro, era la
personalità più forte e di maggior prestigio della Destra toscana che annoverava uomini come Cambray-,Digny,
Peruzzi, Bianchi e Bastogi, per citare solo i vertici. Era un gruppo coeso che verrà fra poco definito, come altri
gruppi della Destra, una "consorteria".
Ritornò al governo nel marzo 1863. Presidente e ministro delle Finanze, Peruzzi all'Interno, Visconti Venosta
agli Esteri, Pisanelli alla Giustizia e Amari all'Istruzione: una compagine governativa quasi tutta costituita di
non piemontesi. Si proponeva di procedere a riforme amministrative-finanziarie che molti esponenti del mondo
liberale chiedevano con insistenza, convinti com'erano che i governi fossero sino allora stati subordinati ad una
egemonia piemontese a tutti i livelli: nella corte, nella diplomazia, nell'esercito, nei grandi corpi dello Stato. Ma
il paese era in quei giorni in ebollizione: meeting in favore del popolo polacco insorto, e Garibaldi raccoglieva
volontari per muovere verso Roma. Minghetti capì subito che non si poteva accantonare il problema della
Capitale nella quale erano ancora presenti le truppe francesi. Riprese le trattative già avviate da Cavour con
Napoleone III e, come tutti sappiamo, riuscì in assoluta segretezza, a concludere la cosiddetta Convenzione di
settembre che presentò alla Camera e che fu immediatamente approvata. Tra i voti favorevoli erano quelli di
Sella, Lanza e Lamarmora i quali, in particolare Sella, divennero perciò i massimi esponenti della Destra
piemontese. Torino insorse. Il re, che era stato tenuto all'oscuro di tutto, definì Minghetti un "ipocrita". Questi si
dimise. Fino al '69 non ci fu più spazio per lui. Nelle elezioni politiche dello stesso anno non riuscì ad essere
rieletto nel tradizionale primo collegio della sua città: i liberali progressisti bolognesi ancora non gli
perdonavano di essere stato ministro pontificio e devoto al papa. Fu eletto nel collegio di Legnago che continuò
a confermarlo. Sempre nel '69 finirono i cosiddetti governi del re e si formò il governo Lanza - Sella nel quale
la figura dominante era Sella; agli Esteri sempre e ancora Visconti. Scoppiata la guerra franco-tedesca, Visconti
inviò Minghetti a Vienna perché nessuno meglio di lui conosceva la situazione generale europea. Dopo la
sconfitta di Sedan spetta a Sella il merito di aver fatto tutto quello che poteva per entrare in Roma. Minghetti
era del tutto d'accordo con lui e, da Vienna, esortava Visconti a non avere esitazioni confortandolo. Aperta la
breccia a Porta Pia, assicurava Visconti circa l'atteggiamento dei governi europei, nessuno dei quali nutriva più
riserve anche sul plebiscito e l'annessione al Regno d'Italia. Entrati nella Capitale, la questione romana stava
ancora davanti a loro nel suo aspetto più difficile che era quello di stabilire le condizioni che dovevano essere
date per assicurare la libertà e l'indipendenza del capo della Chiesa Cattolica nell'esercizio del suo potere
spirituale. Alcuni pareri.
Ricasoli: la nazione deve spiegare la bandiera della libertà della Chiesa e della separazione completa e assoluta,
compiendo così una rivoluzione politica e sociale la più splendida dopo la rivoluzione del cristianesimo, ma a
patto che non si intenda la Chiesa una mera congregazione di sacerdoti. Sella: la nuova missione di Roma
capitale è la scienza, Roma centro di scienza equivale a una Roma laica solidamente costruita di fronte al
Vaticano e alla tradizione ecclesiastica. Molto vicino a lui Luzzatti, giovane recluta della Destra, il quale
confessa di non riuscire a comprendere come si possano conciliare due principi opposti come sono la Chiesa
Cattolica e lo Stato moderno. Minghetti: l'Italia una e libera è stata fatta; occorre determinare le garanzie
dell'indipendenza del pontefice e del libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede: compito dell'Italia
è quello di portare nel mondo una nuova idea: quella della libertà largamente applicata rapporti della società
civile con la religione e porsi così all'avanguardia del movimento liberale europeo.
Il dibattito parlamentare fu avviato sul testo della Commissione che divideva la legge in due titoli. Il primo si
intitolava Delle prerogative del Sommo Pontefice, il secondo aveva per oggetto Le relazioni della Chiesa con lo
Stato in Italia. Deus ex machina del progetto fu Bonghi. Il progetto dimostrava né posizioni
giurisdizionalistiche, né idee riformatrici ricasoliane. Il dibattito fu intenso e vi parteciparono fautori della
formula cavouriana, deputati clericali, fautori del giuridizionalismo, cattolici liberali della statura di Stefano
Jacini. Minghetti intervenne più volte con la sua seducente e raffinata eloquenza, ma lo fece con grande energia

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sull'articolo relativo al placet e agli exequatur contro coloro che, adducendo vari ordini di motivi, sostenevano
la necessità dell'ingerenza dello Stato nelle nomine dei vescovi.
Minghetti ricordò, a confutazione, che Cavour intendeva rinunciare a qualunque diritto di nomina o
raccomandazione dei vescovi; e chiarì il proprio pensiero: "lo Stato ha il suo proprio fine e questo fine è distinto
e indipendente da quello della Chiesa; non già che lo Stato, come con esagerazione straniera si dice, sia ateo, sia
laico: esso è incompetente in materia religiosa. La Chiesa è una associazione libera la quale vive nello Stato e
non deve avere vincolo alcuno che non abbiano le altre società. I diritti della Chiesa non sono privilegi che le
provengono dalla propria essenza; scaturiscono dal diritto individuale di ciascun cittadino che si accoglie in
associazione. Certo la Chiesa è grandemente rispettabile e per la nobiltà e per la grandezza della sua missione e
pel numero dei suoi membri, ma non perciò deve avere privilegi: è una società che vive dentro lo Stato e quindi
soggetta alla legge comune".
Quando la legge per le guarentigie fu votata, la Destra, nonostante essa fosse dal punto di vista giuridico non
priva di antinomie e fosse di fatto frutto di un compromesso politico, si dichiarò soddisfatta dell'opera compiuta
e di aver portato a termine una linea politica, iniziata con Cavour nel '55, quando era stata aperta la breccia per
entrare nella fortezza del clericlarismo e costituire lo Stato moderno. E' un fatto innegabile che all'ombra della
legislazione ecclesiastica liberale fu possibile la grande e mirabile ripresa delle istituzioni cattoliche nei decenni
successivi al '70.
Ma subito apparve una nuova urgente questione: quella del pareggio. Protagonisti Sella e Minghetti che proprio
non si amavano, anzi non si sopportavano. Minghetti giudicava Sella un analitico al quale mancava nei grandi
affari di stato la sintesi decisiva. Sella giudicava Minghetti un uomo di cultura letteraria, un uomo del
Rinascimento al quale non si poteva affidare con tranquillità i sommi affari di Stato.
Nel dicembre del '71 Sella presentò un piano inteso a raggiungere il pareggio entro cinque anni, un piano
rigoroso e nello stesso tempo un omnibus, un insieme cioè di nuove imposizioni e di aggravi fiscali che
indiscriminatamente ferivano a morte troppi interessi.
Minghetti non si sentì questa volta di appoggiare e di avallare una pioggia di nuove imposte e che si dovesse
invece trarre maggior introito riordinando quelle esistenti e rendendone più facile e meno dolorosa la
riscossione: occorreva far fruttare le imposte esistenti e dar tregua e sollievo, nei limiti del possibile, ai
contribuenti: sanare il deficit sì, ma evitando di soffocare lo sviluppo dell'agricoltura, dell'industria e del
commercio. Sella rimase fermo nelle sue idee, ma la Camera, nella tornata del 20 giugno '73, bocciò il suo
piano quinquennale. Votarono contro anche i seguaci di Minghetti e di Peruzzi. Fu segno grave di una scissione
interna della Destra. A Sella non restò che dimettersi.
La successione spettò al Minghetti. Riuscì a fatica a comporre un ministero. Dovette accollarsi le Finanze,
rimase Visconti Venosta agli Esteri, agli Interni andò Girolamo Cantelli, consigliere di Stato, poco conosciuto,
legato ai gruppi più conservatori della Destra. Ai Lavori pubblici andò Spaventa, politico temprato, coraggioso,
di grande capacità di lavoro. A Minghetti però mancava l'appoggio di Peruzzi e di Sella: per sopravvivere aveva
bisogno dell'appoggio di un gruppo della nuova Sinistra che veniva costituendosi in modo autonomo rispetto
alla Sinistra, per così dire "storica". Con questa puntò alla creazione di una working majority per una politica di
riforme.
Per rafforzare il ministero, Visconti e Minghetti indussero il re a intraprendere, nel settembre, un viaggio a
Vienna e a Berlino che confermò un accordo morale, una entente pacifica, senza che fossero sottoscritti trattati.
L'accordo comportava il riconoscimento definitivo dell'unità raggiunta e l'ingresso del nuovo Stato fra le
potenze europee, a pieno titolo, come fattore necessario della pace e dell'equilibrio dell'Europa e garanzia per i
principi di ordine e di conservazione sociale. Un altolà alla Francia e alle intenzioni del clericalismo francese.
Un capolavoro di politica estera. Rassicurata la posizione internazionale Minghetti mirò a qualificare il suo
ministero con una proposta di legge, intesa a disciplinare la circolazione cartacea, nel periodo e per il solo
periodo forzoso. Con essa concedeva finalmente l'emissione a sei banche principali, con corso legale, non più
regionale, ma in tutte le città dove avessero sedi succursali e rappresentanze. Era la prima legge organica sulle
banche d'emissione. Accontentava interessi particolaristici e regionali e tutti coloro, ed erano tanti, che
accusavano la Banca Nazionale di egemonismo. La proposta fu votata nella tornata del 13 febbraio '74 da una
maggioranza compatta quale non si era mai vista alla Camera dopo Cavour: restavano all'opposizione il gruppo
di Sella legato alla Banca Nazionale, e a sinistra, il gruppo Crispi-Nicotera.
Fu il momento più fortunato del nuovo corso politico sperimentato da Minghetti. Ma quando presentò i
provvedimenti finanziari l'appoggio cominciò a venirgli meno, in particolare era combattuto il provvedimento
relativo agli atti non registrati. Si trattava di una misura ispirata a principi di giustizia e di moralità: si citava il
caso di "ricchi e potenti elettori" che non avevano né denunciato né registrato proprietà appartenute a
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corporazioni religiose soppresse nel 1866, e numerosi erano i contratti simulati fatti in quegli anni per i beni
dell'asse ecclesiastico. Minghetti non intendeva rinunciare al pareggio che aveva programmato di raggiungere
nel '76, ma il provvedimento relativo agli atti non registrati venne respinto a scrutinio segreto per un solo voto.
Sella e Peruzzi non gli erano venuti in soccorso, e tuttavia riuscì, con altre misure, a raggiungere il suo
obiettivo.
Minghetti presentò le dimissioni ma il re le respinse. Non riuscì mai più ad aggregare la Destra attorno a un
obiettivo condiviso da tutti i gruppi che la componevano.
Nelle elezioni politiche del novembre '74 produssero sgomento i risultati del Mezzogiorno: il partito liberale
moderato aveva guadagnato nelle Provincie settentrionali, aveva conservato le posizioni in quelle centrali, ma
era stato battuto in misura grave nel Mezzogiorno. Minghetti scriveva a Ricasoli: "Questo accentuarsi di due
Italie, una meridionale e una settentrionale, è fenomeno grave". In effetti l'Italia dello sviluppo aveva votato la
Destra, l'Italia dell'arretratezza la Sinistra. Era nel panorama generale del Paese un'altra anomalia che si
aggiungeva alle troppe difficoltà di ogni genere che allarmavano la classe dirigente.
In un contesto dominato, senza pausa, dal dibattito sulla strada da percorrere per mettere concretamente in moto
il processo di trasformazione dei partiti e della società, intanto era spuntato e cominciava ad affermarsi il
socialismo anarchico libertario per la predicazione affascinante di Bakunin. La lotta politica incominciò ad
assumere un volto sino allora impensabile. La classe dirigente di destra, sempre vigile e dominata da paure di
ogni genere, fu tratta ad usare lo strumento tradizionale della repressione per troncare con durezza "le mene dei
sovversivi". Ciò avvenne nella primavera del '74, quando l'Internazionale bakuninista era una forza in
espansione e anche Andrea Costa predicava la rivoluzione sociale, annunciandola imminente. Uguale fu
l'atteggiamento di intervento inteso a sgominare le fila del sovversivismo repubblicano. Ciò avvenne nell'agosto
del '74 nei confronti di un gruppo di mazziniani romagnoli e di altre parti d'Italia che si erano riuniti a convegno
a Villa Ruffi nel riminese. Si fece una retata di tutti i convenuti che vennero arrestati e incarcerati. Non si trovò
nemmeno una striscia di carta né a Villa Ruffi né altrove a prova della temuta vasta congiura. In Sicilia,
deputati di sinistra denunciavano che l'autorità dello Stato era quasi annientata, il diritto di proprietà violato e la
sicurezza personale esposta a gravissimi pericoli, e chiedevano misure eccezionali per estinguere la mafia.
Minghetti, al di là di ogni scrupolo costituzionale, accolse l'invito a restaurare l'ordine e presentò, nel dicembre
'74, un progetto di legge contenente provvedimenti straordinari.
Lo schema di legge incontrò subito aperte opposizioni alla Camera, nella stampa di ogni tendenza, siciliana e
nazionale, nei gruppi politici, anche in uomini che si sentivano parte della Destra. La discussione della legge
rivelò il disimpegno anche di suoi amici che finirono per svuotarla nel suo contenuto e a ridurla ad un articolo
unico assolutamente riduttivo. Solo Ricasoli era apparso sicuro sostenitore di Minghetti. Per il Governo divenne
infine una partita persa. E' però un fatto che, caduto l'ultimo governo della Destra, la Sicilia si trovò
abbandonata a se stessa.
La Destra visse in quegli anni momenti di grande tensione e di dissenso interno nell'impegno di salvaguardare
insieme la libertà e l'ordine sociale. Il suo comportamento non fu mai monolitico e dogmatico e la formula "la
libertà nella legge" non venne adottata senza la consapevolezza della sua astrattezza e del suo equivoco
formalismo. E dunque non senza travaglio, talvolta drammatico e profondamente sofferto.
Infine, si presentò un altro grosso nodo da sciogliere e che riguardava "il conflitto degli interessi". Dopo il '70,
le Società delle strade ferrate avevano cominciato a trovarsi di fronte a difficoltà sempre crescenti che finirono
per coinvolgerle tutte dalle Romane alle Meridionali e infine all'Alta Italia. Il Governo si trovò ingaggiato con
esse in una serie di conflitti a non finire. Spaventa, nel maggio del '74, presentò alla Camera le convenzioni
recentemente stipulate con le Romane e con le Meridionali e preannunciò, non lontano, il momento in cui lo
Stato avrebbe dovuto sostituirsi alle Società e ne disse anche le ragioni. L'autonomia della industria ferroviaria
non è conciliabile con gli interessi supremi dello Stato; le strade ferrate, in certe circostanze, assumono
un'importanza eccezionale per la difesa nazionale, perché esse sono le vene e le arterie per le quali si raccoglie e
circola il sangue della ricchezza nazionale e quindi il loro stato di salute si ripercuote istantaneamente e
profondamente sul corpo sociale. Lo Stato perciò deve vigilare e intervenire, e l'industria ferroviaria non può
considerarsi industria come le altre: in essa non è possibile la concorrenza, e dunque è un monopolio. Lo
avevano accusato di statolatria e tanto più lo fecero in quest'occasione. Egli riaffermò la sua idea dello stato
"civile" che è "la coscienza direttiva per cui una nazione sa di essere guidata nelle vie, la società si sente sicura
nelle sue istituzioni, i cittadini si veggono tutelati negli averi e nelle persone". Anche Sella, che aveva vissuto
l'esperienza del Piemonte dove le ferrovie erano state costruite dallo Stato con ammirabile efficienza, era
d'accordo con Spaventa nell'inflessibile difesa dello Stato e in pieno rispetto dei patti con i padroni delle Società
ferroviarie. Quando Spaventa propose il riscatto delle ferrovie, soprattutto delle Meridionali e dell'Alta Italia, lo
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appoggiò. Nacque così un conflitto tra il Governo e uomini della consorteria toscana: Peruzzi, Bastogi,
Cambray- Digny, tutti coinvolti nella gestione delle Meridionali e dell'Alta Italia. Il conflitto di interessi fu
durissimo. Occorre precisare, a questo punto, che era in atto uno scontro tra Ferrara e Luzzatti. Ferrara, liberale
e liberista intransigente, seguito da Peruzzi, muovevano a Luzzatti accuse di germanismo economico,
bismarckismo, statolatria, diserzione dal campo liberale e così via. Luzzatti e i suoi seguaci (erano tanti: da
Sella a Villari, Fortunato, Morpurgo) erano convinti che il progresso, rendendo più complessi i rapporti sociali,
postulava l'intervento dello stato entro i limiti che non offendono in nessun caso la libertà, per equilibrare e
armonizzare le contraddizioni esistenti nella società. Il conflitto si estendeva anche ai trattati commerciali e
quando Minghetti ne affidò la negoziazione a Luzzatti, i liberisti lo ritennero un traditore. Minghetti non era un
seguace del liberismo puro, astratto e dogmatico: gli pareva che dietro la lotta dei liberisti ad oltranza si
nascondesse, al di là dei sacrosanti principi, il fine egoistico proprio degli affaristi di non trovare intralci in uno
Stato che si poneva accanto alla libera iniziativa privata, assumendosi campi di controllo, di coordinamento, di
promozione e di integrazione. Aveva in qualche misura ragione.
Per quanto riguarda le ferrovie, vi faccio un esempio. Nella relazione del consiglio di amministrazione delle
Meridionali del 15 giugno '74 si legge: "Nascemmo Italiani e fummo sempre Italiani e possiamo dire alto agli
amici e ai nemici che fummo benemeriti della Nazione. Ma tutto ha un limite. Noi non abbiamo la missione
della Provvidenza e non dobbiamo farci strumento di civiltà a grave scapito nostro. Un patto assurdo stabilisce
un antagonismo fra gli interessi nostri e quelli del pubblico e dell'erario: ebbene, si abbia il coraggio di
accettarne tutte le conseguenze, e di riconoscere che noi abbiamo il diritto e il dovere di non occuparci ormai
che dei nostri interessi".
Si capisce bene allora l'atteggiamento tenuto da Peruzzi e dai suoi soci quando giunse in Parlamento la legge
sul riscatto delle ferrovie nazionali. D'accordo con la Sinistra il 18 marzo 1876 fecero cadere il governo.
L'evento fu detto allora "rivoluzione parlamentare".
Così finì l'età della "Destra storica" che, pur con le sue luci e le sue ombre, appare come un'inconfondibile
stagione della nostra storia. Fu una classe di governo, tenuta unita sda forti elementi di coesione: decisa volontà
di portare a termine la loro opera preparando per l'Italia, finalmente unita, l'ingresso in piena dignità nel
concerto delle potenze europee, con la questione romana risolta e con le finanze in ordine, tenuta unita da
grandi elementi di coesione: decisa volontà, forte senso dello stato, la ferma ispirazione liberale e il rifiuto ben
determinato di slittamenti verso posizioni reazionarie.
Minghetti tentò un accordo organico con Depretis, ma fallì. Le ragioni e gli obiettivi della lotta politica
condotta nei suoi ultimi anni sono testimoniate nel brano di una lettera , scritta il 6 novembre 1883, alla regina
Margherita, della quale era divenuto intimo consigliere: "Impedire che la democrazia venga a partecipare ognor
più al Governo sarebbe vano, è questa l'ubbìa dei partiti retrogradi che pur dovrebbero aprir gli occhi alla verità:
bisogna dunque educarla, chè se la democrazia istruita e morale viene a partecipare al Governo la condizione
delle nazioni civili potrà vantaggiarsene d'assai, se viene a parteciparvi ignorante e brutale avremo
quell'alternativa di anarchia e di dispotismo di cui già la Francia ci diede saggi non pochi. Perciò il compito
della Monarchia è nei tempi nostri ancora più necessario e importante che nei tempi passati".
Il "roseo" Minghetti, come erano soliti definirlo amici e avversari, sempre sorpresi e talvolta irritati per la
serenità con cui affrontava difficili tornanti del suo impegno politico, incominciava a volgere verso uno stato
d'animo con toni di pessimismo per quanto riguarda l'evolversi politico e sociale del nostro paese.
Scrive Bonghi che tre giorni prima di por fine al suo cammino terreno, Minghetti disse alla moglie:" Io voglio
morire nella religione dei miei padri; ma non intendo che neanche mi si chieda ritrattazione o dichiarazione di
sorta sugli atti della mia vita politica; li ho tutti compiuti con chiara e sicura coscienza e con convinzione
profonda". Fu la regina Margherita a inviargli il sacerdote che gli amministrò gli ultimi conforti della religione.
Si spense a Roma il 10 dicembre 1886.

http://www.societalibera.org/it/librisoclibera/testi/minghettiopere/05-mighettiopere.htm

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Quando la Chiesa bacchettava Minghetti…
I rapporti del Regno Italiano con la Santa Sede all’indomani dell’Unità in una lettera dell’epoca

Oggi pare vada rammentato che le radici storiche a costituzione dello Stato Italiano non sono affatto “radici
cristiane”, certo non univocamente . Sin dai tempi della Prima Guerra d’Indipendenza del 1848 – pur nel
fallimento dell’impresa d’unificazione nazionale – sia, da un lato, si era resa evidente la capacità di
mobilitazione del movimento mazziniano (poi coaugulatosi nel 1850 intorno al Comitato nazionale di
liberazione italiano) sia, d’altro lato, numerosi intellettuali avevano cominciato a criticare la presenza del
papato come potere politico (tra questi Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane ). La rottura
rivoluzionaria di Roma del febbraio 1849 (il giorno 5 si riuniva l’Assemblea Costituente che proclamava la
Repubblica Romana), da cui Pio IX fuggiva e dove Mazzini si imponeva quale anima della neoproclamata
repubblica costituzionale, evidenziava la fine del grande sogno di Vincenzo Gioberti del Primato morale e
civile degli italiani (pubblicato a Bruxelles nel 1843), sogno ancora accresciuto dall’elezione al soglio
pontificio dello stesso Pio IX e dalla partecipazione iniziale (del febbraio è la celebre espressione quasi sfuggita
di bocca al papa “Gran Dio benedite l’Italia!”) delle colonne di volontari dello Stato Pontificio alla guerra
antiaustriaca del ‘48 .
Ma già il 29 aprile ogni equivoco era chiarito: Pio IX pronunciava, infatti, un’allocuzione in cui esprimeva in
termini inequivocabili il rifiuto di partecipare alla guerra contro l’Austria con le proprie truppe. Il mito del papa
liberale veniva a cadere e si diffondeva quello del papa traditore. A Roma incalzano i governi: il Primo maggio
si dimettono sette ministri, il timone passa prima a Mamiani, poi a Fabbri, poi a Pellegrino Rossi, infine – dopo
l’assassinio di Rossi per mano di un gruppuscolo di democratici – a Muzzarelli. Ma il papa fa concessioni solo
per prendere tempo e la sera del 24 novembre fugge da Roma a Gaeta. Ferdinando II di Borbone gli offre
protezione e ospitalità .
Nel novembre 1847 Marco Minghetti era divenuto componente della Consulta di Stato dello Stato Pontificio e
il 10 marzo 1848 veniva nominato Ministro dei lavori pubblici dello Stato Pontificio. Nel 1845, durante un
viaggio a Londra, aveva conosciuto Giuseppe Mazzini ed i due uomini politici, pur nel reciproco rispetto, si
erano resi conto della profonda divergenza nelle loro idee politiche. Il Primo maggio 1848 l’ardore
dell’opposizione politica popolare nei confronti del papa raggiungeva il culmine e, preso atto dell’impossibilità
di proseguire i lavori, si dimetteva insieme a sei colleghi dal Governo del Cardinale Antonelli, Segretario di
Stato di Pio IX. Quando il papa veniva costretto a rifugiarsi a Gaeta, Minghetti, decideva, insieme ai moderati,
di non presentare candidati alla Costituente Romana .
Ma già ai primi di luglio l’esperienza della Repubblica Romana cessava, con l’assedio generale delle truppe
francesi comandate dal Generale Oudinot. Il 4 luglio, subito prima di annunciare la resa, l’Assemblea
Costituente repubblicana approvò il testo della Costituzione, destinato a diventare un documento simbolo della
politica democratica, oltre che un modello alternativo agli statuti ottriati . Restava, ormai, soltanto il “mito
romantico su cui posava la cultura del Risorgimento [e che] voleva assolutamente [Roma] capitale, perché
simbolo della grandezza italiana” .
Nel 1855 Minghetti scriveva le dodici lettere Della libertà religiosa indirizzate a don Vincenzo Ferranti e il 20
giugno 1857 otteneva udienza da Pio IX, in visita a Bologna, tentando di convincerlo invano alla necessità di
nuove riforme e svolgendo, come dirà egli stesso, nei confronti del pontefice, una “critica franca ma
moderata” . L’interesse di Minghetti per le relazioni tra il nascente Stato Italiano e la Chiesa Cattolica
accompagneranno come un fil rouge tutta la sua attività di scienziato politico e di uomo pubblico. Innumerevoli
saranno gli interventi parlamentari sulle tematiche ecclesiastiche e Minghetti studierà le relazioni tra Governi e
religioni in chiave comparata nel diritto internazionale e nella pubblicistica belga, americana e francese . Nel
1878, a otto anni di distanza dalla Breccia di Porta Pia (per la quale Minghetti si era dichiarato favorevole in un
viaggio a Vienna dell’agosto 1870 dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan), viene pubblicata la sua
importante opera Stato e Chiesa, che otterrà grande apprezzamento in tutta Europa: del 1881 è la traduzione
tedesca Staat und Kirche (Gotha) e di un anno dopo è la traduzione francese a cura di M. Bourget e con una
presentazione del letterato belga Emile de Laveleye.
Minghetti è cattolico, è uno dei principali leader politici della destra storica, i suoi salotti bolognesi e romani
vedono la partecipazione dell’intellighenzia più vicina al cattolicesimo politico, sua moglie Laura Acton
lamenta con lo stesso de Laveleye il timore di un allontanamento dalla religione romana: “Non sentite – dice
all’economista e uomo di lettere belga – come il freddo del nulla che vi assale?” . Eppure, Marco Minghetti non
si esime dall’appoggio a Roma capitale ed alla sola “Legge per le Guarentigie delle prerogative del sommo
7
pontefice e della santa sede e per le relazioni dello stato e della chiesa” (maggio 1871) quale risoluzione della
Questione Romana . A conferma del portato intellettuale di tutto il suo pensiero politico sul tema, in Stato e
Chiesa, Minghetti affermava che il principio della libertà religiosa “prevale in tutte le costituzioni moderne” e
dal postulato secondo il quale compito contingente dello Stato non è quello di “discernere la verità dall’errore
religioso” egli faceva discendere la sua tesi, quale razionale necessità:

Da ciò deriva per razionale deduzione che la Chiesa sia giuridicamente separata dallo Stato.

All’indomani della promulgazione della Legge delle Guarentigie don Giovanni Bosco si era rivolto a Minghetti
e a Giovanni Lanza, ottenendo un incarico officioso da parte del Cardinal Antonelli per tentare una
conciliazione (Bosco parla di “modus vivendi” ) riguardo ai possedimenti temporali delle curie ed aveva parlato
a Minghetti della Questione Romana come di una “vertenza che cagiona malcontento e molte utilità a
nessuno” .
All’interno del Fondo Marco Minghetti di Bologna, conservato presso la Facoltà di scienze politiche, all’interno
della Biblioteca del Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia, è conservata una delle rarissime copie a
stampa superstiti di una lettera giunta a Minghetti da parte dell’arcivescovo di Orleans Mons. Félix Dupanloup
dal titolo Lettre de l’Évêque d’Orleans Félix Dupanloup à M. Minghetti ministre des finances du roi Victor-
Emanuel sur la spoliation de l’Église à Rome et en Italie (1874). Essa costituisce una prova singolare della
tensione acuta dal punto di vista diplomatico che si respira nei rapporti internazionali tra la Santa Sede e lo
Stato italiano all’indomani della conquista di Roma capitale.
Proponiamo di seguito la traduzione in italiano di talune riflessioni dell’epistola. Essa consiste in ben 55
cartelle dattilografate e che affronta con toni patentemente aspri le principali tematiche riguardanti le relazioni
tra lo Stato Italiano e la Santa Sede: dalla Legge delle Guarentigie del 1871 alla condizione speciale di cui il
romano pontefice godeva tradizionalmente nel diritto internazionale, cumulando sia il potere temporale sia
quello spirituale .

Signore, voi eravate nel 1848 ministro di Pio IX, vi ritrovo oggi, nel 1874, ministro di Vittorio Emanuele.
Allora collaboravate con il Santo Padre ad un’impresa grande, feconda, gloriosa. Sebbene oggigiorno vi stiate
prestando ad una ingrata cooperazione a un’opera davvero! molto diversa, sono certo che voi manteniate un
ricordo riconoscente del Sovrano generoso che vi donava un tempo tutta la sua stima. Ecco perché non è senza
fiducia che io mi prendo la libertà di inviarvi questo scritto.
Sono appena rientrato da Roma. Ho visto sul campo quello che sta capitando. Nulla è più doloroso, e mi piace
pensare che sia con un grande disagio che voi prendete parte a cose di tal gravità. Si sta conducendo tutto con
un’arte profonda e con una metodologia puntuale: senza rovine, senza violenze apparenti, delle forme legali
coprono tutto: ma quello che sta capitando laggiù è certamente il disastro della Chiesa.
[…] L’Europa, indifferente o distratta, finge di non vedere: e la Chiesa, […] ancora vacillando sull’abisso, non
può che gemere.
[…] Il signor Cavour utilizzava ironicamente una massima che aveva fatto sua: “Libera chiesa in libero Stato”.
Ed ecco cosa ha combinato della Chiesa e della sua libertà: tutti i beni della Chiesa sono stati confiscati, gli
ordini religiosi soppressi, migliaia di religiosi spogliati dei loro averi, i monaci espulsi nottetempo dai
carabinieri e gettati in mezzo a una strada: “Rendo grazie a Dio – ha scritto una madre superiora – che nessuna
delle mie sorelle è morta per le vie”. Dei vescovi, l’arcivescovo di Torino, l’arcivescovo di Cagliari, altri
ancora, sono stati rinchiusi in prigione, gli arcivescovadi sono vuoti, i concordati con la Santa sede violati, le
immunità ecclesiastiche, stipulate per trattato con Roma, abolite.
[…] Nonostante tutti i sofismi inventati per coprire tutte le usurpazioni, bisogna porre e proclamare, Signor
Ministro, questa verità: che la Chiesa ha, di per se stessa, per causa della sua natura d’istituzione divina e della
sua esistenza, il diritto di possesso: diritto essenziale, al contempo naturale e divino, che i governi hanno il
dovere di riconoscerle e di garantire attraverso delle leggi tutelari e dei regolamenti a protezione, ma mai il
diritto di paralizzare. […] Essa ha il diritto di possesso, e perché mai? Ma perché essa ha il diritto di vivere.
[…] Essa non è sospesa per aria, ma fondata sulla terra e per gli abitanti della terra. […]. Essa è nel mondo e
per il mondo, essa è fatta da uomini.
[…] Sono questi, Signore, i ragionamenti che io ho il dovere di sottoporre ai vostri occhi. Vedete, come ho
detto all’inizio, che non faccio appello alla guerra. No, io non mi indirizzo che alla saggezza politica, al
patriottismo e, infine, alla coscienza delle persone oneste.

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Permettetemi di aggiungere, Signore, che io mi appello anche ai vostri sentimenti personali. Ricordatevi di quel
venerabile Pontefice di cui voi foste ministro, che vi si confidava, e che la Provvidenza ha voluto condurre,
attraverso cotante pene, ad un’augusta vecchiaia ancora al di là degli anni di Pietro stesso, per mostrare al
mondo lo spettacolo prolungato della più magnanima rassegnazione all’infelicità, ma anche per tenere una porta
sempre aperta alla contrizione e alla speranza.
Vogliate accogliere, Signor Ministro, gli omaggi di tutti i sentimenti che ho l’onore d’offrirvi.

Félix, Vescovo d’Orleans.


Bernardo di Mentone (Alta savoia), 25 agosto 1874

Missive quali quelle di don Bosco e di Mons. Dupanloup segnano una chiara testimonianza dei dissapori nei
rapporti internazionali tra il nuovo Stato italiano ed il Vaticano all’indomani dell’Unità d’Italia, tensioni che si
riverberano in maniera poco dissimile tanto nei Governi della Destra storica quanto in quelli della Sinistra
storica. La frattura con la Chiesa cattolica si avviava a divenire un elemento politico stabile. Il pontefice aveva
consapevolmente voluto che il suo Stato cadesse per via militare per mostrare che non vi era in lui alcuna
volontà di accettare quello che dal punto di vista del diritto internazionale era un “immotivato sopruso” . I
liberali italiani non vollero capire – da una parte come dall’altra – che il problema era una questione di
sovranità internazionale che il pontefice veniva a perdere e pensarono che bastasse garantire al papa la sua
totale indipendenza attraverso la Legge delle Guarentigie. Ma tanto Pio IX quanto i suoi successori più vicini
mantennero il non riconoscimento dello Stato italiano in quanto Stato aggressore, nella speranza di tenere viva
la possibilità di restaurazione della sovranità completa della Santa Sede. Ovviamente con il tempo la Questione
Romana andò smorzandosi e si trovò quella conciliazione, quel modus vivendi sperato da don Bosco, ma la
situazione venne risolta solo, quando nel 1929 si trovò modo di dare una risposta positiva alla domanda di
sovranità del pontefice.

NOTE:
1. Dopo la pubblicazione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo della Sentenza
Lautsi contro Italia, lo scorso 3 novembre 2009, si sono moltiplicate le voci a sostegno di supposte “radici
cristiane” dello Stato Italiano, in primis sulla stampa quotidiana, ma anche sulle riviste di approfondimento. Si
ricorda, peraltro, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è la Corte nata a tutela dalla Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 e, come ha ben scritto Piero Ignazi
su l’Espresso, “non ha nulla a che fare con l’Unione Europea e la sua Corte di Giustizia”. Cfr. CEDU (2009) e
P. Ignazi (2009).
2. Cfr. Pombeni (1985, 431).
3. Una splendida, quanto accurata, analisi di questi anni è offerta da E. Providenti (1968, 27 e sgg.), ora
disponibile anche sul web a cura degli Archivi Digitali dell’Archivio Storico Capitolino.
4. Cfr. C. Rendina (1983, 768).
5. Cfr. R. Gherardi (1977).
6. Cfr. G. Sabbatucci e V. Vidotto (2004, 14).
7. P. Pombeni (1985, 439).
8. Cit. in Emilia Morelli, Alcuni documenti su Minghetti suddito del papa, in R. Gherardi e N. Matteucci (1988,
369).
9. Nell’Archivio del Fondo Minghetti di Bologna sono conservati n. 38 volumi sulla politica ecclesiastica in
chiave comparata. Per una rassegna completa v. M. Gavelli (1986).
10. E. de Laveleye (1880, 93), traduzione dal francese mia.
11. M. Minghetti (1890, vol. V., 132).
12. Cit. in R. Gherardi (1993, 150).
13. Cit. in G. Caputo (1965, 100)
14. Cit. ivi, p. 101.
15. Mons. Félix Dupanloup (1802-1878), teologo e giornalista, fu arcivescovo della città di Orleans e
postulatore della causa di canonizzazione di Giovanna d’Arco. Fu nominato componente dell’Academie
Françise dal 1854 e prese posto tra i settantacinque senatori a vita del Senato di Parigi nel 1875.
16. Sul tema sono assai interessanti le osservazioni storiche di Paolo Pombeni, cfr. P. Pombeni (1994, 442).
17. F. Dupanloup (1874), traduzione dal francese mia
18. Pombeni (1985, 442).
9
19. Cfr. ibidem.

Bibliografia

Berselli Aldo, Il problema della libertà religiosa nel pensiero di Marco Minghetti, in “Rassegna storica del
Risorgimento”, XLIII, pp. 234-243, 1956.

Caputo Giuseppe, La libertà della Chiesa nel pensiero di Marco Minghetti, Milano, Giuffrè, 1965.

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), Affaire Lautsi c. Italie, Requéte n. 30814/06, Strasbourg, 3
novembre 2009, disponibile sul sito web: http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?
action=html&documentId=857732&portal=hbkm&source=externalbydocnumber&table=F69A27FD8FB86142
BF01C1166DEA398649.

Dupanloup Félix, Lettre de l’Évêque d’Orleans à M. Minghetti sur la spoliation de l’Eglise à Rome et en Italie,
Paris, Douniol, 1874.

Gavelli Mirtide, Catalogo del fondo “Marco Minghetti”, Bologna, Clueb, 1986.

Gherardi Raffaella, Marco Minghetti – Biobibliografia, Bologna, Forni, 1977;


id., L’arte del compromesso, Bologna, Il Mulino, 1993.

Gherardi Raffaella e Matteucci Nicola, Marco Minghetti statista e pensatore politico, Bologna, Il Mulino, 1988.

Ignazi Piero, Una questione di potere, in “L’Espresso”, 12 novembre 2009, p. 17.

Laveleye Emile de, Lettres d’Italie, Milano, Dumolard, 1880.

Minghetti Marco, Discorsi parlamentari (1869-1886), voll. V, VI, VII, VIII, Roma, Camera dei Deputati, 1890;
id. Scritti politici (a cura di Raffaella Gherardi), Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986.

Pombeni Paolo, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1985.

Providenti Elio, Roma e il Lazio nel Risorgimento, in “Capitolium”, 1968 (XLIII), n. 3-4, pp. 12-32,
disponibile sul sito web: http://www.archiviocapitolinorisorsedigitali.it/search/view_res_fulltext.php?res=?
file=archivio_69_index/3895_3_43_1968_03_04_017-037_00003.txt&q=.

Rendina Claudio, I papi, Roma, Newton & Compton, 1983.

Sabbatucci Giovanni e Vidotto Vittorio, Il mondo contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 2004.

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