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IL MEDIOEVO

INDICE

Pag.

1 Caratteri generali
2 Alto Medioevo
4 Basso Medioevo
5 Le lingue romanze
6 Poemi cavallereschi
7 L’amore cortese
8 Letteratura giullaresca
8 Eresie
9 Il Volgare – Bonvesin de la Riva, Gioacchino da Fiore
10 San Francesco d’Assisi
13 Scrittori umbri – seconda generazione: Jacopone da Todi
15 L’Italia e l’impero
16 La scuola siciliana – Rinaldo d’Aquino
17 La scuola toscana – Guittone d’Arezzo
17 Dolce stil novo – Guido Guininzelli – Guido Cavalcanti
20 Poeti comico-realistici – Cecco Angiolieri – Folgòre da San Gimignano
23 La prosa del Duecento – Marco Polo Il Milione – Anonimo Novellino
24 Dante Alighieri – La Divina Commedia – Opere minori
29 Il Medioevo: Schema

I
STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – MEDIOEVO

Referente della parola Medioevo è il periodo di tempo che intercorre tra la caduta dell’Impero
Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492).
Le date sono dei simboli naturalmente. Si può parlare in realtà di inizio del Medioevo quando
muore il mondo antico: quando cioè l’uomo non ritrova più dentro di sé quei valori su cui si era
basata la civiltà in decadenza. I valori sono le risposte alle domande creaturali, la giustizia,
l’amore, Dio. Quando i dubbi intaccano la certezza delle risposte, la civiltà cambia.
Così il Medioevo, che durerà circa un millennio, trova una data importante di cambiamento nel
1492, la scoperta dell’America.
Si tratta di una rivoluzione economica: il Mediterraneo, sino ad allora centro della civiltà, deve
cedere all’Atlantico il ruolo di asse economico del mondo.
Per quanto concerne l’Italia, però, alcuni sostengono che l’era nuova abbia inizio nel 1494, quando,
con la discesa di Carlo VIII, l’Italia perde l’indipendenza e inizia un processo politico che durerà
fino al 1918.
Così, in Europa, l’inizio del mondo moderno si lega ad un’altra data: 1517, pubblicazione delle tesi
contro la Chiesa Cattolica Romana da parte di Lutero.
Nel Medioevo il cattolicesimo costituisce l’unità ideologica dell’Europa: alle frantumazioni
politiche, all’odio tra i sovrani, ora si aggiunge l’odio ideologico: si uccidono le persone che hanno
un’ideologia contrastante. Il Nord Europa si divide dal Sud e le ferite non si rimargineranno più.
In origine è chiamato “età gotica”, termine spregiativo perché deriva dai Goti, quindi sinonimo di
barbaro, rozzo, incivile, di interruzione storica, incidente di percorso. Poi gli Umanisti adottano un
nuovo nome, “media tempestas”, finché nel 600 Keller, erudito tedesco, usa “Medioevo”, età di
mezzo tra civiltà classica e moderna.
Dopo la sua fine, a lungo resta incompreso e denigrato: è visto come l’età in cui le tenebre sono
diffuse sull’Europa. Nel 400-500 l’arte medioevale è definita “gotica”, cioè barbara.
È vero che, quando muore, una civiltà è ridimensionata dalle culture successive che non vi si
identificano; il Medioevo, però, è rimosso con una forza eccessiva, la rivolta contro i padri è troppo
radicale. La condanna permane fino all’Illuminismo, quindi viene allontanato tanto che non è più
possibile comprendere le caratteristiche della sua civiltà dell’essere, antitetica alla nostra cultura
dell’avere.
Sarebbe quindi assurdo pretendere di attualizzarlo; ma è importante liberarci dei nostri pregiudizi e
attraverso la coscienza storica cercare di capirlo.
Si distinguono due momenti:
Alto Medio Evo: la civiltà nasce ed è in ascesa, i valori si formano e si rafforzano: la cultura, a
livello universitario, dà vita alla letteratura latino-medioevale.
Basso Medio Evo: è l’autunno, il declino, in cui i valori iniziano a sfaldarsi, entrano in crisi. Si
usano i volgari e nasce la letteratura italiana.
Nel mondo antico, l’Impero Romano ha una struttura imperniata sull’esercito e sulla burocrazia,
Ci sono gli aristocratici, i cavalieri, le classi medie, gli schiavi. A mantenere il pesante apparato
statale, tramite le imposte, è soltanto la borghesia, il corpo sociale che fa da mediatore: artigiani e
coltivatori. Quando queste classi si indeboliscono, oppresse sempre più dalle tasse, si verifica la
tendenza a fuggire dalla piccola proprietà. Ecco i Gracchi che capiscono quanto sia indispensabile
per la vita dello stato ridistribuire il latifondo. Questo processo, già in atto nel II secolo, diviene
tumultuoso durante l’Impero. Le classi medie continuano ad assottigliarsi sotto il peso delle
imposte, si preferisce diventare funzionari statali o servi stipendiati del latifondista. È la fine del
mondo antico e della borghesia.
Arrivano i Barbari e sostituiscono i Romani. Continua la mancanza della borghesia: grandi signori
diventano proprietari di feudi, piccoli raggruppamenti di case e terre coltivate da una massa di
gente che non è nessuno, lavora e produce il minimo per sopravvivere.
Non ci sono artigiani, commercianti: sono i contadini stessi a produrre il proprio vestiario. È una
società agricola, autarchica, autosufficiente, produce ciò che consuma, tutto fondato sul ritmo
stagionale. Si vive la paura del diverso, del lontano: chiusi in piccole poche certezze, non c’è
l’interesse per ciò che sta al di là, ci si muove soltanto per la guerra e i pellegrinaggi. C’è
movimento di eserciti da castello a castello, di fedeli da convento a convento. Tanti sono i
monasteri, punto di riferimento al di là del castello. La meta principale è Roma, centro della fede.
Altra meta è Santiago di Compostela, dove è la tomba di San Giacomo. La vita è soltanto un
passaggio, in preparazione all’eterno.
Tutta l’Europa è divisa in latifondi, che diventano feudi. Feudatari, vassalli, servi della gleba: è
una società piramidale, dove i rapporti sono personali e si basano su una gerarchia sociale, che
prevede l’obbedienza al superiore, fino al re. È una miriade di realtà, dove la fedeltà è l’elemento
fondamentale, l’unico valore che accomuna tutti e tutto.
Non esiste lo Stato che, nel concetto moderno, è creazione della borghesia, dove la legge è uguale
per tutti. Tutto è precostituito, stabilito: esistono diritti e doveri diversi a seconda del rango.
Tale solidità, però, al suo interno ha due elementi che la minano. Per durare, questo sistema non
dovrebbe mai muoversi. Bisognerebbe evitare qualsiasi frantumazione, il che sarebbe possibile se il
feudatario avesse soltanto un figlio. Invece ne ha molti, perché c’è grande moria. Allora, poiché chi
nasce aristocratico non può essere artigiano o altro, la terra, il potere si frantuma. Si crea un
mondo che perde la sua compattezza, una società di figli cadetti impazienti, pervasi dalla
scontentezza e dalla violenta volontà di ottenere ciò che non hanno. In quanto aristocratici, godono
dei privilegi della loro classe, vivono a corte e non lavorano, ma in realtà non hanno la forza, la
terra, che deriva loro dalla nascita e che considerano un diritto. Eccoli, allora, pronti a battersi in
tutti i modi, poiché addestrati e capaci soltanto a guerreggiare.
Anche l’ortodossia cattolica si è strutturata gerarchicamente: al vertice della piramide è il Papa.
Nasce il dubbio a chi appartenga il primato nel dominio delle coscienze e della società: il Papa o
l’imperatore. Sono lotte fratricide per realizzare la “reductio ad unum”, ridurre a uno.
In Tibet fino al 1951 il Dalai Lama è autorità politica e religiosa, ma nell’Alto Medioevo non è così:
o l’imperatore cerca di eleggere il Papa o il Papa cerca di consacrare l’imperatore.
In Germania i feudi vengono affidati a vescovi per risolvere il problema della loro frantumazione
come conseguenza dei figli numerosi. I vescovi diventano capi di feudo, quindi anche prìncipi:
non
è soltanto una questione di prestigio, donde il contrasto tra imperatore e Papa, per stabilire a chi
debba spettare la nomina dei vescovi e sancire qual è l’autorità superiore – l’imperatore perché
principe o il Papa perché vescovo.
Papa e imperatore non sono sicuri, quindi cercano di accaparrarsi forze, appoggio di classi,
concedendo autonomie, privilegi: portano alla disgregazione, a separare, dividere la società e dare
autonomia alle città.
C’è una certezza unica, il cristianesimo: anche l’imperatore e il Papa si proclamano cristiani.
L’Alto Medioevo crede nell’universo teocentrico: chi fa ruotare tutto il mondo, anche la politica, è
Dio, centro di tutte le cose.
Ecco quindi il principio Credo ut intellegam, credo per capire, se non credo non capisco, è inutile.
Il mondo è illusione, notte, morte, ma di Dio non si può dubitare: è l’unica certezza e fine,
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per Lui e da Lui tutto ha origine e si muove, e a Lui tornerà. La fede può spiegare e giustificare
tutto.
C’è una favola del Basso Medioevo, che esalta ed esemplifica i valori dell’Alto Medioevo.
È in costruzione una grande cattedrale, giunge un mercante, non vede nessuno, poi sente un
martello: sulla guglia un artigiano scolpisce una rosa. Lo ritiene uno sciocco perché rischia la vita e
nessuno vedrà la rosa. L’artigiano, allora, gli spiega che ciò che fa non è per gli uomini, ma per Dio,
la rosa sarà la prima cosa che Lui vedrà.
L’uomo medioevale vede la realtà e vi immagina l’oltranza, che va al di là dell’apparenza. Le
cose sono segni, simboli dell’invisibile e rappresentano dei valori.
È quindi una civiltà lontana dalla nostra, ma non è rozza, è intellettuale, colta: è portata
all’astrazione, a vedere il rispecchiamento dell’idea di Dio nella realtà.
Sant’Agostino nel De Trinitate rivela la vocazione a Dio, alla trascendenza. Vuole cercare la
Trinità nell’interiorità umana: l’anima ha tre categorie – ricordare, conoscere, amare – che serbano
l’idea, l’impronta, l’orma di Dio. Lui non è presente soltanto nella Provvidenza, esterna, bensì nel
nostro spirito e Lo possiamo trovare attraverso l’autoanalisi. Da questo nasce il superamento di ciò
che è terreno, caduco, sino a giungere alla morte, sentita come il contatto, l’intermediario tra noi e
Lui.
La società moderna ha ormai abbandonato il valore trascendente delle cose, l’oltranza di quella
rosa. Si è portati a credere alla referenzialità delle immagini. Se vediamo in TV una pianta, anche
se non la conosciamo, sembra realtà. Si è giunti a conoscere la realtà non per esperienza diretta, ma
attraverso le immagini, pensiamo e sentiamo l’apparenza come vera.
Il Medioevo è civiltà dell’essere, la nostra è civiltà dell’avere. C’era meno nevrosi, perché
ognuno conosceva il posto che gli competeva, era fisso, quindi non entrava in competizione per la
carriera, per lo stipendio. Il ruolo precostituito, però, non permetteva di agire liberamente. Nella
nostra civiltà dell’avere siamo giudicati in base a come ci mostriamo, quindi ci costringiamo ad
apparire ciò che non siamo, da cui nasce la rimozione e la nevrosi. Abbiamo, però, la libertà di
costruirci con le nostre mani, di cambiare status, ciò che non era possibile in una società dove
tutto era fissato.
Riguardo alla cultura, i mittenti erano gli ecclesiastici. Non era importante saper leggere e
scrivere, non solo per il contadino ma neanche per il signore, che preferiva la caccia, i tornei, la vita
militare; quindi la Chiesa aveva il controllo totale e poteva determinare la società ideologicamente.
I destinatari erano i monaci: leggevano, copiavano e trascrivevano testi sacri e letteratura latina (il
greco non si conosce più). Sono loro a tramandare la continuità del pensiero e dell’arte occidentale.
Ecco il loro metodo di diffusione: un monastero aveva a disposizione il manoscritto di un testo, un
monaco lo leggeva e alcuni di loro lo trascrivevano in copie che venivano poi mandate ad altri
monasteri, in un proficuo procedimento di scambi. Dagli eventuali errori, ovviamente presenti in
tutte le edizioni, derivano, per esempio, alcuni versi incomprensibili nel De Rerum Natura di
Lucrezio.
L’Alto Medioevo non ha una concezione altissima dell’arte. Anche la persona colta non ha
l’amore per l’estetica, il bello come valore assoluto, come invece era nell’antichità. L’arte classica
è essenzialmente pagana, quindi perde valore agli occhi dei primi cristiani, che si riconducono alla
teoria platonica. Per Platone esiste il mondo delle idee, fisse, immutabili, l’essere, la vita,
l’assoluto; nella realtà terrena, invece le cose divengono, mutano, quindi sono soltanto imitazione,
un pallido riflesso dell’essere, ombre, illusioni, copie delle idee.
Il mondo è copia delle idee, dunque l’arte, che è copia del mondo, è due volte imitazione. L’arte
quindi diseduca, porta ad illudersi, ad allontanarsi sempre più dalla vita.
Tra mondo classico e Medioevo non c’è interruzione, bensì evoluzione storica.
L’universalità dell’Impero e della Chiesa è la continuità della concezione universalistica romana. Il
codice, cioè la lingua, rimane il latino in tutta Europa, anche per i barbari – l’Editto di Rotari è in
latino. La cultura classica si tramanda grazie ai monaci, che sono gli unici a capire il latino: la
lingua parlata, infatti, non è più il latino, ma già un embrione delle future lingue romanze. La
Messa è in latino, ma la predica è in volgare, nei vari dialetti, per essere capita dal popolo.
All’epoca dell’impero romano l’unità linguistica era dovuta all’insegnamento del latino a scuola.
Con la caduta dell’impero, anche le scuole vengono a mancare e le popolazioni nel giro di una
generazione tornano ai loro dialetti – la cultura è appannaggio di pochi, il popolo, però, fruisce delle
arti visive pittura, scultura, e della musica, canto gregoriano.
Dopo il 1000 il sistema dell’Alto Medioevo entra in crisi – Basso Medioevo
Un segno dell’inizio della fase disgregante sono le Crociate. Sono un tentativo di risolvere il
problema dei figli cadetti, spingendoli a stabilire altrove il sistema feudale. Socialmente l’Europa
soffre di un grave cancro, di cui vorrebbe liberarsi: gente che sa fare soltanto guerra e pretende i
privilegi del rango, ma non può averli. Con il successo della prima Crociata le terre conquistate
sono divise in feudi: è una vittoria, che dura poco, però, ostacolata dall’Islam.
Così, al ritorno, i cadetti, che sono venuti a contatto con altre civiltà, si rivelano ancora meno
disposti ad accettare i nuovi ranghi – motivo di ulteriore crisi.
L’annosa lotta tra Papa e imperatore per stabilire a chi appartenga il primato è un’altra grave
ragione di destabilizzazione. Nel 1122 si incontrano a Worms e cercano di accordarsi, suddividere
le due sfere, unirsi per sconfiggere la nascente terza forza sociale, la borghesia. È tardi, però: il
potere centrale si è indebolito.
In Europa, all’Impero universale dell’Alto Medioevo si sostituiscono le Regioni periferiche con
governi autonomi e si sta configurando la nascita degli stati nazionali, che battono moneta propria.
In Italia c’è un pullulare di comuni, di città: grazie all’autonomia concessa dal potere centrale per
garantirsene il favore, iniziano a dar vita a un governo proprio, che soddisfi le proprie peculiari
esigenze.
Se nel mondo classico le città nascevano per ragioni militari, nel Medioevo sorgono per motivi
economici. Con lo sviluppo del commercio, gradualmente dalla campagna si passa alla città.
Dapprima ci sono scambi di prodotti, poi si passa alla moneta. Contadini che portano i prodotti ai
vescovi vogliono essere pagati in oro, argento, metalli preziosi di cui la Chiesa è in possesso.
È la più grande rivoluzione della storia e mina la società. Hanno inizio i collegamenti, gli scambi
tra città e città: gli artigiani producono e i commercianti vendono.
La nuova economia richiede uno sviluppo sempre maggiore nella produzione, cui consegue la
rinascita della borghesia.
I signori feudali, le cui rendite fondiarie non cambiano, vivono in austerità, mentre in città nasce il
consumo. Per acquistare, anche loro, dai nuovi mercanti, cedono la terra: si crea la piccola
proprietà e, tra padroni e servi, si forma una classe libera che sceglie la città alla campagna.
Le trasformazioni economiche, sociali, politiche determinano anche nuove esigenze culturali.
Mentre il servo della gleba era analfabeta, ora il mercante, che va a Parigi, a Costantinopoli, deve
saper leggere, scrivere e far di conto.
Con lo sviluppo della nuova società i padroni, per competere con la borghesia, sfruttano
ulteriormente i contadini, che si sentono ancora più reietti. Di fronte alla ricchezza degli altri, si fa
strada l’invidia sociale. Non riescono ad accettare il mondo borghese e sono portati a credere alla
fine del mondo, che coinvolge tutti indistintamente – Dies irae, giorno dell’ira, in cui il mondo si
dissolverà in cenere.
In realtà è il mondo della reductio, delle Crociate che sta finendo.

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L’arte che nell’Alto Medioevo non può essere considerata come valore autonomo, capace di
autogiustificazione, viene salvata perché referenziale al divino, per il suo valore eteronimo:
rivolgersi all’altro, cantare Dio, essere ancilla teologiae.
Così San Tommaso insegna ad analizzare l’opera d’arte, distinguendo il significato letterale-storico
dal significato vero, reale. Se nel mondo c’è l’orma di Dio e nell’anima c’è l’idea di Dio, anche
l’opera d’arte profetizza, prefigura l’Eterno: sia per chi compone che per chi legge è essenziale
cercare il valore più alto che ci immette nello spirito, cioè il significato allegorico.
Nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo, si verifica l’abbandono del codice, l’unica lingua della
cultura, il latino.
Una lingua è un’entità viva, soggetta a trasformazioni nel corso del tempo – discroniche – e a
seconda dell’area geografica – sincroniche. La scuola può correggere le evoluzioni, ma il parlato
comincia a perdere la sua regolarità, sia a livello di fonetica che di grammatica e sintassi. Aurum
diventa orum; scompaiono le frasi infinitive – “dico te esse bonum” diventa “dico quod tu es
bonum”.
Nascono le lingue romanze: italiano, francese, portoghese. L’italiano è l’evoluzione del latino. Si
elimina la declinazione, perché crea ambiguità e sarebbe irrazionale avere un’uscita per ogni caso.
Così tutte le uscite si concentrano in un’unica, l’accusativo, da cui deriva l’italiano. Le lingue
tendono a semplificarsi, però hanno bisogno di sfumature, è un’esigenza spirituale. L’uso del
congiuntivo presente nel nostro italiano è praticamente assente in inglese – come lingua troppo
semplificata sente la necessità di ricorrere alle espressioni idiomatiche. Una lingua subisce meno
trasformazioni in un’area isolata: così il latino in Sardegna, in Romania.
Il primo documento europeo scritto in una lingua neolatina risale all’842: è in francese, il
giuramento di Strasburgo, in cui i Franchi e i Germani giurano di mantenere clausole di pace. In
Francia si avrà anche la prima letteratura in volgare.
In Italia il latino è più radicato che altrove: la ragione è la presenza della Chiesa, massima garante
del latino a scapito del volgare. Il latino è difeso nella cultura come lingua di Dio. Anche l’estrema
frantumazione dei dialetti, in Italia, porta a scrivere in una lingua comune per favorire la diffusione
del libro. Se fine della cultura è proprio la diffusione, un libro scritto in un dialetto resta messaggio
vuoto in altre zone: il latino resta indispensabile.
In Francia si dà l’avvio alle letterature occidentali post-classiche. Vi si distinguono due blocchi: il
Nord, con la lingua d’oil = sì; il Sud, la Provenza con la lingua d’oc = sì. Sono due mondi
diversi. Dopo Carlo Magno, si verifica una frantumazione feudale: i signori del Sud, dell’area
mediterranea, sviluppano un’organizzazione, un sistema di vita e una cultura diversi.
Al Nord, attorno al 1100, si sviluppa al massimo la civiltà cavalleresca, molto legata al mondo
dell’Alto Medioevo.
Il Nord si conserva agricolo, pre-urbano, pre-borghese, basato sui valori di fedeltà, di obbedienza.
È però un feudalesimo particolare: ci sono tanti cavalieri – i figli cadetti, elemento di tensione
nell’Alto Medioevo. C’è una novità: un burocrate, un ministro può avere l’investitura di cavaliere,
diviene aristocratico, assume i diritti propri di quei nobili che però non hanno la terra, un potere
effettivo. Si specializzano nelle armi e assolvono il compito di sostenere i signori feudali a
combattere la borghesia. È la prima volta che la casta aristocratica, tradizionalmente chiusa, si
apre sino a diventare una classe sempre più articolata e disordinata. La Chiesa cerca di cristianizzare
il nuovo cavaliere e lo manda per il mondo a raddrizzare i torti. Difendere i deboli e gli oppressi: è
il cavaliere errante, libero, puro – Don Chisciotte ne è simbolo, in parodia.
Ora che sta per finire, il feudalesimo tenta di giustificarsi. La società feudale si era sempre basata
sulla forza, a dominare incontrastata imponendo doveri; ora, giunta al tramonto, sente il bisogno di
giustificazione in nome della lealtà, della bontà e del disinteresse.
Il mondo cavalleresco ha la sua cultura che lo esalta e vuole produrre libri dove i cavalieri puri,
gentili, moderati si rispecchiano: non conoscendo il latino, scrivono in lingua d’oil. È prodotto di
cultura monastica.
Come nell’Alto Medioevo, sono ancora soltanto i monaci a produrre libri, ora in volgare, anziché in
latino, perché devono essere compresi dai cavalieri, che parlano la lingua d’oil, ed essere diffusi a
corte, nei castelli – nasce la figura dei clerici vagantes.
I poemi cavallereschi cantano il valore dei cavalieri, l’onore, la fedeltà a Dio e alla Chiesa, gli
ideali teologici difesi nelle Crociate contro l’infedele. Il primo famoso poema è la Chanson de
Roland.
Questa letteratura esalta le imprese di Carlo Magno e dei paladini di Francia contro i Mori, gli
Arabi: nascono dei miti, Roncisvalle, Rolando, ancor oggi valorizzati.
Sulla scia della Chanson de Roland si inserisce un ciclo di letteratura romanza: non spezza la
cultura monastica, nasce dal suo stesso seno.
Fino alla sua riscoperta in biblioteca ad Oxford nell’Ottocento, questa letteratura rimane
dimenticata nel mondo borghese. Sono, infatti, rimossi i valori dell’amore, del disinteresse, della
parola data, dell’onore, l’etica dell’essere: sono l’esaltazione di un mondo anti-borghese.
Il passaggio all’oblio, comunque, è lento: i clerici vagantes vanno per l’Europa cercando corti,
ambiti dove questi valori sussistono. In Italia trovano terreno adatto nel Ducato di Casale e
Saluzzo, dove permane il feudalesimo e si parla un dialetto francese. In Veneto, in Trentino, nella
zona del Garda, invece, nasce una letteratura franco-veneta, stranissima, un miscuglio di francese
e veneto, una lingua inventata. Nonostante ci sia ancora la struttura feudale, qui si sentono gli
influssi della società borghese, dei comuni: gli eroi perdono astrattezza, diventano più concreti –
Orlandino, Orlando giovane, si reca alla corte di Carlo Magno e si distingue non per imprese
grandiose, ma perché mangia tantissimo.
La letteratura cavalleresca in lingua d’oil, non dà origine a grandi capolavori, né a sviluppi per la
futura poesia moderna. I valori astratti e spirituali del feudalesimo non hanno prefigurazione di
società futura, ma di civiltà ormai in declino.
Mentre il Nord della Francia volge al tramonto, il Sud invece è dinamico e proiettato verso il
futuro. Le Crociate sono un momento di espansione dell’Europa, anche commerciale; la società si
apre ai contatti, flotte di navi europee solcano di nuovo il Mediterraneo che torna ad essere il centro
economico, via di unione, quindi le nazioni ad esso affacciate, diventano più ricche e potenti.
Le corti di Italia, Provenza, Catalogna si espandono. La ricchezza ruota attorno al Mare Nostrum
dei Latini. Si diffonde la mondanità, il gusto per l’eleganza, la raffinatezza, la poesia, la musica.
Navi cristiane vanno e navi arabe arrivano: il contatto con gli altri genera il confronto, il dibattito, si
mettono in dubbio i dogmi, la reductio, nascono le eresie.
C’è la valorizzazione delle donne, finora assenti giuridicamente perché il feudo era assegnato
soltanto ai maschi. La donna diventa fulcro della vita sociale e via di salvezza; le chiese non sono
più dedicate ai Santi ma alla Madonna.
Mentre il Nord ha i poemi cavallereschi, i clerici vagantes ed è geograficamente circoscritto, perché
i suoi valori sono in declino, il Sud ha la società cortese e dà vita alla lirica trobadorica.
In passato la letteratura era solo ancilla teologiae, al servizio di Dio, i monasteri erano la culla della
cultura, appannaggio della Chiesa, degli ecclesiastici; ora i trovadori sono i nuovi intellettuali,
poeti per professione, che decidono di essere tali per tutta la vita.
La società del Sud subisce una forte trasformazione, che rispecchia il suo dinamismo: si diffondono
i valori borghesi, tesi al commercio, al mondo concreto più che allo spirito e alla fede assoluta. I
signori di Provenza esaltano la liberta di idee, la spregiudicatezza, una cultura laica invece che
teologica, crolla la reductio.
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La nuova letteratura dalla Provenza trova i centri di maggior diffusione a Genova, Marsiglia,
Barcellona e in Germania, nella zona lungo il Reno. In particolare a Genova si rafforza la nuova
civiltà borghese, grazie agli scambi e ai commerci.
Così trovano terreno fertile i componimenti in lingua d’oc. Tramite i trovadori, che passano da una
nazione all’altra, da una corte all’altra, per via mare, viaggiano anche le idee, stimolo per le
letterature nazionali. Il Provenzale diventa la lingua di cultura, perché testimone di superiorità
intellettuale, la lingua della poesia lirica in Italia e in Europa.
Non è poesia da leggere, ma da recitare, da cantare, accompagnata da liuto e altri strumenti a
corda. Privilegia il significante, la forma, la musicalità della parola, in questo senso è moderna.
Anche il contenuto è nuovo. L’amore provenzale cortese rappresenta il rapporto dell’uomo che
corteggia la donna, la quale è sublimata, come oggetto alto di amore.
Ecco il cliché: l’uomo dedica amore alla donna, tradizionalmente non sua moglie, bensì la donna di
un altro; le promette totale fedeltà ed è pronto a morire piuttosto che esternare il sentimento. È
quindi amore basato sulla menzogna, che però ha effetto liberatore in una società dogmatica. La
menzogna permette all’amore di esistere e prosperare al posto del dogma, che viene aggirato e
distrutto.
La bugia di Isotta è presa ad esemplificazione di questa liberazione e legittimazione del sentimento.
Isotta, sposata a re Marco, ama Tristano. È accusata di avere un amante ma lei lo nega: deve
accettare la prova di Dio e camminare sui carboni ardenti. Se dirà la verità, Dio la salverà, altrimenti
sarà punita. Allora chiede a Tristano di vestirsi da mendicante e, la mattina della prova, di aspettarla
presso un ruscello che separa la sua dimora dalla piazza dove avverrà la prova. Tristano l’aiuta a
passare il ruscello; quando il vescovo le chiede se ha avuto rapporto con un uomo, risponde che è
stata toccata solo dal marito e da quel mendicante.
Non mente, ma la sua ipocrisia distrugge quei dogmi, quelle prove di Dio che erano proprie del
feudalesimo. Isotta è il simbolo di un mondo che cambia, di donna padrona del suo destino, che
vuole salvare l’amore. Anche se è adultera, Dio non la punisce: l’amore di Isotta è puro, ciò che
vale è lo spirito, la purezza; tra marito scelto per forza e amante scelto liberamente, Dio è per
l’amante.
Amore cortese, perché uomo cortese, vassallo della donna.
Perché questa civiltà trova la sua espressione migliore proprio in Provenza? Nessuna genesi
culturale è esaustiva, soddisfacente. Non esiste rapporto con la poesia classica: l’amore antico è
carnale, sensuale – Catullo, Properzio; i trovadori cantano la fedeltà, la purezza, l’amore come
spiritualità.
Nel mondo classico protagonista è l’uomo e i suoi valori precipui sono il coraggio, l’onore,
l’amicizia virile che porta a combattere insieme, la missione politica: la donna è oggetto, proprietà
dell’uomo. Il pensiero di Ulisse va ad Itaca, non a Penelope e, quando torna, ne riprende possesso,
come della casa. Ad Achille tolgono la schiava, che lui aveva avuto a gratificazione del suo
coraggio: è il suo onore ad essere oltraggiato, per questo si ritira dalla guerra.
Non c’è valida intertestualità con il mondo antico. In Provenza nasce l’amore come educazione,
ci si educa al bello, alla tolleranza, l’uomo si migliora imparando la dolcezza, la tenerezza: l’amore
è un modo per crescere, perfezionare l’anima.
Dal Medioevo maschilista, fondato sulla forza, in Provenza emerge la donna al centro di una
nuova società, basata sulla tolleranza, sulla pace.
Si tratta di una genesi ideologica, sociale. Avviene la trasposizione del rapporto sociale vassallo-
signore nel mondo di relazioni intime.
In Provenza, all’epoca delle crociate, gli uomini partono e rimangono le mogli a gestire il
vassallaggio sociale. Alle corti provenzali, nella vita quotidiana il vassallo trova la castellana e le
sue cameriere, donde l’abitudine ad omaggiare, mitizzare la signora, la donna che acquista anche un
potere sociale.
In Francia si sviluppano quindi l’antica feudalità al Nord e la società ingentilita al Sud. In
seguito si fondono e danno vita ad una terza cultura. Come avviene?
Una principessa provenzale, Eleonora d’Aquitania, nipote di Guglielmo IX il Trovadore, sposa
Enrico conte d’Angiò, principe della Francia del Nord. Va a Parigi e porta con sé i suoi libri e i
trovadori: avviene un incontro stabile tra gli intellettuali al seguito di Eleonora e i clerici vagantes
del Nord.
Nasce una letteratura romanzesca: si preferisce la prosa, i temi sono la guerra e l’amore – Re
Artù e Isotta – in lingua d’oil.
È destinata anche a diventare patrimonio del popolo: avventurosa, fantastica, di evasione.
C’è una novità: il libro non è più recitato o cantato, è letto. Diventa quindi possesso pubblico.
Anche il messaggio è sconvolto. Se il poema recitato deve essere lineare, chiaro, nitido, adesso
nasce una struttura più complessa, intellettuale, con più personaggi. I destinatari sono soprattutto le
donne e vogliono storie d’amore: nasce il romanzo d’amore, ancor oggi esistente in forma diversa.
Per quanto riguarda la cultura per il popolo, nel Medioevo non c’è il suo coinvolgimento né nella
guerra né nell’amor cortese.
Il popolo consuma cultura visiva. I monaci leggono la Bibbia e il popolo la conosce attraverso i
dipinti, nelle chiese. C’è anche la cultura orale, quindi scarsissimi sono i documenti. Nei giorni di
festa, nelle sagre, al mercato spesso giunge nelle piazze un giullare, che racconta storie, avventure,
e a lui va l’obolo della folla. Non è poeta, ma intrattenitore di piazza: la cultura ha carattere
realistico, comico, con battute spesso sconce, volgari. Ecco perché a Viterbo si proibisce lo
spettacolo dei giullari vicino ai conventi. L’interesse è per i fatti, l’azione che cattura l’attenzione e
fa ridere; i personaggi sono definiti in modo sommario, rozzo, senza alcuna analisi psicologica. Non
è cultura di contrapposizione, ma è subcultura.
L’unico testo di letteratura giullaresca, tramandato in originale, risale al 1200. È il Contrasto
Rosa fresca aulentissima scritto da un poeta siciliano colto, di cui si sa poco o nulla, Cielo
d’Alcamo. Il Contrasto è un dialogo d’amore, dove si scontrano due posizioni opposte: è l’unico
documento in cui si può ricostruire il dialetto siciliano dell’epoca.
È famoso poiché Dante, nel De Vulgari Eloquentia, lo cita e dichiara: i poeti della Scuola Siciliana
alla corte di Federico II sono colti e raffinati, tranne uno che scrive versi molto rozzi come il 3°
“tràgemi da queste fòcora, se t’este a bolontade” (traimi da questi fuochi, se ti è in volontà – se
vuoi). Dante però è un po’ scorretto: per trovare un verso rozzo nel “Contrasto” deve citare il terzo,
perché i primi due sono raffinati. Se non ci fosse giunto il testo, il nostro giudizio sul
componimento sarebbe stato errato. Certo la lingua non è squisitamente siciliana, è un mélange di
dialetti – siculo, campano, pugliese.
È vero però che, essendo un poeta colto, il suo è un linguaggio ipotetico: dovendo far parlare in
dialetto, deve costruire con tutte le forme che conosce, è metalinguaggio, è un linguaggio
d’infrazione. Cerca di imitare il popolo, la rozzezza non risulta istintiva, ma voluta. L’amore
cortese è volgarizzato, ridicolizzato. È gente del popolo che vuole darsi un tono, sono due popolani
che vogliono fare gli snob – lei reticente, lui poeta, raffinato. Ecco che si inseriscono parole, forme
antiche, topos trobadorici: magione è un francesismo di derivazione colta, pulzella è pure un
provenzalismo.

Dopo il 1000-1100, la nascita della società borghese, dell’avere, crea forti tensioni sociali. Nelle
città lo sfruttamento borghese, l’ostentazione della ricchezza portano ad una diffusa sensazione di
inquietudine, di iniquità in coloro che sono poveri.
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Nell’Alto Medioevo la Chiesa era di aiuto a chi aveva problemi per vivere; ora anche la Chiesa si
mondanizza e diventa potentato economico, tesa ad accumulare. Cresce quindi la sfiducia del
popolo nel magistero.
Il Vangelo predica la povertà, quindi la Chiesa ricca è peccato, è la più colpevole. Si diffonde la
predicazione contro i ricchi, la massa dannata, i peccatori assoluti, cui si contrappongono i poveri,
gli unici a essere “beati”; quindi la tendenza a non sentirsi obbligati a continuare ad ubbidire a quei
sacerdoti e vescovi che sono indegni – i sacramenti sono validi soltanto se impartititi da sacerdoti in
stato di grazia. È la fine della reductio, quindi c’è la disgregazione ideologica, l’eresia.
Anche le Crociate condizionano il sorgere delle eresie: il contatto con la civiltà orientale, più
aperta e tollerante, apre la mente: diminuisce la fiducia nella Chiesa.
Nell’Italia del Nord sorgono le eresie patarine (dei poveracci, straccioni) che seguono i
predicatori e giungono alla rivolta contro il Vescovo. Ci sono anche predicatori borghesi, come
Pietro Valdo, che lasciano tutto e predicano la povertà: numerosi sono i proseliti, i Valdesi, unica
eresia ad esistere ancora oggi. Crollano i valori di mille anni, quando si credeva nel Papa e nei
dogmi della Chiesa.
In Provenza, si diffonde l’eresia degli Albigesi (da Albi) o catari (puri). In Italia Papa Innocenzo III
bandisce la crociata contro gli Albigesi: cosa mai vista, i cavalieri vestono la croce non contro
l’Islam, ma contro gli eretici.
La Francia del Nord invade il Sud. La Provenza è dichiarata terra di conquista, non ha più diritti.
La civiltà provenzale è spazzata via da orde di cavalieri, massacrano anche i signori feudali, radono
al suolo città di grande civiltà, estirpano l’eresia. Si estingue la cultura e la lingua d’Oc.

IL VOLGARE

Nel Nord Italia, l’eresia patarina è diffusa: molti sono massacrati o arsi al rogo. È proprio in questi
ambienti eretici a nascere la letteratura italiana in volgare, nel 1200-1250. I mittenti sono i
poveri, gli analfabeti, quindi al posto del latino si usa il volgare. Anche le prediche in piazza sono in
dialetto.
Sono scrittori di poesie religiose, che non ricercano il bello, i valori estetici, ma mirano ad
ammaestrare il popolo.
È una letteratura senza storia, rimossa e dimenticata sino al secolo scorso. Le ragioni sono
ideologiche, poiché sono opere in odore di eresia, quindi contrastate dalla Chiesa, e al codice latino
si sostituiscono i dialetti regionali. Denunciano però un grande dibattito culturale al Nord,
costituiscono un fatto culturale.
Il maggiore rappresentante è Bonvesin de la Riva.
Appartiene alla congregazione dei frati Umiliati, legati al movimento pauperistico della Pataria, che
invitano all’umiltà, alla povertà. È uno dei monaci per il popolo e il suo messaggio religioso o
moralistico vuole essere educativo. Comprende le esigenze di libertà di un popolo lavoratore,
ignorante ma onesto, forte, e mira ad ammaestrarlo, a renderlo migliore.
Bonvesin è anche espressione della disgregazione del mondo dell’Alto Medioevo: non è votato
soltanto alla teologia ma anche alla propaganda borghese. Da uomo colto, scrive anche opere in
latino, tra cui De Magnalibus Mediolani, un’esaltazione della sua città: questo perché vuole che sia
conosciuta nel mondo.
Il De quinquaginta curialitatibus ad mensam è un esempio di cultura che si laicizza: mette in versi
regole di comportamento a tavola, è un piccolo galateo, al fine di soddisfare esigenze sociali, di vita
comunitaria.
È il nuovo intellettuale del tardo medioevo, aperto a nuove esperienze. Muore nel 1313, quando già
sono nati Dante, Petrarca, Jacopone da Todi, Marco Polo.
Scrive anche il Libro delle tre scritture: scrittura negra, dove descrive le pene dell’inferno;
scrittura rossa, che racconta la Passione di Cristo e il dolore della Vergine; scrittura aurea, che
esalta i gaudi del Paradiso.
La rappresentazione dell’Inferno è molto concreta, rozza – diavolo con forcone e coda. Anche il
Paradiso è tangibile, come può essere compreso dal popolo. Non esiste il Purgatorio e questo fa
supporre che avesse dei dubbi in merito: preferisce non parlarne, forse è un po’ eretico, dal
momento che gli eretici rifiutano l’esistenza del Purgatorio. L’Inferno è per l’anima in peccato
mortale; il Paradiso per l’anima senza colpa.
I Padri della Chiesa credono nelle realtà rivelate – Inferno e Paradiso. Si diffondono, però, delle
leggende relative a monaci (San Patrizio) che testimoniano l’esistenza del Purgatorio. Il concetto
può essere accettato da un punto di vista razionale. Normalmente si pecca e ci si pente: l’anima si
salva, ma è ancora indegna perché ha commesso la colpa, quindi necessita del Purgatorio per
purificarsi dalla disposizione psicologica al peccato. Poiché ciò che si fa sulla terra è valido in
eterno, c’è continuità tra vita e morte, l’umanità è un corpo unico, allora chi è vivo intercede per chi
è morto e viceversa.
Quando la Chiesa offre l’indulgenza per accelerare il processo di purificazione, l’argomento
diventa scottante. Gli strali, le invettive si moltiplicano da parte degli eretici. Ritengono che il
Purgatorio sia un’invenzione di classe, della Chiesa per salvare i borghesi. Loro sono ricchi, quindi
possono pagare, ma collegare il denaro alla salvezza spirituale è atroce, l’indulgenza è degradante.
Il fine del poeta resta didascalico, fa riferimento alla religiosità da predicatore, non da teologo: è
rivolto al popolo, dà insegnamenti per salvare, è ars ancilla. Il modo, però, in cui si realizza il
discorso rivela l’influenza della cultura mondana, laica. Parla infatti della Madonna – centralità
della donna come mezzo per la salvezza, oltre a Dio.
Al di là del dibattito ereticale, esistono eresie particolari, millenaristiche: predicano, auspicano la
fine del mondo. Mentre nel Nord Italia nasce la cultura rivoluzionaria per le tensioni sociali contro
la nuova società borghese, al centro si verificano rivolte contro il presente, la nuova povertà: invece
di ipotizzare una nuova società, pensano alla fine del mondo, perché Dio è stanco degli uomini.
Arrivano i predicatori e decine di migliaia di persone li seguono, pronte a martoriarsi per salvarsi.
È un mondo che sta finendo, sarà seguito dall’Umanesimo, dal Rinascimento, ma loro non hanno
strumenti per vedere oltre. Le masse di poveri vedono nella fine del mondo la soluzione della loro
vita che è diventata invivibile.
Gioacchino da Fiore, asceta, monaco poi rifiutato e condannato come eretico, interpreta
l’Apocalisse di San Giovanni e vede segni di fine. La parola, il sacrificio di Cristo, prova di sommo
amore non sono stati capiti, la prevaricazione ha preso il sopravvento sulla bontà. I tempi, quindi,
sono maturi per la fine. La profezia si estingue nel nulla. In centro Italia sorge la borghesia, si
formano i comuni, si accendono i cambiamenti.

SAN FRANCESCO D’ASSISI

Nel 1180 nasce il grande Santo e intellettuale, autore del primo vero capolavoro di letteratura
italiana, il Cantico di Frate Sole.
Il suo primo nome è Giovanni, poi il padre, tornato dalla Francia, gli dà il soprannome di “piccolo
francese”. Cresce in una famiglia agiata, dove si vive una cultura d’evasione, affascinato dal mito
dei Cavalieri della Tavola Rotonda – Re Artù, Lancillotto, Ginevra.
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È colto, conosce un po’ di latino, il provenzale, partecipa alla guerra, ma quando torna è diverso,
ama e predica la povertà, la pace e si ribella ai soprusi dei potenti e della ricchezza.
Figura emblematica e tra le più affascinanti nella storia dell’umanità, ha ispirato l’arte,
l’estetica senza creare grandi miti, eroi popolari. A lui Giotto ha dedicato il famoso ciclo di dipinti
ad Assisi.
Ha inciso profondamente sull’inconscio e sull’immaginazione collettiva, l’unico ad essere sentito
ancora attuale come portatore di valori quali pace e natura, la cultura dei figli dei fiori. È
straordinario che una persona appartenente alla gerarchia intellettuale ufficiale continui a vivere
ancora oggi. È la sua visione del mondo ad essere sempre valida.
È l’unico capace di realizzare una sintesi storica, tra ortodossia cattolica ed esigenze ereticali.
San Francesco riconvoglia le masse povere verso la Chiesa, le riconduce all’obbedienza al Papa.
Con San Damiano assolve la funzione di riconvertire la Chiesa al recupero della povertà in senso
ortodosso. Dà dignità alla povertà, senza spingere ad eliminare i vescovi. I suoi frati diventano
l’unico collegamento tra potere e povertà, mediano le istanze del potere e della prevaricazione con
la condizione delle masse.
San Francesco ha cambiato il corso della storia, è il più grande Santo della cattolicità dopo Cristo: è
il primo Santo a ricevere le stimmate, segni di passione.

Cantico di Frate Sole.

Altissimu, onnipotente bon Signore,


Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se konfano,


et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,


spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi Siignore, per sora Luna e le stelle:


il celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate Vento


et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.


la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi Signore, per frate Focu,


per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra,


la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infermitate et tribulatione.

Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,


ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,


da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate


e serviateli cum grande humilitate.

L’ordine mendicante cui appartiene Francesco, risposta ortodossa alle eresie, è un movimento
pauperistico anomalo, che Papa Innocenzo e Papa Onorio non vogliono riconoscere.
Francesco scrive il suo capolavoro non con finalità estetizzante, ma conativa, morale: compone una
preghiera per i suoi confratelli, perciò in dialetto assisano illustre, affinché possano capire
mentre pregano.
Non volutamente, ma inconsciamente, Francesco è poeta e crea uno dei testi più belli e più
clamorosamente celebri.

Il Cantico di Frate Sole è il primo capolavoro estetico, poetico, artistico della letteratura
italiana, in volgare. È strana composizione, in bilico tra prosa e poesia. È prosa perché ha
caratteristica iconografica, ma in realtà non si realizza il riempimento degli spazi. D’altra parte, non
è poesia, perché manca la rima, la misura metrica. È prosa ritmica, prosa spezzata secondo un ritmo
che non ha regole.
Secondo l’antica leggenda francescana, Francesco avrebbe composto il Cantico due anni prima
della morte, dopo una noce obscura, affetto dalla cecità e da acute sofferenze fisiche nella sua cella
invasa da topi: una notte senza la luce di Dio, in cui arriva a disperare la salvezza. Quando si
risveglia, è tornato in pace e crea il suo canto di gloria a Dio, a ringraziarlo della ritrovata fede.
Certi critici vogliono così vedere la prima parte come espressione di equilibrio e serenità
contrapposta all’ultima parte, cupa e tragica. In realtà il canto è coerente, ha consequenzialità
logica, concettuale e stilistica.
Per quanto riguarda il titolo, al di là di tesi diverse, i biografi testimoniano che, quando lo citava,
Francesco amava chiamarlo “Frate Sole”, anziché con il termine latineggiante Laudes creaturarum.
Una parola fondamentale nell’antropologia francescana è l’umiltà: come sostiene Tommaso, non è
umiltà di mentecatti, bensì consapevolezza dei propri limiti, che porta alla magnanimità, alla
grandezza, sentita non come fonte di superbia, ma espressione di Dio.
Francesco sintetizza l’etica del cristiano: amare, realizzare la pace, perdonare il prossimo
sull’esempio di Cristo che ha dato la vita per salvare l’uomo, ristabilendone il giusto rapporto con
Dio.
Nasce l’umile gioiosa accettazione di tutta la vita che palpita con noi e attorno a noi – essa
proviene da un Dio che è gioia suprema, amore, bontà, quindi non può che avere un significato
altissimo, una profonda bontà e bellezza. Ne sono chiara espressione tutte le cose, l’acqua, il sole, la
luna, la terra, il fuoco, i fiori, le stelle, armoniosamente disposti in questo grandioso universo, a
mostrarci la grandezza del Creatore e l’utilità alla nostra vita. Possiamo quindi sentire la presenza
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buona e paterna di Dio per tutto il creato e sentire fratelli tutti gli esseri, nati, come noi,
dall’unico Padre.
Non solo la natura, ma anche il dolore e la morte fanno parte di questa armonia superiore: dobbiamo
accettarli con serenità, ci avvicinano al Creatore e ci pongono in comunicazione con la Verità,
l’ultima vera realtà.
Francesco salva le cose semplici e vale la pena di vivere per vederle: è cultura dell’essere, esalta le
cose non mercificabili, non si possono comprare perché appartengono a Dio.
Esprime in una lingua semplice un contenuto, dei concetti che prima si comunicavano soltanto
in latino. Di qui l’infrazione, la poesia nata nell’unità di significato e significante.
Il mondo ruota intorno a Dio e alla morte (luogo di Dio), l’essere è racchiuso in questi due elementi
metafisici.

C’è la medioevalità, il teocentrismo, ma è moderno, è Basso Medioevo. Dio rimane centrale, ma


non è più il Dio del credo ut intellegam dell’Alto Medioevo, incomprensibile, troppo alto, signore
onnipotente del mondo le cui creature sono in stato di vassallaggio. Ora si mette in evidenza la Sua
bontà: è una categoria, questa, di cui anche noi siamo partecipi, quindi Lo fa scendere più vicino
all’uomo. Il termine buono è più moderno, democratico.
Protagonista è la natura, intesa come celebrazione di Dio. Sole, luna, stelle, vento, acqua, fuoco,
frutti, fiori: è la scelta coerente di elementi che da sempre fanno parte della simbologia metafisica,
della teologia, usati per significare Dio.
Il Sole in natura è elemento luminoso, fonte di luce, e la luce è simbolo di Dio. C’è chi sostiene che
Francesco canti la luce perché, quando scrive il Cantico, è gravemente affetto da cecità e difficoltà
fisiche. Alla ragione culturale, teologica, può aggiungersi quella biografica, psicologica.
Il Fuoco è la prima manifestazione di Dio, che appare a Mosè nel roveto ardente.
Il Vento – porta bel tempo – è già noto come metafora di libertà dello spirito, porta quindi a
significare l’eterno.
L’Acqua è elemento di cui si serve la liturgia per celebrare il battesimo: è simbolo di grazia di
Dio, purificazione, strumento di riconciliazione con Lui.
Fiori e Frutti significano valori spirituali: anche nella Messa il vino e il pane sono frutti della
terra.
Elemento moderno è guardare, valorizzare il mondo: per questo Burdach porta San Francesco a
prova della sua concezione di Rinascimento come continuazione del Medioevo.
Ma Francesco esalta il mondo in funzione di Dio: l’uomo e le cose ricevono da Dio la ragion
d’essere. Eppure le creature hanno già altri valori. Il mondo è vivo secundum deum (Casella),
ma anche secundum se et hominem, autonomamente e dal punto di vista dell’uomo.
Il Sole è secundum Deum, come luce simbolo di Dio; ma è secundum se quando lo definisce bello e
portatore del giorno, gli attribuisce un connotato che oggettivamente riguarda esso stesso: quando
illumina gli uomini, allora è secundum hominem.
L’acqua è rapportata a Dio, quando è definita casta, umile; agli uomini, quando usa il termine utile.
Il Cantico, quindi, come mondo visto secundum Deum, è Medioevo; all’interno, però, ci sono
giudizi che lo valorizzano sul piano concreto, oggettivo. La visione della realtà si allontana
dalla purezza teologica, la rispecchia, ma è un po’ inquinata, più moderna.

SECONDA GENERAZIONE DI SCRITTORI UMBRI

Francesco è la personalità più grande del 1200, carismatica, forte e il suo Cantico è il massimo
capolavoro poetico del secolo.
Francesco fonda un ordine la cui regola è nuova: nessun possesso, nessun priore che comanda.
L’uguaglianza è l’idea democratica che prende il posto della gerarchia. Ci sono perplessità, infine
il Papa approva l’ordine.
Quando Francesco muore, non ci sono più personalità capaci di difendere la sua eredità santa: la
Chiesa cerca di impadronirsene. Si concede di possedere: non sono beni dei frati, ma del convento,
quindi non si tradisce la povertà del Santo fondatore. Poi si cerca di regolarizzare l’ordine, per
poterlo controllare si torna alla gerarchia.
Molti non accettano, seguono liti, persecuzioni, fino alla creazione dei partiti: i conventuali, a
favore del Papa; gli spirituali, a favore dell’eguaglianza e della povertà.

Dopo la morte di Francesco, Jacopone da Todi, all’età di 32 anni, entra in convento.


Nasce in Umbria, da famiglia abbiente borghese, fa studi regolari e diventa notaio. Si sposa, ma nel
1268, mentre è diffusa l’inquietudine epocale per l’attesa dell’Apocalisse prevista da Gioacchino da
Fiore, accade un fatto molto grave. Durante una festa da ballo, crolla il pavimento e la moglie, tanto
amata, muore. È colpito profondamente e comincia a pensare.
Quando viene recuperato il cadavere, scopre che questa donna, che lui credeva semplice e lontana
da idee metafisiche, si umilia con il cilicio: è qualcosa di inaudito, a lui ignoto. Resta affascinato dal
mondo francescano, rifiuta la ricchezza e sceglie gli Spirituali, vivendo l’esperienza in maniera
radicale.
Morto il Papa, verso il 1290 si tiene un conclave dove prevalgono le tesi degli Spirituali: è una fase
di rinnovamento, voluta da Papa Celestino V, eremita, avulso da interessi di potere. Ben presto,
però, Celestino fa il gran rifiuto, come dice Dante. Non può accettare il mondo di corte fatto di
intrighi e manipolazioni, quindi è incapace di gestire il pontificato come lui vuole.
Gli Spirituali accusano Bonifacio VIII, il nuovo Papa, di aver costretto Celestino ad abdicare con la
forza, per poi ucciderlo.
Quando Papa Bonifacio VIII li condanna, gli Spirituali, tra cui Jacopone, firmano un audace
manifesto contro di lui, Papa simoniaco, quindi indegno di obbedienza. Jacopone è coinvolto nella
lotta della potente famiglia dei Colonna contro il Papa e viene scomunicato. Nel 1298, Bonifacio
espugna la rocca di Palestrina, estremo rifugio dei Colonna, e Jacopone è incarcerato. È liberato e
assolto dalla scomunica cinque anni dopo da Papa Benedetto XI; tornato in convento, muore dopo
circa due anni.
La sua opera poetica è rappresentata dalle Laudi, scritte in volgare. Le laudi sono componimenti in
versi nate in Umbria nel 1200 all’interno di movimenti religiosi come i Flagellanti e i Millenaristici.
Tutte le poesie di Jacopone sono teologiche, parla soltanto di Dio (reductio) onnipotente, non
buono, il Dio dell’Alto Medioevo; c’è, però, la novità, la lotta contro l’autorità del Papa.
Jacopone è poeta? La critica ha tesi contrastanti.
All’inizio del Novecento, Novati sostiene che non è un poeta, ma un mistico-teorico, contrapposto a
Francesco mistico-pratico. Il mistico attraverso l’estasi parla con Dio, cerca il contatto con Lui e lo
teorizza in versi.
Sapegno, negli anni ’30 del 1900, ritiene che Jacopone cerchi la poesia e si arrabbi perché non la
trova. È una stroncatura, tesi denigratoria.
Allora mistico o poeta?
Luigi Russo dà la risposta corretta: non è poeta-mistico né mistico-teorico, ma mistico-poeta.
È un monaco che cerca la salvezza attraverso il misticismo, ma vuole fare poesia. Nasce il laudario,
non bello, ma con parti che rivelano il poeta.
Il poeta è chi cerca il linguaggio, l’infrazione, e Jacopone vuole trovare la parola capace di
convertire, di tradurre il suo misticismo in volgare.

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La concezione del mondo. Jacopone ha una visione fortemente pessimistica: non ha fiducia nella
realtà, non ama il mondo, i suoi simili. Vive una continua tormentosa battaglia nella ricerca di una
fusione mistica con Dio, che è un morire a sé stessi e al mondo.
È ben lontano da Francesco, che realizza la dottrina dell’amore per il creato intero, per tutti gli
esseri, nella serena capacità di accettare il dolore e la morte come componenti della vita.
Francesco vive con gli altri, Jacopone si chiude nella solitudine, nell’annullamento in Dio.
Attraverso il disprezzo di sé stesso, la volontà di annichilire il suo corpo, pensa di potersi liberare
della natura umana che è misera e peccaminosa, per giungere all’amore mistico.
Jacopone è affetto da nevrosi, che consiste nel suo esasperato pessimismo e si scarica nella violenza
contro gli altri e contro sé stesso. Prega Dio di mandargli la malattia, il male, il dolore fisico, fino a
martoriarsi.
Mentre Francesco pone la morte alla fine del suo Cantico, Jacopone la mette al principio: l’incubo
della morte fa giudicare la vita, la deprime, la odia. Come dice Sapegno, il suo pessimismo genera
la sua solitudine: si sente diverso, orgogliosamente solo, non sa amarsi, quindi non è capace di
amare gli altri. Francesco loda le creature, Jacopone non ne parla, le disprezza.
Misticismo e ascetismo assoluti, cioè rifiuto del mondo, anche delle piccole buone cose della vita:
questa visione del mondo tradotta in realtà estetica determina il problema stilistico.
O jubelo del core. Jacopone vuole descrivere l’ebbrezza mistica, l’estasi in cui l’anima si sente
compartecipe di Dio, viva nella vita eterna, posseduta per un istante e intuita.
Ha avuto la visione di Dio, ma la parola non sa esprimere tale esperienza. C’è discrepanza tra
l’infinito del referente – Dio – e la finitezza del codice – la parola.
Vuole esprimere la gioia psicologica interiore, ma la lingua balbetta, è poesia metalinguistica,
poesia che si interroga sulla lingua: la consapevolezza della sua impossibilità di esprimere Dio lo
rende poeta. Se per Francesco l’indegnità dell’uomo di nominare Dio è morale, per Jacopone è
concettuale: l’uomo è indegno di nominare Dio perché non ne è capace.
I mistici tendono a rendere l’interiorità con elementi concreti, reali.
Jacopone parte dal reale – descrizione della cella – per ricavare le realtà metafisiche, le riflessioni
mistico-ascetiche. Non sempre riesce a dominare parola o sentimenti estrinsecandoli, quindi il suo è
un laudario, un diario in versi, è grido, ma resta tale.
L’unico vero capolavoro è Donna de Paradise. Jacopone riesce a proiettare i suoi sentimenti su
personaggi che hanno una loro realtà, ma riflettono la sua visione del mondo.
È un breve atto unico di teatro: la passione di Cristo, la Vergine ai piedi della Croce; il Popolo
che, con il Nunzio, fa procedere l’azione con incalzante ferocia fino al culmine dello strazio umano
di Cristo.
Si tratta di teatro medioevale, inteso come luogo dove attori dilettanti recitano in piazza, sul sagrato
della Chiesa.
Mentre la poesia lirica della Provenza tende a ridurre la psicologia in modi convenzionali,
sempre uguali, perché le donne sono amanti, qui c’è la rottura: è la madre, i sentimenti sono diversi,
e il poeta cerca di darle sfumature che la rendano individuale, realizza la rappresentazione
psicologica dell’umanità.
Jacopone mostra la divinità inesprimibile, che cerca di raggiungere tramite misticismo e ascetismo,
allontanandosi dagli uomini malvagi.
Anche l’umanità malvagia, la crudeltà dell’uomo è qui rappresentata: è il Popolo che incita alla
morte del Giusto ed è pronto a salvare il ladrone – è l’espressione della sua visione pessimistica.
La passione di Cristo non può essere rappresentata, ma è il Nunzio a intervenire narrandola.
Il monologo finale di Maria è una pagina lirica: Maria si abbandona al suo disperato lamento: le
parole girano su sé stesse; la lingua barbaglia, perché c’è l’incapacità di capire il senso delle cose,
ma rende il pianto nella sua monotonia.
L’ITALIA E L’IMPERO

All’inizio del 1200, al Nord, troviamo le eresie patarine, da cui nasce la letteratura didascalica; al
centro c’è Francesco con il suo Cantico, primo capolavoro della letteratura italiana in volgare.
Al Sud c’è il Regno di Sicilia comprendente anche l’Italia meridionale. Il regno raffinato dei
Normanni si sta, però, estinguendo per la mancanza di eredi. Costanza di Altavilla deve lasciare il
monastero e andare in moglie al figlio di Federico Barbarossa, Enrico. Si crea un’alleanza che è
potentato egemone sull’Europa. Il figlio, Federico II di Svevia, è l’ultimo grande imperatore del
Medioevo e il primo grande politico moderno. Sta per diventare imperatore di Germania e re di
Sicilia, ma Papa Innocenzo gli si oppone. Federico prevale e domina la vita politica della prima
metà del 1200. Capisce l’assurdo del Medioevo, della reductio, la necessità di autonomia nel
rapporto Chiesa-Stato.
Il Papa gli chiede di effettuare una Crociata e Federico va in Oriente, in realtà per risolvere
problemi politici, non di fede.
Federico, comunque, è troppo moderno in un’epoca ancora legata al Medioevo e anche il suo Stato
muore. Nuovo re di Sicilia è il figlio, Manfredi di Svevia, ma il Papa si rivolge al ramo cadetto di
Francia, gli Angiò, promettendo loro il regno: nel 1266, nella battaglia di Benevento, gli Angiò
sono vittoriosi e Manfredi muore. Ne consegue la decadenza del Sud: smantellano lo Stato
moderno dei Normanni e degli Svevi, rifondano lo Stato feudale, con il ritorno al latifondo e il
conseguente divario con il Nord, dove prospera la borghesia.
Federico II è il primo ad essere consapevole dell’importanza basilare della cultura come
strumento politico: dà prestigio al regno e attira la simpatia per il potere. Eredita dagli Arabi il
gusto raffinato per la filosofia, l’astrologia, la musica, la scienza: si circonda di intellettuali in
sostanziale identità di cultura e potere ed eredita dalle eresie la necessità di una Chiesa più pura,
morale, distinta dallo Stato. Nasce la cultura come emanazione del potere politico: a corte, oltre ai
generali e ai burocrati ci sono poeti e musicisti. Egli stesso scrive poesie e spinge i funzionari a
farlo.

LA SCUOLA SICILIANA

Alla corte di Federico II fiorisce la prima poesia italiana scritta con intendimento artistico. Sono
scrittori uniti da comuni predilezioni di gusto, stile, contenuti, secondo le linee generali determinate
dalla corte imperiale.
Scuola Siciliana, non perché i poeti sono siciliani, né perché il linguaggio è siciliano, ma perché la
Sicilia è la sede del trono regale. Regale solium Sicilia erat, dice Dante.
Ci sono ordini da eseguire – scuola – e provengono dal potere centrale, che è a Palermo. Tutti
devono ubbidire agli stessi dettami: parlare d’amore, non di politica, non si devono suscitare
contrasti con il potere, è poesia d’evasione.
Problema critico: riguarda l’originalità e la dipendenza dai trovadori. Non ci sono grandi
personalità: è un’arte connessa al costume di una società elevata, con le sue regole eleganti e
rigorose; al poeta non interessa ostentare la propria originalità, bensì mostrarsi degno di partecipare
alla civiltà raffinata della corte, con cui è impegnato anche politicamente e moralmente.
Per quanto riguarda il rapporto con i primi trovadori, non ci sono grandi differenze: tema centrale
l’amore, espresso in una poesia limpida e chiara.
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La poesia siciliana, però, presenta situazioni meno cortesi, è più realistica: è aperta ad aspetti fisici e
carnali dell’amore sulla tradizione della poesia araba e di Cielo d’Alcamo.
L’amore trobadorico, provenzale, è adulterino, il poeta non può rivelare il nome della donna, ma
inserire soltanto elementi che lasciano capire. Il poeta siciliano, invece, sigla gli ultimi versi con il
nome di lei. La poesia trobadorica è cantata, la poesia siciliana è recitata.
Molto importante è il codice: per la prima è la lingua d’oc, per l’altra è un linguaggio poetico
italiano, una tradizione di lingua e di stile, continuata dai poeti della nostra letteratura. I Siciliani
assumono a strumento di espressione artistica il siciliano illustre, sintesi colta delle varie parlate
volgari in uso a corte. Ha come modello il latino, la lingua dei dotti, e il provenzale, il modello
letterario più immediato.

Rinaldo d’Aquino merita particolare attenzione con la poesia Già mai non mi conforto.
Spezza la tradizione trobadorica, ne infrange la norma: è una donna a parlare, siccome non sa
scrivere affida al poeta il suo sfogo. Il suo cavaliere, il più nobile che esista, sta per andare in Terra
Santa e lei è disperata. Il suo pensiero è rivoluzionario, libera espressione del suo amore fedele, non
solo spirituale ma anche carnale.
È infelice: si ribella all’idea di un Dio onnicomprensivo, che giustifica la sua sventura, sacrifica lei
per salvare gli altri.
È in antitesi con il Papa, ma anche con l’imperatore che ha deciso di fare la crociata. Emerge la
valorizzazione dei diritti del singolo, l’individualismo, e questo è già borghese.

LA SCUOLA TOSCANA

Quando Manfredi è sconfitto da Carlo d’Angiò, i poeti siciliani devono andare altrove. Non possono
rimanere al Sud, dominio angioino, né rifugiarsi nello Stato della Chiesa. Sono filo-imperiali e
scelgono la Toscana, i comuni ghibellini – Siena, Pisa, Lucca. Qui gli amanuensi conoscono i loro
libri, li toscaneggiano: creano la poesia toscana, nota come scuola di transizione, che pone la base
per il Dolce Stil Novo, la prima grande scuola di letteratura italiana.
La scuola toscana non è soltanto elemento di passaggio, ma ha una funzione storica
importantissima: sono i primi a scrivere in un codice che diventerà l’italiano. Non hanno
un’importanza estetica, ma poetica: è un gruppo di poeti che obbediscono agli stessi criteri di
contenuto e di stile.

Vi si distinguono, però, personalità forti, come Guittone d’Arezzo.


Per la prima volta è poeta comunale, rispecchia la realtà del comune, egemone di società italiana.
Dante dirà che ha cantato armi, guerra e amore, ma manca di directio voluntatis, cioè di valori
morali, che insegnano a vivere la vita come volontà. Non è così: Guittone cerca di educare dal
punto di vista etico, sociale.
Arezzo ha una vita politica vivace, lotta per la libertà, i Guelfi si succedono ai Ghibellini e
viceversa. Guittone dà una lezione di stile di vita, di umanità: è il primo poeta a scegliere l’esilio
piuttosto che rinunciare alle proprie idee e da lui Dante assimila la dignità, la capacità di fare lo
stesso.
È emblematico di un mondo moderno, dove l’impegno esistenziale e quello culturale si
identificano. Come poeta, non è grande. Lui stesso dice aspro è il mio trovato: si rende conto che
non è musicale ed è poesia fiacca, per l’eccesso di razionalismo, di sillogismo, ha il tono conativo di
chi vuole fare proselitismo, guelfo, nel suo caso.
DOLCE STIL NOVO

È una corrente poetica di fine Duecento, all’interno della quale si formerà Dante.
È corrente lirica, amorosa, specificatamente italiana, non riflesso di cultura straniera, bensì fonte di
risultati estetici degni di rispetto – Guinizzelli, Cavalcanti.
Dante, nel XXIV Canto del Purgatorio, incontra Bonagiunta Orbicciani da Lucca, seguace di
Guittone d’Arezzo, che gli chiede chi è.
Dante risponde “Io mi son un che quando amor mi spira, noto, e a quel modo che ci ditta dentro, vo
significando”: sono uno che, quando sono ispirato dall’amore, scrivo, e come amore mi detta
dentro, mi esprimo.
Bonagiunta dichiara di aver capito ciò che ha impedito a Guittone, a lui, ai Siciliani di realizzare il
dolce stil novo. A loro è mancata l’interiorizzazione del fatto amoroso, cioè l’individuazione della
matrice spirituale, psicologica dell’amore. È questa la novità con cui l’amore è cantato in stile dolce
e nuovo.
È nuovo perché filosoficamente nuova è la concezione dell’amore, nuovo il contenuto – non più
amore-vassallaggio.
Dolce – si riferisce allo stile, alla forma – perché il vocabolario è più dolce, musicale, raffinato.
La ricerca formale è basilare: questi poeti non sono dilettanti, vogliono immettere cultura stilistica.
È la prima grande poesia moderna italiana.
A differenza della scuola siciliana, il dolce stil novo non è poesia gerarchica, non nasce più
all’interno dell’impero ma nel comune, dove i valori non sono più quelli aristocratici, ma
cittadini, borghesi. La genesi dell’amore è nel cuore gentile, la cui nobiltà non è legata all’origine,
ma alla sensibilità, al patrimonio interiore, all’intelligenza dell’individuo.
Sono proprio l’intelligenza e la volontà, l’impegno i valori etico-spirituali con cui la borghesia si
sostituisce all’aristocrazia.
Se per i trovadori la donna è una sorta di mito a cui inchinarsi, ma non gode di individualità da
scandagliare, nello stil novo la donna è valorizzata per l’intelligenza e l’etica, su un piano
paritetico con l’uomo. Il suo non è un amore adulterino, ma sacro, morale.
Ha una funzione educatrice, di crescita per l’uomo, che lei sa rendere consapevole di sé stesso.
Prima di innamorarsi l’uomo non sa che cos’è lo spirito, la dimensione divina. La donna incarna il
divino in terra e, tramite l’amore, fa conoscere simbolicamente la beatitudine eterna. Fa
crescere l’uomo, gli fa capire quanto lo spirito sia capace di assoluto.
Se il Medioevo è cultura di Dio, la borghesia mondanizza il cristianesimo, preserva Dio e si adegua
alla nuova realtà storica: è il tentativo di armonizzare amor mundi e amor Dei, terra e cielo, passato
e futuro.

Aristotele e San Tommaso concepiscono la vita come attualizzazione delle proprie


potenzialità: vivere è esplicarne il numero massimo.
Guido Guinizzelli applica tale concezione all’amore. Prima di innamorarsi l’uomo non si conosce a
fondo, non sa di essere altruismo, bontà, generosità. La donna, tramite l’amore, lo rende migliore, lo
educa a sentimenti e valori che possono elevare spiritualmente sino a portarlo a Dio. È l’amore
messo in atto come fatto psicologico.
Si realizza il passaggio da amore-passione ad amore-virtù: l’amore per la donna trascende
nell’amore per Dio e la poesia è la ricerca dell’espressione della propria personalità – poesia
lirica moderna.

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Guinizzelli vorrebbe realmente che l’amore lo conciliasse a Dio, ma questo in lui non si
realizza: predomina l’amore carnale, la passione. Così Dante lo colloca nel Purgatorio, tra i
lussuriosi, perché ha ceduto troppo ai sensi: è lì per purificarsi. Dante lo considera padre suo e di
tutti coloro che hanno scritto rime d’amore dolci e leggiadre. In verità è per lui maestro di stile,
nella dolcezza, nella forma, ma non nel contenuto.
Per Guinizzelli la donna sembra un angelo, ma non ne è certo: l’amore resta su un piano
ottativo. Sarà Dante a realizzare il desiderio del maestro e a trasformare la donna in angelo,
realizzando il passaggio dal piano ottativo al piano ontologico.
Beatrice è piena incarnazione di Dio in terra, è lode di Dio nel suo vivere, salva Dante perché è un
amore che non si consuma. Beatrice muore giovane e Dante vi vede l’oltranza teologica. È l’amore
come fatto soltanto interiore: continua a vivere perché è spirito, è la scintilla divina che è in noi, è
l’unica cosa al mondo di cui abbiamo bisogno. È un sentimento che non è legato alla carne, al
tempo: Beatrice, allora, fa conoscere l’anima, Dio.
Se si sa interpretare la vita e vedere l’oltranza, allora l’amore della donna è tramite all’amore di
Dio: se ami una donna, Dio può amarti meglio, toccare la tua anima.

Io voglio del ver la mia donna laudare


ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro e l’âre,


tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile


ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra fé se non la crede;

e no·lle pò apressare om che sia vile;


ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.

Guinizzelli vuole lodare la sua donna quale veramente è. Ella non vive di lineamenti e caratteri
definiti: sfuma nella dolcezza tenera di una rosa, di un giglio; nello splendore di una stella del
mattino; nell’eterea purezza dell’aria; in un incanto di primavera; nel colore vivido dell’oro e delle
gemme. È anche fonte di una luce spirituale, una promessa di purezza, di bontà, di salvezza e
l’amore, per suo tramite, diviene cosa più gentile.
Un uomo il cui animo sia vile (polemica borghese contro l’aristocrazia) non può neppure
avvicinarsi a lei e, ancora, mentre la guarda non può concepire alcun pensiero peccaminoso.
Il sonetto lo rivela poeta di luce: la donna è illuminante, vederla è teofania, è poeta
dell’innamoramento, dell’amore come euforia di avventura in un mondo di spirito.
Guinizzelli, poeta religioso, tenta di sintetizzare le due correnti di pensiero del Duecento: filosofia
razionalistica di San Tommaso – intellego ut credam – con il misticismo di San Bonaventura –
credo ut intellegam. Nasce così il ragionamento che, però, lui diluisce, stempera in immagini, in
similitudini e queste sono i punti cardine della sua poesia: più che poeta filosofico è immaginifico,
visivo, pittorico. La similitudine è il suo strumento stilistico, morfologico e sintattico.
Il suo stile è personale – ha una tonalità dolce, leggiadra, musicale, raffinata, che farà scuola.

Guido Cavalcanti. Nasce a Firenze nel 1258. Aristocratico, è guelfo di parte bianca, amico di
Dante; partecipa alla politica della città che ha ormai escluso l’aristocrazia dal governo.
Capo della fazione conservatrice avversa ai guelfi neri; nel 1300 viene esiliato a Sarzana, ma per
motivi di salute nello stesso anno è richiamato a Firenze, dove muore poco dopo.
Esilio, persecuzione politica, ateismo sono elementi significativi della sua esistenza.
Intelligente, razionalista, arguto, eccentrico, sempre a cercare la prova che Dio non esista, è un
individuo solo, socialmente perché aristocratico e ideologicamente perché ateo, in contrasto con
il mondo che lo circonda e lo addita, forse ingiustamente, a eretico, omosessuale.
Il suo io è nichilista, non ha virtù, intelligenza sufficienti per crescere, maturare tramite l’amore. La
morte dell’anima non può liberare amore, non può dar vita alle immagini di luce proprie di
Guinizzelli, al rapimento estatico, alla teofania, alla primavera spirituale.

Voi che per li occhi mi passaste ’l core


e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,


che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto


da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto,


che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco

L’uomo innamorato si illude che l’oggetto del suo amore sia il più colto, raffinato, grande, ma poi la
vita gli mostra che la realtà di amore non è mai uguale ai sogni. Allora, se non sa vedere l’oltranza e
maturare, si sente frustrato, angosciato, come il poeta.
È un dramma di gesti silenziosi: l’anima è il palcoscenico su cui sono protagonisti l’Amore che
uccide; gli spiriti vitali, cuore e mente, che fuggono via a significare la dissociazione.
La struttura della poesia è drammatica e il tono del linguaggio è conativo: l’accusa all’Amore, in
forma di dialogo, dà un andamento meno levigato, più concitato, nervoso, nevrotico, imprevedibile.
È l’intimo tema di Cavalcanti che sarà capito solo recentemente: il binomio amore e morte, gli
unici infiniti della vita per i decadenti.

POETI COMICO-REALISTICI

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Ogni civiltà si pone come tesi sul mondo, progetto sulla realtà, è una proposta dell’uomo alla storia.
Ma ogni tesi presuppone un’antitesi. La borghesia fa propri i valori antitetici al Medioevo:
possesso individuale, ascesa in base alle capacità della persona. È la civiltà dell’avere in
contrapposizione alla civiltà dell’essere.
Quando i valori entrano in crisi, esplode la cultura antinomica che percorre l’Alto e il Basso
Medioevo. Questa cultura, però, si contrappone senza ideali alternativi, è soltanto negazione,
corrosione. Rispecchia la visione laica, blasfema, anarchica della tradizione goliardica universitaria,
dei canti giullareschi, del discorso di denuncia contro una realtà che è impossibile cambiare e non
lascia spazio se non allo sfogo nella risata.
Contemporaneamente allo stil novo si afferma la corrente, di difficile catalogazione secondo i
critici, dei poeti comico-realistici.
Comico, perché questa poesia è scritta in stile comico, cioè umile, irriverente, in opposizione allo
stile tragico, elevato.
Realistici, perché all’idealismo cortese e stilnovistico contrappongono il realismo, la concretezza
del quotidiano, di un ambiente grossolano e plebeo, senza mai trascendere la materialità.
La produzione di questi autori, che non sono rozzi o incolti, è interessante sul piano storico-
culturale, poiché riflette aspetti del costume e della vita comune. Si presentano come persone
moralmente e socialmente disadattate: seguono le regole della tradizione goliardica e giullaresca,
ma indicano un’insofferenza nei confronti delle idealità cortesi e stilnovistiche.
Emerge la crisi dei valori, nell’esigenza confusa di una cultura più vicina alla realtà.
È la nuova civiltà borghese a presentarsi libera dalle gerarchie, ma inevitabilmente pone nuovi
vincoli: il grande ideale, la nuova legge è il denaro.

Cecco Angiolieri

Tre cose solamente mi so ’n grado,


le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e ’l dado;
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì me le conven usar di rado,


ché la mie borsa mi mett’al mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: – Dato li sia d’una lancia! –


Ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Trarl’un denai’ di man serìa più agro,


la man di pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.

In questo sonetto il poeta afferma in modo netto quale sarebbe la sua felicità: donne, taverne,
giuoco. Ma, purtroppo, sono cose che costano denaro. E il padre è così avaro che meriterebbe un
buon colpo di lancia.
Dal bel sogno passa così all’amara realtà e chiude con la maledizione rivolta al padre.
In realtà Cecco è un ricco borghese, un ottimo letterato, che finge e fa delle sue passioni il pretesto
dei suoi giuochi poetici. Si avverte l’esagerazione compiaciuta, il gusto di sbalordire un pubblico
consenziente per rendere più allegra e corale la risata che l’accoglierà.
Non manca, però, la denuncia, il disagio: la civiltà borghese libera, ma schiavizza anche, perché
chi non ha denaro è una nullità.
Cecco usa un linguaggio ricco di modi di dire proverbiali, di cadenze popolaresche, che meglio si
presta alla battuta scherzosa e alla parodia, mescolando alla costruzione letterariamente sapiente la
parola dialettale incisiva e pittoresca.

Non tutti i poeti comico-realistici tendono alla satira.


Folgòre da San Gimignano
Sempre in zona senese Folgòre = splendore – è un borghese che si diletta a scrivere: i suoi
destinatari non sono colti, intellettuali come gli stilnovisti, non sono gli amici del bar come per
Cecco; sono amici legati alla politica e alla vita mondana.
Scrive due raccolte di sonetti, rivolgendosi a una brigata nobile e cortese: una, detta dei mesi, in
cui augura cacce, feste per ogni mese; l’altra, detta delle settimane, dove consiglia gioie, cortesie
amorose.

Di maggio sì vi do molti cavagli


e tutti quanti siano affrenatori,
portanti tutti, dritti corritori;
pettorali, testere de sonagli,

bandère con coverte a molti 'ntagli


di zendadi e di tutti li colori;
le targhe a modo degli armeggiatori;
viuole, rose, fior, ch'ogn'om abbagli;

e rompere e fiaccar bigordi e lance,


e piover da finestre e da balconi
en giù ghirlande, e 'n su melerance;

e pulzellette gioveni e garzoni


baciarsi ne la bocca e ne le guance:
d'amor e di goder vi si ragioni.

Il poeta, come maestro di cerimonie, dona i suoi sogni di una vita bella, da vivere allegramente
insieme, uomini e donne: la festa del torneo, della giostra, con l’addobbo di stendardi, la dovizia di
fiori che abbaglia, il bacio sulla bocca e sulle guance, il conversare di amore e di cose gentili.

Quando la luna e la stella dïana


e la notte si parte e ’l giorno appare,
vento leggero, per polire l’are
4e far la gente stare allegra e sana;

il lunedí, per capo di semana,


con istormenti mattinata fare,
ed amorose donzelle cantare,
8e ’l sol ferire per la meridiana.
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Lèvati sú, donzello, e non dormire,
ché l’amoroso giorno ti conforta
11e vuol che vadi tua donna a servire.

Palafreni e destrier sieno alla porta,


donzelli e servitor con bel vestire:
14e poi far ciò ch’Amor comanda e porta.

È il sonetto del lunedì. In un paesaggio mattutino, fra la luce e il sogno, si avverte un senso di vita
fresca, gioiosa, che è il fascino dei migliori sonetti di Folgòre. Poi il poeta esorta il donzello a
levarsi e dedicarsi al servigio d’amore, cioè a corteggiare la donna secondo il costume cortese. Il
ritmo agile e svelto suscita un’immagine di giovinezza baldanzosa: è l’intuizione lirica tra il
consueto accompagnamento di visioni eleganti.
La realtà rappresentata da Folgòre è ben diversa da quella di Cecco, plebea, volgare. È uno stile di
vita aristocratico, dove si consigliano eleganza, dolcezza, raffinatezza, feste d’armi e d’amore,
senza problemi di denaro. Mittente, referente, destinatario riguardano un mondo di alto livello.
Parla di realtà ma tende a sfumarla, ad alleggerirla: per questo usa molto il verbo all’infinito,
che fra tutti i modi è il meno concreto, specifico.
È un clima fantastico, di sogno, quello a cui tende. L’abbondanza di sostantivi dà un senso di
opulenza, ricchezza, caos felice; vuole, però, attenuarne, ingentilirne la forza realistica e ricorre
all’aggettivo.
Folgòre è il poeta della vita festevole della ricca borghesia comunale, ancora pervasa di un
sogno di idealità cavalleresche e cortesi. Esalta le virtù di giocondità, prodezza, liberalità, cortesia, e
i modi di una vita tesa a un ideale di buon gusto, di mondana eleganza.

LA PROSA DEL DUECENTO

La prosa si sviluppa più tardi della poesia. La poesia, affidata al canto e alla recitazione, entra a
far parte della vita collettiva, davanti ad un pubblico non essenzialmente alfabetizzato: inni
religiosi; canzoni feudali di gesta, canzoni d’amore e poemi cavallereschi recitati a corte, nelle
piazze.
La poesia è morfologicamente e sintatticamente più semplice, ieratica, ripetitiva.
La prosa, invece, si rivolge a un pubblico di lettori che vi cercano un arricchimento della loro
cultura. Quando l’italiano trova un’identità scritta, si traducono testi dal latino classico e dal
latino medioevale. La lingua italiana si irrobustisce, perché il latino costringe a immettere
strutture complesse, ipotattiche, con regole tecniche, retoriche, per scrivere bene.
La nascita della prosa in volgare in Italia, verso la metà del Duecento, è legata al costituirsi
della nuova classe borghese del Comune. Ci sono i trattati dei maestri di retorica, da Guido Faba a
Guittone d’Arezzo, a Brunetto Latini. Nascono in margine all’insegnamento giuridico – il cui centro
è l’Università di Bologna – che abbraccia anche la vita pubblica e politica.
Guido Faba, per esempio, insegna formule da usarsi nelle ambascerie; scrivendo a un principe;
insediando un podestà.

Esistono almeno due opere di prosa originali nel Duecento: il Milione di Marco Polo e il
Novellino, anonimo.
Livre des merveilles du monde è il titolo originario del Milione. Il codice è il francese, ma
l’italianità del Milione è totale – scrive per gli Italiani e descrive al meglio la società italiana del
XIII secolo.
Se la Divina Commedia è il viaggio dell’eterna trascendenza, il Milione è il viaggio dell’eterna
immanenza. Testimonia la fine del Medioevo, rispecchia il trionfo della borghesia in modo
dinamico, progressista. È risposta alla sete di viaggiare e di conoscere: ha, quindi, grande
importanza storica, anche se non è grande opera estetica.
Marco è il primo mercante di professione, dotato di vero coraggio e spirito di avventura, ma non sa
scrivere in italiano.
Lascia Venezia, città europea all’avanguardia nel commercio, insieme ad alcuni frati. È sintomatica
la tappa in Terra Santa, dove i compagni si fermano, perché a loro manca il coraggio di procedere là
dove non c’è Cristo. Nessun mercante ha mai raggiunto la meta di Marco.
È la Cina, l’impero colto e civile del Gran Khan, che lo assimila e lui stesso assimila, scoprendo
cose favolose che lo stupiscono (uso della carta moneta). Poi la nostalgia lo fa tornare a Venezia.
Durante una delle tante battaglie navali tra Venezia e Genova, è fatto prigioniero. A Genova, in
cella, è suo compagno Rustichello da Pisa: a lui detta, in veneto, il romanzo della sua vita, che
Rustichello trascrive in forma letteraria in lingua d’oil.
È un modo per dimenticare la tragedia del carcere e abbellire la vita: è già memoria, dopo venti
anni, ed enfatizza le cose belle. Possono esserci delle notizie imprecise, ma non sono volute, bensì
legate a vuoti di memoria, in mancanza di appunti. Ciò che vale è la sua volontà di scrivere cose
vere: accanto all’orgoglio di aver compiuto un’esperienza eccezionale, c’è in lui il bisogno
dell’analisi concreta, l’ardore inesausto di curiosità dell’esploratore, che scopre stupito e attento un
mondo nuovo e vuole farlo conoscere.
È un libro di interesse geografico, con un fine mercantilistico: è scritto da un mercante ai mercanti
europei, ai quali vuole indicare la via della Cina, come arrivarci e quali possibilità offre.
A stupire e affascinare il lettore, comunque, sono le immense e misteriose terre dell’Asia: paesaggi
sterminati, città grandiose, popoli e costumi diversi; l’impero e la potenza del Gran Khan; tutto un
mondo allora avvolto nel mistero e nella nebbia di una lontananza invalicabile, tanto che il viaggio
di Marco assume il carattere di un’impresa leggendaria.

Novellino. È il primo esempio di prosa narrativa originale in volgare. È un libro di lettura


d’evasione, una raccolta di brevi racconti, aneddoti tratti da miti, storia, romanzi medioevali,
elaborati in fiorentino. Non si sa nulla dell’autore, tranne che era ghibellino, anticlericale,
filoimperiale. I glottologi sostengono che era di Firenze, ma non è certo.
Rivela una profonda simpatia per il mondo cavalleresco, sentito soprattutto come magnanimità,
saggezza, gentilezza, liberalità, signorile e composto decoro.
Ci sono novelle di pieno abbandono fantastico.

Qui conta come Narcis s’innamorò dell’ombra sua


La favola è tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. L’autore crea la dolcezza di incanto e di desiderio
attraverso la concentrazione del racconto con poche, scarne parole. La povertà sintattica e le
ripetizioni realizzano un alto valore espressivo, poiché tolgono la vicenda dalla logica consueta e la
immergono in un’atmosfera di pura favola. Il tempo di primavera fa da sfondo alla trasformazione
finale di Narciso, ad opera del dio d’amore: lo tramuta in un nobilissimo mandorlo, il primo albero
a fiorire e a ricordare fra gli uomini la stagione dell’amore.

Qui conta una bella novella d’amore


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La vicenda trascolora dalla tristezza iniziale dell’amante non corrisposto all’avventura, alla tenera
gioia dell’amore fortunato. Il racconto ha carattere lirico più che narrativo: è svolto secondo lo stile
del Novellino, per accenni rapidi, seguendo le fila essenziali della trama, con una linearità che qui è
eccessiva.

DANTE ALIGHIERI

Fa risorgere la grande poesia dell’Occidente dopo Virgilio, sostiene Auerbach.


È uno dei massimi poeti dell’umanità, perché un millennio della nostra cultura trova in lui la sua
massima sintesi estetica. La Divina Commedia offre il giudizio globale sul mondo ed è oggetto di
innumerevoli studi e saggi.
Dante realizza il connotato fondamentale su cui si basa la definizione di classico: è l’autore che
vive nella pienezza dei tempi, fedele alle strutture ideologiche della sua epoca, ma capace di far
confluire una civiltà passata in un’opera che presagisce il futuro, che sa comunicare ai posteri.
Anche Eliot è un classico: Eliot e Dante sono i due massimi poeti dell’umanità. Eliot muore nel
1965 e Dante nasce a Firenze nel 1265. È un animo aristocratico, che individua nell’etica borghese
dell’utile, del guadagno, del successo la causa della catastrofe del Medioevo e dell’insorgenza di
orgoglio e arroganza.
A Firenze la piccola aristocrazia è esclusa dal governo, quindi è necessario vivere del proprio
lavoro.
I centri culturali seguono due scuole filosofiche, due modi di interpretare il Cattolicesimo: il
misticismo di San Bonaventura e di San Francesco – credo ut intellegam – e il razionalismo dei
Domenicani.
Dante non rifiuta né l’una né l’altra, né il cuore né l’intelletto.
La sua cultura è enciclopedica, spazia dal latino alla scienza. Conosce il provenzale e sa usarlo per
poetare; legge romanzi cavallereschi; conosce il siciliano, anche Cielo d’Alcamo; è amico di
Guinizzelli e di Cavalcanti.
La sua adolescenza è segnata dall’amore per Beatrice. Giunto a 30-35 anni, morta Beatrice, si
ritrova “per una selva oscura”: c’è il buio del dubbio, che coinvolge anche la vita politica del
Comune fiorentino in cui è inserito. Nascono due fazioni, i Guelfi bianchi, ex Ghibellini, cui
appartiene Dante; i Guelfi neri all’opposizione. Firenze ormai deve essere città faziosamente
guelfa, fedele a Papa Bonifacio VIII, alleato degli Angioini. Dante, anche se cerca di rimanere
super partes, non convince: è l’uomo dell’essere che non si identifica nella società dell’avere,
mitizza gli ideali già tramontati come quello imperiale. È processato in contumacia e condannato
all’esilio. Vive il dolore, la sofferenza dell’allontanamento dalla sua amata Firenze, matura la
consapevolezza dell’ingiustizia, che gli dà la coscienza di classe: come dice Momigliano, senza
esilio non ci sarebbe stata la Divina Commedia, quale ci ha lasciato.
Si rende conto che il giusto è perseguitato in quella società e il Cristianesimo rischia di fallire
storicamente, come previsto da Gioacchino da Fiore. Deve agire: rifiuta di chiedere perdono al
Papa, perde tutti i suoi beni, non rivede più i figli, gli amici, passa di corte in corte, scopre quanto è
duro mangiare pane che sa di sale, perché appartiene agli altri. È un’umiliazione ma non si
compatisce.
Soffre le pene dell’Inferno, ma poi “alza le vele la nave del mio ingegno per correr miglior
acque”: è l’ingresso al Purgatorio, fiducioso, pieno di speranza, sino a raggiungere la meta
desiderata.
Negli ultimi anni è ospite degli Scaligeri, di Can Grande della Scala, a Verona, poi di Guido da
Polenta a Ravenna, dove muore ed è sepolto nel 1321. Firenze lo richiede e fa erigere un
monumento funebre in Santa Croce, vicino a Machiavelli, Michelangelo. Ma resta vuoto.
Dante inventa la terzina, usa rime mai tentate prima, parole mai immesse, parla di teologia, materia
prima trattata dai dotti in latino.
Tale scelta ha ragioni ideologiche: ha in sé il numero 3, specchio di Dio, della Trinità.
È poeta sintetico; se fosse analitico, discorsivo, non userebbe la terzina, ma l’ottava, come avviene
con l’Orlando Innamorato, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata.
La libertà dell’artista, inizialmente, è infinita, poi si riduce sempre più e deve fare scelte coerenti
con il tessuto generale: deve quindi avere l’abilità tecnica dell’artigiano del verso.
Scrive un poema che ha referenti nuovi rispetto alla tradizione precedente: inventa il messaggio,
quindi anche il destinatario.
Se la Vita Nuova è rivolta agli intellettuali, la Monarchia alla classe politica, la Divina Commedia è
per tutti, per l’umanità, per la prima volta è opera totale, sulla nostra vita. Si inventa il pubblico,
scrive per un tutti che nel 1300 non esiste e il risultato è inaudito.
La critica dantesca inizia nel Trecento con Boccaccio, per continuare ai giorni nostri e
certamente in futuro. Boccaccio è il primo a dedicare tempo a scrivere sull’opera di un altro. Vuole
commentare tutti i canti, la morte gli impedisce di completare il progetto, ma la sua opera resta
significativa. Sa che tanti sono gli analfabeti e, senza banalizzare la serietà degli argomenti, vuole
dare Dante a tutti.
Legge i commenti in chiesa e poi ai Fiorentini, che partecipano in massa. Inserisce la Divina
Commedia in un dibattito culturale italiano.
Il testo è sentito difficile all’epoca come pure da critiche posteriori, per questo richiede un
commento. È in realtà un’opera complessa ed esige lettura e riflessione attente.
Ma quando la difficoltà è voluta, diventa progetto, un antidoto contro la banalizzazione. Il
poeta reagisce alla tendenza della superficialità che è nella vita. La vita, però, non è tanto semplice,
riducibile ad uno spot pubblicitario, all’omogeneizzazione: il testo difficile vuole educarci meglio,
renderci consapevoli della profondità e del valore autentico della vita.
Petrarca non ama Dante, probabilmente per invidia, perché è consapevole di quanto sia grande la
sua opera ma non vi si riconosce ed è infastidito dal culto che, invece, ne ha Boccaccio.
Sia l’Umanesimo che il Rinascimento dimostrano una totale incomprensione. Alla visione
teocentrica, religiosa contrappongono un’ideologia antropocentrica, laica, che non ha più bisogno
dell’allegoria per presentare la realtà per quello che è. Non piacciono i contenuti, ma neanche la
forma. Dante è considerato un poeta per i borghesi, non per i professionisti della parola.
Bembo, esprimendo il suo gusto sulla lingua, addita come modelli Petrarca per la poesia, Boccaccio
per la prosa. Definisce la Divina Commedia un campo di grano pieno di erbacce, quindi un testo
rischioso: spesso il verso è rozzo, con parole di un realismo che fa pensare al linguaggio di un
mozzo di stalla mentre striglia un cavallo.
Il poeta non è un modello, e non è ritenuto un classico.
Qualcuno, però, lo imita: Ariosto lo ama, ma non la cultura ufficiale.
Quando Bembo compone il primo Vocabolario della Crusca, con voci di lingua corretta, espunge
molte parole usate da Dante.
Il Romanticismo valorizza il pieno recupero del Medioevo come momento basilare della civiltà
occidentale, e riconosce pienamente a Dante il ruolo di straordinario poeta.
Nella critica emerge Auerbach; nelle arti figurative sono Délacroix, Dorè ad ispirarsi; Listz gli
dedica un’ampia sinfonia; Wagner legge Dante per caricarsi.

27
OPERE MINORI

Dante rifiuta il presente, il tramonto del Medioevo: l’esilio testimonia che è diverso, non si
riconosce nella società borghese, auspica e anela a un futuro nuovo. La sua operazione culturale per
salvare il mondo e sé stesso mira a salvare il presente, riconducendo a Dio la realtà con gli
strumenti del Medioevo. Le opere minori sono tentativi parziali di risacralizzare la cultura,
sempre più laica e profana; la vita politica attiva, ora gioco di potenti. È la preparazione alla
Divina Commedia, dove cerca di risacralizzare tutta la vita, la totalità cosmica.

Le Rime. Sono poesie che attestano una complessa ricerca di contenuto e di forma: è un periodo
di apprendistato, di formazione. C’è l’esperienza stilnovistica, ove l’amore è riconosciuto come
fondamentale principio di nobiltà, cioè di perfezione spirituale ed esistenziale dell’uomo – l’amore
concepito da Guinizzelli su piano ottativo è trasformato da Dante su piano ontologico.
Imita lo stile della poesia comico-realistica: la tenzone con Forese Donati – fratello di Corso
Donati, nemico di Dante – ne è una violenta deformazione caricaturale.
Sperimenta le rime filosofiche, concettuali e morali.
Le rime petrose sono dedicate a una donna, Pietra, insensibile come pietra, che disprezza il suo
amore.
Abbandonato il tono stilnovistico, Dante è a una nuova ricerca contenutistica e formale.
Il nuovo tema è l’amore passionale, aspro, sconvolgente, ispirato al modello di un poeta provenzale,
Arnaldo Daniello. Richiede quindi un linguaggio adeguato, difficile, intenso e, a volte, brutale, che
prevede l’uso di metri ardui e complicati.

La Vita Nuova. Sono rime giovanili scritte quando il poeta è ancora a Firenze, collegate da capitoli
in prosa che le commentano e le spiegano biograficamente e concettualmente. La vicenda
raccontata è fondamentale nella sua vita: l’amore per Beatrice.
Il titolo può significare sia diario di giovinezza che vita rinnovata, cambiata dall’amore per
Beatrice.
Sorge il problema: è un’opera realistica o di fantasia?
Se nuova corrisponde a giovanile, allora è tutto reale, ma è anche vero che il fatto ha colpito
profondamente il sentimento, la fantasia di Dante.
È un libro di memorie, quindi legato a vicende e persone vere, ma il poeta opera una traslazione del
fatto sul piano metafisico: Beatrice è colei che salva, è figura messianica, simbolo di Cristo.
C’è una numerologia mistica. La incontra a 9 anni per la prima volta e ne ritrae un’impressione
indelebile; la rivede dopo 9 anni ed ella lo saluta soavemente: questo incontro è la piena
rivelazione dell’amore che egli portava ancora indefinito nell’animo. Il numero 9 = 3x3, numero
simbolico.
Dante sogna la sua morte: il cielo si oscura e manifesta gli stessi segni verificatisi alla morte di
Cristo.
C’è la volontà di cercare significati trascendenti in quell’amore. È un sentimento che si sforza di
tenere segreto perché rivelarlo sarebbe sconveniente, la metterebbe in imbarazzo; per questo cerca
la donna dello schermo. Beatrice non lo capisce e gli toglie il dolcissimo saluto.
Dante è infelice, ma proprio attraverso la sofferenza il suo amore si rafforza e si sublima. Diventa
esperienza beatificante, amore-virtù, che si traduce nella poesia.
L’amore di Dante, vissuto in segreto nella giovinezza, è simbolo di Dio e la Vita Nuova è il
tentativo di cercare Dio nelle pieghe della vita.
Il Convivio. Doveva essere un grande trattato filosofico, in 14 libri, ma ne scrive soltanto quattro. È
un banchetto di scienza, che offre l’enciclopedia del suo sapere; è medioevale, noiosa, ma,
comunque, grande. Vuole realizzare un’opera di divulgazione: è il primo libro di filosofia scritto
in volgare, in fiorentino. Se la prosa di Vita Nuova è aurorale, romanzo, quella del Convivio è
ragionativa, sillogistica, complessa: rivela la volontà di un apostolato della verità e della cultura
come unico mezzo per rendere più umana la vita associata.
Altamente formativa e ispirazione di belle pagine è la tematica di fondo: il desiderio del sapere è
naturale all’uomo, perché la perfezione della sua natura consiste nella piena esplicazione di quella
capacità razionale che lo rende simile a Dio, donde la futura esaltazione della filosofia come uso
amoroso di sapienza.

La Monarchia. È un trattato politico, scritto in latino, perché diretto ai potenti della terra. È un
momento di massima speranza per Dante: l’imperatore Arrigo VII scende in Italia e ravviva in lui
l’ideale dell’impero universale.
I° Libro. Soltanto un unico imperatore, mediante la giustizia, può garantire all’uomo la pace e la
libertà, così da consentirgli lo svolgimento pieno delle qualità spirituali, meta suprema del vivere
terreno e premessa indispensabile alla beatitudine celeste. Impero universale non significa
assorbimento di tutti gli stati nazionali in uno solo: compito dell’imperatore è vincere le tendenze
sopraffattrici, nate dalla cupidigia, mediante una legge comune, da lui fissata secondo la dottrina
dei filosofi.
II° Libro. Dante affronta il problema più importante e attuale per il Medioevo e per i suoi tempi: il
rapporto tra le due autorità supreme, le due guide volute da Dio, l’imperatore e il Pontefice.
Afferma che entrambe derivano direttamente da Dio, quindi sono distinte e autonome. Se duplice è
la natura dell’uomo – corpo e anima – pure duplice è il suo fine – la felicità terrena e quella celeste.
Ciascuna delle due guide deve condurre l’uomo alla perfezione nella propria sfera. Il nostro destino
terreno, però, è legato a quello ultraterreno, così le due guide sono complementari. L’uomo,
qualora sia ricondotto dall’imperatore alla concordia e alla libertà, è meglio disposto ad accogliere il
magistero del Papa.
E non è vera la tesi dei Curialisti, che Pietro detiene sia il potere spirituale che quello temporale.
Adducono come prova storica il documento con cui Costantino avrebbe donato l’Occidente al Papa.
È un falso storico, dimostrato da Lorenzo Valla, perché il latino usato non è quello del IV secolo.
Ancora, l’imperatore non può donare le terre dell’impero, perché non sono suo possesso, sono res
nullius.

De Vulgari Eloquentia. È un trattato sull’arte dello scrivere in lingua volgare. La lingua è il


latino, perché destinatari sono gli intellettuali. La finalità è ricondurre a Dio l’amore per la lingua.
Distingue la lingua volgare, che impariamo senza norme, imitando la nutrice, dalla grammatica, il
linguaggio letterario, il latino fissato dai dotti, che si apprende con lo studio ed è governato
dall’arte. Il più nobile è il volgare, perché più naturale.
In origine era comune a tutti gli uomini ed era la lingua ebraica, la lingua che Dio parla.
All’epoca della Torre di Babele c’è la confusione del linguaggio. Nascono gerghi specifici, diversi,
legati alle differenti attività lavorative. In Europa si distinguono tre lingue: il greco, ad oriente; il
germanico, nell’Europa settentrionale; nell’Europa meridionale il latino, che a sua volta si divide in
lingua d’oc (provenzale), lingua d’oil, (francese), lingua del sì (italiano).
In Italia si distinguono quattordici dialetti: nessuno, però, può assurgere a lingua letteraria volgare.
Dante vagheggia il volgare illustre, un linguaggio che esprima l’italianità della nazione, usato nelle
più alte espressioni di cultura e d’arte.
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Il volgare è illustre perché racchiude lo splendore dell’arte; cardinale, perché cardine su cui si
fondano i volgari municipali; aulico, perché, se noi avessimo una corte, sarebbe l’unico degno di
essere parlato lì; curiale, perché esprime la norma ben ponderata dell’agire umano secondo ragione
e legge, quale si attua nella Curia o corte, che rappresenta il centro culturale, quindi l’anima della
nazione.
Se ora in Italia manca una corte unificata da un sovrano principe, vi sono però le sue membra,
unificate dal dono divino, che è la luce della ragione. Sono gli Italiani forniti d’ingegno e di
scienza ad essere gli animatori di una comune cultura e spiritualità.

IL MEDIOEVO

Alto Medioevo Basso Medioevo


Impero Universale Stati Nazionali
Assenza della Borghesia Rinascita Borghese
Agricoltura Commerci
Campagne Città

Ortodossia Cattolica Eresie


Credo ut intellegam Intellego ut credam
Reductio ad Unum Pluralismo specializzato

Monasteri Università
Cherici Laici
Lingua Latina Lingue Romanze
Condanna dell’Arte Giustificazione dell’Arte
Platonismo Aristotelismo

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