Sei sulla pagina 1di 6

DELLA RAGION DI STATO, BOTERO

PRIMO LIBRO
“Della Ragione di Stato” (1589) può essere considerata la prima compiuta elaborazione teorica
del progetto conservativo della ragion di Stato.
Botero definisce in partenza con estrema chiarezza la finalità del modello conservativo: "Stato
è un dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare,
conservare, e ampliare un Dominio così fatto”.
La ragion di Stato riguarda dunque innanzitutto gli strumenti idonei a conservare le cose
realizzate, cioè le situazioni di potere politico già acquisite: "il tenerle ferme, quando sono
cresciute, sostenerle in maniera tale, che non scemino, e non precipitino, è impresa d'un valor
singolare, e quasi sovrumano”.
Esattamente come Machiavelli pensava che ci fossero diversi tipi di principato. Botero ritiene
che ci siano diversi tipi di domini: antichi, nuovi, ricchi e poveri ma, nello specifico, distingue tra
quelli che si acquistano naturalmente, con o senza la volontà dei sudditi, e quelli di “acquisto”,
ovvero quelli che sono stati comprati con il denaro o sottratti ad altri con la forza. A prescindere
di come si sia costituito il dominio, è necessario che vi siano dei sudditi ben disposti, i quali
costituiscono la parte essenziale del dominio stesso. Il crollo del dominio può dipendere, infatti,
da vari fattori: interni ed esterni (Botero dice: “intrinsechi” ed “estrinsechi”).
I fattori interni possono essere:
 Incapacità, inesperienza ed eccessiva fanciullezza del Principe;
 Malcontento dei sudditi dovuto all’ingiustizia, alla crudeltà o alla libidine del Principe;
 Ambizione dei singoli.
Le cause esterne sono legate invece alla discordia con gli altri popoli, ma sono meno
pericolose: un dominio crolla quando è attaccato dall’esterno soltanto se ormai non è più coeso
internamente.
Ce lo mostra la storia di Roma: i Romani, fin quando furono uniti, assoggettarono l’orbe; non
appena i problemi interni e le discordie civili si fecero insanabili, essi furono sconfitti dai barbari.
Questo esempio è anche utile per comprendere come, secondo Botero, gli imperi più durabili
sono gli imperi che definisce mezzani. I grandi imperi possono essere maggiormente soggetti a
invidie e gelosie interne. Le eccessive ricchezze, infatti, generano avarizia e l’avarizia è,
secondo l’autore, la radice di ogni male. Quelli piccoli sono spesso aggiogati dai potenti popoli
vicini, per cui solo in quelli in cui le ricchezze e i possedimenti sono equilibrati possono
mantenersi. Lo Stato, pertanto, può conservarsi solo nella pace e nella quiete. È compito del
Principe assicurare la tranquillità ai propri sudditi, per cui dovrebbe essere nominato tenendo
conto soprattutto della sua buona reputazione, cioè della stima che ha meritato presso il popolo
per le sue azioni nobili ed eccellenti, così da avere obbedienza con maggior convinzione e
amore. Il primo modo per fare bene ai sudditi è agire secondo giustizia. La giustizia regia si
occupa sia del rapporto tra il re e i sudditi, sia del rapporto tra suddito e suddito. Infatti, oltre al
rispetto della figura del sovrano, è importante che tra il popolo non vi sia né violenza, né frode.
La frode è più subdola della violenza, proprio perché appare di entità inferiore. In realtà crea
disordini, odi civili e più volte mise in pericolo la città di Roma e la Repubblica di Atene.
Tuttavia è bene che il re non amministri la giustizia personalmente, piuttosto è utile che
incarichi dei ministri. I ministri devono essere cittadini o forestieri? Botero crede che sia
opportuna una “via di mezzo”. Molte città, Firenze in primis, quando furono divise tra due o più
fazioni, chiamarono dei magistrati forestieri per garantire una certa equità.
In realtà, se i magistrati sono del posto tendono a favorire il popolo, ma se sono stranieri
assecondano la parte più forte. Per cui sarebbe giusto che il funzionario arrivasse da una
regione lontana, ma pur sempre interna all’impero. Infine, si fa anche giustizia con la liberalità,
da intendersi sia come liberazione dei bisognosi dalla miseria; questa è l’opera più nobile che il
Principe possa compiere, sia riconoscendo che promuovendo gli esempi di virtù.
Il primo libro, tuttavia, si chiude con tre avvertimenti per la liberalità:
 Non bisogna dare agli indegni, perché si fa torto alla virtù;
 Non bisogna dare immoderatamente (Nerone concesse così tanto ai suoi adulatori da
derubare gli uomini onesti);
 Non bisogna concedere tutto insieme ma poco per volta, in modo che il ricevente resti
legato con la speranza di ricevere altri vantaggi.

SECONDO LIBRO
Botero passa ora a esaminare quali siano le cose che aggiungono reputazione, ritenendo che
siano essenzialmente due: la prudenza e il valore. Questi sono i due pilastri sui quali si deve
fondare ogni buon governo: la prudenza serve all’occhio del Principe, ovvero gli somministra
consiglio; il valore alla sua mano, ovvero gli serve per le grandi e giuste imprese.
A nessuno conviene sapere più cose che al Principe. È necessario soprattutto che si intende
della maniera di governare, della moralità. L’esperienza è - secondo Botero - madre di ogni
virtù. L’esperienza può essere di due tipi: quella acquisita da soli e quella acquisita tramite altri.
La prima è assai limitata, mentre la seconda può derivare dagli uomini contemporanei al
Principe o quelli della storia passata.
Tuttavia il valore dei popoli dipende dal loro sito. Botero, infatti, sostiene che le caratteristiche
fisiche e morali di un popolo dipendano dalla configurazione del suolo che abitano. Le
popolazioni migliori sono quelle poste nel mezzo, perché non sono esposte a climi né troppo
caldi, né troppo freddi. Il tempo relativamente mite e il suolo favorevole hanno visto sorgere
grandi imperi: Assiri, Medi, Persiani, Turchi, Greci, Romani, Spagnoli. In generale però, gli
Orientali sono di natura facile e trattabile, mentre gli Occidentali sono più fieri e ritirati.
Come si è detto, la prudenza è una delle doti imprescindibili del Principe, quindi la cosa più
sbagliata che possa fare è affidarsi alla fortuna o al caso. Non deve agire di istinto, deve
considerare molte possibilità, ascoltare consigli che non siano né troppo azzardati, né
rinunciatari, ma soprattutto diffidare di coloro che lo hanno in odio perché potrebbero dargli
consigli ingannevoli.
Deve cercare di agire con misura, di introdurre il cambiamento a piccole dosi, preferire le cose
vecchie e conosciute a quelle nuove e ignote, non rompere con la Chiesa e mantenere buoni
rapporti con i vicini e, soprattutto, evitare guerre con e tra i sudditi per mantenere un buon
rapporto con il popolo; un metodo valido è offerto dalla segretezza.
Questo modo di agire lo aiuta sicuramente a mantenere e ad accrescere la sua reputazione.
Un Principe che è degno di una buona reputazione è colui che non manifesta le proprie
debolezze, ma non fa nemmeno delle proprie forze e ricchezze (es: Alfonso re di Napoli), che
giova più con i fatti che con le parole e promette meno rispetto a quello che realmente farà
(Scipione l’Africano), che non si imbatte in imprese superiori alle sue possibilità e che agisca
con segretezza, in modo che i sudditi si aspettino da lui grandi progetti. Per questo la storia è
piena di prìncipi che furono detti “magni” o “savi”. I sovrani che furono pregiati dell’uno o
dell’altro appellativo non furono - tuttavia - migliori di altri che non lo ebbero. Scipione, Annibale,
Caio Mario, Severo o Traiano sono solo alcuni dei nomi illustri che pure avrebbero meritato la
designazione di “Magno”.
Tra gli esempi di prìncipi cristiani che furono a ragione definiti così troviamo l’imperatore
Costantino, che riunì l’impero e riconobbe la libertà di culto ai Cristiani (Editto di Milano, 313);
Teodosio, che impose il cristianesimo come unica religione dell’impero (Editto di Tessalonica,
firmato congiuntamente a Valentiniano II e Graziano, 380); Carlo I re di Francia, per la
grandezza delle sue imprese e per il suo imperno nel propagare la fede cristiana, nonché il
primo imperatore d’Occidente.
Tra i savi, il primo che abbia acquistato questo titolo dopo Salomone, fu Alfonso X re di
Castiglia, per la passione con cui si diede allo studio della filosofia e dei moti dei corpi celesti.
Le virtù di cui abbiamo finora discusso durano poco se non sono aiutate da altre due: la
religione e la temperanza. È cosa nota che i prìncipi dell’antichità abbiano avuto assai a cuore il
sacro e che talvolta, come nel caso di Matusalemme, siano stati essi stessi re e sacerdoti
insieme. Ad ogni modo, la storia ci insegna che mai nessuno osò intraprendere impresa o
negozio senza aver interrogato gli dei e che fosse un fatto più che naturale cercare di
propiziarseli.
Diotimo scrive che al re sono necessarie tre cose:
 La pietà per perfezionare sé stesso;
 La giustizia verso i sudditi;
 La milizia per difendersi.
Anche al peggiore dei tiranni è necessario - come scrive Aristotele - apparire pio, così che i
sudditi non abbiano l’impressione di essere trattati iniquamente e non oseranno sfidare colui
che pensano essere varo agli dei.
Tra tutte le leggi di fede, nessuna è più favorevole al Principe di quella cristiana, con cui i
sudditi si sottomettono con il corpo e con lo spirito. Esistono casi in cui il suddito ha dovuto
ribellarsi in nome della religione. Lo stesso cristianesimo delle origini era fuorilegge a Roma,
ma ai tempi di Botero ci sono solo esempi negativi di “ribellione”, citando quelli che definisce
“oppressori eretici” di Scozia, Inghilterra, Francia e Germania (si riferisce alla riforma
protestante e calvinista). La religione è poi connessa alla temperanza.

TERZO LIBRO
Il popolo è per sua natura desideroso di novità. I prìncipi saggi hanno introdotto alcuni
“intrattenimenti” nei quali si stimolano le virtù dell’animo e del corpo. In questo i Greci ci hanno
fornito il massimo esempio, tramite i giochi olimpici e competizioni varie, mentre i Romani
hanno introdotto essenzialmente varie forme teatrali e i giochi gladiatori che non hanno
consentito ai cittadini di esercitarsi.
Tuttavia, tra gli spettacoli romani Botero loda maggiormente la tragedia come spettacolo onesto
e grave. Sono pure forma di intrattenimento le grandi imprese dei prìncipi. Tali imprese
possono essere di due tipi: civili o militari.
Per “imprese civili” si intendono le grandi costruzioni (strade, ponti, acquedotti, palazzi)
destinate all’impiego e/o beneficio pubblico; di ben altra portata sono quelle militari, volte a
tenere al sicuro i propri domini o a conquistarne altri, ma talvolta anche intentate a tutela della
fede. Botero, quindi, discute se sia o meno opportuno che il Principe vada in guerra.
Se si tratta di un uomo valoroso, coraggioso e astuto, allora è giusto che sia in prima fila a
combattere, ma se manca di queste qualità, risulta solo un disturbo. Infatti Giustiniano, senza
mai muoversi da Costantinopoli, avvalendosi di uomini eccellenti, riuscì a liberare l’Italia dai
Goti e l’Africa dai Vandali.

QUARTO LIBRO
La popolazione di ogni città è così tripartita:
 Gli opulenti, cioè coloro assai ricchi e potenti che difficilmente si astengono dal male;
 I miseri, che per necessità sono di solito molto viziosi;
 I mezzani, i più quieti e i più facili da governare.
Essendo questi ultimi quelli che non procurano problemi al governo del Principe, Botero
analizza le altre due categorie: i poveri sono pericolosi alla quiete pubblica perché non hanno
interesse di questa e sono più predisposti ad agire a danno di altri; per quanto riguarda i ricchi,
invece, il Principe deve temere: quelli che sono suoi parenti o per ragioni di sangue hanno
pretese al trono, perché in loro vi è tanta ambizione e gelosia (Alessandro Magno sterminò i
suoi parenti per diventare il padrone dell’Asia); i grandi proprietari di feudi (Massimiliano Sforza
che ottenne il ducato di Milano); quelli che per via di una guerra o di un’arte hanno ottenuto
grande reputazione presso il popolo.

QUINTO LIBRO
Dopo aver parlato dei sudditi naturali, Botero passa ad analizzare quelli acquistati, ovvero
coloro che sono diventati sudditi inseguito ad una conquista. È necessario che questi si
sentano parte del dominio e che nutrano interesse verso di esso, in modo da non sentirsi
diversi dai sudditi “naturali”. Se ciò non avviene, facilmente si perdono i territori conquistati,
come avviene per i Francesi con la Sicilia (l’episodio dei vespri siciliani) e poi con il regno di
Napoli. A questo fine gioverà mantenerli in giustizia, pace e abbondanza, favorire la religione, le
lettere e la virtù. All’interno della società, infatti, sono tenuti in gran considerazione sia i religiosi,
che guidano la coscienza del popolo, sia i letterati, che ne guidano i giudizi. Giova, inoltre,
essere clementi, ma non sembrare dissoluti e punire garantendo giustizia e quiete pubblica.
Quelli particolarmente dannosi sono gli infedeli o gli eretici: bisogna cercare di ricondurli alla
religione comune e per convertirli il mezzo più valido è la scuola, che con le sue cure e i suoi
insegnamenti è apprezzata tanto dal fanciullo quanto dai genitori (si pensi all’opera del re del
Portogallo, Giovanni III, che fondò nelle Indie collegi e seminari affidati ai Gesuiti). Deve essere
preoccupazione del Principe avere nelle scuole dei propri domini insegnanti validi e che
riescano a indottrinare a dovere i ragazzi.
Tra gli infedeli, i più alieni alla fede cristiana sono i “maomettani”, gli islamici, gente empia e i
discepoli di Calvino, che in tempi non lontani hanno perseguitato e ucciso Maria Stuart, regina
di Scozia. Se manca la possibilità di convertirli, allora li si combatta almeno in questi tre modi,
come suggerì Terenzio Varrone ad Ostilio:
 Svilirli d’animo, privandoli di qualsiasi magistrato o di qualsiasi riconoscimento di stima;
 Indebolirli di forze, vietando che portino le armi;
 Evitare che possano unirsi e creare disordini, proibendo matrimoni e qualsiasi tipo di
relazione volta a creare alleanze.

SESTO LIBRO
Per proteggersi dagli attacchi, il Principe costruisce fortezze, ma soprattutto fonda numerose
colonie, nelle quali colloca molti cittadini oppure gente alleata, come fecero i Romani.
Ad ogni modo, per prevenire gli assalti dei nemici nulla è più valido dell’attaccarli e nel portare
la guerra nelle loro case. L’assalto, tuttavia, richiede forze maggiori, o almeno uguali, di coloro
che si vogliono assalire; se non si possiede questa superiorità non resta che procurargli nemici
che riescano a fare quello che il popolo non riesce a fare da solo. Ancora, per far sì che il
nemico desista dall’impresa, un buon mezzo è l’eloquenza, che è pure valida per acquistare
nuove forze: se si riesce a persuadere i vicini che il pericolo di un popolo è il pericolo anche del
popolo vicino, si possono creare valide alleanze.
Se l’avversario è così forte che non pare esserci speranza di difesa, allora sarà preoccupazione
del Principe saggio cercare di contenere la rovina che ne deriverà. In questo caso si deve
ritenere possibile un accordo in denaro, come spesso fecero i Fiorentini che, pagando grandi
somme di denaro, riuscirono a evitare molti pericoli.
SETTIMO LIBRO
Fin qui abbiamo considerato i modi in cui il Principe può mantenere in pace lo Stato.
Consideriamo ora gli strumenti con chi può ampliarlo, ovvero le forze.
Ogni Principe deve avere armi e strumenti necessari sia per una guerra navale che terrestre e
non deve mai mancargli il denaro. Se il Principe “tesoreggiasse” cioè, se facesse sfoggio delle
proprie ricchezze, sarebbe inviso al popolo che si convincerebbe del fatto che il Principe si sia
arricchito a spese dei sudditi e bramerebbe un cambiamento. Allo stesso modo non deve
donare senza misura, né accumulare tesori senza una buona causa come fece Tiberio, che
accumulò grandi ricchezze a danno dei più poveri e Caligola dilapidò quel patrimonio in un solo
anno, concedendosi qualsiasi piacere e soddisfacendo qualsiasi capriccio.
Il motivo per cui è necessario che il Principe abbia un tesoro è solo uno: può servirgli in caso di
guerra. Quando, infatti, invece di vessare ulteriormente i cittadini sia per rifornire l’esercito, sia
per persuadere il nemico dall’attacco, il Principe potrà ricorrere al patrimonio accumulato.
Questo patrimonio si costituisce in due modi: evitando spese inutili e sfruttando tutte le entrate.
Le entrate sono di due tipi: ordinarie e straordinarie. Le prime derivano sia dai possedimenti
personali del re, sia dalle tasse che pagano i sudditi. Tuttavia, se queste entrate non sono
sufficienti a far fronte ai bisogni del popolo, il Principe potrà prendere in prestito il denaro dai
sudditi più ricchi, preferibilmente senza interessi, cosicché sarà più facile che possa restituire
tutta la somma. Talvolta anche la Chiesa può mettere a disposizione il proprio patrimonio.
Riguardo le entrate straordinarie sono le donazioni o le confische, o ancora i tributi versati dagli
stranieri.

OTTAVO LIBRO
Ci sono due modi per aumentare le forze e la gente: col propagare il suo e tirar a sé l’altrui.
Si propaga in vari modi:
 Con l’agricoltura, che un buon Principe favorisce e promuove, tanto che deve evitare
che i terreni siano destinati ad altre cose come quei parchi di cui è piena l’Inghilterra;
 Con l’industria, che è il miglior mezzo per far ampliare le città, produce grandi ricchezze
laddove la natura non è stata molto generosa, come dimostrano Italia e Francia che, pur
non possedendo grandi miniere e giacimenti, sono abbondantissime di denari per via di
essa;
 Con il matrimonio e con l’educazione dei figli, talvolta soccorrendo le famiglie
bisognose;
 Con le colonie.
Per arricchirsi con “l’altrui” il primo modo è aggregare a sé i nemici vinti, come fecero i Romani
quando sconfissero Albani e Sabini; ancora, si può comprare uno Stato o prenderlo in pegno
con dei denari prestati, ma anche ingrandirsi tramite una fitta rete di matrimoni, come accadde
agli Austriaci. Si accresce il potere con le forze altrui anche per via delle leghe. Queste possono
unire Principi delle stesse condizioni, cioè ricchi, virtuosi e forti, ma può anche darsi che un
Principe sia più forte e ricco degli altri. Sarebbero da preferire le leghe tra pari perché tutti sono
mossi dagli stessi interessi e nessuno può imporsi sugli altri.

NONO LIBRO
Una delle questioni più importanti è quella della possibilità di servirsi o meno ai fini di una
guerra dei cittadini. Botero - in virtù delle considerazioni finora esposte - ritiene che non ci sia
cosa peggiore di servirsi di soldati stranieri che non nutrono amore verso la patria per cui
combattono. Pertanto è giusto che un Principe addestri i sudditi alle armi. Tuttavia non tutti i
sudditi sono predisposti alla guerra, sia nel fisico che nello spirito. È meglio, quindi, diffidare dei
codardi che avviliranno gli arditi. Inoltre, poiché gli uomini sono spesso spinti a desistere per
l’affetto verso i cari non lontani da loro, è bene che vadano a combattere assai lontano e che
venga loro assicurato il mantenimento della famiglia qualora non dovessero far ritorno dalla
guerra. Quello che più preoccupa gli uomini, infatti, non è la propria vita, ma lasciare la propria
famiglia in balia della fortuna, per cui - sapendo che il Principe si farà carico della famiglia in
caso di morte - combattono con maggior tranquillità e ardore.
In battaglia possono portare le armi che preferiscono, soprattutto se la grandezza di queste
spaventa il nemico anche solo a vederle. Per essere motivati devono credere che la loro sia
una guerra giusta, cioè che abbiano l’appoggio di Dio. Questi uomini, quando disciplinati vanno
premiati. I premi possono essere d’onore (statue, riconoscimenti, sia in vita che in morte) e utili.
Tuttavia, se un Principe che non premia non può essere amato, un Principe che non punisce
chi sbaglia non può essere rispettato. Le punizioni consistono o in una pubblica umiliazione
oppure nell’infliggere una sofferenza fisica.

DECIMO LIBRO
Il duca di Parma, Alessandro Farnese, rappresenta per Botero il massimo esempio di capitano.
Un uomo che ha condotto l’esercito sotto un re clementissimo, al servizio della Chiesa, che ha
agito come Fabio (detto “Il Temporeggiatore” per via del suo modo di fare politica), ma anche
come Marcello (colui che guidò risolutamente la ripresa di Roma dopo la sconfitta di Carre),
grande esempio di virtù, come ha dimostrato con l’assedio di Anversa.
Un valoroso capitano con disciplina può guidare alla vittoria anche un pessimo esercito, mentre
il migliore degli eserciti sarebbe inutile con un capitano incapace, che altro non sarebbe che un
cattivo esempio.
Un buon capitano è colui che stimola i propri soldati e li rende contenti delle proprie imprese e
dei propri piani, facendosi seguire senza timore e osando grandi imprese.
Talvolta Botero ritiene che sia indispensabile l’eloquenza.
Non deve poi mancargli una certa alacrità e letizia in volto, così che anche i soldati si
mantengano allegri. È quello che accadde quando Giscone, facendo notare ad Annibale quanti
romani stavano accorrendo a Canne, si sentì rispondere che nessuno, in mezzo a quella densa
moltitudine, aveva comunque quel nome così strano, suscitando il riso di tutto l’esercito.
Il buon capitano non deve bramare il sangue, non deve essere precipitoso ma cauto, paziente
e soprattutto ingegnoso.
Volgendo al termine questo trattato sulla “ragione di Stato”, Botero analizza se sia più utile la
potenza terrestre o quella marittima e se abbia maggiore importanza la cavalleria o la fanteria.
In merito alla prima questione, sostiene fermamente che la forza terrestre sia da preferire,
perché nessuno Stato che è passato alla storia per le proprie imprese ha conquistato il potere
esclusivamente via mare; allo stesso modo, però, uno Stato che voglia essere imbattibile deve
preoccuparsi di organizzare una valorosa flotta.
Infine, ritiene che la cavalleria sia superiore alla fanteria esclusivamente nella campagna, come
dimostra l’episodio dei Cartaginesi, che vinsero i Romani trasferendo il combattimento su luoghi
pianeggianti, sfruttando il gran numero di elefanti e cavalli. Su tutti gli altri terreni è preferibile la
fanteria.

Potrebbero piacerti anche