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NICCOLO’ MACCHIAVELLI

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469 da una famiglia di cultura ma non
ricca. Durante il periodo della repubblica teocratica di Savonarola, Machiavelli si oppone al
frate domenicano e, dopo la sua caduta nel 1498, entra ufficialmente in politica. Oltre alla
sua attività diplomatica, Machiavelli si dedica alla scrittura di opere politiche e letterarie.
Machiavelli, che aveva avuto un ruolo di rilievo nell'amministrazione repubblicana, viene
allontanato dagli incarichi e nel 1513 viene accusato di congiura contro i Medici.
Machiavelli spera di riconquistare un ruolo politico attivo grazie ai nuovi signori di Firenze,
ma i Medici rimangono diffidenti nei suoi confronti. Nonostante le sue sofferenze personali
durante l'esilio, Machiavelli lascia un'eredità intellettuale significativa con le sue opere
politiche e letterarie che ancora oggi suscitano dibattiti e riflessioni. Nel 1514, Machiavelli
tornò a Firenze e frequentò i giovani aristocratici negli «Orti Oricellari», dove intrattenne
lunghe conversazioni e approfondì i suoi studi sulla storia romana. Machiavelli continuò a
dedicarsi alla letteratura e nel 1515-1518 scrisse «L'Asino», un poemetto allegorico
ispirato all'opera dell'autore latino Apuleio. Durante questo periodo, Machiavelli compose
la sua opera più ambiziosa e rappresentativa, la commedia «Mandragola». Continuando a
immergersi nel mondo letterario, Machiavelli scrisse anche «Dell'arte della guerra», un
dialogo che poteva essere interpretato come un manuale di strategia militare. Durante una
breve missione a Lucca per conto dei Medici, Machiavelli si interessò alle vicende storiche
e politiche della città e scrisse la «Vita di Castruccio Castracani», un ghibellino di Lucca
che fu rivale di Firenze nel XIV secolo. Nonostante le difficoltà personali e l'assenza di un
ruolo politico attivo, Machiavelli produsse un corpus di opere letterarie significative che
testimoniano la sua profonda riflessione sulla politica, la storia e la società del suo tempo.
Machiavelli partecipò al dibattito presentando il suo «Discorso per rassettare le cose di
Firenze dopo la morte del duca Lorenzo», il suo ultimo progetto politico. Nel 1520, il
cardinale Giulio de' Medici propose a Machiavelli di diventare lo storico ufficiale di Firenze.
Come risultato di questo incarico, Machiavelli consegnò le «Istorie Fiorentine» nel 1525 a
Roma, al cardinale Giulio de' Medici, che nel frattempo era diventato papa con il nome di
Clemente VII. Nel «Dialogo intorno alla nostra lingua», probabilmente scritto nel 1524,
Machiavelli sostenne l'idea di una lingua come organismo vivente e in continua
evoluzione, collegata allo sviluppo economico e sociale. Nell'agosto del 1525, Machiavelli
si trovò coinvolto in missioni militari e diplomatiche in Emilia e Romagna. Machiavelli riuscì
a vedere il ripristino dell'ultima Repubblica fiorentina il 23 maggio 1527, in un periodo
politicamente turbolento segnato dal Sacco di Roma ad opera delle truppe imperiali.
Questa delusione fu amara per Machiavelli.
il peso del contesto storico
La riflessione di Machiavelli si sviluppa all'interno del contesto politico della crisi degli Stati
regionali italiani tra il Quattrocento e il Cinquecento. Le guerre d'Italia a partire dal 1494
portano alla fine dell'autonomia degli Stati regionali italiani. Machiavelli comprende che le
alleanze si sgretolano di fronte alla potenza del regno di Francia e dell'Impero, che
superano in risorse economiche e militari gli Stati italiani. La sua riflessione si concentra
sulla natura del potere, lo studio della storia, la fortuna, le armi e l'importanza di un
principe forte e coraggioso. Machiavelli adotta una concezione materialista della realtà,
opposta allo spiritualismo predicato dai seguaci di Savonarola. Machiavelli si ispira alla
tradizione scientifica aristotelica, che attribuisce agli esseri umani caratteristiche biologiche
che influenzano il loro comportamento. Le caratteristiche umane «naturali» possono
essere osservate, comprese attraverso l'esperienza e, nel lungo termine, possono essere
prevedibili. Allo stesso modo, Machiavelli concepisce lo Stato come un organismo vivente,
il cui sviluppo può essere studiato attraverso cicli. Nel metodo di lettura politica di
Machiavelli, il principio umanistico della «storia come maestra di vita» è centrale. Il
passato viene considerato come un vasto repertorio di azioni umane, fallimenti e successi
politici che possono essere studiati per trarne insegnamenti utili per l'azione presente.
Machiavelli considera lo studio della storia antica, in particolare dell'antica Roma, come
una riflessione ragionata sulle azioni umane e i loro effetti. Crede che le lezioni della storia
possano fornire regole universali per il funzionamento della politica, considerando le
motivazioni umane come fondamentali per l'azione politica. Attraverso lo studio della storia
e l'esperienza sul campo, Machiavelli sviluppa una visione agonistica della vita, in cui il
conflitto diventa la relazione fondamentale che ogni individuo intrattiene con gli altri nella
società. Machiavelli estende il concetto di conflitto agonistico non solo ai suoi scritti politici,
ma anche alle sue commedie, in cui i personaggi affrontano da soli le sfide della vita,
mostrandosi concentrati e astuti nel perseguire i propri obiettivi. Nell'analisi della religione
e della Chiesa, Machiavelli adotta un approccio realistico. Machiavelli accoglie questa
interpretazione e sostiene che la religione sia indispensabile quando l'autorità di un
principe non è sufficiente, a meno che non ci siano personalità eccezionali. Machiavelli
affronta la natura conflittuale dell'umanità nel mondo, evidenziando la sfida contro l'arbitrio
della fortuna, che genera incertezza e può capovolgere le situazioni. Tuttavia, l'uomo è
chiamato a confrontarsi con la fortuna per cogliere le opportunità che essa può offrire a
coloro che sanno sfruttarle. Machiavelli sostiene che la virtù umana, anche se
eccezionale, non può manifestarsi in modo astratto, ma solo in relazione all'occasione
orchestrata dalla fortuna. Oltre alle tematiche fondamentali presenti in tutta la sua opera,
come la concezione naturalistica dell'uomo e dello Stato, l'importanza della storia e
dell'esperienza al servizio della politica e il ruolo dell'individuo di fronte alla fortuna, gli
scritti di Machiavelli sono riconoscibili anche per il suo stile inconfondibile. Il vocabolario di
Machiavelli è vivace e attinge a diverse risorse lessicali. Machiavelli utilizza una
costruzione sintattica che riflette la realtà del mondo in cui l'individuo si trova
costantemente a prendere decisioni e le situazioni sono rappresentate come alternative
chiare. Machiavelli è una figura emblematica e controversa del Rinascimento, noto per il
suo pensiero ricco e complesso. In particolare, il suo libro «Il Principe» è stato oggetto di
condanna e censura, ma è stato anche apprezzato da intellettuali e potenti italiani ed
europei per la forza delle sue idee e per l'audacia nel mettere in discussione il senso
comune e nel proporre una concezione politica che pone al centro la fiducia nelle capacità
umane. Il contributo di Machiavelli è stato così significativo che ha lasciato un'impronta nel
linguaggio, anche se con un aggettivo dispregiativo, «machiavellico». In sintesi,
Machiavelli considera la politica come una scienza separata dalla filosofia morale.

IL PRINCIPE
la composizione
L'opuscolo intitolato «De principatibus» o «Il Principe» comincia a circolare tra gli amici di
Machiavelli nel dicembre 1513, come testimonia una celebre lettera inviata a Francesco
Vettori. In un secondo momento non precisato, Machiavelli aggiunge la dedica a Lorenzo
II de' Medici e la conclusiva esortazione a liberare l'Italia dagli invasori. «Il Principe» è
un'opera breve e densa, composta con rapidità e quasi d'istinto per quanto riguarda il suo
nucleo essenziale. Per Machiavelli, la scrittura del libro risponde a una doppia esigenza,
sia teorica che pratica. Dall'altro, desiderava trovare un modo per uscire dall'isolamento e
rientrare nella vita politica attiva, dimostrando così le sue competenze collaudate e
evidenziando la sua potenziale utilità come funzionario della Signoria. Quando Machiavelli
scrive il trattato, ciò è possibile grazie al nuovo papa dei Medici, Leone X, o al suo giovane
nipote, Lorenzino de' Medici, a Firenze, che rappresenta l'autorità medicea restaurata.
Machiavelli descrive i vari tipi di principato, ma anziché partire da principi astratti, sviluppa
una teoria politica basata sulla sua esperienza. Machiavelli elogia il coraggioso condottiero
che ha creato uno Stato potente in pochi mesi, attribuendo grande importanza alla sua
«virtù» politica, anche se accompagnata da atti di violenza. La terza parte, la più famosa
dell'opera, si concentra sulla virtù e sul comportamento del principe. Machiavelli
abbandona le costruzioni astratte di un ideale inesistente e adotta una prospettiva
realistica. Egli sostiene che il principe non deve perseguire una bontà assoluta, come
prescritto dalla tradizione, ma deve adattarsi alla natura umana «animale». Il principe deve
utilizzare la forza del leone e l'astuzia della volpe, tenendo conto del mondo come è e non
come dovrebbe essere. Il trattato si conclude con una breve sezione composta da tre
capitoli che collegano il testo alla situazione politica italiana contemporanea. Machiavelli
mette in evidenza l'efficacia del potere assoluto per determinati fini e situazioni, anche se
ciò va contro le sue personali convinzioni politiche da ex segretario della Repubblica
fiorentina. Machiavelli, che non è un cortigiano, non considera il potere assoluto del
principe come intrinsecamente buono e legittimo, ma si limita a mostrare in modo
spregiudicato come funziona.

I TEMI
Gli obiettivi principali affrontati nel Principe riguardano la conquista e il mantenimento del
potere. Machiavelli valuta l'azione politica non in base a criteri etici, ma in relazione al
raggiungimento di tali obiettivi. Tuttavia, ciò non significa che Machiavelli sia privo di
considerazioni e valutazioni morali. Egli sostiene il diritto di sottoporre la politica solo alle
leggi della ragione, riconoscendo che essa ha un ambito d'azione specifico con valori
alternativi rispetto ai principi morali, che non possono sovrapporsi ad essi. Per dimostrare
praticamente che i principi politici non coincidono necessariamente con quelli morali,
Machiavelli introduce nuovi criteri di giudizio. In questo modo, Machiavelli mette in luce
come le categorie che supportano il giudizio politico non debbano essere ricondotte tanto
all'opposizione morale tra bene e male, quanto piuttosto alla dicotomia tra ciò che è utile
allo Stato e ciò che non lo è, ovvero tra ciò che porta lo Stato al successo e ciò che lo
porta al fallimento. Pertanto, il pensiero di Machiavelli rappresenta il culmine del processo
di secolarizzazione nella concezione del mondo e dell'attività politica. Secondo
Machiavelli, le istituzioni politiche sono considerate organismi viventi all'interno di una
visione ciclica della storia. Machiavelli attribuisce grande importanza alla realtà concreta
delle cose e alla considerazione delle circostanze in cui si agisce. Queste qualità
combinate costituiscono, secondo Machiavelli, la «virtù» politica necessaria per un
principe o qualsiasi altro soggetto politico che desideri sfidare la fortuna. Rispetto ad altre
opere trattatistiche dell'epoca, il lavoro principale di Machiavelli, «Il Principe», si distingue
per la fiducia nella virtù umana e per la necessità di credere nella possibilità di opporsi al
dominio dell'irrazionale attraverso l'intelligenza e il coraggio. In altre parole, Machiavelli
sostiene che un governante dovrebbe essere guidato dalla virtù politica anziché da
motivazioni egoistiche o irrazionali, al fine di governare in modo efficace e raggiungere il
bene comune. Nella tradizione medievale e umanistica, i trattati di politica miravano a
definire il governante ideale, un modello da seguire per un buon sovrano. Machiavelli,
invece, si propone di offrire analisi e consigli concreti per aiutare un principe a essere
efficace nella realtà politica dell'Italia del suo tempo. Questa prospettiva si concentra sulla
«verità effettuale» anziché sull'idea astratta di Stato, sovrano o giustizia, separando così la
scienza politica dalla tradizione filosofica e morale religiosa e conferendole un ambito
autonomo di azione con regole e principi specifici. L'unico obiettivo che preoccupa
veramente Machiavelli e che giustifica il suo discorso è la conservazione dello Stato.
Machiavelli sottolinea l'importanza del consenso popolare per mantenere il potere. Il
nuovo principe deve quindi eliminare queste fazioni e prevenire che causino danni,
fondando saldamente il proprio potere sul consenso della popolazione. Nel suo trattato,
Machiavelli riflette anche sul rapporto tra leggi e forza. Questi esempi dimostrano come un
potere politico e militare solido possa essere fondato su un esercito composto da cittadini.
Al contrario, gli eserciti mercenari e le compagnie di ventura portano solo debolezza e
sconfitte, come dimostrato dalle disfatte subite dai principi italiani nelle recenti guerre.
Machiavelli sostiene quindi l'importanza di un esercito nazionale ben addestrato e
motivato come mezzo per garantire la sicurezza e la stabilità dello Stato.
I DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVO
Nel capitolo II de «Il Principe», Machiavelli afferma di aver già discusso a lungo sulle
repubbliche, cosa che effettivamente avviene nei primi capitoli dei «Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio». In seguito, alcuni anni dopo, Machiavelli avrebbe ripreso la
composizione dei «Discorsi», ma avendone consolidato la natura come un commento ai
primi dieci libri dell'opera di Tito Livio. L'ipotesi che Machiavelli abbia scritto il commento a
Livio intorno al 1516 si basa sul fatto che, deluso dal risultato ottenuto con la scrittura de
«Il Principe» e la sua dedica a Lorenzino de' Medici che non gli ha permesso di ritornare
attivamente alla politica, si sia ritrovato a Firenze frequentando gli Orti Oricellari, i giardini
della famiglia Rucellai, tra il 1512 e il 1522. Durante quel periodo, il giovane Cosimo
Rucellai ha creato una sorta di accademia, un luogo di discussione aperto in cui politica e
storia si intrecciano, e Machiavelli ha un ruolo autorevole e stimolante. In questo contesto,
Machiavelli avrebbe potuto condividere le sue conoscenze e la sua esperienza politica,
offrendo spunti di riflessione sulle dinamiche del potere e sulla storia romana. Qui,
Machiavelli analizza questa relazione all'interno della storia di Roma per evidenziare le
miserie e i limiti del suo tempo e per criticare la Firenze contemporanea rispetto all'alto
esempio di virtù e eroismo offerto dagli antichi romani. L'idea di Machiavelli di scrivere un
commento all'opera di Livio è molto originale. Nel proemio dei «Discorsi», Machiavelli si
mostra consapevole di intraprendere una strada nuova. Nel commentare l'opera di Tito
Livio, Machiavelli ha intenzionalmente scelto di studiare la storia della Repubblica romana,
permettendo così una riflessione sul governo di molti anziché su quello di un solo
individuo, come aveva fatto ne «Il Principe».

LA MANDRAGOLA
Durante gli anni in cui Machiavelli scrive la «Mandragola», si registra un'intensa attività
letteraria da parte dell'autore. Machiavelli si interessa al registro comico e si avvicina al
teatro, in un periodo in cui si sta vivendo una rinascita delle rappresentazioni teatrali della
tradizione classica in lingua volgare. Machiavelli rifà commedie classiche, come quelle di
Plauto e Aristofane, e traduce l'«Andria» di Terenzio. «La Mandragola» è la più famosa
opera teatrale di Machiavelli e uno dei lavori più significativi del Cinquecento. La
commedia fu scritta per essere rappresentata in occasione del matrimonio di Lorenzo,
figlio di Piero de' Medici, a Firenze. Callimaco si finge un medico e convince Nicia che
l'efficacia della mandragola, una pianta medicinale, può risolvere l'infertilità di Lucrezia. La
donna che assume una pozione a base di mandragola rimane incinta, ma il primo uomo
che ha rapporti sessuali con lei morirà avvelenato. Quindi, è necessario trovare qualcuno
disposto a giacere con Lucrezia, e Callimaco, travestito, si offre volontario per il compito.
La Mandragola di Machiavelli presenta personaggi abilmente delineati, che combinano
elementi della commedia classica con la realtà contemporanea. Fra' Timoteo accetta di
convincere la virtuosa Lucrezia in cambio di denaro, superando lo stereotipo tradizionale
del religioso corrotto e diventando l'incarnazione del male. I personaggi riflettono un
realismo amaro, combinando elementi della commedia classica con una rappresentazione
della società contemporanea. Machiavelli, con abilità narrativa, dipinge i personaggi de La
Mandragola offrendo un'analisi realistica e pungente della società del suo tempo. Lucrezia
emerge come un personaggio particolarmente interessante, suscitando simpatia da parte
dell'autore. Nonostante sia sposata con un vecchio sciocco e sia oggetto delle
macchinazioni degli altri personaggi, Lucrezia si ribella con determinazione sia al suo
confessore disonesto, fra' Timoteo, che alla madre, Sostrata, che la spingono a compiere
un atto immorale per ingannare il marito. Nonostante le argomentazioni persuasive di fra'
Timoteo, Lucrezia rimane salda nelle sue convinzioni. Machiavelli presenta Lucrezia come
una donna astuta e capace di prendere le redini del proprio destino, rompendo gli schemi
tradizionali e svelando la sua intelligenza e determinazione. Così, Lucrezia costruisce la
propria vita sfruttando una «virtù» intesa in senso squisitamente machiavelliano, che le
permette di cogliere le «occasioni» che la fortuna le offre. Machiavelli, nel suo Dialogo
intorno alla nostra lingua, sostiene che il toscano sia particolarmente adatto alla
commedia. Machiavelli opta per la commedia in prosa di tradizione classica anziché il
teatro farsesco in rima vernacolare fiorentino. Machiavelli crea effetti comici utilizzando
termini specialistici della legge e della medicina, proverbi e linguaggio colloquiale,
delineando un piccolo mondo chiuso su se stesso. Solo a Lucrezia, la protagonista
femminile, Machiavelli attribuisce un linguaggio privo di elementi comici, sottolineando così
la serietà di una donna capace di determinare il proprio destino. La Mandragola di
Machiavelli ottenne un grande successo grazie alla sua modernità, come attestato dai
commenti dei contemporanei. Nonostante seguisse la struttura classica con cinque atti e
rispettasse le tre unità aristoteliche, la commedia presentava elementi innovativi. Questi
elementi contribuirono al successo e all'apprezzamento della commedia de La
Mandragola.

OPERE ESTRATTE DA FARE


I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui e con la fortuna ":
Questa citazione fa riferimento al concetto esposto da Niccolò Machiavelli nel suo famoso
libro "Il Principe". In questo testo, Machiavelli esamina le strategie politiche e di leadership
per mantenere e acquisire il potere. Machiavelli descrive due modi principali per ottenere
nuovi principati. Il primo è attraverso le armi altrui, il che significa che un principe può
conquistare un nuovo territorio o uno stato grazie all'aiuto di un'altra potenza o di un
esercito esterno. Questo suggerisce che il principe non si basa sulla sua forza personale,
ma si affida all'appoggio militare di altri.
Il secondo modo è attraverso la fortuna, che indica circostanze favorevoli che permettono
al principe di ottenere un nuovo principato senza necessariamente dipendere dal supporto
militare esterno. In questo caso, la fortuna può giocare un ruolo chiave nel successo del
principe, come ad esempio una situazione politica interna instabile o un'opportunità di
conquista inaspettata.
Machiavelli sottolinea che i principati acquisiti con le armi altrui o con la fortuna possono
essere più difficili da mantenere rispetto a quelli ottenuti attraverso il proprio valore
personale o attraverso le abilità politiche. Questo perché mancano le basi solide per il
potere e la lealtà dei sudditi potrebbe non essere stabile. Quindi, il principe deve adottare
strategie e tattiche specifiche per consolidare il suo dominio e garantire la lealtà e la
fedeltà del popolo. In generale, Machiavelli enfatizza l'importanza della forza personale,
dell'abilità politica e della capacità di adattamento per un principe che desidera ottenere e
mantenere il potere politico in un nuovo principato.
principati nuovi che si acquistano con armi proprie e con la virtù:
In questo contesto, Machiavelli fa riferimento ai principati che vengono acquisiti attraverso
le proprie forze e la virtù del principe. La virtù in questo caso indica le abilità, le qualità e le
caratteristiche positive del principe come un leader politico.
Secondo Machiavelli, ottenere un nuovo principato con le proprie armi e la virtù è
considerato il modo migliore e più sicuro per assicurarsi il potere. Quando un principe è in
grado di conquistare un territorio o uno stato utilizzando le proprie risorse militari e
dimostrando la sua virtù, cioè la sua abilità politica, la sua astuzia, la sua forza di carattere
e il suo coraggio, sarà più probabile che mantenga il controllo sul nuovo territorio
acquisito.
Machiavelli sostiene che i principati acquisiti con le proprie armi e con la virtù del principe
hanno una solida base di potere, poiché dipendono dalle capacità e dalle qualità personali
del principe stesso. Inoltre, un principe che dimostra la sua virtù può guadagnare il rispetto
e la lealtà dei sudditi, il che facilita il mantenimento del potere a lungo termine.
In sintesi, la citazione di Machiavelli sottolinea l'importanza della forza personale, delle
capacità militari e delle abilità politiche per ottenere e mantenere un nuovo principato.
Utilizzando le proprie armi e dimostrando la virtù come leader, il principe ha maggiori
probabilità di stabilire un dominio stabile e di guadagnare il rispetto dei sudditi.
Quanti siano i generi di principati e in che modo si acquistino":
in questa parte del testo, Machiavelli presenta l'obiettivo del libro stesso: analizzare i
diversi tipi di principati e come vengono acquisiti.
Machiavelli afferma che ci sono due principali tipi di principati: quelli ereditari e quelli
nuovi. I principati ereditari sono quelli che vengono trasferiti da una generazione all'altra
all'interno di una famiglia reale o nobiliare. Questi principati possono essere più facili da
mantenere, poiché sono basati su una tradizione consolidata e su dinamiche sociali
preesistenti.
D'altra parte, i principati nuovi sono quelli che vengono acquisiti da un individuo o da un
gruppo attraverso la conquista, l'usurpazione o altri mezzi. Questi principati possono
essere più difficili da mantenere, in quanto il nuovo sovrano deve affrontare sfide come la
resistenza dei sudditi precedentemente governati, la mancanza di familiarità con il
territorio e l'instabilità politica.
Machiavelli esamina poi diversi modi per acquisire i principati nuovi. Tra questi, cita l'uso
delle armi proprie o altrui, la fortuna, la virtù e la violenza. Ogni metodo ha le sue
implicazioni e richiede una diversa combinazione di strategie politiche, militari e
diplomatiche.
L'obiettivo di Machiavelli nel libro è quello di fornire consigli e insegnamenti pragmatici su
come un principe possa ottenere, mantenere e consolidare il potere politico,
indipendentemente dal tipo di principato che desidera governare. Machiavelli esplora le
diverse circostanze e le sfide che un principe può affrontare e fornisce raccomandazioni
specifiche su come gestirle, spesso basandosi sull'analisi delle azioni di principi e leader
del passato.
In conclusione rappresenta l'introduzione di Machiavelli al suo libro, delineando
l'argomento principale e la sua intenzione di esaminare i vari tipi di principati e le strategie
per acquisirli.
L'esperienza delle cose moderne e la lezione delle antique":
Questa citazione si trova nell'introduzione del libro, dove Machiavelli spiega il metodo che
intende utilizzare per esaminare i principati e offrire consigli pratici.
Machiavelli sostiene che per comprendere appieno la politica e l'arte del governo, è
necessario attingere sia all'esperienza delle cose moderne che alla lezione delle antiche.
Con "le cose moderne", Machiavelli si riferisce agli eventi e alle situazioni politiche
contemporanee, ai governanti e alle dinamiche che si verificano nel suo periodo storico.
D'altra parte, "le antiche" si riferisce all'analisi delle gesta e delle azioni dei governanti e
dei leader del passato, come i grandi imperatori, i re e gli uomini di stato dell'antichità.
Machiavelli crede che lo studio della storia e delle esperienze passate possa fornire
importanti insegnamenti sulle strategie politiche, sulle dinamiche di potere e sulle
conseguenze delle decisioni prese dai leader.
Machiavelli riconosce che il mondo è in continua evoluzione e che le circostanze politiche
possono variare, ma crede anche che ci siano dei principi fondamentali che rimangono
costanti nel corso della storia umana. Studiare sia le esperienze moderne che le lezioni
delle antiche permette di ottenere una visione più ampia e una prospettiva più informata
sull'arte del governo e sulla gestione del potere.
In sintesi, la citazione di Machiavelli sottolinea l'importanza di analizzare sia gli eventi e le
esperienze contemporanee che le lezioni trascorse per acquisire una comprensione
completa della politica. Machiavelli crede che sia attraverso la combinazione di queste due
prospettive che si può acquisire una visione più approfondita dei principi e delle strategie
politiche necessarie per governare efficacemente.
"L'imitazione degli antichi':
"L'imitazione degli antichi" si riferisce al concetto che Machiavelli esplora nel suo libro "Il
Principe". In questa opera, Machiavelli esamina il tema della leadership politica e del
governo, offrendo consigli ai principi su come ottenere e mantenere il potere.
Machiavelli sostiene che un principe dovrebbe studiare e imitare gli esempi degli antichi,
cioè dei grandi leader e governanti del passato. Questa imitazione non riguarda solo le
azioni specifiche intraprese dagli antichi principi, ma anche il loro carattere, le loro abilità
politiche e le loro strategie.
Secondo Machiavelli, gli antichi principi come Cesare, Alessandro Magno o Agide di
Sparta hanno dimostrato qualità di leadership eccezionali che possono essere prese ad
esempio. Studiare le loro azioni, i loro successi e i loro fallimenti può fornire importanti
insegnamenti sul modo di governare e consolidare il potere.
Machiavelli sostiene che gli antichi principi sono stati in grado di dimostrare virtù come
coraggio, astuzia, capacità strategiche e leadership carismatica. Pertanto, imitare il loro
comportamento e le loro strategie può aiutare un principe a migliorare le sue abilità
politiche e a garantire il successo nel suo governo.
L'imitazione degli antichi, tuttavia, non significa copiare meccanicamente ciò che hanno
fatto. Machiavelli sottolinea che un principe deve essere in grado di adattarsi alle
circostanze attuali e di utilizzare lezioni del passato come linee guida, ma deve anche
essere in grado di applicare la sua intelligenza e il suo giudizio per affrontare le sfide
specifiche del suo tempo.
In sintesi, l'imitazione degli antichi, come esplorato da Machiavelli, suggerisce che un
principe dovrebbe studiare e apprendere dalle esperienze e dalle azioni dei grandi leader
del passato per migliorare le proprie abilità politiche e per ottenere una visione più
completa del governo e della leadership.
FRANCESCO GUICCIARDINI
Francesco Guicciardini nasce a Firenze il 6 marzo 1483 da una famiglia appartenente
all'aristocrazia fiorentina e politicamente legata ai Medici, quindi in una condizione sia
economica che sociale diversa da quella di Macchiavelli, anche perché lui sposò una delle
donzelle più nobili di Firenze, Maria Salviati, creando un legame matrimoniale che renderà
Guicciardini sempre più forte e più potente, in virtù di questa sua potenza otterrà degli
incarichi che non venivano dati ai poveracci, diventa ambasciatore presso Ferdinando il
Cattolico, re di Spagna. Tale apprendistato darà vita a diverse opere di riflessione e teoria
politica, tra cui la Relazione di Spagna (1514) e soprattutto il Discorso di Logrogno (la città
spagnola in cui Guicciardini soggiorna), diventa interprete presso la famiglia de Medici e
generale dell’esercito pontificio. Durante quest’ultimo incarico ci fu l’alleanza tra gli Stati
Italiani, Firenze ne uscì sconfitta e venne accusato di aver tramato contro Firenze e fu
esiliato e si rifugiò nella villa di Finocchieto. Qui si trovò costretto a passare molto tempo
oziando, e si diede alla letteratura. Scrisse opere che riguardavano le sue vicende passate
e scrisse i Discorsi politici e le incompiute Storie fiorentine, composte probabilmente tra il
1508 e il 1511, prima opera di riflessione storica e politica nella quale ricostruisce le
vicende di Firenze a partire dal tumulto dei Ciompi del 1378 fino ai propri giorni, e scrisse
le considerazioni sopra i discorsi di Macchiavelli. L’opera maggiore è intitolata i ricordi.
Nel 1537 si ritira a vita privata, passando i suoi ultimi anni scrivendo al “Storia d’Italia” fino
al giorno della morte nel 1540.
LE OPERE
Quelle minori sono le “Storie fiorentine” e i “Discorsi politici”; la prima abbraccia il periodo
compreso dalla rivolta dei Ciompi del 1378 e la battaglia di Ghiaradadda del 1509. Qui
l’autore parla delle cause degli eventi e mette in risalto i ritratti dei protagonisti, in
particolare di Lorenzo il Magnifico e Girolamo Savonarola. È dedicata a Giulio de Medici,
ormai Papa Clemente VII ed è scritta in volgare.
Nei “Discorsi politici” parla delle forme istituzionali del governo cittadino; in entrambe le
opere mantiene un atteggiamento pragmatico cioè sono legate ai suoi incarichi politici e
basate sulla sua esperienza.
Il pensiero di Guicciardini è opposto a quello di Machiavelli, per quanto riguarda la
concezione dell’uomo. L'uomo è più incline al bene che al male (ricordo 134: gli uomini per
natura sono inclini più al bene che al male...), ma la natura dell’uomo è così fragile che
spesso lo porta ad allontanarsi dal bene e ad avvicinarsi al male.
Machiavelli: ottimista = Guicciardini: pessimista.
L'uomo nel corso della sua vita ha a che fare con il gioco capriccioso della fortuna,
dicendo che ha una grandissima potestà nell'agire degli uomini. (Vedi ricordo 30).
La fortuna non può essere dominata dall'uomo, l'uomo può solo adattare la propria natura
ai tempi.
Proprio su questo si concentra l’opera “Considerazioni intorno ai discorsi di Machiavelli”,
scritte nel 1528; Guicciardini analizza attentamente l’opera dell’amico, dimostrando come i
suoi ragionamenti siano in realtà infondati e arbitrari.
Questo si rivolge al concetto stesso di storia di Machiavelli: la storia romana per
Guicciardini non ha nessun valore esemplare. Il rifiuto della concezione della storia come
Magistra vitae costituisce il nucleo dell’ideologia di Guicciardini.
Queste riflessioni vengono ampliate nei “Ricordi”, dove emerge chiaramente come
Guicciardini rifiuti una visione utopica e consolatrice della realtà. Questo si rivolge anche
nei confronti della religione stessa che impedisce agli uomini di compiere delle azioni
generose e virili.
I “Ricordi” accompagnano vari periodi dell’attività di Guicciardini come diplomatico e come
uomo politico.
L’opera nasce da due quaderni risalenti al 1512 all’interno dei quali vi erano riportate le
vicende cittadine e possono essere definiti un anti-trattato, anche perché essendo basati
dall’esperienza personale dell’autore ne danno un quadro completo e anche per la
struttura frammentaria dell’opera con la quale rifiuta una visione totalizzante del discorso,
senza però rinunciare a un impianto logico che sorregge la costruzione dei singoli ricordi
basati su definizioni rigorose e ragionamenti deduttivi.
La visione del Guicciardini porta il lettore all’esaltazione del PARTICULARE, inteso come
regola, elemento essenziale per la conoscenza, per l’opportunità o meno dell’azione.
L'opera non nasce per essere pubblicata ma nasce come una forma di scrittura privata.
ALCUNE TEMATICHE
Altra tematica è il tema della precarietà della natura umana: un uomo che vive sempre con
il pensiero della morte, l'unica certezza è la morte che incombe, ma nonostante questo il
mondo continua il suo corso e non potrebbe essere diversamente. (Ricordo 160)
Anche Guicciardini affronta il problema militare passa in esame questo problema mettendo
in risalto i limiti dello stato italiano (nel Ricordo 21 passa in esame tutti gli errori dei Medici)
parla della discesa di Carlo VIII e parla anche dell'avvento delle armi da fuoco nell'arte
della guerra (Ricordo 64) e della distanza tra palazzo e piazza (Ricordo 141).
Inoltre parla delle ambizioni degli uomini distinguendosi due tipi: una positiva non
condannabile e una negativa di chi desidera avere la gloria con mezzi disonesti.
Anche Guicciardini parla del problema dell'essere e dell'apparire, machiavelli diceva che
era più importante l'apparire, mentre Guicciardini critica questo principio dicendo che
l'uomo può difficilmente sembrare a lungo buono, basandosi sull'insegnamento del padre
cosa che dimostra la natura privata dei ricordi.
Pur dicendo che la storia non da esempi, Guicciardini cerca dimostrazioni nei fatti passati.
Da queste considerazioni nasce la “Storia d’Italia”, scritta in 20 libri; qui il narratore
racconta gli avvenimenti compresi tra il 1492 e il 1534, comprendendo anche gli
avvenimenti più luttuosi della storia recente. L’Italia è inserita nel quadro della grande
politica europea.
Il punto di svolta è la calata di Carlo 8 che ha dimostrato la fragilità dell'Italia.
Anche Guicciardini affronta il problema delle milizie militari ritenendo che non avere un
esercito di cittadino che lotta per la patria è stato ciò che ha permesso la sconfitta.
L’impostazione è di tipo annalistico, secondo l’esempio di Tacito, l’opera però non perde la
sua unitarietà fornita dalla penetrante esattezza con la quale l’autore narra gli eventi, ricca
di analisi politiche e psicologiche, senza considerare quelle sociali, completamente
ignorate dal Guicciardini.
STILE
Lo stile è ampio e solenne, il periodare è ampio e articolato, abbracciando i vari legami tra
uomini e eventi; la lingua segue l’ipotesi bembiana, rifacendosi alla prosa boccacciana; i
ritratti dei protagonisti non si limitano alla superficie ma cercano di sondare la loro
psicologia, l’indole che li spinge ad agire in quel modo.
TESTI DA ANALIZZARE
• L’INDIVIDUO E LA STORIA
RICORDO 6
Machiavelli studia ed interpreta la storia basandosi su regole assolute, generali. Un
approccio astorico nella prospettiva guicciardiniana, che ritiene ogni evento distinto ed
eccezionale. Dai libri non si apprende nulla, ciò che conta è la «discrezione» ovvero la
capacità di distinguere, valutare il singolo avvenimento, il singolo problema volta per volta,
nei suoi tratti specifici, particolari. L’accenno polemico ai libri segna tutta la distanza tra
Guicciardini e Machiavelli, che prova una vera e propria venerazione per gli antichi,
conforto e fonte d’esperienza durante l’inattività politica forzata, come emerge dalla lettera
a Francesco Vettori del 1513 [11], modello su cui fare riferimento e da cui trarre la forma e
il metodo di governo ideali, come mostrano i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Guicciardini ribalta così la tradizione secolare di Historia magistra vitae, a cui pure
Machiavelli era legatissimo, fondando un nuovo approccio basato sulla «discrezione»,
approccio ben più asciutto, pragmatico, attivo, che costringe l’uomo a fare da solo i conti
con la realtà e con tutte le incertezze, spesso rischiosissime, che nasconde.
RICORDO 110
in questo ricordo l’attacco a Machiavelli è ancora più scoperto e diretto, Machiavelli che fa
di Roma l’esempio politico virtuoso per eccellenza, valido sempre, universalmente, a cui
ispirarsi senza riserve. Guicciardini non ridimensiona affatto la grandezza di Roma, non è
certo questo il suo scopo, ma sottolinea la sua irriproducibilità, dovuta ai profondi
mutamenti avvenuti nel corso dei secoli. È impensabile riportare nel presente l’illustre
modello romano, sarebbe come chiedere ad un asino di correre come un cavallo.
Paragone da cui emerge il giudizio negativo di Guicciardini sulla contemporaneità.
Machiavelli individua leggi storiche universali, applicabili ad ogni epoca, mentre
Guicciardini si fa portavoce di una concezione della storia che alla causalità sostituisce la
casualità. Ogni modello è di fatto inutile, è necessaria invece quella «discrezione» di cui
sopra.
RICORDO 114
Secondo Guicciardini non è possibile prevedere il futuro, le cose del mondo «bisogna
giudicarle e resolverle giornata per giornata», perché governate dal caso, che le rende
assolutamente imprevedibili. Anche qui è chiara la polemica anti-machiavelliana.
Machiavelli che nel Principe, proprio nel capitolo conclusivo del trattato, si rende
protagonista di uno slancio utopico impossibile e fondamentalmente ridicolo per
Guicciardini. Anch’egli ovviamente si augura di vedere un’Italia «liberata da tutti i barbari»,
ma è ben consapevole del fatto che, pur vivendo a lungo, non assisterà mai ad un simile
evento.
RICORDO 189
Ancora una volta, e forse con maggiore evidenza dei Ricordi precedenti, emerge da
questo pensiero la totale impossibilità dell’uomo di incidere sulla realtà, collegata in questo
caso al tema, di derivazione biblica, della inevitabile distruzione dei regni. E il tono di
Guicciardini in questo caso assume la forza della profezia apocalittica, risuonando
minaccioso ed implacabile. Sfortunato colui che viene al mondo proprio nel momento della
fine della sua patria!
RICORDO 220
si parla del rapporto tra la patria e l'individuo. Guicciardini ha detto che le persone non
possono cambiare gli eventi, ma è importante che le persone oneste partecipino alla
politica per cercare di migliorare le cose. Questo è un segnale positivo che indica che è
importante impegnarsi per il bene della società e della morale. Guicciardini crede che sia
meglio agire in modo pratico e reale piuttosto che basarsi su principi astratti o generali. Il
riferimento alla città di Firenze indica che Guicciardini parla da esperienza personale.

• GLI IMPREVISTI DEL CASO


RICORDO 30
Se Machiavelli nel Principe aveva bilanciato fortuna e virtù umana creando un equilibrio
perfetto («iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre,
ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»), Guicciardini individua
nella fortuna la forza maggiore, dotata di «grandissima potestà». Come abbiamo già visto
nei Ricordi precedenti, nella concezione guicciardiniana della storia è il caso a dominare
incontrastato, con l’uomo che, soprattutto rispetto alla visione umanistica, subisce un
importante ridimensionamento, se non addirittura una svalutazione. L’uomo, per quanto
accorto e sollecito, ha sempre bisogno di «buona fortuna».
RICORDO 117
In alcuni precedenti scritti, Guicciardini ha discusso della difficoltà di prevedere le
conseguenze dei nostri comportamenti e azioni. Anche una piccola variazione può portare
a risultati molto diversi. Non si possono fare previsioni precise sulla storia, perché non ci
sono eventi identici. Ma, l'essere in grado di distinguere le differenze ci aiuta a prendere
decisioni migliori nella vita. In sintesi, non dovremmo giudicare le cose solo basandoci
sugli esempi che vediamo intorno a noi.
RICORDO 161
La vita è dominata dal caso, dalla precarietà e dall’imprevisto, a tal punto che si accoglie
con stupore un’esistenza che ha compiuto la sua parabola naturale o un anno dal raccolto
buono.
• LE AMBIZIONI UMANE (dei ricordi)
RICORDO 15
Si tratta di un pensiero davvero leopardiano. Guicciardini sottolinea l’invincibilità
dell’umana insoddisfazione, e la testimonianza di un uomo così fortunato, così realizzato,
come ammette egli stesso, assume una validità pressoché assoluta, inconfutabile. Dopo la
realizzazione di un desiderio non proviamo mai quella soddisfazione piena che ci eravamo
figurati nell’attesa. Resta sempre dell’amaro in bocca. Personalmente penso sempre a
Pigmalione e alla sua delusione dopo la trasformazione di Galatea, quando mi confronto
con questo tema [5]. Ciò dovrebbe convincerci della vanità delle nostre brame, conclude
Guicciardini, e potremmo facilmente integrare questo suo pensiero con la constatazione
che in realtà ciò non accade mai, e che la spiegazione di tale assurdità, di tale
insensatezza risieda nell’innata, atavica predisposizione dell’uomo alla contraddizione. Ma
sono andato troppo oltre, meglio procedere con il prossimo ricordo.
RICORDO 16
Guicciardini constata come, nonostante le «fatiche» e i «pericoli», gli uomini desiderino
comunque «grandezze» ed «onori», spiegando questa contraddizione con l’aspirazione
degli individui ad eguagliare Dio, spiegazione che contiene una buona dose d’ironia,
indirizzata verso quegli esiti superomistici cui era approdata una certa cultura umanistica e
rinascimentale di stampo platonico.
RICORDO 17
Guicciardini invita a non fidarsi ciecamente degli slanci nobili degli uomini (NON
CREDIATE A COLORO..) , sottolineando come esista sempre uno scarto – negativo – tra i
proclami ed i reali sentimenti degli individui. Essi agiscono sempre e solo per interesse, a
discapito delle belle parole.
• L’ITALIA ALLA FINE DEL 400
Il proemio dell'opera contiene l'enunciazione della materia del trattato.
La pagina iniziale dell'opera presenta la materia del trattato e traccia un quadro pressoché
idilliaco dell'Italia alla fine del Quattrocento, alla vigilia del "fatidico" 1494 in cui Carlo VIII
scese in armi per conquistarla e diede inizio a un periodo di grave crisi politica e militare
della Penisola, destinato a durare per molti decenni e analizzato ampiamente anche da
Machiavelli nella sua opera, specie nel cap. XXV del Principe.
. Guicciardini non ha dubbi nell'attribuire all'azione politica e diplomatica di Lorenzo il
Magnifico gran parte del merito di quella fase favorevole, così come fu la sua morte
prematura a gettare le basi per i successivi sconvolgimenti dovuti, soprattutto, alla
cupidigia e alla stoltezza degli altri capi di governo.

TORQUATO TASSO VITA E OPERE


Tasso nasce a Sorrento ma è di origine bergamasca, è a napoli dove Tasso inizia a
studiare prima dai gesuiti e poi a Roma entrando a contatto con il mondo delle corti, studia
legge all’università anche se appassionato alla letteratura forse per la scrittura del padre di
Amadigi; Tasso sin da giovane tenta di scrivere un poema cavalleresco Rinaldo ma
rimane incompiuto. La sua formazione è prettamente umanistica e filosofica, studia i
classici latini, Dante, i poeti italiani del ‘200 e ‘300; una della svolte si ha nel 1565 quando
si stabilisce a Ferrara entrando come cortigiano al servizio del cardinale Luigi d’Este,
importante esponente della famiglia degli Estensi→ inizia a progettare e scrivere un
poema epico-cavalleresco.
Nel 1572 entra al servizio di Alfonso II d’Este, il duca di Ferrara e ottiene di essere tra gli
stipendiati stabilmente al servizio con una serie di privilegi come il titolo di gentiluomo, si
può sedere a tavola, non ha nessun obbligo lavorativo se non scrivere poesie ecc.. → può
dedicarsi completamente all’attività letteraria.
Compone diverse opere, rime e un’opera teatrale e continua la stesura della sua opera
principale; quando nel ‘76 cominciano a manifestarsi i primi segnali di una profonda
stabilità mentale che sfocia in comportamenti che portano disagio alla corte, e si
accompagnano a continui dubbi e ripensamenti in materia di fede e religione, vive con
paura ossessiva di essere eretico, c’è un impeto autodistruttivo. Tasso aggredisce con un
coltello una persona di corte e viene rinchiuso, da qui inizia il periodo più faticoso della sua
vita finchè dal ‘79 viene recluso nell’ospedale di S.Anna per 7 anni dove viene privato della
sua libertà anche se continua a scrivere e correggere la Gerusalemme liberata. Terminato
questo periodo la suo opera circola oltre il suo controllo, cerca ospitalità presso diverse
corti, anni segnati da un continuo peregrinare in cerca di una pace che non trova. Gli ultimi
mesi di vita lì passa malato nello stato del Vaticano.
Diventa una figura, da persona tormentata che affascina, facendo nascere un vero e
proprio mito biografico.
Le opere:
● Le rime, una raccolta delle liriche delle opere più importanti liriche amorose, di
occasione,
devozione senza struttura
● L’Aminta, un dramma pastorale di genere bucolico
● Dialoghi di vari temi
● La Gerusalemme liberata
● Un trattato di teoria letteraria
● Discorsi dell’arte poetica; l’attività letteraria è accompagnata da una discussione teorica
● Molte lettere, non opere, un epistolario tra i più importanti e inquietanti. Sono circa 2000
che fanno penetrare nelle parti più profonde dell’animo di Tasso
L’AMINTA
La vicenda si sviluppa in cinque atti e ha per protagonisti il pastore Aminta e la ninfa Silvia,
di cui Aminta è innamorato: l’iniziale rifiuto della ninfa costituisce il nodo drammatico che
dà l’avvio alla storia.
Ai due giovani protagonisti si affiancano due figure secondarie e più mature: Dafne,
consigliera di Silvia, e Tirsi, consigliere di Aminta e proiezione dello stesso Tasso;
entrambi sono personaggi disillusi e navigati, esperti in materie d’amore e privi di
aspirazioni particolari.
Oltre a questi esistono dei personaggi che non hanno ruoli particolari come quello di
assolvere a delle mere funzioni narrative: è il caso di Nerina ed Ergasto, che hanno il solo
compito di annunciare le morti di Silvia e Aminta.
Il primo attosi apre con un breve monologo di Amore, che dice che Venere lo vorrebbe far
agire solo nelle corti, mentre in quel giorno proverà a far scoccare l’amore nei boschi,
quindi entrano in scena di Dafne e Silvia. La ninfa è una seguace della dea Diana e si
dedica esclusivamente all’arte della caccia, l’anziana Dafne, invece, prova a convincerla a
cedere ai sentimenti e all’amore. La scena successiva ha per protagonisti Aminta e Tirsi, il
giovane pastore confessa all’anziano amico il suo amore per Silvia che non riesce a
dichiarare per la sua eccessiva timidezza.
Nel secondo attoDafne e Tirsi convincono Aminta a recarsi presso la fonte in cui Silvia è
solita fare il bagno, nuda e sola, per sorprenderla. Aminta accetta il consiglio e fa per
andare alla fonte, ma nel frattempo è stato anticipato da un satiro, che ha preso la giovane
ninfa e l’ha legata a un albero per violentarla; Aminta arriva in tempo e fa scappare il satiro
prima che questi compia lo stupro, libera la ragazza, ma questa reagisce sdegnata e se ne
va senza neanche ringraziare il giovane.
Poco dopo Nerina adocchia nel bosco i resti di un animale ucciso da Silvia, e si convince
che si tratti proprio del corpo della giovane cacciatrice, divorato dalle bestie. Aminta, già
rattristato dal comportamento di Silvia, si dispera quando Nerina gli dà la notizia che
l’amata è stata divorata dai lupi e decide di togliersi la vita. Quando Silvia viene a sapere
delle intenzioni di Aminta scoppia in lacrime e capisce di essere anche lei innamorata del
giovane pastore.
Convinta che il ragazzo sia morto, e incapace di affrontare quel dolore, Silvia prende la
decisione di uccidersi anch’essa, ma il musico Elpino la blocca rivelandogli che Aminta
aveva deciso di togliersi la vita lanciando si da un dirupo, ma la sua caduta era stata
attutita da alcuni cespugli e perciò egli era malconcio ma vivo.
Silvia corre da lui carica di commozione e lo abbraccia mentre è ancora privo di sensi,
Aminta si risveglia così tra le braccia dell’amata. La commedia termina con le nozze dei
due.
OPERE MINORI
Epistolario
La tormentata vicenda umana e poetica di Tasso è documentata dall'”Epistolario”,
costituito da circa 1700 lettere, in parte già pubblicate quando l'autore era in vita nel 1587
e nel 1588. In queste lettere, l'esperienza autobiografica è sempre filtrata attraverso
moduli letterari e si coglie lo sforzo dell'autore di tratteggiare la propria immagine secondo
i canoni contemporanei dell'uomo di lettere, del filosofo e dell’umanista.
Le pagine più interessanti sono però quelle in cui affiorano le debolezze del poeta, il suo
continuo bisogno di protezione da parte dei potenti, la malinconia struggente, il tormento
spirituale, i malesseri e le ossessioni della sua coscienza malata.
Gerusalemme
Per quanto riguarda le prime prove poetiche di Tasso bisogna ricordare il “Gerusalemme”,
un poema epico storico sulla prima crociata cominciato nel 1559 e interrotto poco tempo
dopo.
Rinaldo
Il “Rinaldo”, un poema epico cavalleresco d'argomento carolingio pubblicato nel 1562,
dove compaiono già temi e toni che caratterizzeranno le opere della maturità.
Tasso si ispira ai grandi maestri della poesia epica classica, Omero e Virgilio, e al
modernissimo Ariosto, ma al contrario di quest'ultimo, egli rifiuta la molteplicità di
personaggi e di azioni e si concentra su un unico protagonista in obbedienza alle esigenze
di unità che erano proposte dal contemporaneo aristotelismo.
Inoltre, nel Rinaldo, i toni prevalenti sono seri ed elevati e risulta del tutto assente il gioco
ironico che era proprio del poema ariostesco.
Gerusalemme liberata
La Gerusalemme liberata è il capolavoro di Tasso e della nostra letteratura. Ha una
tradizione testuale dovuta al processo di elaborazione particolare e tormentato: La
gerusalemme che noi abbiamo rappresenta la forma più fortunata di un’opera a cui Tasso
lavora per tutta la vita dai 15 ai 49 anni.
Si tratta di un poema epico-cavalleresco il cui argomento è quello della prima crociata, ha
un’ambientazione storica che si svolge tra il 1096 al 1099 guidata da Goffredo di Buglione
e termina con la conquista di Gerusalemme e in particolare il Santo sepolcro.
Il tema della lotta contro gli infedeli era molto attuale; l’opera ha una genesi che inizia del
‘59, Tasso ha 15 anni e comincia ad abbozzare un poema che pensava di intitolare
Gierusalemme: scrive alcuni versi ma si accorge che il progetto è superiore alle sue forza.
Subito dopo questo tentativo si dedica a un poema meno impegnativo di argomento
diverso che è il Rinaldo. Nel frattempo approfondisce alcune questioni di carattere teorico
sulla composizione del poema cavalleresco, riprende quindi il suo progetto iniziale e in 10
anni scrive un poema il cui titolo era “Goffredo”, titolo che non accompagnerà mai nessuna
edizione del poema.
I primi lettori furono il Duca Alfonso e sua sorella, il quale desiderava la pubblicazione
immediata ma Tasso non era soddisfatto del livello raggiunto, così sottopone l’opera al
giudizio e revisione di otto intellettuale più prestigiosi , ma riceve alcune critiche spesso
ingiustificate che accoglie con grande sofferenza e che producono in lui l’effetto di una
continua revisione in cui si sente continuamente in conflitto con se stesso...vorrebbe
seguire il suo genio poetico ma d’altro canto è preoccupato dalla conformità religiosa.
Negli anni compresi tra il 1565 e il 1575, Tasso si dedica alla sua opera maggiore: un
poema epico eroico in ottave, intitolato “Gerusalemme liberata”, pubblicato per la prima
volta nel 1581 e poi nel 1584 con alcuni interventi di censura operati dall'autore stesso.
La vicenda si svolge negli ultimi mesi della prima crociata in Terra Santa e descrive la
difficile conquista della città di Gerusalemme da parte degli eserciti cristiani guidati dal
condottiero Goffredo di Buglione.
Per garantire il “diletto” il poema deve presentare una varietà di situazioni narrative che
siano comunque strettamente legate al tema principale, per non compromettere l'unità
complessiva. Al diletto concorre anche l'elemento meraviglioso, reinterpretato in chiave
cristiana come intervento soprannaturale, disegno divino o demoniaco.
Tali presupposti dimostrano la volontà di conformarsi ai valori dominanti dell'epoca, ma il
poema rivela a questo riguardo un atteggiamento ambivalente da parte dell'autore.
Le contraddizioni e le discordanze del poema, per le quali è stata coniata la definizione di
"bifrontismo spirituale”, non costituiscono un limite alla sua validità artistica, ma al contrario
conferiscono alla poesia di Tasso tutta la sua straordinaria profondità e la sua forza di
suggestione.
La “Gerusalemme Liberata” è scritta in venti ottave di endecasillabi. Nelle scelte
linguistiche e stilistiche si ravvisa costantemente una tensione verso il grande, il magnifico
ed il sublime. L'effetto è ottenuto attraverso l'imitazione dei modelli classici, il fitto uso di
figure retoriche, la presenza di parole inconsuete o lontane dall'uso comune, di periodi
lunghi e complessi e di frequenti enjambement che spezzano la corrispondenza tra
sintassi e metro; al tempo stesso si nota anche la ricerca di una suggestività indefinita di
estenuate cadenze musicali ed intense notazioni coloristiche e visive.
Assecondando il gusto del tempo, Tasso ricorre inoltre spesso al “concettismo”, un
artificio retorico che consiste nell’istituire un accostamento forzato tra il livello metaforico e
quello letterale, al fine di stupire il lettore.
Il frutto di tale lavoro viene pubblicato nel 1593 con il titolo di “Gerusalemme conquistata”,
ma la redazione che continuò ad avere successo in Italia e nei paesi stranieri fu la
“Liberata”.
TRAMA
L’azione narrata inizia nella primavera dell’ultimo anno di guerra, quando i crociati hanno
eletto a loro capo Goffredo di Buglione e marciano verso Gerusalemme, difesa da Aladino.
Al racconto propriamente epico dell’assedio, si intrecciano intense storie d’amore: quella
della fanciulla Erminia per Tancredi, quella di Tancredi per Clorinda e quella di Armida e
Rinaldo.
Gli ostacoli maggiori alla vittoria cristiana sono posti, oltre che dal valore di guerrieri
pagani, dall’incantesimo fatto dal mago Ismeno alla selva da cui i cristiani dovrebbero
prendere legname per le loro macchine da guerra, da una spaventosa siccità e, prima di
tutto, dalla diserzione di Rinaldo. Questi, infatti, venuto a contesa con Gernando di
Norvegia, lo uccide e per sottrarsi alla giusta punizione abbandona l’esercito e finisce per
cedere agli incantesimi di Armida, la bellissima maga.
Dal luogo di delizie creato per lui da Armida nelle Isole Fortunate, Rinaldo viene però
distolto da Carlo il Danese e Ubaldo. Egli ritorna così all’impresa, cui è chiamato per
destinazione divina, come già Achille all’assedio di Troia, ma Armida, da incantatrice
divenuta una infelice donna innamorata, giura vendetta.
Avvenuta la purificazione dell’eroe sul monte Oliveto, si combatte intorno a Gerusalemme
la battaglia decisiva, che dà la città santa in mano ai crociati. Rinaldo si riconcilia con
Armida e dalla loro unione discenderà la stirpe degli Estensi; Goffredo scioglie il voto
entrando nel tempio di Gerusalemme e deponendovi le armi.
PERSONAGGI In generale
Gli eroi della “Gerusalemme liberata” sono davvero complessi, inquieti e spesso
contraddittori.
Goffredo appare un personaggio super partes: rimane fuori dagli eventi terreni perché è il
fulcro dell’opera, il punto fermo, e perciò non può perder tempo con amori terreni e non
può essere coinvolto nelle vicende più basse.
Gli altri protagonisti invece ci appaiono più umani: per esempio i due guerrieri cristiani,
Tancredi e Rinaldo, sono legati a vicende con i personaggi pagani in quanto Armida si
innamora di Rinaldo e Tancredi è amato da Erminia ma ama Clorinda.
L'amore è in effetti un tema molto importante all'interno dell'opera ma è un amore che non
unifica anzi fa perdere ai cavalieri il destino a cui sono chiamati.
Personaggi femminili
All’interno del poema sono importantissime le figuri femminili: Ermina rappresenta la
purezza che diventa forza quando decide di combattere con l'armatura di Clorinda; questa
scena dal sapore classico ricorda quella di Patroclo che combatte con l'armatura di Achille
nell'Iliade di Omero. È sicuramente una protagonista infelice: ama Tancredi che a sua
volta è innamorato di Clorinda.
Clorinda è una guerriera molto femminile che muore in un ultimo emozionante duello con
Tancredi. Egli non sa di uccidere la sua amata: lei però, in punto di morte, si converte.
Ammaliante invece, è la figura di Armida, la seduttrice, che però alla fine, viene
conquistata da Rinaldo, ma dovrà poi separarsi dal suo amato.
È tramite le figure femminili che il tema dell'amore appare come portatore di distruzione.
• PROEMIO
Le prime cinque ottave sono articolate in tre parti:
L’esposizione dell’argomento del poema (ottava I)
Invocazione alla Musa (ottave II-III)
Dedica al duca di Ferrara, Alfonso II d’Este (ottave IV-V)
Prima ottava
La Gerusalemme liberata si apre con un chiaro riferimento all’Eneide di Virgilio “Canto le
armi e il capitano” sia a livello lessicale che strutturale opposto a quello di Ariosto. In
Tasso è del tutto assente la tematica amorosa al contrario di Ariosto, il tema sono infatti le
armi e il capitano→ tema bellico
I primi versi si aprono con una perifrasi che è volta ad indicare Goffredo, il capitano,
presentato come l’eroe centrale del poema→ riferimento di tema storico
Oltre al tema bellico e storico c’è anche una tematica religiosa che si intuisce sia grazie
alla perifrasi dei primi versi e la parola “pietose” in riferimento alle armi, la pietas è infatti
un sentimento di devozione religiosa. L’aggettivo viene accostato ad “armi” andando a
costituire un ossimoro che si spiega facendo riferimento al concetto della guerra santa, la
guerra che è ispirata da Dio e ha una finalità religiosa.
Questi motivi vengono chiariti e declinati nei versi successivi, dicendo che Goffredo
combatté con la forza e con l’intelligenza e invano l’inferno gli si oppose, il cielo gli fu
favorevole e ridusse sotto le insegne sante i suoi compagni erranti. Questo scontro tra
cristiani e musulmani è presentato come uno scontro tra il cielo e l’inferno, il bene e il
male.
L’impresa compiuta da Goffredo è celebrata come “glorioso acquisto” (v.4), dal momento
che il condottiero ha riconquistato il santo sepolcro di Cristo e gli aggettivi presenti
sottolineano la grandezza dell’opera militare.
Goffredo viene quindi presentato sin dall’inizio come guerriero perfetto, non soggetto al
turbamento delle passioni che invece svieranno i suoi compagni, dalla centralità della loro
missione, e infatti a lui spetterà il compito di riportarli sotto le insegne dei Crociati,
anticipando uno dei temi fondamentali del poema: il contrasto fra dovere e allettamento dei
sensi, tra guerra e amore.
Viene anche prefigurato l’intervento del soprannaturale nelle vicende militari, (“e in van
l’Inferno” v.5), poiché il Cielo ha dato il suo favore all’impresa di Goffredo e ha vanificato il
tentativo delle forze infernali di opporsi all’inevitabile caduta di Gerusalemme.
Seconda e terza ottava
Nell’invocazione alla Musa, Tasso intende rivolgersi all’ispirazione divina e il poeta
chiarisce subito che non si tratta della divinità pagana, ma bensì di una Musa celeste, che
ha una corona dorata di stelle e risiede in Paradiso, che è un’allegoria dell’ispirazione che
viene dal cielo al poeta.
Tasso giustifica anche la scelta di mescolare vero e invenzione romanzesca, perché i
lettori si rivolgono più volentieri a un’opera con elementi piacevoli e attrattivi; in questo
modo, inoltre, egli potrà trasmettere con più facilità il messaggio religioso del poema.
L’autore ricorre alla similitudine del bambino malato che deve bere un’amara medicina e
che viene ingannato facendolo bere da un “vaso” (v.22) i cui bordi sono stati cosparsi con
“soavi licor” (v.22), visto che da questo inganno egli riceve la guarigione e la vita: i “succhi
amari” (v.23) sono gli insegnamenti morali dell’opera, mentre le sostanze dolci sono
appunto i “diletti” poetici inseriti nella materia propriamente epica.
Tasso trae la similitudine da Lucrezio (De rerum natura, I, vv. 936-942), che usa
un’immagine molto simile per giustificare anch’egli la scelta di affrontare la materia
filosofica dell’epicureismo.
Quarta e quinta ottava
Le ultime due ottave anticipano il motivo encomiastico al centro del poema, dedicato ad
Alfonso II d’Este che viene ringraziato dal poeta in quanto lo ha generosamente accolto
nella propria corte, dato che era un “peregrino errante”, in quanto privo di una patria ed
esule come il padre Bernardo che aveva seguito nell’infanzia.
L’autore usa la consueta metafora del viaggio in mare: per lui è stato difficile perché c’era
un vento tempestoso e rischiava di venire inghiottito dalle onde, finché Alfonso lo ha
sottratto alla burrasca e lo ha condotto in porto.
Il poeta desidera addirittura che Alfonso possa assumere il comando di un’ipotetica futura
Crociata volta a riconquistare la Terra Santa, per cui il signore di Ferrara viene chiamato
“Emulo di Goffredo” (v.39) e a lui il poema è offerto come un “voto” (v.30), come un dono
consacrato per il suo contenuto religioso.
Il tema encomiastico verrà sviluppato soprattutto con il personaggio di Rinaldo,
leggendario capostipite degli Este e figura analoga al Ruggiero del Furioso.
L’accenno al “buon popol di Cristo” (v.34) per cui Tasso desidera una pacificazione
interna, rimanda alla rottura dell’unità del mondo cristiano in seguito alla Riforma e
chiarisce fin dall’inizio che la lotta contro gli “infedeli” musulmani nasconde in controluce
quella contro gli scismatici e i predicatori che avevano sconvolto l’assetto religioso
dell’Europa del XVI sec.

C’è un riferimento alla finalità di un’opera letteraria, ovvero rivelare una verità, deve avere
un fine morale, educativo; ma per fare questo è necessario rendere l’opera piacevole che
sono funzionali a fare in modo che il lettore sia persuaso. Per spiegare questo concetto c’è
un paragone con i bambini che bevono un liquido amaro, ingannati a un sapore dolce sul
bicchiere, che si rivela medicina
La dedica ad Alfonso, colui che sottrae Tasso, pellegrino errante, dal furore della sorte,
accoglie alla mente la mia opera e forse avverrà che scriverò di te ciò che oggi accenno.
Tasso si augura che un giorno il popolo di Cristo possa conquistare di nuovo i terreni della
guerra santa→ parallelismo tra il tema storico e l’attualità del presente.
La tematica encomiastica rimane implicita, e avverrà attraverso il personaggio di Rinaldo
• LA PARENTESI IDILLICA DI ERMINIA
Dopo aver assistito al duello fra Tancredi e Argante dalle mura di Gerusalemme, la
principessa pagana Erminia, segretamente e infelicemente innamorata del guerriero
cristiano, esce dalla città con indosso l'armatura di Clorinda nel tentativo di recarsi al
campo crociato per curare il suo amato. La donna viene però avvistata da delle sentinelle
e messa in fuga, mentre Tancredi la insegue credendo che si tratti della donna da lui
amata. Erminia vaga senza meta nella selva sino a quando si imbatte in un vecchio seduto
all’ombra in mezzo al suo gregge di pecore, che accetta la richiesta di ospitalità della
donna, cominciando a condurre una vita umile passando il tempo ad incidere sui tronchi
degli alberi il nome di Tancredi.
La permanenza di Erminia tra i pastori non nasconde però le sue origini nobili, che
traspaiono anche sotto i rozzi vestiti che la ragazza indossa mentre porta le bestie al
pascolo e munge le capre. Ciò permette all'autore di esprimere la sua polemica contro la
vita delle corti in cui la principessa, e lui stesso, sono imprigionati
Analisi
Erminia si ritrova in un paesaggio agreste, popolato da pastori che conducono una vita
semplice, presso i quali ella trova rifugio lontano dagli orrori della guerra.
L’episodio si articola in 3 sequenze:
1. La fuga di Erminia: questa prima sequenza rivela il parallelismo con la fuga di Angelica,
Erminia però a differenza di Angelica appare debole, inerme e smarrita incarnando
un’immagine femminile di inerme debolezza e dolcezza introducendo una nota patetica
che suscita l’identificazione soggettiva ed emotiva del poeta
2. L'incontro con i pastori
3. La descrizione della sua vita nell’ambiente pastorale. Qui cambia il ritmo narrativo: il
tempo del discorso è più breve rispetto a quello della storia e non è scandito dalle ore, è
indeterminato, evidenziando ciò che succede nella sua anima piuttosto che le azioni. La
narrazione diventa quindi interattiva, dando il ritmo di una vita quieta e caratterizzata da
gesti umili e quotidiani.
In questo canto vi è una netta variazione tonale tra idillio e una materia bellica ed eroica,
che porta però ad un equilibrio armonico dove trova luogo la tensione, alla base della
quale si trova la conflittualità interiore del poeta. C’è la volontà di celebrare le imprese ma
la tensione produce nel poeta una stanchezza a causa degli scontri e le morti
La parentesi idillica di Erminia viene presentata positivamente, è un elogio esplicito al
mondo pastorale in cui la donna soggiorna→ immagine di un mondo portatore di valori
positivi. Ciò si ricava dalla descrizione, infatti lo stile è fortemente patetico e rivela la
compartecipazione emotiva del poeta a questo mondo ideale.
L'episodio determina un movimento centrifugo che allontana l’azione dallo scenario
centrale dell’assedio. I movimenti centrifughi nell’opera sono funzionali alla struttura
narrativa;

costituiscono un ostacolo, un momento di dispersione che va superato. La vicenda di


Erminia è una pura digressione ed è del tutto estranea alla struttura narrativa generale,
sottolinea il desiderio di fuga fantastica del poeta, che abbandona le vicende.
Il personaggio di Erminia è una proiezione autobiografica del poeta; vengono proiettate in
particolare le sue inquietudini, le aspirazioni nel tentativo di trovare serenità. Erminia è un
personaggio che vive quasi esclusivamente nella propria interiorità, cioè non agisce nella
realtà esterna, in modo particolare l’ozio pastorale favorisce il richiudersi di Erminia nella
solitudine della sua anima.
Rimane però un'ambiguità di fondo che sta nel fatto che Tasso assegna al poema, è lo
scontro tra due forze contrapposte: il bene e il male, cristiani contro pagani; l'intento del
poema è edificante, devono essere trasmessi i valori della religione cristiana → risulta
impossibile proprio per questo motivo che un personaggio pagano (Erminia) assuma un
valore così importante, perciò c’è una contraddizione.
Con questo episodio Tasso riprende la critica anticortigiana e il tema idillico-pastorale,
caratterizzato dal bisogno di evadere dall’ambiente cortigiano, rifugiandosi in luoghi idilliaci
e tranquilli e vivendo a contatto con la natura; l’altro tema ripreso da Tasso è il clima di
effusione patetica, evidenziato dal motivo delle lacrime.
Il motivo del travestimento → Erminia assume per due volte nell’episodio spoglie non sue:
le armature di Clorinda e poi le umili vesti della pastorella. Il travestimento sembra
acquistare per Ermina una motivazione profonda.
• LA MORTE DI CLORINDA
L’episodio antecedente alla morte di Clorinda sono crociati hanno assediato
Gerusalemme, e la donna, facente parte degli infedeli decise di uscire dalla città santa,
insieme ad Argante dove bruciarono le torri nemiche e Clorinda uccise un soldato
cristiano, e dunque solo Argante, nel momento della chiusura delle porte della città riuscì a
fare rientro.
Tancredi, che assistette all'assassinio compiuto da Clorinda la seguì, inseguimento che
sfocia poi in un combattimento col chiaro intento di uccidere, e non mostrare la propria
maestria.
Durante un attimo di pausa Tancredi nota le ferite del nemico, ben più gravi delle sue e
prova goduria, ma non demorde e spinge quindi la lama nel seno dell'amata e la cui veste
si sporca di sangue→ battaglia sensuale più che bellica.
Nel momento massimo di suspance Clorinda chiede infine al nemico di essere battezzata
ed il cavaliere per dimostrare la sua cortesia, decide di concederle questo favore: riempie
l'elmo d'acqua ma nel momento in cui deve scoprire la faccia del nemico ha un tremore
alle mani ingiustificato, come se fosse già a conoscenza di ciò che seguirà, e nel momento
in cui scoprì la faccia della donna e la riconobbe rimase immobile: non ha ucciso solo la
donna amata, ha ucciso anche una parte di sé. Riferimento finale a Venere, che
rappresenta l’amore terreno che sta ormai tramontando, mentre la luce è una metafora
che simboleggia la conversione della donna.
LINGUA E STILE
Nel passo in questione sono presenti diversi registri linguistici che variano a seconda
dell'argomento trattato:
nel momento del duello, infatti, Tasso utilizza un linguaggio più comune e reale, volto a
descrivere gli atti di battaglia
nella seconda parte, al momento del battesimo di Clorinda, il linguaggio si innalza assieme
all'argomento religioso.
Il campo semantico prevalente in queste ottave è inizialmente quello di guerra, associato a
quello dei sentimenti (ira e amore vengono contrapposti), che sfocia poi nella conversione
religiosa.
Tasso divide il brano in ottave con l'intento di rimanere fedele al genere epico
cavalleresco.
Nel brano analizzato il linguaggio, prevalentemente paratattico, è ricco di verbi e ciò serve
a rendere il testo più esplicito e conciso.

• IL GIARDINO DI ARMIDA
Il cavaliere Rinaldo viene condotto in un giardino nei pressi di un lussuoso palazzo,
raggiungibile attraverso strade intricate e fallaci dalla maga Armida, la quale ha il compito
di sottrarre le migliori forze ai nemici. In questo luogo la natura produce suoni soavi tra cui
il garrito di un pappagallo, che sembra parlare. Questo uccello osserva sbocciare una rosa
e la paragona ad una fanciulla che più è ammirata, più si nasconde, i suoi petali vengono
invece paragonati al petto di una donna.
Nel frattempo due cavalieri, Carlo e Ubaldo, si accorgono dei due e li osservano: Rinaldo è
sdraiato sul grembo di Armida che indossa un velo con una profonda scollatura e porta i
capelli sciolti ma disordinati e mossi dal vento. Il cavaliere pende dalle sue labbra e,
mentre Armida si specchia attraverso uno specchio, Rinaldo guarda sé stesso tramite gli
occhi dell’amata. Rinaldo si specchia anche nello scudo dei cavalieri, e osserva la sua
trasformazione in un essere femmineo. Questo specchio è di altro tipo rispetto al
precedente, è motivo di vergogna. Al termine del canto, Rinaldo esce dal giardino-labirinto
in cui si trovava.
Analisi
Tasso concepisce il labirinto in modo negativo perché a causa di quest’ultimo l'uomo si
perde: il poeta vorrebbe stare nel giardino per sempre, che però simboleggia i piaceri
terreni e l’amore. Il labirinto viene presentato anche in Ariosto; anche nella sua opera i
cavalieri errano ma coincide con il luogo di infinite opportunità oltre che rappresentare la
complessità della vita dell’uomo
Nell’episodio c’è anche un rimando al sonetto proemiale di Petrarca in cui l'amore e i
piaceri sono ornamenti inadatti a un cavaliere. Vi è anche un rimando al II canto
dell'Inferno dantesco: in Dante tutti andavano a dormire mentre lui compiva il faticoso
viaggio; qui è il contrario, mentre tutti si affaticano per sconfiggere gli infedeli, Rinaldo si
sottrae a questo compito.
Il conflitto fra i due codici culturali, pagani e rinascimentali contro quelli cristiani, diviene
conflitto interno per Rinaldo, designato come eroe cristiano ma sopraffatto dagli impulsi
edonistici. In un primo momento prevarrà quest’ultimo codice in Rinaldo, ma
successivamente, dopo la liberazione dell’eroe si affermerà definitivamente quello
cristiano con la purificazione di Rinaldo.
Da un lato Tasso condanna l’edonismo, ma dall’altro lato emerge l'attrazione implicita che
Tasso prova nei confronti dell’edonismo: forte contraddizione.
L’episodio si può suddividere in 3 sequenze:
1. Descrizione del giardino → il proliferare lussureggiante della vegetazione rappresenta
gli
istinti peccaminosi pagani.
La descrizione del giardino rimanda alla descrizione dei giardini di Boiardo e Ariosto,
vegetazione ricca, acque limpide, canto di uccelli
Descrizione di Tasso→ accentuata sensualità data da significati simbolici, luogo dello
svenimento dell’eroe
Il garrito del pappagallo esplicita il significato del giardino sotto una prospettiva pagana, è
un invito a cogliere la rosa prima che questa sfiorisca
Il poeta vuole presentare l’edonismo paganeggiante, rivelato nel giardino, sotto una luce
negativa.
Il contesto rovescia il significato dell’intero messaggio, infatti viene rivelata la profonda
complicità del poeta con i valori pagani
2. La scena romantica tra Rinaldo e Armida
3. Scena in cui i cavalieri riportano Rinaldo al suo dovere
Il palazzo e il giardino sono spazi circolari e chiusi alla realtà esterna. Il giardino di Armida
allude alla segregazione dell'eroe fuori dal mondo e lo spazio circolare obbliga Rinaldo
all’eterna ripetizione degli stessi gesti. Questa ripetizione è interrotta dall’ingresso in scena
di Ubaldo e Carlo: questi due crociati vengono dallo spazio esterno e per questo
rappresentano la storia e i suoi obblighi.
Il castello è simile a quello di Atlante, tuttavia nella Gerusalemme Liberata ciò che è
magico è ordito dalla malvagità del demonio. Pur essendo un locus amoenus, depista i
cavalieri rispetto al cammino retto. In questo poema ciò che è labirintico è fallace,
corrisponde al male.
Rappresenta i codici di valori pagani, ma anche rinascimentali, quello di una civiltà che
aveva espresso valori molti differenti rispetto all’età controriformistica.
Per quanto riguarda il ritmo narrativo, le prime due sequenze sono statiche e prive di
azioni. L’ingresso in scena di Carlo ed Ubaldo dà origine ad un intenso dinamismo e ad
una veloce successione di gesti e movimenti.
La rosa quando sfiorisce non sembra più quella di un tempo, ciò sta a significare che in
un'instante la vita e la giovinezza passano. Vi è una contrapposizione fra il tempo ciclico
della natura che ogni primavera fiorisce e la vita dell'uomo, che una volta sfiorito non
fiorisce più. Vi è un chiaro invito edonistico, a cogliere la rosa al mattino, nel pieno della
sua fioritura; in particolare invita a cedere all'amore e vi è la stessa idea dell'amore. Oltre
all'invito edonistico vi è un sotteso velo di malinconia e di tristezza a causa della brevità
della vita.

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