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Il Principe - Niccolò Machiavelli

Il Principe è un trattato scritto nel 1513-1514, quando Machiavelli ha 53 anni.

Nel 1512 a Firenze finisce l’esperienza repubblicana con la restaurazione della signoria dei Medici. Durante
l’era repubblicana, Machiavelli era segretario della seconda cancelleria, ma quando dopo la restaurazione dei
Medici, nel 1513 fallisce una congiura contro questi, Machiavelli viene arrestato, torturato e rilasciato sotto
cauzione pesantissima e infine esiliato. Infatti, il Principe è un’opera volta a ingraziarsi i Medici, tant’è che
dopo la loro cacciata e il ritorno della Repubblica, a Machiavelli verrà rinfacciato il suo tentativo di riavvicinarsi
alla signoria.

Il Principe è un’opera postuma del 1532 e il titolo odierno non è quello originario. ma è del primo editore
dell’opera machiavelliana. Infatti, nella lettera a Vettori nel 1513, Machiavelli dice di star scrivendo un trattato
intitolato De principatibus, Sui principati.
Interessante nella differenza tra i titoli è che quello odierno ha un accento che ricade sulla persona. La scelta
del titolo del primo editore non è incoerente con il contenuto dell’opera, perché la questione su cui riflette
Machiavelli non riguarda tanto i tipi di principato, quanto il destino che ha quella persona, il principe, che si
ritrova a ricoprire un ruolo da eroe tragico che si trova in un mondo in cui nulla è fermo e che deve cercare di
prevedere l’imprevedibile.

Il Principe è il primo trattato che parla esplicitamente di cosa fare quando non si hanno principi, modelli,
paradigmi precedenti da seguire nell’azione politica. La questione principale del Principe è come si conquista il
potere, come lo si mantiene e come lo si accresce, per cui non esiste una norma assoluta.

Rivoluzionario in Machiavelli è l’aver sganciato la morale dalla politica: la politica ha delle leggi interne sue
proprie, che non necessariamente hanno a che fare con altri parametri di giudizio e categorie interpretative.
Tra quelle che cadono vittima di questa non-necessità c’è la morale, cioè quei precetti di immediata rilevanza
etica, che erano raccomandati tradizionalmente al principe come sue inderogabili stelle polari, principi guida, e
questi non erano solo delle raccomandazioni, ma ci si regolava secondo questi precetti.
Machiavelli rompe con questa tradizione degli Specula principis, trattati moraleggianti in cui si raccomandava
al principe certe virtù cristiane che non poteva non seguire se voleva essere un vero principe.
Machiavelli rivendica l’autonomia della politica: la politica si dà leggi da sola, si regola secondo leggi sue
proprie, e se non le si segue non si capisce il gioco della politica, non seguendole il principe è destinato a
naufragare. Se si vuole derogare da queste regole, si fallisce nell’obiettivo di conquistare, mantenere ed
accrescere il proprio potere.
Lo stato d’eccezione quindi si innesta in un ambito, quello politico, che ha delle logiche proprie, e anche se
Machiavelli non ne parla, in Machiavelli la categoria della necessità, e cioè l’inevitabilità dei certi avvenimenti,
ha il più rilevante teorico.

Anche in Schmitt troveremo una rivendicazione dell’autonomia della politica (cfr Il concetto di politico).
Secondo Schmitt la politica si basa sulla coppia oppositiva amico-nemico. Nemico è quella persona verso la
quale si ingaggia un’opposizione talmente tanto estrema, tale per cui sono disposto sia a uccidere che a
morire. Per Schmitt la politica non è un ambito, un campo, ma è un grado di intensità, è quella serie di conflitti
tali per cui sono disposto a uccidere.

Una delle letture del Principe è quella per cui Il Principe come opera sia un fallimento (teoria debole), perché
l’intenzione di Machiavelli nello scrivere questo trattato, alla fine non trova realizzazione.

L’aspetto più interessante del Principe è questo scacco tanto necessitato quanto necessaria è la materia che
Machiavelli si proponeva di affrontare. Machiavelli vuole indicare al principe quali siano le regole da seguire
per mantenere il potere e lo scacco dell’opera, il suo fallimento, propriamente consiste nel fatto che alla vita
non si possono dare regole, e in particolare alla vita politica, poichè questa è sottoposta al caso, alla fortuna.
C’è polarità tra caso e necessità: la vita non è domabile in categorie, prescrizioni, perché la fortuna non è
prevedibile.
Il Principe è il trattato che tenta di dare ordine alla vita, e non ci riesce completamente perché scopre che la
vita non può essere ordinata, in quanto imprevedibile, ma Machiavelli, sempre tenendo a mente
l’imprevedibilità delle circostanze, cerca di tracciare delle regole che aiutino il principe, anche se tra le righe
Machiavelli dice che non ne esistono.

Il principe è una categoria esistenziale, è un essere umano che sta in una certa situazione, che si trova ad
affrontare l’imprevedibilità della vita e che deve cercare di prevedere anche se non lo si può fare. A questo
proposito Machiavelli dirà che si tratta di porre degli argini alla sorte.

Analisi del testo

Dedica - Niccolò Machiavelli saluta il Magnifico Lorenzo de’ Medici il giovane

Quando scrive il Principe, Machiavelli si trova in esilio e quest’opera è volta proprio a ingraziarsi la corte
medicea.

La dedica, è la testimonianza di come i letterati si ingraziavano il favore delle signorie, e questa viene
cambiata da Machiavelli tre volte, perché si avvicendano tre principi medicei nel giro di pochissimi anni.
Inizialmente il Principe doveva essere dedicato a Giuliano de’ Medici, il quale però venne a mancare nel 1516,
per cui Machiavelli ne sostituì il nome con quello di Lorenzo di Piero, erede al trono.

Machiavelli nella dedica dice che offre in dote al lettore, al principe, la conoscenza di quali siano i moventi
dell'agire umano, e non la politica, che è l’esito del trattato. Machiavelli dice che ciò che lui pensa di sapere
meglio di ogni altro uomo è conoscere i moventi degli esseri umani, che è la prima indicazione e variabile
rilevante per cercare di mappare quello che è la politica. La direttrice di ordine che possa spiegare perché
avvengano certe cose è capire perché le persone fanno certe cose.
Troviamo in Machiavelli un’impostazione antropologica della politica: per capire come si comportano gli uomini
bisogna studiarne i moventi, quali sono le spinte che spingono ad agire in un certo modo. Si offre al principe la
cognizione delle azione umane, uno dei punti fermi per cercare di dare ordine all’ambito politico, e il vantaggio
che trae il principe dalla lettura dell’opera è quello di sapere ciò che Machiavelli ha conosciuto in vari anni,
perché è vecchio, ha avuto una vita travagliata, ha visto alternarsi diverse forme di governo e ha letto i classici.

Gli uomini sono mossi al conflitto da due fondamentali moventi:


1) paura della morte, istinto di conservazione. Se fosse solo così però gli esseri umani sarebbero
rannicchiati sotto il tavolo sperando di non morire.
2) gloria, autoaffermazione personale. Se c’è un conflitto è anche perché c’è la ricerca della gloria.
Questi due moventi sono in contraddizione tra loro: da una parte ci si vuole affermare, dall’altra si ha paura di
perdere la vita.

Machiavelli dice di parlare di una cosa che non ha mai svolto, governare, perché come colui che deve ritrarre
qualcosa in basso si mette in alto per vederne le proporzioni, così il miglior conoscitore del principe è colui che
non è principe, perché vede la situazione dall'esterno. Chi è esterno ha uno sguardo migliore perché non
essendo coinvolto può mettere in prospettiva ciò che il soggetto in prima persona non potrebbe fare.
Machiavelli quindi può dire qualcosa rispetto alle persone coinvolte ciò che queste non potrebbero vedere con
la stessa lucidità.
Machiavelli non sta dicendo che chi è esterno possiede la verità assoluta: non esiste una visione neutra, tutte
le visione sono parziali, non vedono tutto e sono di parte, ma proprio per questo la parte che vede il principe
non è quella che vede l’osservatore esterno, che non gli dice la verità assoluta, ma qualcosa che lui non
potrebbe vedere. I punti di osservazione sono tanti quanti sono le persone, che vedono diversamente le cose.
In Machiavelli abbiamo l’assenza di una verità ultima e al contrario un prospettivismo radicale: ci sono tante
visioni del mondo quante sono le prospettive che ogni mondo si guarda.

La grandezza del principe dipende da due cose: dalla fortuna e dalle sue qualità. A determinare il successo di
un principe, è la sorte e poi le altre sue qualità. La sorte è quella impossibilità di prevedere l’imprevedibilità di
quello che accade, rispetto a cui il miglior principe è colui che riduce al limite il potenziale distruttivo che la
sorte porta con sé in ogni ambito umano.

Capitolo I - Quanti siano i generi dei principati e in quali modi si acquistino

Tutte le forme di governo sono


- repubbliche
- principati.
Quante persone governano è il parametro fondamentale: nel principato governa uno solo, nelle repubbliche
governano più persone. Se sono due o più è irrilevante per Machiavelli perché la decisione univoca si dà solo
con una persona al comando.

I principati sono:
- ereditari: dove c’è una casata continuata, c’è una continuità di successione nel potere. esempio del
ducato di Milano di Francesco Sforza.
- nuovi: dove non c’è una continuità di successione del potere. esempio del regno di Napoli e il re di
Spagna Ferdinando il Cattolico

nuovi possono essere:


- nuovi tutti: quel principe a cui viene assegnato un regno non aveva altri regni
- membri aggiunti allo stato ereditario dal principe che li conquista: il nuovo regno viene aggiunto a quelli
che un principe già dominava.

Questi dominii possono essere:


- acquistati
- soliti a vivere sotto un principe
- liberi

Si possono acquistare principati:


- per fortuna: caso
- per virtù: capacità di fare qualcosa, l’intenderse in un ambito
- con armi (risorse) proprie
- con armi altrui
Non si dà mai una situazione in cui univocamente si è o fortunati o virtuosi, ma bisogna puntare a far
dipendere la situazione il meno possibile dalla sorte e maggiormente dalla virtù, da se stessi e non dal
concorrente. Non dobbiamo far sì che a decidere la situazione sia la sorte perché la sorte faccia rovinare
entrambi. Nella partita a scacchi bisogna battere l’avversario e bisogna che vigano le regole degli scacchi.

Capitolo II - I principati ereditari


Machiavelli non parlerà delle repubbliche nel Principe, cosa che ha fatto in altre sue opere come i Discorsi
intorno alla prima deca di Tito Livio, che sono sei commenti e delle riflessioni riguardo i primi dieci libri delle
storie di Livio, in cui Livio tratta il periodo dalle origini di Roma alla caduta della Repubblica. Machiavelli in
quest’opera riflette sull’età repubblicana romana. Per Machiavelli, Roma costituisce il modello insuperabile
della repubblica perché Roma ha avuto una grandissima virtù mai superata, e cioè un’organizzazione
istituzionale tale per cui il conflitto non veniva neutralizzato, ma si metteva questa forza potenzialmente
distruttiva sull’unità politica, al servizio dell’unità politica stessa. L’energia politica che si dà in ogni conflitto
viene sfruttata, viene incanalata in forme tali che non distruggano l’unità politica, ma che la tengano in vita. Il
conflitto quindi viene concepito da Machiavelli come la linfa vitale di ogni unità politica, e si tratta solo di tenerlo
sotto controllo per evitare che non faccia danni. Il conflitto non va neutralizzato, ma reso fruttuoso per il buon
funzionamento dello Stato, perché senza conflitto, dissenso, lo Stato muore. Roma l’ha fatto facendo sì che
tutte le parti politiche in conflitto venissero rappresentate in modo solido istituzionalmente.

Machiavelli nel Principe si dedicherà a discutere dei principati, ciascuno degli argomenti indicati nel capitolo
precedente, e sottoporrà ad analisi il modo in cui tali diverse forme di principato si possano governare e
mantenere.

I principati ereditari sono quelli più facili da gestire perché basta semplicemente mantenere lo status quo.
L’unico principato in cui si ha maggiore certezza di un governo stabile è quello che fino ad oggi si è mantenuto
in carica. Negli stati ereditari c’è maggior stabilità perché questa c’è sempre, non sappiamo come, ma si
prende atto del fatto che è così.

Nei principati ereditari non bisogna cambiare nulla. Senza l’intervento dell’uomo quella situazione è rimasta
stabile. Machiavelli dice che non bisogna far decadere gli ordinamenti dei propri antenati. Nel principato
ereditario le contingenze altrove distruttive non saranno tali da creare instabilità, infatti questo le ha superate
senza subire mutamenti. Machiavelli dice che non bisogna toccare quell’equilibrio precario ma
sufficientemente stabile in quella circostanza, che ci assicura che senza toccarlo le cose andranno avanti.
Quindi per mantenere e governare un principato ereditario basta semplicemente non mutare nulla, a meno che
non ci sia una straordinaria e eccessiva forza che minacci il principato.

Machiavelli poi insiste sul fatto che un principe che ha già potere, non ha bisogno di fare azioni che lo portino
ad avere potere. Il principe ereditario, godendo infatti di ordinamenti per tradizione a lui favorevoli, non ha
bisogno di offendere i suoi sudditi, di vessarli in modo eccessivo, e perciò sarà benvoluto a meno che questo
non manifesti vizi eccezionali.

Infine Machiavelli, prima di concludere il capitolo, dice che grazie al perdurare del dominio vengono
dimenticate le ragioni di ogni riforma, perché sempre una rivoluzione lascia l’aggancio per avviare la
rivoluzione successiva. Ogni rivoluzione lascia un più o meno ampio margine di scontento, alimentando essa
stessa la rivoluzione seguente.

Capitolo III - I principati misti

Machiavelli comincia a contraddirsi nel rispetto della materia delle logiche politiche del suo tempo, che non
permettono di dare regole universali, come invece pretenderebbe Il Principe come opera.

Nel principato nuovo, in generale, si riscontrano difficoltà.


I principati nuovi sono quei principati che vengono acquistati da un principe, sono dei territori che vengono
assegnati a un principe nuovo.
In prima istanza Machiavelli decide di trattare il caso dei principati misti, la cui primaria difficoltà è propria
(naturale) di tutti i principati nuovi, ed è infatti per questa ragione che i principati misti vengono analizzati per
primi.

Le difficoltà, che sono proprie di tutti i principati nuovi (e quindi anche di quelli misti), vengono esemplate
attraverso il caso del principato misto.

Il principato misto è un principato non del tutto nuovo, ma che costituisce il membro aggiunto di un altro
principato. E’ un principato nuovo che si aggiunge a principati già detenuti dal principe, il quale (il principe)
diventa nuovo signore di un principato nuovo, ma che già possedeva un principato.

La definizione di principato misto è significativa perché in questa commistione di vecchio e nuovo, la logica del
nuovo inquieta e pone in discussione la logica del vecchio: quando c’è un principato nuovo e uno vecchio, la
nuova acquisizione ha ripercussioni negative dal punto di vista della stabilità sulle vecchie acquisizioni.

Rispetto al capitolo 2, Machiavelli si contraddice.


Nel capitolo 2 Machiavelli dice che il principato ereditario è di facile gestione perché le persone continuano a
fare le cose come hanno sempre già fatto, basta non mutare nulla perché le persone fanno più cose che
hanno già fatto di quante ne intendano farne di nuove.
Non si capisce allora bene perché nel capitolo 3 Machiavelli dica che le difficoltà del principato misto sono che
gli uomini mutano volentieri signore, perché credono di migliorare.
Tra il capitolo 2 e 3 troviamo due motivazioni completamente diverse: nel capitolo sul principato misto
Machiavelli ci dice che gli uomini sono talmente insofferenti al governo esistente che desiderano cambiarlo
credendo di migliorare, e questa convinzione li fa addirittura sollevare contro il signore. Ma questi uomini si
ingannano, perché poi, per esperienza, si rendono conto di aver sbagliato. Come nel capitolo 2 Machiavelli
non ci dice il perché gli uomini tendano a fare le stesse cose, anche in questo capitolo Machiavelli non ci
spiega il perché gli uomini dovrebbero credere di migliorare sollevandosi contro il signore.

Sui Discorsi sulla prima deca di Livio, nel libro terzo, Machiavelli dice che gli uomini si stufano del benessere e
nel male si affliggono. La motivazione per cui gli uomini si dovrebbero stufare subito di un governo allora
appare come semplicemente un tratto comportamentale. Una condizione di benessere viene subito a noia,
una situazione felice crea prima o poi il desiderio di cambiare.

Le persone stancandosi di una situazione di benessere, la vogliono cambiare, vogliono cambiare signore,
vogliono cambiare con le armi il governo esistente, ma dopo averlo fatto scoprono che hanno optato per una
scelta che li farà stare peggio, e ciò dipende da un’altra necessità naturale (naturale = che non è possibile
scartare, inscritta nella natura) e ordinaria (usuale e che dà ordine). Pare ci sia quindi un ordine necessario.
Ma se c’è un ordine necessario, dov’è lo spazio di manovra del principe? Non c’è risposta a questa domanda.

L’ordine può essere cambiato, ma non è consigliabile, perché una volta che alteriamo un ordine non sappiamo
cosa ci aspetta.
Cambiando l’ordine peggiorano le cose perché quando un nuovo principe si afferma in un principato che non
era suo, per farlo necessita di una guerra o di un’ingiuria e di utilizzare la violenza, e i sudditi finiscono per
star peggio.
Il principe conquistatore inoltre si ritrova nella condizione di non poter appagare i desideri dei propri sostenitori
nella misura che essi si erano prefigurati, e questi saranno scontenti. Machiavelli non dice perché non si possa
soddisfarli, però fa intendere che non lo si possa fare per logiche di componibilità politiche.

L’uso della violenza è un tabù che viene scardinato con Machiavelli: nel ‘500 nei trattati l’ipotesi dell’uso della
violenza era inconcepibile e non veniva nemmeno presa in considerazione. Machiavelli però non giustifica la
violenza, ma dice solo che l’ipotesi del suo uso non deve essere considerata sotto il punto di vista morale, ma
bisogna solo interrogarsi riguardo alla sua efficacia, e cioè se sia utile e funzionale allo scopo che mi prefiggo
o meno.
L’analisi politica non ha a che fare con le categorie morali. La politica per Machiavelli, come per Schmitt, non
ha a che fare con una materia, ma con una logica che ha determinate categorie, e cioè l’efficacia nel
mantenimento del potere. La politica è regno dell’amoralità.

Machiavelli scrive che senza il favore di un territorio e dei provinciali (abitanti), le province non vengono
ottenute dal principe. Secondo Machiavelli quindi bisogna conquistare le menti e i cuori degli occupati, perché
senza una parziale conquista della popolazione, la conquista del territorio non si tiene.

Allorché il principe conquistatore riesce per la seconda volta a sottomettere un nuovo territorio, tale acquisto si
rivela ben più solido perché il nuovo principe, traendo occasione dalla ribellione dei colpevoli, si può
comportare in modo più spregiudicato nel punire gli avversari colpevoli, accertarsi delle persone sospette,
assumere provvedimenti dove gli pare di essere più debole.

Machiavelli continua facendo una partizione dei principati misti, e questi possono essere:
- della stessa provincia e della stessa lingua
- o no

Interessante accento sulla lingua: ciò che rende della medesima provincia è la lingua, non usi e costumi.
Questo è un aspetto che Gramsci sottolineerà.

I principati misti sono più facili da assoggettare se sono territori contigui e quindi della medesima provincia e
lingua, in specie se già abituati a vivere sotto il dominio di un principe. Chi conquista questi stati se vuole
assoggettarli deve badare a due cose:
1) che la stirpe del loro principe antico sia estinta
2) di non modificare le loro leggi e i loro dazi: come nei principati ereditari, basta non alterare troppo le
cose
Così facendo in brevissimo tempo lo stato nuovo diventerà con lo stato vecchio tutto un solo corpo.

Si chiarisce un po’ di più la contraddizione emersa tra questo capitolo e il capitolo 2: l’idea per cui gli uomini
continuano facendo come hanno sempre fatto è vera solamente quando il territorio conquistato è della stessa
provincia a cui appartiene il territorio nelle mani del principe conquistatore, perché la lingua e gli usi sono gli
stessi.

Però, quando si conquista stati di una provincia diversa, nascono difficoltà e bisogna avere grande fortuna e
capacità, virtù (industria), e sarebbe meglio se il principe vi ci andasse ad abitare.

La fortuna viene sempre prima della virtù, ed è così tanto data per scontata da Machiavelli che non troviamo
nemmeno la definizione di sorte. La fortuna non è né buona né cattiva, ma è semplicemente la forza inerziale
delle cose che vanno come vanno.

Quando la provincia è difforme e abbiamo usi e costumi diversi, Machiavelli consiglia che il principe vada ad
abitare nel nuovo regno perché andare ad abitare nel territorio occupato ha a che fare con una simbologia del
potere potentissima: i segni della presenza di un sovrano in un determinato territorio hanno a che fare e
potenziano la legittimazione del potere. Questa non è solo una questione simbolica, ma è anche una
riaffermazione del potere e del controllo, è un’imposizione. Infatti, Machiavelli insiste sui vantaggi dell’andare
ad abitare nel territorio occupato: stando nella provincia nuova si soffocano sul nascere i disordini civili, si dà la
possibilità ai propri sudditi di appellarsi direttamente al nuovo principe, il che suscita affetto nei cittadini fedeli e
timore negli altri, e incute maggiore cautele in eventuali aggressori esterni.
L’altro rimedio se non si può abitare nella provincia occupata è mandare delle colonie che siano quasi degli
sviluppi territoriali quasi naturali di quello stato. La funzionalità delle colonie è quella per cui dato che non c’è il
principe, ci deve essere un distaccamento militare e amministrativo sufficiente a mantenere l’ordine in quella
colonia.
I vantaggi delle colonie sono che queste non costituiscono un eccessivo aggravio di spese per il nuovo
principe e costano di meno rispetto a mantenere un esercito di stanza nel territorio conquistato. Ad essere
danneggiati sono solo quei sudditi privati delle terre e case, ma costoro non possono danneggiarlo perché
dispersi e impoveriti, mentre la maggior parte dei nuovi sudditi non viene danneggiata e quindi accetta il
cambiamento di stati, e anzi ha timore di apparire infedele al principe e quindi di essere spogliata dei propri
averi.

Machiavelli parla dei romani, ed è la prima circostanza in cui richiama l’idea del tempo. Quando c’è uno stato
di necessità/eccezione, una delle questioni decisive è la tempistica, che deve essere prontissima, e la difficoltà
sta proprio nel dare una risposta immediata senza che ciò vada a discapito dell’efficacia. L’immediatezza non
può non impattare sulla ponderazione, e cioè, se avessimo avuto più tempo a disposizione avremmo risposto
in una maniera più avveduta, ma dato che la circostanza non permette di pensarci sopra troppo, bisogna agire
subito e prevenire eventi futuri. Le crisi richiedono risposte tempestive, e cioè bisogna intervenire subito con
un’azione. Per Machiavelli, in certi momenti non ci si può permettere la prudenza.

I romani, sapendo vedere ben prima che si palesassero nella loro irrisolvibilità gli inconvenienti, vi rimediarono
sempre, e non evitarono mai di iniziare una guerra. In situazioni di crisi, in una guerra, se non si decide in un
modo o in un altro, si dà vantaggio all’avversario, si lascia l’inerzia di temporeggiare (tempo variabile
neutra=non è bene né temporeggiare né intervenire subito, ma dipende dalle circostanze) o di decidere.

Nel periodo finale, Machiavelli per la prima volta ci dà una regola generale che vige in politica: chi dispone di
risorse materiali o intellettive e dà una mano al principe, è probabile che cada in disgrazia, perché il principe
se ne dovrà sbarazzare. Chi aiuta qualcuno nella conquista del potere, finisce male perché le persone che
risultano determinanti per il felice esito della conquista, che fa acquisire potere al principe, il loro contributo si
può basare su due elementi:
1) la virtù: capacità, ci sa fare nel consigliare
2) perché aveva delle risorse che il principe non aveva
In entrambi i casi questa persona è sospetta a chi ha acquistato il potere: una volta che il potente servendosi
delle sue risorse ha acquistato il potere, la persona abile o con risorse diventa una minaccia.

Capitolo IV - Per quale ragione il regno di Dario, che era stato occupato da Alessandro,
dopo la morte di quello non si ribellò ai suoi successori

Per Machiavelli nulla è ovvio, e se non sappiamo dire il perché di una cosa non sappiamo quella cosa.
Machiavelli appartiene a una tradizione filosofica che dice che il reale ha una sua ultimatività, una sua
autoconsistenza ultima per cui le categorie umane devono adeguarsi al reale e non viceversa. Il teorico deve
essere umile nell’accettare che il mondo non è sistematico.

I principati possono essere governati in due modi:


1) un uomo solo al comando, con ministri e tutti gli altri servi (al suo servizio). es: monarchia del turco
2) un uomo e baroni, i quali per antichità di sangue ottengono quel grado. La concretezza del fatto che i
baroni partecipino alla politica non dipende dal principe e non è una sua concessione, ma è qualcosa
che acquisiscono indipendentemente da lui. es: monarchia francese

Il regno di Francia dice Machiavelli che è più facile da rovesciare e meno da tenere: è più facile da conquistare
perché basta allearsi con i feudatari sottoposti al principe. Meno da tenere perché i feudatari sono pronti a
capeggiare colpi di stato e il principato nuovo può essere facilmente perduto non appena si presenti
occasione.

Il regno turco è al contrario difficile da conquistare, perché il signore dispone di tutte le risorse, ma una volta
conquistato è facile da tenere perché non si ha una resistenza interna.

Capitolo V - Come si debbano governare stati o principati che vivevano secondo le


proprie leggi prima che fossero occupati

Machiavelli in questo capitolo tratterà come si debba amministrare uno stato repubblicano conquistato da un
principe nuovo.

Un principato, già assuefatto a vivere sotto un sovrano, sarà più facile da tenere per il nuovo conquistatore.

Machiavelli indica tre modi per consolidare gli stati che prima della conquista vivevano con le loro leggi:
- distruggerli
- andare ad abitarci personalmente
- lasciarli vivere con le loro leggi, ma richiedendo tributi e creando al loro interno uno stato di pochi, una
oligarchia

Vengono portati due esempi storici:


- spartani: gli spartani utilizzarono il terzo metodo, cioè l’instaurazione di un regime oligarchico. nel 404
ac gli spartani occuparono Atene alla fine della guerra del Peloponneso e instaurarono il regime
oligarchico dei Trenta tiranni, rovesciato poi da Trasibulo. Il generale Tebano Pelopida restaurò in città
la democrazia defenestrando il regime oligarchico instaurato dagli spartani nel 382.
- romani: i romani utilizzarono il primo metodo. Nel 146 Cartagine venne distrutta. Dopo la battaglia di
Cinoscefale del 197 i romani proclamarono la libertà della Grecia; nel 146 distrussero Corinto, Tebe e
Calcide e ridussero la Grecia a provincia.

Quello di Machiavelli è un realismo politico nella misura in cui per Machiavelli è importante che la realtà venga
rispettata nella sua irriducibilità a schemi conoscitivi assoluti. Ridurre il reale a poche leggi significa tradirlo e
non vedere una parte di realtà, e questo è pericoloso.

Machiavelli afferma che il modo più sicuro per possedere le province, quello che dà maggiori garanzia di
tenuta, è distruggerle (primo metodo). Gli altri due metodi probabile siano efficaci a breve termine, ma il primo
metodo lo è a lunga durata.

Perché per Machiavelli la distruzione delle città è la soluzione più affidabile? Perché i popoli che sono stati
liberi presentano il fattore di continuità maggiore nel voler continuare ad essere amministrati secondo la
vecchia legge della libertà, e la libertà non si dimentica né per lunghezza di tempo né per benefici. Maggiore è
lo stacco di tempo dalla libertà, più acuta si fa la malinconia politica, e inoltre i benefici della libertà alla
persona sono ineguagliabili rispetto a qualsiasi altro, nel senso che con questi si vive in maniera più
soddisfacente e comoda.
Questi stati quindi vanno distrutti perché non si schioderanno mai dalla mente e dal cuore il regime che li ha
fatti godere una vita libera.

Machiavelli non ritiene ci sia un modello assoluto, dipende dalle circostanze in cui ci si trova. A favore della
rovina c’è solo l’estrema ratio: se non c’è alternativa si usa la violenza e si distrugge. L’uso della violenza per
Machiavelli è una sconfitta, non morale, ma proprio strategica: è molto meglio amministrare un territorio senza
violenza, perché l’uso della violenza costituisce un dispendio di energie.
In seguito, Machiavelli ci dice che tra le ragioni che rendono più semplice assoggettare un territorio già
assuefatto da un regime autocratico, una volta che sia spenta la stirpe del vecchio signore, è significativo che
si sottolinei l’incapacità di eleggere un principe civile e in generale come tali popoli non sappiano vivere liberi,
cioè siano privi degli opportuni ordinamenti.
Gli stati sotto un principe, da una parte sono abituati ad obbedire, dall’altra non avendo più il principe vecchio,
non sanno a chi obbedire e tra loro non si accordano perché non abituati a discutere e perché la scelta delle
elezioni del principe non è il modo del loro stato. Questi stati cercano una guida, perché non sanno vivere
senza un principe, e non la trovano perché è stata spenta la dinastia. Questi stati sono meno propensi a
prendere le armi e quindi il principe conquistatore può avere la meglio su di loro.

Le repubbliche sono gli stati usi a vivere liberi. Il nesso tra repubblica e libertà è quello per cui è impossibile
fare le repubbliche province. O le si distrugge o ci si va ad abitare.
La libertà non è un principio o movente dell’azione rivolto al bene, ma è un’energia politica che mette in moto,
descrive e rende conto di una cosa molto più indomabile che può avere qualsiasi destinazione. Nelle
repubbliche la maggior vita si accompagna con il maggior odio e desiderio di vendetta.

I principati tendono a incanalare l’energia politica; le repubbliche tendono a lasciare libera l’energia politica.
Questa conduzione di energia nel corpo politico va considerata come una variabile imprevedibile.
La grande ammirazione verso il sistema romano è che questo riusciva a incanalare energia in forme tali da
permettere al corpo politico di perpetuarsi e rafforzarsi.

CAPITOLO VI - I principati nuovi che si acquistano con armi proprie e valore

In questo capitolo Machiavelli parlerà dei principati nuovi, che prima non esistevano, sotto un profilo
soggettivo, e cioè di un principe che prima di allora non lo era mai stato, e sotto un profilo oggettivo, e cioè di
quegli stati che prima dell’insediamento del principe nuovo non avevano mai avuto ordinamenti autocratici. In
particolare parlerà dei principati nuovi che si acquisiscono con armi o virtù proprie (capacità, efficacia).

Machiavelli afferma che più un principe è virtuoso e meno difficoltà ha a mantenere un regno. Colui che si
fonda meno sulla fortuna si mantiene più stabilmente perché non dipende dalla variabile più imprevedibile.

Viene introdotto il binomio virtù-fortuna: se la capacità di mantenere un regno dipende dall’abilità nel farlo, la
fortuna qui ha un ruolo minore, ha meno spazio. Non c’è solo virtù ma anche fortuna. Virtù e fortuna sono
variabili decisive.

C’è un’eccedenza di imprevedibilità che non dipende né da come agisci e dalla tua capacità né da come sono
aggirate le cose. Non basta presupporre la sorte, non sappiamo mappare bene come la sorte agisca sulle
vicende umane. Il reale non è perfettamente leggibile dagli esseri umani, c’è qualcosa di più, che rimane reale,
che però non sappiamo spiegarci. Se ci sono delle difficoltà che possono residuare nonostante la virtù
indubbia e anche la fortuna, significa che c’è una parte di realtà che non riusciamo a leggere.

Machiavelli fa degli esempi di principi che sono divenuti tali per virtù: Mosè, Ciro, Romolo e Teseo.
Questi fondatori, oltre alla sorte e alla virtù hanno avuto l’occasione. L’occasione è la capacità di cogliere la
fortuna al momento opportuno; è lo spazio, il punto di saldatura tra virtù e fortuna. Cogliere l’occasione è
l’abilità che deve interfacciarsi con la fortuna sempre. Cogliere l’occasione significa cogliere il momento
opportuno nel momento opportuno.
Esiste quindi una virtù nel domare, venire a patti con il fatto che la virtù non si trova mai? C’è questa abilità ad
affidarsi alla fortuna, andarla a ricercare e cogliere l’occasione all momento opportuno. La fortuna giocherà
sempre con noi e ci giocherà sempre, però quando l’imprevedibilità della fortuna sembra andare a nostro
vantaggio, bisogna farla nostra e affidarci alla sorte se capiamo che è dalla nostra parte.
Quindi è l’aver colto l’occasione ciò che li rese grandi e rese le loro patrie felicissime.
Machiavelli poi ci dice che il nuovo principe volto al rinnovamento dello stato che si scontra con gravi difficoltà
ha maggiori possibilità di successo se (profeta) armato rispetto invece che se non lo fosse (profeta disarmato)
e che dovesse ottenere consenso e appoggio da altre fazioni in campo.
Machiavelli dice che i principi quando dipendono da altri non conducono niente, ma quando sono in autonomia
capita rare volte che falliscano. I profeti armati di solito vincono. Il profeta è colui che indica una strada e se
armato o disarmato fa differenza. I profeti disarmati falliscono perché la natura dei popoli è varia, si
persuadono di una cosa ma sono pronti a persuadersi di un’altra, per cui la miglior prospettiva del governo è
nulla se non è accompagnata da risorse che non sono in grado di convincere il popolo della bontà di queste
imprese. Però per mantenere la convizione del popolo occorrono modi efficaci, mezzi pragmatici, che non
coincidono necessariamente solo con le armi e l’uso della violenza.

Un esempio di profeta disarmato è Girolamo Savonarola (1452-1498) che istituì una sorta di repubblica
popolare fondata sul Consiglio Grande e che però morì impiccato e arso sul rogo dopo la scomunica
comminata da papa Alessandro VI e anche per l’intiepidirsi del consenso dei fiorentini nei suoi confronti.
Savonarola è caduto non tanto perché lo hanno messo al rogo o perché non aveva le armi, ma per il fatto che
la moltitudine ha iniziato a non credergli più. Un’istituzione sta o cade fino a quando le persone credono o non
credono nella sua sensatezza, ed è per questo che bisogna agire sulla convizione e quindi far passare una
certa visione piuttosto che un’altra.

Capitolo VII - I principati nuovi che si acquistano per mezzo di armi altrui e della
fortuna

In questo capitolo Machiavelli tratterà di quei principati nuovi acquistati dai principi che li acquistano grazie alle
risorse altrui e alla fortuna.

I principi che diventano principi con la fortuna lo diventano con poca fatica, ma lo mantengono con molta
difficoltà perché la fortuna è imprevedibile. Quando uno si affida alle risorse altrui, dipende dalla sorte se la
persona che dona le risorse continui a concedere questo beneficio a colui che se ne serve. La fortuna e il
mentore straniero sono accomunati dal fatto che come la fortuna è inaffidabile, non lo sono nemmeno le
risorse del mentore straniero, dato che le potrebbe sempre ritirare, in quanto le offre per interesse strategico.
Anche il mentore che ci concede le sue risorse ha a che fare con la sorte e potrebbe perderle. Se noi ci
affidiamo a un altro attore politico ci accolliamo l’imprevedibilità del rapporto tra il mentore e la fortuna che
gioca anche questo ultimo attore politico. Non solo dobbiamo cercare di gestire il nostro rapporto con la
fortuna, ma se ci affidiamo al mentore dipendiamo anche dalla felice risoluzione del suo rapporto con la sorte.

Machiavelli dice che le difficoltà del principe giunto al trono per fortuna cominciano quando ottiene il principato.
Queste difficoltà nascono e dipendono dalla volubilità della fortuna o della volontà di coloro che hanno
determinato le condizioni per l’ascesa del nuovo principe.
Quando il principe acquista un principato per fortuna è debole, per cui il primo conflitto di fortuna rischia di
abbatterlo. La soluzione risiede nelle virtù del principe, che sappia allestire quando è giunto al trono quegli
apparati che di solito si devono preparare nelle fasi di conquista del principato.

Gli esempi che Machiavelli fa dei principi che sono divenuti tali per virtù e per fortuna sono rispettivamente
Francesco Sforza e Cesare Borgia.

- Francesco Sforza (1401-1466) è il principe che secondo Machiavelli è divenuto tale per virtù. Sforza
sposò Bianca Maria Visconti, figlia del duca Filippo Maria. Alla morte del duca la repubblica
ambrosiana affidò a Sforza il comando delle milizie per la guerra contro Venezia, ma lui approfittò per
diventare signore di Milano.
- Cesare Borgia, chiamato il duca Valentino (1475-1507) è il principe che secondo Machiavelli è divenuto
tale per fortuna e risorse altrui. Borgia fu insignito da Luigi XII di Francia del ducato di Valentinois (da
cui il soprannome). Figlio di Rodrigo Borgia (papa Alessandro VI) fu nominato comandante della milizia
pontificia. Cesare acquistò lo stato in virtù della posizione del padre e con la morte di questo perse ogni
dominio, nonostante avesse tenuto un comportamento esemplare.
L’esempio di Borgia è funzionale a far capire come questo nonostante fosse un condottiere abilissimo,
non avendo però predisposto tutte le precondizioni per incanalare la sorte dall’inizio, nonostante la sua
straordinaria maestria, si ritrova a fallire. La sorte gioca tutti, a meno che non venga dall’inizio
preindirizzata in tutte le variabili che sono nella disponibilità degli esseri umani.

Capitolo VIII - Coloro che giunsero al principato per mezzo di scelleratezze

In questo capitolo Machiavelli tratterà dei principi che sono divenuti tali per scelleratezze.

Machiavelli individua nelle scelleratezze due modi per conquistare un principato:

1) conquistare e mantenere un principato con atrocità


2) un privato cittadino con il favore degli altri diventa principe della sua patria e quindi si realizza un
principato civile. Qui l’aggettivo civile rimarca due caratteristiche:
- nel senso che chi diventa principe lo diventa con il favore degli altri
- nel senso che il principe è un privato cittadino della sua patria, e non esterno.

Machiavelli parla della vicenda di Agatocle per portare l’esempio di un principe che divenne tale in virtù di
scelleratezze.
Agatocle aveva cercato di ottenere il potere a Siracusa, e grazie all’appoggio cartaginese aveva potuto
conseguire il comando militare: pertanto egli aveva deciso di diventare signore assoluto della città e, frattanto,
di tenere quel grado che gli era stato concesso per la mediazione di Amilcare cartaginese con violenza e
senza sentirsi obbligato da nessuno. Ancora con l’aiuto di Amilcare cartaginese organizzò un colpo di stato:
fece riunire popolo e senato, ordinò a 5000 soldati ricevuti da Amilcare di uccidere i senatori e i cittadini più in
vista e raggiunse così il principato assoluto, che poi mantenne senza alcuna opposizione da parte dei
Siracusani.

La vicenda di Amilcare permette a Machiavelli di trattare il tema delle crudeltà bene o male usate.
La novità di Machiavelli è il fatto di considerare ammissibile che una crudeltà possa essere bene usata, e lo è
quando è momentanea, dettata dall’esigenza di consolidare lo stato, e volta al benessere dei sudditi. Il rigore e
le scelleratezze sono ben usati quando si usano al momento opportuno. Le crudeltà ben usate tra l’altro
possono essere giustificate dal pov etico, che non è mai un problema primario, ma quando queste sono bene
usate possono essere giustificate e giustificabili.
Le crudeltà male usate sono quelle che invece di interrompersi o diminuire, aumentano e si intensificano.

Le crudeltà come le ingiurie se devono essere fatte, si devono fare tutte insieme. Il bastone deve essere
utilizzato in maniera chirurgica e deve essere utilizzato nel minor tempo possibile perché permette ai cittadini
di dimenticarsene o elaborare la violenza.

Al contrario, i benefici si devono concedere al popolo poco a poco. I benefici devono essere concessi a poco a
poco perché in questo modo se ne assapora meglio.
Se un principe utilizza bene le sue grandezze, può in qualche misura gestire la fortuna e agire con tempismo:
il bene che fai in situazioni di crisi viene giudicato forzato, e quindi vi è riconosciuto nessun merito a fare un
bene se lo fai nel momento in cui lo fai, perché pare che fai del bene per un tuo personale tornaconto.
Capitolo IX - Il principato civile

In questo capitolo Machiavelli tratterà di quei privati cittadini divengono principi della propria patria per il favore
dei suoi concittadini. Il principato che si viene a creare è il principato civile.

In questo genere di principati, il principe diventa tale grazie al favore del popolo o dei grandi (aristocrazia o ceti
più alti).
I grandi e il popolo sono chiamati da Machiavelli due umori diversi, cioè due forme di condensazione di una
certa volontà di azione che hanno delle costanti. Nonostante popolo e grandi abbiano interessi separati
evidenti, queste due entità si creano sempre per condensazione. Popolo e grandi sono dei centri di
aggregazione di interessi che per lo più vanno in una specifica direzione, ma nulla vieta che ci sia un
rimescolamento per motivi vari, per cui si arriva a non avere più una distinzione così ferma tra popolo e grandi,
ma queste possono arrivare a mischiarsi, ibridarsi.
Da cosa dipendono le logiche per cui il principato può essere l’esito di un’iniziativa popolare o dei grandi?
Dall’occasione, la quale è determinata dall’opposizione delle due parti. L’occasione indica qui una condizione
di estrema necessità, la ricerca di una tutela straordinaria quando la fazione avversa maturi un vantaggio
pericoloso. Per contenere altro da sé ci si rivolge a un principe che è il sovrano hobbesiano, che incarna il
potere personale, assoluto ed esterno alla contesa tra popolo e grandi.

I principati civili possono essere:


- monarchie
- aristocrazie
- democrazie

I grandi scelgono il principe dalle proprie file, sarà uno di loro. Il popolo sceglierà genericamente uno che
potrebbe essere anche un aristocratico divenuto difensore dei diritti popolari.

Colui che diventa principe grazie al popolo ha meno difficoltà a mantenere il potere.
Machiavelli a proposito del popolo dice che questo si accontenta di poco, cioè di non essere oppresso, anche
se questo è predisposto ad essere oppresso perché l’alternativa è morire, che è alternativa peggiore. Invece, i
grandi vogliono opprimere.
Per Machiavelli il popolo non ha né volontà né iniziativa politica proattiva, quindi da parte sua può solo venir
meno il favore verso un certo tipo di governo, ma non può darne un’alternativa, quindi a muovere saranno
sempre i grandi. Il popolo quando ha iniziativa politica è perché qualcuno se ne fa portavoce, ma prima o poi
questo tribuno diverrà parte dei grandi, perché se il popolo si vuole articolare in corpo politico, questo lo si fa
se viene ammesso tra i grandi.

Il popolo è meno dannoso per un principe perché al massimo lo può disarcionare, ma non può proporre una
alternativa. Un principe in assenza di una concorrenza dei grandi, tali da poterlo disarcionare, se viene meno il
favore del popolo non ha da temere moltissimo.

Colui che diventa principe grazie ai grandi, mantiene il suo potere con molta più difficoltà rispetto a se lo fosse
diventato grazie al popolo, perché nei principati civili aristocratici il principe è un primus inter pares, è tra suoi
pari rispetto a cui non è agevole imporre una linea di comando.

Per il mantenimento del principato, il popolo è meno pericoloso rispetto ai grandi: il peggio che può capitare al
principe da parte del popolo è essere da lui abbandonato, i grandi invece sono più pericolosi perché dotati di
astuzia e capacità di più vedere, nel senso che i grandi esercitano azioni contro il principe tempestive e
spregiudicate, e che agiscono in anticipo per schierarsi dalla parte di colui che ritengono poter riuscire
vincitore di una contesa politica e cercheranno di meritarsi la gratitudine di quello.
Machiavelli ci spiega come possono agire i grandi:
- o si comportano nei loro atteggiamenti in modo da manifestare un pieno legame alle fortune del
principe
- o no.

- quelli che si legano al principe e non lo fanno per erodere le prerogative principesche il principe deve
tenerseli cari
- quelli che non si legano al principe, non si imbracano nell’impresa del principe non lo fanno:
a) perché hanno paura, per pavidità, per difetto naturale d’animo: il principe se ne deve servire
perché se hanno paura certamente non mineranno al trono del principe
b) per dolo, malizia, cagione ambiziosa: questi vanno temuti e trattati come nemici perché
rovineranno il principe.

Il principe quindi deve mantenersi amico il popolo e ciò gli sarà facile semplicemente non domandando al
popolo se non di essere oppresso. L’appoggio del popolo è necessario, perché se il principe è stato messo al
trono dai grandi, può da loro essere spodestato, e quindi deve avere il favore del popolo quando verrà meno il
favore dei grandi.

Machiavelli inoltre dice che sarebbe ancora meglio se uno cambiasse da principato civile appoggiato dai
grandi ad appoggiato dal popolo, perché il popolo assiste ad una conversione del principe da aristocratico a
principe del popolo. Il principe asceso con l’appoggio dei grandi è naturalmente temuto dal popolo, qualora il
popolo lo riconoscerà come benevolo e giusto, gli si legherà ancora di più che se lo avesse apertamente
sostenuto nella conquista del principato. Quando un beneficio si aggiunge, lo percepiamo di più rispetto a se lo
abbiamo già.

Questo favore del popolo il principe lo guadagna in molti modi, e non se ne può dare una regola fissa.
Machiavelli pone un accento sulla questione della regola.

Gli esempi che Machiavelli propone riguardo quei principi che rispettivamente si sono guadagnati il favore del
popolo o meno, sono Nabide e i Gracchi e Giorgio Scali:

- Nabide fu tiranno di Sparta e resistette abbastanza a lungo all’assedio perché si era guadagnato una
consistente parte della popolazione attraverso una legge agraria che aveva prodotto il malcontento dei
ceti possidenti. Nabide in questo modo si acquistò il favore del popolo.

- i Gracchi e Giorgio Scali furono ingannati dal popolo e questa fu la loro rovina.

Il principe civile che governi grazie ai magistrati è quel principe che ha conservato una parvenza di
ordinamenti repubblicani, limitandosi a esercitare il potere attraverso un’autorevolezza e un prestigio che lo
pongono in condizione di preminenza rispetto alle magistrature ordinarie. Il rischio a cui tale principe è esposto
è quello per cui in tempi avversi i magistrati potrebbero rovesciare il governo e quindi operare contro il
principe.

Nella gestione del potere, più abbiamo persone prossime a noi, più queste sono pericolose per noi. Per una
gestione efficace del potere tuttavia queste stesse persone sono necessarie, non ne possiamo fare a meno; ci
si affida a loro sapendo che però affidarsi a loro significa affidargli il nostro destino.

Questa esperienza pericolosa la si fa solo una volta, quindi un principe deve sapere cio che fare. La funzione
dell’opera del Principe è quindi quella di dare indicazioni al principe su come comportarsi a seconda delle
circostanze. Ci sono delle circostanze in cui non si hanno precedenti e il principe si trova a normare il fino ad
allora non normato.
Capitolo XI - I principati ecclesiastici

i principati ecclesiastici, non sono della Chiesa, ma sono semplicemente dei principati che si basano sugli
ordini antiquati della religione e nella religione; risalgono cioè ad ordinamenti e un insieme di norme vecchie e
fondate nella religione. Quest’ordinamento può essere pienamente laico, che tuttavia rimanda in maniera non
superficiale ma strutturale alla religione, non necessariamente quella cattolica, anche se in maniera privilegiata
il cattolicesimo è la religione a cui fanno capo questi principati.

I principati ecclesiastici, a differenza degli altri, non posseggono alcun problema. Si acquistano per virtù o
fortuna, ma il loro possesso si mantiene senza queste, perché sono mantenuti unicamente dalle istituzioni
consolidatesi nella fede religiosa fin da tempi antichissimi. A rendere questi principati ecclesiastici facili da
mantenere è il fatto di essere fondati sull’ordine più solido e assoluto, sono degli ordini che rimandano alla
religione come loro fondamento.
A governarlo può essere una persona del tutto incapace, ma costui sarebbe comunque in grado di mantenere
il principato.

In questi stati non serve nemmeno il principe: in qualunque modo procedano o vivano significa che in
qualunque modo il principe si regoli al principato ecclesiastico non importa.

Capitolo X - Come valutare le forze di tutti i principati

Il capitolo 10 si trova in continuità con ciò che verrà detto dal 12 in avanti.
La materia di questo capitolo riguarda una riflessione generale, valida per tutti i tipi di principato, e cioè quella
che guarda al modo in cui si debbano considerare le forze e le risorse di tutti i principati.

In particolare Machiavelli dice che bisogna considerare se uno stato è autosufficiente, si regge da solo, senza
che debba essere difeso da altri; oppure se uno stato debba ricorrere all’aiuto di terzi che hanno interessi
nell’aiutarlo.

Nel primo caso, quello degli stati che si reggono da soli, questi sono stati che o per abbondanza di uomini o di
risorse, possono far fronte a una guerra e difendersi, mettendo insieme un esercito giusto e fare una giornata
con chiunque, cioè avere un esercito con soldati sufficienti per mettere in piedi un esercito una guerra che
dura un giorno (le guerre medievali duravano un giorno), sia perché può darsi che raramente la guerra si
protraesse per qualche ora in più, ma una giornata è sufficiente per tamponare il pericolo immediato.

Nel secondo caso, quello in cui gli stati hanno bisogno di terzi, quei principati non possono mantenersi da sé,
non possono mantenersi contro il nemico e hanno bisogno di altri.

La strategia difensiva suggerita da Machiavelli per questo tipo di stati, cioè quelli in cui il principe non abbia
mezzi sufficienti a mantenere un esercito in campo, è di fortificare con particolare cura la città e il proprio
palazzo, trascurando magari la difesa della regione circostante, e avere il proprio popolo amico, in modo tale
che l’impresa risulti difficile per il nemico e questa contribuisca a scoraggiarlo. Per Machiavelli gli uomini sono
nemici delle imprese difficili e complicate e tendono ad evitarle.

Infatti, se qualcuno provasse ad assaltarlo, l’assedio avrebbe per il nemico esiti disastrosi, perché gli
assedianti non resisterebbero all’accampamento, alle scarse risorse, al freddo.

Se si trattasse di morale, di perdita d’animo e di scoraggiamento, il principe supererà anche queste difficoltà: il
principe deve incoraggiare i propri sudditi e soldati, impaurire i più timorosi con una paura più forte di quella
che hanno in quel momento, e poi assicurarsi che le mosse siano giuste, assicurarsi con destrezza dei più
arditi e far loro capire che oltre una certa soglia in guerra non si può andare.

Machiavelli però parla anche di come dovrebbe comportarsi il nemico, l’assediante, e lo fa ripresentando la
tematica dell’occasione: il nemico deve distruggere il paese appena vi arriva e nei tempi entro i quali gli animi
degli uomini sono ancora caldi e volenterosi alla difesa. Il principe non deve temporeggiare perché quando gli
animi si sono raffreddati i danni sono stati fatti. Quindi, anche un principe che ha un esercito solido se la gioca
con la tempistica, deve cavalcare gli stati d’animo e non lasciarsi sfuggire l’occasione.

Capitolo XII - I generi delle milizie e le truppe mercenarie

In questo capitolo Machiavelli prende in analisi il tema militare.

La legge ha notoriamente due facce: da una parte espone le ragioni della propria bontà, dall’altra in assenza di
convincimento costringe violentemente.
Machiavelli individua un rapporto di compresenza e implicazione necessaria fra le buone leggi, cioè i sani
ordinamenti politici e le buone armi, cioè l’organizzazione di un esercito nazionale e le buone armi. Machiavelli
dice che le buone armi sono prodotte dai buoni ordinamenti, e dove sono buone armi, le leggi sono
necessariamente buone. Non possono esserci buone leggi se in un governo non ci sono buone armi, e dove
sono buone armi è necessario che ci siano buone leggi. Sono le armi a determinare che ci siano buone leggi.
Machiavelli non ragione sulle leggi, ma analizza le armi. Le leggi per Machiavelli non sono le variabili più
decisive di altre per consigliare il principe nella condotta più opportuna. Le norme possono essere
tranquillamente derogate quando sia necessario farlo.

Ci sono quattro tipi di armi:


- le proprie: composte dai cittadini dello stato
- le mercenarie: esterne allo stato e stipendiate
- le ausiliari: ottenute da un altro stato
- le miste

Le mercenarie e le ausiliari sono considerate da Machiavelli inutili e pericolose, e se uno stato è fondato su
queste, questo non sarà mai saldo e sicuro.

Le armi mercenarie rendono lo stato che le ingaggi del tutto insicuro perché queste sono disorganizzate,
possono disunirsi, non hanno una gerarchia, o meglio, la hanno ma questa resta tale fino a quando a uno dei
due poli dell’ordine gerarchico fa comodo che quella gerarchia rimanda, ma poi l’esercito mercenario si sfalda.
Le armi mercenarie sono senza disciplina, infedeli, sono gagliarde fra gli amici, cioè fra di loro si danno man
forte quando si tratta di farlo tra i loro stessi interessi, ma anche con l’esercito mercenario nemico, e cioè sono
affidabili esclusivamente nei loro interessi da mercenari e fin tanto la logica è autointeressata sono gagliarde
anche con i loro colleghi nemici, perché condividono gli stessi interessi. Non li sposta il timore di Dio, perché
non ne hanno, non hanno fede negli uomini e non mantengono i patti.

Il principe che si fondi sulle armi mercenarie rovinerà non appena ci sarà da assaltare qualcuno, perché
l’esercito mercenario spesso non ha interesse ad attaccare gli altri mercenari, dato che combattere contro un
potenziale datore di lavoro futuro o passato non era la cosa più strategicamente intelligente per loro. I
mercenari vogliono essere soldati ingaggiati da uno stato mentre questo non fa la guerra in modo tale da
essere stipendiati senza fare niente, ma quando c’è la guerra fuggono via.

Machiavelli dice che la rovina di Italia e dei suoi principati è stata causata dal fatto di essersi appoggiata e
fondata sui mercenari.
Machiavelli poi dice che i capitani mercenari:
- o sono eccellenti: se sono eccellenti non ci si può fidare di loro perché agiranno in base al proprio
autointeresse a discapito del principe che li ha ingaggiati, o si rivolteranno contro di lui, o rimangono
formalmente fedeli ma lo tradiscono con i nemici
- o sono incapaci: rovineranno il principe perdendo le guerre.

Machiavelli dice che solo ai principi che scendono in campo personalmente e alle repubblica dotate di eserciti
nazionali si vedono fare grandi progressi.

Il principato può anche tenere dei mercenari, ma un principe che si mette alla testa dei mercenari farà da capo
banda e sarà in grado di far tenere una disciplina che altrimenti non sarebbe garantita. Quindi il comando
preso dal principe dell’esercito mercenario può relativizzare il pericolo dell’inaffidabilità delle armi mercenarie.

Machiavelli dice che una repubblica è molto più difficile da conquistare se questa è difesa dai suoi cittadini. Il
cittadino è interessato a difendere il proprio territorio perché senza questo non vive.

Capitolo XIII - Le milizie ausiliare, miste e proprie

Le armi ausiliarie sono le altre armi inutili e pericolose, e sono quelle che appartengono ad un altro stato e che
vengono chiamate per difendere lo stato che le ha chiamate in ausilio.
Queste armi sono di per se stesse utili e buone, nel senso che non presentano i difetti tattici delle milizie
mercenarie, ma per chi le chiama sono quasi sempre dannose, perché se queste perdono lo stato che le ha
impiegate rimane sconfitto, ma se vincono lo stato che le ha chiamate rimane loro prigioniero dal pov del
ricatto implicito.

Le armi ausiliarie sono più pericolose di quelle mercenarie perché quelle ausiliarie sono molto più solide in
quanto fanno capo a un principe e sono a lui obbedienti. Le mercenarie per offendere lo Stato che le ha
impiegate hanno bisogno di più tempo e di maggiori occasioni, non essendo unite e trovate e pagate dallo
stato che le chiama. I mercenari rispetto alle ausiliarie non hanno principio di ordine forte se non l’interesse del
momento.
Nelle armi mercenarie è più pericolosa l’ignavia, nel senso che non fanno il loro dovere e sono mosse da
autointeresse, nelle armi ausiliarie è più pericolosa la virtù.
Le mercenarie sono più disorganizzate, non hanno un capo stabilito.
Nelle ausiliarie è pericoloso il coraggio, la capacità di fare il loro dovere, e cioè rimanere fedeli al proprio
principe.

Per Machiavelli il principe saggio preferisce perdere con i suoi che vincere con armi altrui, perché se si perde
con i propri si può provare revanscismo che sprona a vincere prossimamente.

Machiavelli conclude dicendo che senza avere armi proprie, cioè quelle composte dai propri sudditi, cittadini o
da tutti i signori dipendenti da un principe, nessun principato è al sicuro, ma anzi è in mano alla fortuna.

Capitolo XIV - Quel che a un principe convenga a proposito dell’arte militare

Un principe deve saper fare la guerra, perché questa è la sola arte che ci si aspetta da lui ed è bene che abbia
chi comanda. L’arte della guerra serve perché per mantenere un principato si devono vincere le guerre, e per
acquisirne anche.

L’arte della guerra è l’attività in cui la virtù ha più peso e se uno è bravo fa differenza, anche se come
sottofondo c’è sempre la fortuna.
La prima arte del principe deve essere la guerra perché se non si ha questa arte si è alla mercé di chi ce l’ha.

Un principe deve essere abile a fare la guerra, però più un signore è bravo, meno ha esperienze di guerra. Più
un signore si mantiene saggiamente un regno, meno ha esperienze di guerre. Questo paradosso si risolve
ammettendo che ci si può esercitare alla guerra anche in tempo di pace, cioè con opere e con la mente.

Riguardo le opere che si possono fare in tempi di pace Machiavelli individua le battute di caccia, attraverso cui
si abitua il corpo ai disagi della guerra, si impara a stare in accampamento, a conoscere la natura dei siti dove
si combatteranno la guerra, le loro zone, il loro clima, come è fatto il territorio. Se si conoscono i siti di guerra
si sa come difendersi.

Riguardo l’esercizio della mente Machiavelli invita il principe a leggere e a studiare gli antichi, perché questo è
un modo per vivere altre vite ed esperienze rispetto a quelle avute nella propria vita. Il principe dovrà studiare
le loro azioni in guerra, esaminarne i motivi per cui hanno vinto o perso, non fare i loro stessi errori.

Il capitolo si conclude con la nuova comparsa della fortuna: il valore militare e la competenza strategica si
configurano come unici elementi capaci di contrastare la fortuna avversa, e quindi di non lasciare un principe
in balia della sorte, ma pronto a resisterle.

Capitolo XV - Le ragioni per cui gli uomini e soprattutto i principi sono lodati o
biasimati

Machiavelli in questo capitolo analizzerà i modi in cui il principe si deve comportare con i sudditi e con gli
amici.
Machiavelli attua una distinzione non classica: la suddivisione classica sudditi-dio viene sostituita da quella
sudditi-amici. Un altro tratto innovativo rispetto alla tradizione è che da Seneca fino ai trattati medievali si
davano consigli al principe su come comportarsi dal pov della persona, e non strategie.

L’obiettivo della trattazione machiavelliana è quello di giovare al principe con suggerimenti ricavati
dall’esperienza e dallo studio della storia. Al fine di perseguire questo scopo l’autore sceglie la verità effettuale,
cioè quella concretamente in atto, comprovata dalle cose, piuttosto che dall’immaginazione, cioè l’astrazione,
l’idealità, che si stacca dal piano dell’immanenza della cosa.
La storia del pensiero politico ha idealizzato i modi della suddivisione dello stato fondandosi su un principio
irrilevante, cioè quello che guarda a se i governanti governino per il bene della comunità o il bene proprio,
dicotomia giudicata da Machiavelli inutile.

Il più evidente fondamento del realismo politico di Machiavelli è che chi si discosta da come si vive di fatto, da
come le persone si comportano, per concentrarsi su come idealmente si dovrebbe vivere, impara prima a
rovinarsi che a mantenere il trono, perché se uno diventa o si intestardisce a fare il buono tra i non buoni fa
una brutta fine. Il principe fa bene a sapere essere buono o meno a seconda della convenienza: non bisogna
escludere di essere spietato laddove sia necessario.

Il modo in cui si comporta un principe è particolarmente notato. L’impatto che ha il suo comportamento è
notevole. La visibilità del principe promette o minaccia un impatto maggiore su giudizio dei sudditi a riguardo
del principe.

Machiavelli elenca una serie di tratti della personalità del principe, ma le alternative che pone non sono
minimamente quelle tradizionali. L’immagine pubblica di un principe non si articola secondo categorie
tradizionali, perché il principe deve essere appoggiato dai sudditi che ragionano secondo le loro categorie, che
non sono quelle classiche. Pertanto sono le categorie e le alternative del suo tempo su cui si deve regolare il
principe per quanto riguarda la sua immagine pubblica.
E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è
ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è
tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e
pusillanime, l’altro feroce et animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro
astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave l’altro leggieri; l’uno relligioso, l’altro incredulo, e simili

Machiavelli afferma che non esiste essere umano che possa avere tutte le virtù che classicamente si
richiedono al principe e allora bisogna scegliere. Trattandosi di scegliere, la selezione dovrà essere fatta
assicurandosi quelle qualità funzionali alla sua figura di principe, cioè funzionali alla sua figura di principe, e
quindi al mantenimento del potere. Le virtù opportune del principe sono quelle che assicurano il mantenimento
del potere. Le altre, dato che siamo esseri finiti, le possiamo lasciar andare.

Inoltre, Machiavelli invita a non curarsi se la tradizione considera certi tratti del carattere come vizi, perché la
tradizione non ha sviluppato coerentemente il principio per cui la virtù è far ciò che la propria carica richiede, e
quella del principe è mantenere il potere.

Capitolo XVI - Liberalità e parsimonia

Da questo capitolo Machiavelli inizia ad analizzare le qualità accennate nel precedente capitolo. In questo
capitolo parlerà della liberalità e della parsimonia.

Machiavelli afferma che la giusta misura nell’essere liberale (che qui è da intendere come il contrario di
parsimonioso), è quella non troppo manifesta e palese, ma che al contempo eviterà al principe la nomea di
avaro.

Il popolo deve accorgersi di questa perfetta corrispondenza tra quanto è richiesto al principe e quanto questo
ha fatto, altrimenti è come se il principe non fosse liberale. Secondo Machiavelli le virtù del principe devono
essere giudicate tali dai sudditi. E’ decisivo non quello che i principi fanno, ma come questi vengono percepiti.
Bisogna essere più liberale rispetto a quanto raccomanda la tradizione perché al modo della tradizione il
popolo non se ne accorgerebbe.

Il principe però non deve esagerare nell’essere liberale perché in questo modo si impoverirà e sarà costretto a
tassare gravemente i suoi sudditi, e così sarà da loro odiato, e sarà disistimato da tutti per la scarsa cura che
ha avuto dei propri beni.
Per Machiavelli meglio essere un principe con una fama piccola, che essere in modo non corretto liberale ed
essere odiato poi.

Il principe saggio saprà essere correttamente liberale, e cioè garantire il benessere a molti e recare
eventualmente danno a pochi. Il principe nell’amministrare i propri beni farà fronte alle esigenze economiche
dello stato senza tassare la moltitudine, cioè la popolazione e apparire tirchio solo a pochi, cioè a coloro che
avrebbe dovuto premiare con elargizioni non eseguite.

Machiavelli invita nuovamente a non curarsi se determinate virtù sono definite misere dalla tradizione, perché
quelli che vengono chiamati vizi sono dei comportamenti che servono al principe a mantenere il governo.

Capitolo XVII - Le crudeltà e la pietà; e se sia preferibile essere amati piuttosto che
temuti, o il contrario
In questo capitolo Machiavelli parlerà della crudeltà e della pietà.

Secondo Machiavelli per un principe è meglio essere pietoso che crudele, tuttavia deve curarsi di non usare
male questa pietà, con poca accortezza e strategia.

Un principe però non deve avere paura di essere considerato crudele e spietato, perché quando ci sono dei
disordini questi devono essere prevenuti sul nascere, perché se il male è circoscritto è sufficiente una
spietatezza contenuta rispetto a se il male dilagasse, e questo male quando dilaga lo fa perché non si usa
crudeltà al momento opportuno. Un principe quindi non deve temere di essere ritenuto crudele, perché per la
popolazione non verrebbe ritenuto tale rispetto a quando mostra pietà e il male dilaga, e quando allora utilizza
la crudeltà per sopprimere quel male, a quel punto verrebbe considerato più crudele. Secondo Machiavelli
quindi è meglio che si reprimano subito i disordini, prima che da piccoli diventino più gravi.

Machiavelli inoltre dice che il principe nuovo non può evitare di essere crudele e di essere definito tale.
Machiavelli giustifica questo assunto facendo riferimento alle parole di Didone nell’Eneide in cui egli dice che
la condizione difficile e la recente fondazione del suo regno lo hanno costretto a tenere severi comportamenti
verso i sudditi. Quello che Machiavelli intende dire è che il nuovo principe per rendere stabile il suo regno ha
necessità di essere crudele.

Machiavelli opta per una equa misura di crudeltà e confidenza: è importante che un principe non sia troppo
confidente perché allora sarebbe incauto, ma nemmeno deve essere troppo diffidente, perché a quel punto
sarebbe intollerabile per la popolazione. Il giusto mezzo e misura tra le due qualità che Machiavelli individua
riguarda esclusivamente la percezione della popolazione, e non ha alcun parametro morale. Si tratta di essere
efficace nell’apparire confidente o crudele opportunamente.

Machiavelli poi dice che esiste una disputa per cui si questiona se per un principe è meglio essere amato o
temuto. Machiavelli riterrebbe auspicabile che un principe sia insieme amato e temuto, ma questa condizione
è difficile da realizzare, perché talvolta se accontenti qualcuno in genere si scontenta qualcun’altro.

Per Machiavelli in genere è meglio ed è più sicuro essere temuti che amati. Machiavelli non ci dà una regola
che esattamente prescriva questo, ma ci dice che se un principe scegli di farsi amare, non sa se questo amore
è reale o occasionale, se duraturo o meno, perché gli uomini dice Machiavelli sono volubili, dissimulatori,
quindi quando la situazione si fa complessa e pericolosa, chi si è legato al principe in un rapporto di amore e
benevolenza, nel momento del bisogno non lo si troverà, perché il loro legame era basato sulla volontarietà e
questi non hanno alcuna ragione di rimanervi fedele quando le cose vanno male. Infatti Machiavelli dice che le
amicizie non si acquistano con il prezzo, ma con grandezza e nobiltà d’animo.

Il rapporto di paura supera la volontà: la paura è un vincolo più forte perché anche se non voglio obbedire a un
principe sono ricattato da un pov più o meno esplicito fondato sulla paura di ritorsioni a mio discapito. I legami
fondati sulla paura sono più solidi perché non dipendono dalla volontà del singolo di dismetterli o meno,
perché costui non può dismetterli.

Un principe però non deve farsi temere in modo che questo timore diventi odio, e per non essere odiato un
principe deve semplicemente astenersi dall’appropriarsi degli averi dei suoi cittadini o sudditi.

Machiavelli però parla della condotta che un principe deve adottare con le milizie, e con i suoi soldati il principe
non deve curarsi di essere considerato crudele, perché senza questa qualità nessun esercito può essere unito
e tenuto.

Machiavelli conclude affermando che poiché gli uomini manifestano amore a proprio piacimento, mentre
provano paura se il principe si mostra temibile, il principe non potrà che fondarsi su quegli atteggiamenti e
vincoli che dipendono da lui medesimo, cioè la capacità di essere temuto, E deve soltanto badare a non
essere odiato.

Capitolo XVIII - Come i principi debbano rispettare i patti

Machiavelli afferma che esistono dei principi che hanno fatto grandi cose anche non tenendo conto dei patti
presi con gli altri stati, hanno saputo aggirarli e quindi superare gli uomini che si sono fondati sulla lealtà.

Machiavelli dice che esistono due modi per combattere:


- con le leggi: proprie degli uomini
- con la forza: propria delle bestie
Un principe deve saper usare sia la bestia sia l’uomo.

Con l’immagine della bestia e dell’uomo, Machiavelli intende dire che a volte gli uomini si comportano secondo
la ragione, altre volte si comportano da bestie, sono irrazionali e quindi capiscono solo impulsi e istinti.
E’ inutile come dice la tradizione che si mantenga la fiducia che prescrive di trattare tutti gli uomini come
fratelli, perché questi talvolta si comportano come bestie.

e l’una sanza l’altra non è durabile: Machiavelli espone una tesi antropologica e di strategia politica. Non c’è
uomo che in certi momenti non diventi bestia. Non esiste uomo sempre razionale che ascolta le ragioni della
legge. Di conseguenza, un principe non può governare usando sempre o solo violenza o solo la legge.

Sendo dunque necessitato: protasi che non sempre viene considerata. Vuol dire non sempre, quasi mai, solo
quando necessitato. Questa precisazione di Machiavelli è decisiva per l’interpretazione dell’intera opera del
Principe. Quando si fa di Machiavelli il difensore della tesi che il fine giustifica i mezzi, possiamo dire che è
cosìi, a patto che sia chiaro che il fine giustifichi i mezzi solo in caso di necessità, quando la situazione non
permette altra scelta. Il capitolo 18 per questo rimanda alla tematica dello stato d’eccezione.

Il principe, quando si tratta di utilizzare la bestia, si interfaccia con due figure bestiali:
1) volpe
2) leone
Entrambe le bestie per quanto riguarda capacità e incapacità sono in modi e forme speculari e complementari.
Il leone non è capace di difendersi dai lacci, può cadere in una trappola.
La volpe non sa difendersi dai lupi, rifugge i lacci, è in grado di scampare dalla trappola, ma non sa difendersi
dai lupi, cosa che sa fare il leone.
Bisogna essere volpe per conoscere i lacci, e leone per sbigottire i lupi.
Chi sta solo sul leone, chi pensa che il potere sia solo questione di violenza non ha capito niente della politica.

Machiavelli ritorna sul tema della fiducia: il principe deve occuparsi di mantenere una credibilità? La coerenza
non è una virtù dell’uomo politico, si tratta di giocare questa carta nelle circostanze in cui questa può dare
profitto.
Machiavelli inoltre dice che se tutti rispettassero la parola data allora anche il principe dovrebbe farlo, ma
siccome gli uomini sono tristi e non rispettano i patti, anche il principe si deve comportare ugualmente. Inoltre,
non sono mai mancate ragioni per venire meno ai patti e per giustificare la loro inosservanza.
Siccome l’ambito della politica è un ambito di mentitori, bisogna giocare secondo le regole di questo mondo.
Se si ha la presunzione di poter imporre a quest’ambito le proprie regole, o ci si illude, oppure perché si è
particolarmente forti nello scampare agli svantaggi che nascono perché non si seguono le regole della politica.

Machiavelli fa un elogio all’arte dissimulatoria, cioè alla capacità di adottare un atteggiamento esterno, una
conformità formale a certe regole. Gli uomini possono essere bestie facilmente leggibili al punto che chi
inganna troverà sempre qualcuno che si lascerà ingannare, sarà sottomesso, vinto, dalla capacità simulatoria.
Machiavelli dice che non è necessario avere le qualità di cui ha parlato, ma è più utile far finta di averle,
perché avendole e osservandole sempre sono dannose. E’ meglio portare la popolazione a credere che un
principe abbia determinate virtù rispetto che ad averle e ad osservarle sempre. Il problema di averle è che è
molto difficile che una persona abbia insieme delle virtù opposte e che poi possa con velocità e prontezza
convertirsi dalle virtù che ha a quelle che non ha. Se si ha una determinata caratteristica è assai improbabile
che abbia anche quella opposta. E’ molto più semplice passare da una all’altra virtù e far finta di averle
entrambe.
Il principe non deve caratterizzarsi per nessun tratto caratteriale, perché se lo è gli sarà difficile convertirsi ai
tratti opposti. Il principe deve saper essere tutto, non caratterizzarsi per nessun tratto distintivo. Proprio in
quanto non determinato è capace di determinarsi in molteplici situazioni.

Secondo Machiavelli si deve mentire ma salvando la forma, perché altrimenti il principe perde di credibilità e
questo non è mai raccomandabile dal punto di vista dell'immagine mediatica. Anche quando mente non deve
uscirgli mai di bocca ciò che esca dalle sue cinque qualità, non deve mai contraddirsi.

Il principe deve sembrar possedere soprattutto la qualità di non rompere con i valori morali comunemente
accettati, che è quella più raccomandabile per il suo successo nell’opinione pubblica.

Inoltre, Machiavelli dice che solamente poche persone capiscono come stanno le cose, e questi pochi non
hanno però il coraggio di opporsi all’opinione di molti, perché è complicato andare contro la maggioranza,
specialmente quando questa è difesa dallo stato.

Tutte le azioni del principe sono finalizzate al mantenimento del potere, e a determinare se sono state fatte le
scelte giuste lo determina se il potere è stato preservato.

Capitolo XIX - Come evitare il disprezzo e l’odio

In questo capitolo Machiavelli parlerà di come il principe può non essere odiato e disprezzato.

E’ importante che il principe non faccia quelle cose che lo renderanno odioso e disprezzabile in modo tale da
non correre pericoli.

Machiavelli afferma che a rendere odioso un principe è essere rapace ed usurpatore delle cose dei suoi
sudditi, per cui un principe che non vuole farsi odiare non deve appropriarsi della roba dei suoi sudditi.
Machiavelli ancora una volta esprime una tesi antropologica: se agli uomini non si toglie onore e proprietà
vivono contenti. Machiavelli richiama l’onore, egli riconosce che gli esseri umani sono molto più complessi e
sono mossi da moventi che non hanno solo a che fare con beni materiali.

Machiavelli poi dice che i nemici, a patto che siano pochi, si sbaragliano con facilità quando si ha il potere. Il
problema dei nemici si viene a creare quando questi sono tanti da rendere una loro sconfitta più complicata, e
per ovviare a questa situazione il principe non deve farsi odiare dalla moltitudine e questo può si può fare
dando alla moltitudine quel poco che questa vuole avere, cioè onore e roba.

Machiavelli continua elencando le caratteristiche che rendono un principe disprezzabile: incostante,


superficiale, molle, indeciso. Al contrario un principe apprezzato e stimato dai sudditi sarà magnanimo,
coraggioso, serio, d’animo germo, e nelle decisioni relative ai contenziosi privati farà in modo che le sue
decisioni siano irrevocabili.

Un principe che ha le qualità sopra elencate dice Machiavelli è un principe verso cui difficilmente si congiura e
che difficilmente viene attaccato da stranieri.
Un principe deve avere due paure:
- congiura interna
- attacco estero

Dalle aggressioni da parte di stranieri ci si difende avendo buone risorse militari e buoni amici (alleati), e se ha
buone risorse militari avrà anche sempre buoni amici. Chi ha ben organizzato le proprie truppe nazionali
troverà anche validi alleati. Inoltre, la stabilità dei rapporti esterni determina anche la stabilità di quelli interni, a
meno che non fossero perturbati da una congiura.

Machiavelli analizza il caso delle congiure: la miglior garanzia per non subire congiure è essere tenuto in
buona considerazione, avere una buona reputazione. A seconda di come è reputato un principe, dipende
l’essere oggetti a congiure, e se ha una buona reputazione è più difficile che venga fatta una congiura.
Machiavelli però dice che non possiamo prevenire le congiure perché qualcuno cercherà di farle sempre, si
tratta semplicemente di ridurne le probabilità e le condizioni di possibilità facendosi non odiare e portare dalla
propria parte il popolo.

Machiavelli ci dice che il miglior rimedio che un principe ha per non essere oggetto di congiure è non essere
odiato dalla moltitudine, perché se ti fai ben volere dalla moltitudine la congiura è meno probabile.
Infatti, quando i congiurati intendono fare una congiura, se non la maggior parte della popolazione non è
d’accordo con loro è improbabile che la congiura venga messa in atto.
Se poi la congiura ha un esito positivo, e un principe viene ucciso, se l’opinione pubblica percepisce questa
uccisione come un attentato alla loro forma di vita, la congiura anche se ha avuto successo nell’immediato,
non avrà alcuna possibilità di successo assoluto e a lungo termine.

Poi, un altro modo per evitare le congiure è quello di far valere la minaccia implicita contro queste, e quindi
quella che se la congiura non dovesse avere un esito positivo, i congiurati saranno puniti. La funzione della
minaccia implicita è che se un congiurato è poco convinto, di fronte a un rischio così grosso se la congiura
dovesse fallire, si scoraggerà.
Inoltre, quando il congiurato avvicina un compagno di congiura meno convinto, quest’ultimo si accontenterà di
scoprire che questo malcontento verso il governo attuale è diffuso anche in altri, si accontenterà di questa
condivisione del mal comune e non avrà necessità di passare all’azione.

Capitolo XX - Se le roccaforti e molte altre difese che i principi ogni giorno apprestano
siano utili o inutili

In questo capitolo Machiavelli analizzerà l’utilità o l’inutilità delle difese che i principi adottano nei propri stati,
cioè cosa fanno i principi dal punto di vista della fortificazione, assicurazione difensiva del proprio stato.

Emerge ciò che nel Principe è una costante, e cioè che Machiavelli si trova molto in difficoltà nel formulare
delle regole, perché se per dare una regola bisogna astrarre dai contesti in una certa misura, a quel punto
questa diventa inadatta a qualsiasi contesto. Infatti, quando Machiavelli enuncia una regola, quando lo fa poi
specifica sempre che questa deve tenere conto del contesto per essere formulata, però se una regola dovesse
ogni volta tenere conto del contesto per essere formulata, non sarebbe più una regola.

Machiavelli inizia il discorso dicendo che i principi, specialmente quelli nuovi, non hanno mai disarmato i suoi
sudditi, e anzi quando li hanno trovati disarmati li ha armati.

Da qui inizia la trattazione riguardo il problema se i sudditi vadano armati o disarmati: la trattatistica dice che
vanno disarmati, in quanto i sudditi armati costituiscono un rischio di rivoluzioni e congiure.
Machiavelli insiste nell’armare i sudditi perché nel capitolo XIII aveva insistito sulla pericolosità delle milizie
mercenarie. E’ pericoloso non armare i sudditi e quindi non avere un proprio esercito nazionale, perché
altrimenti si dovrà ricorrere alle armi mercenarie, che sono molto più pericolose. Secondo Machiavelli infatti è
meglio avere dei rivoltosi interno allo stato rispetto ad avere mercenari.

Poi si passa ad analizzare la questione dell’armare tutti i sudditi e sulla sua impossibilità: Machiavelli afferma
che devono essere armati coloro che corrono più pericoli e che difendono la città. Machiavelli sostiene che chi
viene armato ricava benefici diretti, cioè viene pagato e altri privilegi connessi alla posizione militare, e quindi
ha più stime del principe che lo ha fatto soldato; gli altri invece possono essere trattati con minori riguardi, e
questi non rimarranno scontenti.

Lo scontento nasce quando si disarmano i sudditi: se il principe disarma alcuni dei suoi sudditi, questi
percepiscono il disarmo o come diffidenza del principe nei loro confronti, o perché egli li considera vili per
essere armati, e queste due opinioni creano odio nei confronti del principe e quindi è una situazione che deve
essere evitata.

La questione però è diversa quando un principe acquista un nuovo stato che si aggiunge al principato del
principe conquistatore.
In questo caso è necessario disarmare lo stato nuovo, tranne la fazione dello stato nuovo che nella guerra si è
mostrata fedele al principe e farla coincidere con l’esercito del nuovo regno. Quando si conquista un nuovo
stato si deve privilegiare e premiare le forze che hanno permesso di salire al potere e regolarizzarle, farle
coincidere con l’esercito regolare (=dittature).

Quando c’è una situazione di guerra è bene che la parte coinvolta sia più unita possibile, perché le città divise
si distruggono. Quando si è divisi si è meno efficaci in quanto manca una risposta che deve essere pronta in
caso di guerra. Inoltre, non necessariamente, ma può accadere, la parte più debole potrebbe aderire alle forze
estere e l’altra, la maggioritaria, non potrà reggere. Machiavelli dice questo perché vuole far passare la tesi per
cui i mercenari e le armi ausiliarie siano le milizie più pericolose e che tutto il resto sia decisamente migliore.

Machiavelli sembra poi dire che un principe deve essere in grado di fare la guerra non solo perché è
necessaria, ma perché la guerra è un banco di prova per fare un salto di qualità, da nominale, che non ha mai
dato prova di essere un vero principe, a fattuale nella guerra, dove testerà veramente la sua capacità da
principe. La guerra quindi è la vera fonte di legittimazione del principato perché lì tutte le sfide del principe si
presentano: sedizione interna, gestione delle alleanze, capacità di saper prendere la decisione giusta. La
guerra quindi si configura come una occasione che la sorte offre, non è una svenuta. Il principe è un vero
principe esclusivamente quando può comprovare la sua arte di governo nell’unico momento in cui questa
viene messa alla prova e quando questa diventa indubbia agli occhi dei suoi sudditi.

Machiavelli poi parla dell’inimicizia: i principi che agiscono con accortezza, traggono utilità più dai non fedeli
che da quelli fedeli fin dall’inizio, perché con quelli sospetti il principe li conquista mostrando loro il proprio
valore. Machiavelli afferma che i convertiti per convinzione e i costretti mostrano più dedizione verso il
sovrano: i convinti per convinzione perché dopo la conversione sono fervidi servitori della nuova fede, e i
costretti non convinti dovranno dimostrare che non sono più i nemici di un tempo.

Machiavelli poi parla del caso in cui un principe conquistatore sia stato appoggiato dai cittadini interni allo stato
di nuova conquista, e dice che è bene capire le ragioni per cui questi lo hanno appoggiato, perché se lo hanno
aiutato solamente perché non erano contenti dello stato precedente, allora difficilmente continueranno a
sostenerlo dopo la conquista perché il nuovo ordine probabilmente non li accontenterà come il vecchio. Se
quello dei sudditi dello stato acquisito è un calcolo della migliore condizione e non una reale conquista da
parte del principe, a fatica allora il principe potrà mantenerli fedeli, perché molto probabilmente l’ordine del
principe conquistatore non gli andrà ugualmente bene.
Machiavelli poi afferma che è più facile farsi sostenere da quei sudditi che stavano bene nell’assetto statale
precedente, ma erano suoi nemici o non facevano parte di coloro che traevano vantaggi dal sistema, perché
questi sono facilmente accontentabili, non chiedono di cambiare granchè, ma solo di mescolare e riordinare la
carta della distribuzione dei vantaggi.

In seguito Machiavelli passa ad analizzare la questione delle fortezze nel proprio territorio.
Machiavelli afferma che la costruzione di fortezze è una soluzione che fin dall’antichità ha sempre dato prova
di essere efficace. L’efficacia delle fortezze però ha un doppio volto:
- queste sono utili quando il principe teme il proprio popolo: le fortezze servono a sfuggire alla furia
popolare, servono al principe ad arroccarsi in esse e cercare di aver salva la vita.
- non sono utili se il timore è verso i nemici esterni: perché se il principe è odiato dal popolo questo
aprirà le porte della fortezza al nemico.

Quindi, per Machiavelli la prima cosa di cui assicurarsi è quella di non essere odiato dal popolo, più che la
costruzione di fortezze.

L’indifferenza di Machiavelli verso la questione delle fortezze gli serve per dire che quello che conta veramente
è l’essere stimato o meno dal popolo.

Capitolo XXI - Quel che occorra a un principe per essere stimato

In questo capitolo Machiavelli analizza ciò che deve fare un principe per essere stimato.

Machiavelli inizia dicendo che ciò che massimamente rende stimato un principe è fare grandi imprese e dare
di sé rari esempi.

E’ importante per essere stimati ciò che compie di fatto un principe, ma anche e soprattutto ciò che il principe
si fa credere che sia. L’importante che entrambe le azioni abbiano un riscontro nel popolo, che abbiano un
impatto nell’immaginario e nella convinzione del popolo. In ogni sua azione, il principe deve dare di sé
immagine e fama di uomo grande.

Machiavelli inoltre afferma che non conviene in nessun caso essere neutrale, e qualsiasi alternativa sarà più
utile.
Se due potenti stati fanno la guerra possono accadere due cose, o che del vincitore dello scontro il principe
dovrà temere, o no.

Ma in qualsiasi dei due casi essere neutrali non è efficace.

Nel primo caso perché se il principe non si schiera egli sarà sempre preda del vincitore, e non ci sarà nessuno
a difenderti, perché chi vince non vuole alleanze con chi verso cui si dubita che interverrà quando ci sarà il
bisogno, e chi perde non farà alleanze con il principe neutrale perché non vuole allearsi con chi non è voluto
andare in suo soccorso.
Inoltre, secondo Machiavelli non esiste che non ci sia aspettative che tu vada in soccorso verso l’uno o l’altro
popolo, e le aspettative condizionano i rapporti futuri, servono a creare le condizioni di stabilità che gettano la
base o la tolgono per la stabilità e la pace.

Machiavelli ora riporta i vantaggi del non essere neutrali.

- Il primo caso è quando il principe ha da temere dello stato vincitore dello scontro rispetto a cui ha
deciso di rimanere neutrale perché tanto forte da temerlo:
a) conviene schierarsi perché se ci si schiera con lo stato forte il principe diventa il suo alleato e non deve
temere che una volta compiuta la guerra lo minacci. Inoltre, conviene allearsi con lo stato forte perché
se questo vince la guerra, il principe alleato trarrà anche lui tutti i vantaggi della vittoria.
Machiavelli però si contraddice perché dice che gli uomini non sono mai così disonesti da venir meno
ai vincoli di alleanza, mentre nel capitolo 18 aveva detto che gli uomini erano tristi e vengono spesso
meno ai patti. Machiavelli ora dice che non ci sono così tante disonestà nella politica da non rispettare
le alleanze. Inoltre, le vittorie nel mondo politico non sono mai così nette da non rendere inconveniente
avere rispetto di questioni di giustizia, perché la ruota gira sia nei rapporti di forza tra gli alleati sia negli
esiti della guerra stessa.

b) poi conviene eventualmente allearsi contro questo stato forte, e quindi con lo stato perdente, perché
almeno quello forte uscirà dalla guerra un po’ più disastrato e non potrà permettersi una nuova guerra,
per cui il principe alleato non avrà molto da temere. Inoltre, perdere una guerra con un alleato rende la
sconfitta meno dura e c’è comunque la possibilità di vincere ad un prossimo scontro.

- Il secondo caso è quello in cui ci si potrebbe permettere il lusso di rimanere neutrale, non si ha da
temere che gli stati in guerra attacchino il principe, perché sono stati minori rispetto allo stato del
principe. In questo caso è ancora più intelligente schierarsi con uno di questi perché il principe,
schierandosi con uno dei due determina la sconfitta dell’altro stato.
Lo stato maggiore in una casistica del genere vive l’evenienza in cui non può mai perdere, e perde
solamente se si lascia sfuggire un’occasione del genere.
Il rischio dello stato maggiore in questo caso rimane neutrale perché comunque vada non può perdere
una guerra contro uno degli stati minori.
I due stati minori, più che farsi la guerra tra di loro, o non dovevano farsi affatto la guerra, o al massimo
dovevano farla contro lo stato forte, perché quello che si è alleato con lo stato maggiore ne è diventata
sua preda, viene soggiogato dalla forza ausiliaria dello stato maggiore. Lo stato minore, vincendo
grazie allo stato maggiore, diventa dipendente da questo. Uno stato minore non deve mai accettare
l’aiuto di uno stato maggiore perché altrimenti si pone il problema delle forze ausiliarie.

Machiavelli però poi scrive che non c’è mai una regola sicura che regola la questione delle alleanze, che ci sia
la sicurezza di farsi alleanze sicuramente vantaggiose, perché ci potrà essere sempre un’inconveniente, e si
tratta semplicemente di valutare tutti gli inconvenienti e considerare che la soluzione migliore è limitare i danni.
Questo che dice Machiavelli va però in contraddizione rispetto alla sicurezza dimostrata nei paragrafi
precedenti, quando sosteneva che lo stato maggiore vince sempre contro gli stati minori.

Un altro modo per farsi stimare è costituito dal favorire le virtù di ciascuno perché in questo modo c’è più
possibilità che i cittadini contribuiscano al benessere dello stato. Il principe deve incentivare lo sviluppo
dell’impresa, deve dare sufficiente garanzia che il cittadino possa aprire industrie, comprare. Inoltre, un
principe deve coltivare le tradizioni e i costumi dei suoi sudditi e deve dimostrarsi presente ed interessato alle
iniziative popolari, e in generale a tutto quello che accresca il popolo in se stesso e come imprenditori di sé.

Capitolo XXII - I segretari del principe

Nel capitolo 22 e 23 Machiavelli tratta un problema serissimo, cioè quello relativo al rapporto tra un principe e
la cerchia di persone che reputa opportuno consultare.

Nel capitolo 22 Machiavelli tratta dei segretari del principe.

Machiavelli ritiene che il modo più sicuro per giudicare la qualità del principe e la sua azione di governo è
vedere quali sono i suoi consiglieri.
Se questi consiglieri sono idonei e fedeli, il principe allora sarà saggio, perché ha saputo fare una buona
selezione. Quando i suoi consiglieri non sono idonei e fedeli, allora si può sensatamente avanzare il giudizio
per cui il principe non sia all’altezza della situazione governativa, perché il primo errore che ha compiuto, che è
anche quello più grave, è quello relativo alla scelta dei suoi consiglieri.

Il modo attraverso cui il principe può riconoscere se il ministro scelto non è idoneo alla carica governativa è
vedere se questo pensa maggiormente a se stesso rispetto alla volontà del principe, se le sue azioni
dimostrano essere più a suo vantaggio e non invece a vantaggio della comunità. Il ministro, per essere un
ministro buono, deve avere come sua stella polare il vantaggio del principe.

Il principe però per mantenere buono un ministro deve pensare a lui. Il principe deve accattivarsi il ministro
premiandolo, dandogli cariche, denaro.
Emerge un’altra contraddizione rispetto al capitolo ?? e cioè che se qui Machiavelli sta invitando il principe a
concedere privilegi a qualcuno per mantenerlo buono, nel capitolo ?? Machiavelli aveva sostenuto al contrario
che se si accontenta qualcuno, questa persona ne vorrà sempre di più.

Capitolo XXIII - Come si debbano evitare gli adulatori

In questo capitolo Machiavelli tratta del caso in cui i segretari diventino adulatori, cioè quei consiglieri che
dicono al principe ciò che questo vuole sapere e gli tolgono quel potenziale dubbio di autocritica che avrebbe
avuto se fosse stato da solo. Questo problema è considerato con molta importanza perché quando un principe
è circondato da adulatori, questo non riesce ad avere più percezione della realtà.

Machiavelli sostiene una tesi antropologica: gli uomini si compiacciono delle cose proprie e sono pronti ad
ingannarsi nel caso in cui debbano relativizzare le lodi che gli vengono fatte.

Machiavelli ritiene che il modo per sfuggire agli adulatori è dare sufficiente garanzia all’interlocutore che gli si
può dire la verità senza averne paura.

Il problema che però sorge relativamente alla soluzione proposta da Machiavelli è che se si mette
l’interlocutore nella condizione di dire senza filtri la verità al principe, poi viene a mancare quella forma di
rispetto gerarchico che dovrebbe vigere tra principe e un suo consigliere, si instaura un trattamento da pari a
pari e il principe perde la sua autorevolezza, perché il suo interlocutore è messo nella condizione di non avere
nulla da temere dal principe. Il rischio di questa situazione è che il principe perda quell’aura di superiorità
simbolica, quel carisma weberiano, e ciò rischia di minarne il potere.

Per sfuggire sia agli adulatori sia alla perdita di autorevolezza, Machiavelli individua una soluzione: scegliere
come consiglieri degli uomini saggi e consentire solo a loro e a nessun altro di parlargli liberamente.
La terza via consiste in una ulteriore selezione all’interno della cerchia dei consiglieri saggi, e ciò consente al
principe di mantenere il rapporto gerarchico e di fuggire l’adulazione.
Questa però non è davvero una soluzione perché alla fine rimangono lo stesso i rischi di essere adulato e di
perdere quel grado di autorevolezza che contraddistingue un principe. Questa soluzione cerca solo di
ridimensionare e minimizzare i due problemi.

Emerge una contraddizione: Machiavelli dice che questi consiglieri saggi devono parlare solo di quello che gli
chiede il principe, ma al tempo stesso il principe deve chiedergli ogni cosa. Il problema è che però il principe
non sa sempre come vadano le cose e quindi su cosa interrogare. Ci si aspetta che il principe sappia già gli
argomenti da trattare. Porre come precondizione quella per cui il principe sappia già le domande da fare è
inverosimile.
Ciò che rende ancora più complicata la terza via è l’elezione di questi consiglieri, come fa il principe a sapere
chi sono? Si richiede al principe una specie di decisione originaria di saggezza. Per permettere la felice
occasione di fare scelte sagge, il principe deve fare la scelta complicata di scegliere consiglieri saggi. Ma
questo è un regresso all’infinito, un cane che si morde la coda. Se il principe è chi si deve servire di consiglieri
per fare scelte giuste, chi aiuta il principe a scegliere consiglieri saggi?

Machiavelli ritiene che questa terza via sia una regola generale che non fallisce mai: il principe che non è
saggio per se stesso, non può essere consigliato bene, a meno che non si rimette uno solo che governasse lui
e il principato al posto del principe.
La regola di Machiavelli è contraddittoria e inverosimile: contraddittoria perché se è già saggio a che serve il
consiglio proveniente da terzi? Inverosimile perché non è umanamente possibile che una persona sappia già
che argomenti trattare. Poi, bisogna ricordare che tutto questo capitolo era partito proprio dal fatto che il
principe non può essere saggio di suo e governare da solo.

Tutto questo capitolo non ha senso, questo problema non ha una soluzione coerente: i consigli migliori
nascono dal principe, ma il problema da cui si era partiti era che il principe ha bisogno di consigli.

Capitolo XXIV - Perché i principi d’Italia persero gli stati.

Le cose soprascritte e osservate prudentemente fanno sembrare un principe nuovo un principe antico,
dinastico, ereditario, e lo rendono subito più sicuro e fermo nello stato.

Un principe nuovo è molto più osservato nelle sue azioni rispetto a un principe ereditario, e quando le sue
azioni sono considerate virtuose, conquistano maggiormente la stima del loro popolo rispetto a se fosse un
principe antico.

Machiavelli enuncia una tesi antropologica che però è in contraddizione con la tesi antropologica del capitolo
3: Machiavelli in questo capitolo dice che gli uomini sono molto più presi dalle cose presenti rispetto alle
passate, e quando nel presente si trovano bene, godono e non cercano altro. Nel capitolo 3 invece Machiavelli
diceva che gli uomini si stufano subito del benessere.

Machiavelli poi analizza i motivi per cui i principi italiani persero i loro regni.
Machiavelli dice che i principi italiani hanno perso i propri regni non a causa della fortuna, ma a causa della
loro ignavia, e cioè perché non hanno fatto nulla, si sono cullati nell’illusione per cui le cose sono andate
sempre bene e quindi andranno bene anche in futuro, hanno mancato di fare propria la regola per cui la
fortuna muta, è imprevedibile.
Per dirlo, Machiavelli enuncia un’altra tesi antropologica: gli uomini non considerano quando le cose vanno
bene che queste un giorno potrebbero andare male, e quando avvengono tempi avversi molti sovrani pensano
a fuggire e a non difendersi e aspettano che il popolo, dopo averli scacciati, li richiamino.

Machiavelli inoltre dice che sperare di essere richiamati dal popolo, quando manca la possibilità di ogni altro
esito è buono, ma è sconsigliabile ritrovarsi nella condizione di avere questa chiamata come esito unico, non
essersi curati di non ritrovarsi in una situazione in cui il popolo giudica migliore richiamare il principe scacciato
rispetto all’invasore, perché non bisogna mai cadere nell’illusione di trovare chi ti raccolga. Non è consigliabile
come circostanza quella della chiamata del principe scacciato perché se a rimettere al trono il principe sono
altri, questo trono lo si può nuovamente togliere.

Machiavelli dice che sono durevoli ed efficaci quelle difese che dipendono solo dal principe, e che permettono
di aumentare la quota di gestione della sorte.
Capitolo XXV - Quanto possa la fortuna nelle vicende umane e come le si debba
resistere

In questo capitolo ritroviamo tutto il precipitato teorico del Principe.

Machiavelli riporta la tesi deterministica che ha trovato capo nel ‘500 per cui tutto sia già governato da Dio o
dalla fortuna e che quindi gli uomini non possano modificare e governare quello che gli accade, ma questi
sono giocati dalla sorte.

Machiavelli vuole pragmaticamente smentire questa tesi, anche se in Machiavelli c’è il rischio di non riuscire a
smentirla e addirittura finisce forse per rafforzarla, perché Machiavelli si è trovato a dover ammettere che alla
fine, le cose si danno nel mondo come molto meno governabili rispetto a quanto Machiavelli ha detto fin’ora.

Machiavelli dice che maggiore è la variazione delle cose umane, maggiore è comprensibile e comune credere
che la sorte sia ingestibile, e Machiavelli ammette di aver ritenuto che la questione avesse come unica
soluzione quella per cui l’uomo non può far nulla contro la sorte se non essere governato da questa.

Però, affinché il nostro libero arbitrio non sia spento, se vogliamo avere esperienza del reale, e se vogliamo
che questa esperienza sia sensata, dobbiamo assumere di essere liberi. Probabile che la fortuna sia la
signora assoluta nella nostra esistenza, ma siccome vogliamo che il nostro libero arbitrio non sia spento,
dobbiamo assumere che la fortuna non sia arbitraria sempre. Dobbiamo assumere il libero arbitrio perché
altrimenti la nostra vita non avrebbe senso.
Per tentare di realizzare quest’impresa bisogna cercare di tracciare delle regole nell’esperienza, se non si
possono dare regole allora siamo completamente succubi della sorte. Se vogliamo essere liberi, dobbiamo
sperare che si possano dare delle regole. Sono libero quando riesco a distanziarmi dal caso.

Machiavelli utilizza l’immagine del fiume in piena per spiegare come agisce la sorte e i suoi effetti. Machiavelli
utilizza quest’immagine perché sa bene di colpire l’immaginario dei suoi contemporanei.

La fortuna viene paragonata ad un fiume in piena, incontenibile. I fiumi o destinano alla rovina o alla salvezza,
alla rovina perché le esondazioni di un fiume possono distruggere intere attività produttive, ma può costituire
occasione di salvezza, perché un fiume rovinoso è anche rimescolatore di sorti, e quindi apre alla possibilità di
beneficare qualcuno che nel disastro collettivo trova una promozione sociale.

Machiavelli però, nonostante sappia che gli uomini vivano solo il presente e non si curano del futuro, che si
illudono pensando che se le cose sono sempre andate bene allora anche in futuro andranno bene, nonostante
questa loro pigrizia mentale, gli uomini possono fare qualcosa per arginare la sorte. Nonostante il fiume in
piena non si possa arrestare, gli uomini possono porre rimedio a questo fiume straripante con ripari e argini e
con questi si può deviare il corso del fiume oppure rendere meno irruente questa cascata d’acqua che
altrimenti sarebbe del tutto rovinosa.

Similmente al fiume in piena interviene la fortuna, che dimostra la sua potenza dove la prudenza umana non è
organizzata per resisterle con efficacia, dove l’uomo è impreparato per resisterle. Noi constatiamo la potenza
della sorte laddove essa non incontra ostacolo a causa della nostra scarsa prudenza e perciò la fortuna
sembra rivolgere la sua forza dove non trova barriera che la contenga.
La sorte può essere arginata ma non si può arrestare. La gestione della sorte è inscritta nella cornice che
esalta il conflitto. Il grande tratto distintivo di Machiavelli è vedere il conflitto non tanto come un danno, ma
come una risorsa, pericolosa, da gestire con cautela, ma che non si può eliminare o neutralizzare. Il conflitto è
l’anima della politica, la sua linfa vitale, e si tratta di incanalarlo così come la sorte. Machiavelli infatti ha
grande ammirazione per la repubblica romana perché nonostante i suoi vari conflitti è sempre riuscita a
reggere. La repubblica romana crolla perché Augusto ha pensato di poterne incrementare il potenziale vitale in
un regime ancora più florido, ma non implode per capacità interna, ma solo perché aveva esaurito la sua
funzione in maniera tanto potente da poter dar vita al primo impero più esteso della storia umana.

Machiavelli poi invita alla riflessione riguardo il fatto che se un principe un giorno ha straordinari successi e il
giorno dopo fallisce, non bisogna ricondurre quest’alternanza dell’andamento del principato a caratteristiche
del principe, ma ciò è causato dal fatto che questo principe è appoggiato alla sorte, che fa sì che un giorno
uno possa avere successo e un altro giorno che questo fallisca.

Machiavelli poi dice che è adeguato e idoneo incastrarsi felicemente nelle situazioni, affrontare situazioni non
previste in modo tale che la risposta che si dà abbia un esito positivo. Abbiamo quindi come caso felice quello
in cui il principe agisce attivamente e idoneamente alla situazione che si trova ad affrontare, il caso infelice è
quello in cui i tempi discordano rispetto all’azione compiuta dal principe.

Machiavelli poi afferma che la fortuna fa accedere a qualcosa, ma il modo in cui si perviene e si gestisce
questo qualcosa è decisivo, nel senso che gli effetti della sorte possono avere impatto maggiore o minore a
seconda di come uno li affronta. Quindi Machiavelli sembra dire che è inutile dire quali studi fare, dare regole
che siano volte a programmare una risposta alla sorte, perché la questione della gestibilità o meno delle
situazioni dipende dalla qualità dei tempi che si uniformano o meno alle azioni che compiamo per affrontare
determinate situazioni.

L’unica regola che Machiavelli infine dà è quella per cui si deve essere pronti a mutare il proprio atteggiamento
e la propria strategia non appena mutano le condizioni e i tempi che avevano reso quella strategia in
precedenza raccomandabile.
Questa regola però pone come problema anzitutto quello per cui non si riconosce quando cambia una
condizione se non quando ne emergono gli effetti, ma allora è troppo tardi; e poi che quando una situazione è
mutata non si sa cosa poi si debba fare. Sembra che Machiavelli per dare una indicazione minimalissima sia
costretto a presupporre qualcosa nella premessa dell’argomento, che è quella per cui uno si accorga del
mutamento delle situazioni, ma ciò vorrebbe dire che allora domina la sorte e che questa muta in un preciso
momento, e che nel meno rovinoso dei casi io mi accorgo di questo cambiamento della sorte quando il corso
di azione messo in essere non funziona più, ma questa circostanza di presa d’atto non è nemmeno garantita.
Machiavelli infatti afferma subito che nessun nuovo sia così tanto prudente da sapersi accorgere del
mutamento della sorte prima che questa ne sprigioni gli effetti, e non lo sappiamo fare perché è la nostra
natura e non possiamo deviare da questa.

Machiavelli infine dà la sua ultima e vera regola, cioè quella per cui è meglio essere impetuosi rispetto ad
essere respettivi, è meglio osare, perché l’inerzia gioca con la fortuna. Se si rimane fermi, la fortuna ci
sommergerà, e quindi bisogna essere impetuosi e dominarla e inseguirla (Machiavelli per descrivere come si
dovrebbe trattare la fortuna utilizza il topos misogino della donna che va colpita e urtata)

Capitolo XXVI - Esortazione a prendere l’Italia e rivendicarne la libertà dal dominio


straniero

Il Principe come opera finisce con il capitolo 25, ma nel capitolo 26 troviamo un’esortazione a prendere l’Italia
e a riportarla in libertà dalla presa dei barbari.

Machiavelli rivolge questo appello a tutti i principi che non hanno già un regno, è un appello ai principi nuovi,
non agli antichi. Dunque si intende che i primi esclusi sono proprio coloro a cui Machiavelli ha dedicato l’opera,
cioè i Medici.

Machiavelli si fa interprete del cambiamento dei tempi: lui sa domare le categorie teoriche che ha tracciato, ed
ora è il tempo di agire in maniera impetuosa.
Per preparare, quasi come se fosse una predestinazione, la riscossa degli ebrei, persiani, greci, bisognava
una schiavitù che è quella che l’Italia dell’epoca di Machiavelli sta vivendo, anche in maniera più forte rispetto
alle schiavitù dei popoli prima citati. La schiavitù per Machiavelli non dice dell’inerzia, ma è preparazione di
una risposta tanto più audace, impulsiva, liberatoria di un’energia della società italiana. L’inerzia dell’Italia non
dice di un corpo esanime, ma di una rabbia repressa, di un’energia vitale, che può essere distruttiva o essere
incanalata e messa a frutto.

Machiavelli poi dice che è vero che si è data qualche avvisaglia di riscossa in passato, ma non si è mai data
una circostanza come il presente di Machiavelli per agire.

Machiavelli poi fa riferimento ai regni più potenti d'Italia, come il regno di Toscana e Lombardia, e fa loro
riferimento nell’appello per dire che se non riescono loro a liberare l’Italia, siamo di fronte a un’attività politica
impotente.

Machiavelli poi in quest’ultimo capitolo sembra abbandonare la sua impostazione che prende molto in
considerazione l’agire della fortuna per invece affermare quasi che c’è un disegno provvidenziale: tutto trama
a che nel momento di massima umiliazione dei regni italiani, proprio lì ci sia possibilità del cambiamento. C’è
una distanza di impostazione tenuta fino al capitolo 25: il non ordine delle faccende politiche sembra assumere
tratti provvidenziali.

Poi Machiavelli rivolge un appello ai Medici che lo avevano cacciato: spetterà ai Medici liberare l’Italia e farla
tornare all’antico splendore dell’epoca romana. La virtù e la fortuna dei Medici sono favorite da Dio e dalla
Chiesa.
E’ da notare che:
- Machiavelli parla di Chiesa perché era diventato Papa uno dei Medici, ma anche perché il riferimento
alla chiesa serve per dire che c’è un attore terreno della stessa natura del principe liberatore.
- fortuna e virtù, che fin qui erano state indipendenti, qui sono sotto il patrocinio di Dio e della Chiesa.

Liberare l’Italia non sarà difficile se si seguiranno le azioni e le vite degli esempi della classicità e della
modernità che Machiavelli ha riportato nell’opera del Principe.

Inoltre, Machiavelli, per far capire al principe liberatore che la sua impresa è attuabile, precisa che gli antichi
che compirono imprese virtuose, come Teseo, Ciro, Alessandro, non sono semidei, ma sono uomini come il
principe futuro liberatore, e se questi antichi sono riusciti, anche il principe nuovo riuscirà. Inoltre, Machiavelli
afferma che le condizioni in cui gli antichi operarono erano più svantaggiose rispetto a quelle che nel presente
di Machiavelli si presentano.

Machiavelli poi tira in causa la giustizia, e questa è la prima evenienza in cui lo fa, probabilmente a causa dello
scenario provvidenzialistico che crea in questo capitolo. La giustizia può dirsi fattore che favorisce successo di
un’azione. Machiavelli dice che se Dio ha sorriso a persone ignare nel disegno redentivo di Cristo, figuriamoci
se non sorride alla casata dei Medici.

La frase in latino sulla guerra giusta è giusta la guerra per coloro che vi sono costretti, pietose le armi laddove
non c’è altra speranza se non nelle armi. La funzione di questa citazione è dire che laddove non ci sia altra
scelta bisogna usare le armi, fare la guerra. Però, la necessarietà non è un criterio, è una conclusione.

La costruzione di questo disegno provvidenzialistico prosegue: non è possibile dice Machiavelli dove le cose
siano instradate fare altro se non agire. Il disegno provvidenzialistico si ingrana a successo solo se c'è qualche
piccolo contributo degli uomini. C’è un disegno, che è di semplice esecuzione, che deve essere avviato per
iniziativa degli uomini. Il provvidenzialismo di Machiavelli non è quello puro per cui gli uomini possono agire
come vogliono, ma il loro agire è succube della provvidenza. Il provvidenzialismo di Machiavelli invece è quello
per cui è vero che si è instradati nella provvidenza, ma serve che l’uomo faccia qualcosa per avviare il
disegno.

Machiavelli poi dice che oltre agli esempi antichi che ha dato nel Principe, nella contemporaneità si assiste ad
esempi straordinari senza precedenti condotti da Dio.

Machiavelli dice che è scritto nel disegno di Dio che siano i Medici a prendere l’Italia, ma è necessario che il
principe nuovo prenda iniziativa. Dio non vuole fare ogni cosa per non toglierci il libero arbitrio e quella gloria
che spetta agli uomini. Se Dio instradasse completamente le cose renderebbe inutile questa esortazione, e se
non lo fa è perché Dio non vuole togliere il libero arbitrio agli uomini, i quali hanno quindi una porzione di
autorialità nel successo di un’azione, e questa porzione corrisponde a un pezzo di gloria che gli spetta. Non
tutta la gloria è riservata a Dio, ma una parte spetta agli uomini. Dio non esaurisce lo spettro delle possibilità
mondane.

Si dibatte riguardo la presunta terza componente che Machiavelli pare aggiungere in questo capitolo, in
particolare non si capisce se oltre alla componente umana e la sorte ci sia Dio, oppure se Dio sia il nome che
Machiavelli dà alla fortuna. A seconda di quale posizione si assume gli effetti delle interpretazioni cambiano.

Machiavelli per cercare di rispondere alla potenziale domanda sul perché proprio si rivolga ai Medici in questo
appello, risponde dicendo che il principe dei Medici non si deve meravigliare se i suoi predecessori non hanno
fatto quello che dovrà fare lui, perché agli antichi è mancata la consapevolezza che bisognava agire,
instaurare un nuovo ordine laddove nessuno fino ad oggi, fino all’appello di Machiavelli ha capito questa cosa:
che non si tratta di avere risorse ma di cambiare l’opinione dei cittadini. Una rivoluzione è tale non perché si
hanno le risorse per vincere la guerra, ma è soprattutto mentale, dipende dalla convinzione dell’immaginario
collettivo, poi il resto consegue. Bisogna agire sull’immaginario collettivo. Ci devono essere risorse materiali,
ma se non ci sono bisogna puntare sul convincimento, che è ancora più forte delle risorse mentali.

Nulla determina di più il successo di una persona se non quello che quella persona ha trovato qualcosa che
non c’era, cioè le nuove leggi e ordini. Quello che fa grande il politico è il disegno che ha in testa, quanto è
efficace a convincere le persone che lui è la persona opportuna per il paese. A determinare la politica non
sono precondizioni materiali indisponibili agli uomini, ma le convinzioni dell’essere umano che si basano sul
riscontro esterno.

Machiavelli poi cerca di rispondere alla domanda su come dare ordine saldo quando non c’è un ordine
trascendente a cui affidarsi.

L’Italia si è ridotta in uno stato di schiavitù non perché non aveva risorse, ma perché non aveva capi. Ciò che
manca non è la possibilità, ma l’iniziativa. Machiavelli dice che gli italiani sono superiori in termini di ingegno,
destrezza, ma non con l’esercito. Il problema che rileva Machiavelli è che non ci sono capi, e non ci sono
perché questi non sono convinti di esserlo, non sono convinti della loro capacità di produrre certi effetti. Quelli
che sono capi non vengono obbediti, e non vengono obbediti perché quelli che sanno non sono stati in grado
di saper valere la loro sapienza. Inoltre, l’Italia non ha capi perché ciascuno pare sapere, cioè ognuno rimane
delle sue idee perché nessuno l’ha convinto di una visione più opportuna di quella che ha in testa.
L’esercito italiano è stato sconfitto quindi non per impreparazione dei soldati, ma per incapacità dei capi.

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