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CAPITOLO 1: IN CERCA DI UN SIGNIFICATO

Nel Medioevo, l’Europa viveva una condizione di relativo isolamento. Il suo


territorio era organizzato in feudi, contadini e commercianti vivevano in piccoli borghi
vicini al castello, e il feudatario godeva di migliori condizioni di vita.
L’esistenza poteva essere messa a rischio da eventi atmosferici avversi, raccolti perduti,
epidemie. Nei periodi di siccità la gente soffriva la fame, e l’aspettativa media di vita
non andava oltre i 30 anni.
La Chiesa prometteva che le persone pie avrebbero avuto in premio il paradiso. Le
consolazioni del cristianesimo non possono essere sottovalutate: è difficile immaginare
come le persone sarebbero potute sopravvivere senza coltivare varie forme di fede.

Era davvero concepibile allora una vita ricca di significato?


La possibilità di vivere una vita significativa all’interno della tradizione cristiana
dipendeva dal grado di assiduità con cui il Sè riusciva ad assumere un comportamento in
linea coi valori cristiani. La religione rappresentava una fonte di orientamento per la
vita dell’individuo e guidava le persone.
I fedeli erano convinti che la devozione nei confronti della divinità consentisse loro di
guadagnare lo sguardo attento e benigno: infatti cercavano sempre di cogliere i segni di
tale benevolenza. I puritani interpretavano determinati eventi naturali come un segno
dell’amore di Dio: un buon raccolto, aumento delle nascite, ecc.
Il desiderio di trovare un senso in ciò che capitava nelle loro vite era una ricerca che il
impegnava quotidianamente.

Nel corso dei millenni, se alle persone fosse stato chiesto che cosa desse senso alla loro
vita, probabilmente quasi tutte avrebbero risposto: crescere i figli, contribuire al bene
della comunità, cercare di servire il proprio Dio nel miglior modo possibile.
A partire dal XVIII secolo la ricerca di un significato si separò progressivamente dai
sistemi di pensiero religiosi: fu l’uomo stesso a divenire oggetto di indagine.
Lo scopo della ricerca divenne non quello di scoprire Dio, ma chi siamo.
Dal XIX secolo la ricerca si era fatta più sistematica: si formò la sociologia, furono
aperte le prime biblioteche e i musei, furono organizzate grandi esposizioni, si iniziò a
viaggiare per mare e su ferrovia, ci fu un esplosione culturale nel mondo delle arti.
L’Occidente continuò a promuovere gli ideali umanistici, fondati sulla fiducia nello
sviluppo progressivo dell’umanità.

CAPITOLO 2: LA GRANDE GUERRA E IL MOMENTO MANIACALE


Tra i secoli XV e XVIII le grandi potenze europee (Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e
Francia) erano solite entrare in guerra l’una contro l’altra, poi facevano la pace, per poi
tornare a farsi la guerra (Realpolitik).
Fino a quel momento esisteva un codice d’onore tra quelle nazioni, anche quando i loro
uomini si uccidevano l’uno con l’altro, come avvenne nel Natale 1914 durante la Prima
Guerra mondiale, in cui i vari schieramenti dichiararono una tregua non ufficiale.
La Guerra di Crimea viene considerata la prima guerra moderna, ed è proprio qui che
scomparvero tutti quegli ideali che avevano unito l’Europa per mille anni.
Che cosa spinse queste nazioni a lasciarsi coinvolgere in una guerra che sarebbe andata
oltre ogni immaginazione? La Germania.
La Germania, agli inizi del XIX secolo, non disponeva ancora di un governo centrale,
era una nazione rurale e con poche industrie.
Grazie a Bismark il paese si formò in 5 anni, fino al 1871.
Prima del 1800 nessuna città tedesca aveva più di 100.000 abitanti, nell’arco di un
secolo avrebbe superato sia la Francia che la Gran Bretagna, stessa cosa per quanto
riguarda la produzione dell’acciaio.
Questo rapido sviluppo provocò un forte disorientamento nella popolazione, una
disturbante quantità di depersonalizzazione, che il benessere materiale non fu in
grado di curare. Tutto ciò portò alla dichiarazione di guerra: un’intera nazione cadde in
preda a uno stato maniacale.

CAPITOLO 3: IL CROLLO
Prendendo le distanze dalle caratteristiche odiose del carattere umano emerse durante la
Grande Guerra, fu possibile mantenere un senso di fiducia.
Questo processo viene definito scissione, ed è estremamente efficace: essa risponde alla
necessità di mettere da parte alcune cose per potersi concentrare su altro.
Di solito, quello che viene scisso non viene allontanato così tanto da non poter essere più
recuperato.
Tuttavia, se un pensiero disturbante diventa insopportabile per la mente, quest’ultima
può arrivare a esiliare l’idea che la inquieta, perdendo il contatto con la stessa.
La scissione dei pensieri indesiderati rende la mente più povera e debole, soprattutto
quando si presenta il problema di affrontare ciò che è stato scisso.
Questo processo riduce la nostra autostima, e alla fine anche la fiducia nella nostra
specie. Allo stesso tempo però scissione e identificazione proiettiva alleggeriscono la
mente e producono euforia, che può produrre ottimismo.
L’ottimismo che ha caratterizzato la società occidentale durante il XX secolo si è
prodotto grazie alla scissione su molte questioni, e attraverso la proiezione nell’Altro di
parti indesiderate del Sè e della società.
Questo Altro è stato trovato in Africa: l’Europa, durante il XIX secolo, ha colonizzato
gran parte del continente, e l’Altro è stato trovato nei selvaggi primitivi e violenti, in
modo che l’Occidente potesse essere sofisticato e puro.
Alimentati dall’idealizzazione del Sè, gli europei si sono sentiti autorizzati a
saccheggiare il mondo.

La capacità di uccidere è antica quanto la nostra specie, ma una violenza del genere è
difficile da spiegare: queste azioni omicide sono dirette da uno stato d’animo
maniacale, che può essere proprio di un individuo o di intere nazioni contro un nemico
contenente le parti scisse e indesiderate del Sè.
Ma se queste parti sono state proiettate all’esterno perché uccidere?
Perchè permane la minaccia che l’altro, in qualsiasi momento, restituisca al mittente le
parti proiettate, quindi solo annientando l’altro tali parti potranno essere distrutte.

CAPITOLO 4: CAMBIA IL CARATTERE UMANO


Teoria dell’assurdo di Camus: l’uomo è sempre alla ricerca di un significato per il
mondo, un significato per la sua esistenza sulla terra, eppure il mondo in cui viviamo è
privo di significato. L’assurdo è il confronto tra la ricerca di senso dell’uomo e
l’insensatezza della vita.

CAPITOLO 5: SE’ DIVISI


Chi soffre di personalità borderline è scisso tra due stati d’animo distinti, negativo e
positivo. Queste persone parlano in toni idealizzanti di un collega per poi descriverlo, il
giorno successivo, in termini molto critici e aggressivi.
Ciò che li distingue è la totale inconsapevolezza rispetto al fatto di nutrire opinioni
opposte nei confronti di una stessa persona.
Il Sè negativo e il sé positivo non comunicano affatto tra di loro.
Inoltre i borderline si distinguono per l’intensità della rabbia che fa seguito a ciò che può
apparire come una grande idealizzazione di sé e degli altri.

Un altro tipo di scissione è il Sè dissociato, in cui una parte del Sè rimane immersa negli
eventi, mentre un’altra parte prende le distanze da essi.
Il sé dissociato prende le distanze da una componente traumatizzata della personalità che
tuttavia non viene persa di vista, anzi, rimane ben visibile.
Questo Sè cammina mano nella mano con la sua parte traumatizzata della personalità;
l’effetto finale sarà una mancanza di comunicazione tra queste due parti.

Quando una persona ritiene che una questione sia troppo complessa o dolorosa è
possibile che la affronti tramite differimento: è come se l’inconscio dicesse “Non è una
cosa cui si possa pensare ora, un giorno forse…”.
Il differimento e il rifiuto di pensare a un evento sono forme di dissociazione.

CAPITOLO 6: NORMOPATIA E SINDROME DEL COMPOUND


Il normopatico cerca riparo dalla vita mentale immergendo il Sè nel comfort materiale e
in una vita di svaghi. E’ una persona anormalmente normale, troppo stabile, sicura,
tranquilla ed estroversa, totalmente disinteressata alla vita soggettiva, che tende a badare
solo alla materialità degli oggetti.
Ama i fatti perché sono rassicuranti, è il precursore del cosiddetto Sè trasmissivo.

Le persone col passare del tempo si sono ritirate in comunità recintate, alcune
metaforicamente, altre realmente. Negli anni 50 erano ancora poche, ma negli anni 80 si
sono moltiplicate, e verso la fine del secolo circa l’1% della popolazione americana si
era ritirato in questi compound, conducendo una vita in gran parte priva di contatti con
la gente comune del mondo esterno.
Anche fuori dai loro compound gli oligarchi dello scorso secolo rimanevano isolati dalla
vita reale, seduti nella loro limousine dai vetri oscurati, sempre scortati da una
condizione di privilegio all’altra.
La filosofia di vita del compound si è diffusa anche nelle classi medio-alte: ordinare
indumenti online senza recarsi nei negozi fisici, avere visite specialistiche a domicilio.

La sindrome del compound implica una forma di deprivazione che produce un Sè


scarsamente alimentato dal punto di vista intellettivo e sensoriale. In mancanza di
esperienze originali e stimolanti, il Sè perde gradualmente l’interesse a cercare ciò che
da gusto alla vita, perché non riesce più a ricordarsi che effetto facesse.
Tutto questo porta a una depressione profonda.
Queste persone di solito ricorrono all’alcol, ai farmaci o alle droghe, vengono prese in
cura presso centri di riabilitazione, istituzioni simili ai compound che producono
ulteriore isolamento. Questi centri si avvalgono spesso di life coach come ex navy seals
o rangers dell’esercito.

CAPITOLO 7: SE’ TRASMISSIVI


Il sé trasmissivo è una nuova formazione del sé venutasi a creare negli ultimi anni a
causa dell’avvento di Internet e, successivamente, dei social media.
Utilizziamo ogni genere di oggetto che trasmetta informazione: da quelli antichi come
carta, radio, televisione e telefono, ai nuovi, come Facebook, Instagram, Tik Tok, ecc.
L’autore del libro afferma che negli ultimi anni si stia normalizzando l’uso del cellulare
nel momento in cui si sta con altre persone, come ad esempio un pranzo di lavoro.
Essere multitasking non è più una capacità ammirevole, ma essenziale.
Distinguiamo allora il nostro Sè sostanziale, cioè un contenuto che trasmettiamo agli
altri, dal nostro Sè formativo, che è il comunicatore.

Durante la giornata entriamo in contatto con gli altri in molti modi, ma quando
abbandoniamo le persone reali per dedicarci ai contatti virtuali, siamo
momentaneamente dissociati.
Se ogni persona presente è impegnata nella comunicazione con un interlocutore virtuale,
il gruppo si trova in uno stato di dissociazione reciproca. Questa è una funzione
importante del nuovo mondo: scindiamo il Sè in un Sè che si associa e in un Sè che si
dissocia. Una nuova funzione del gruppo consiste nel tollerare entrambi gli stati.

CAPITOLO 8: NUOVE FORME DEL PENSIERO


Nel XX secolo si sta affermando una nuova forma di pensiero: l’orizzontalismo, che
corrisponde all’eliminazione del concetto di priorità a vantaggio di equivalenze che
rendono tutte le idee ugualmente valide. Esso non riconosce un ordine gerarchico, tutte
le idee sono uguali e nulla è più importante di qualcos’altro.
A esso si aggiunge l’omogeneizzazione, ovvero il bisogno di eliminare le differenze e di
modellare un mondo di essere indistinguibili.
L’operazionismo è un tipo di pensiero-azione in cui la riflessività viene
immediatamente convertita in un piano di azione.
Alcuni studiosi ritengono che questa sia l’epoca dell’esibizione: sembriamo attratti dalle
immagini di vita nell’universo mediato dalle tecnologie.
Insight: capacità di vedere dentro se stessi
Visuofilia: uso della vista finalizzato a un evitamento dell’insight. Una persona che
tende a guardare più che a pensare è un visuofilo.
Una caratteristica della visuofilia è il pensiero rifrattivo, che seleziona una
caratteristica secondaria all’interno di una comunicazione, mettendola in evidenza e
condannando il nocciolo della comunicazione all’oblio: il pensiero rifrattivo quindi
elimina il significato.

CAPITOLO 9: RIANIMAZIONE
Il ritorno dell’oppresso consiste nel ritorno di idee indesiderate che viene affrontato
tramite la riformulazione: l’idea viene presentata come lecita per mezzo di una
formulazione dissimulata.
Negli ultimi anni del secolo scorso si è avuta una morte del linguaggio (linguisticidio),
aprendo la strada a sistemi di emotività condivisa, luoghi comuni, clichè. In questa
epoca di discorsi banali, ritrovare usi del linguaggio più sofisticati significa ridare potere
al Sè nel momento in cui si dedica al compito dell’introspezione.
Riscoprire il piacere del linguaggio costituisce un’esperienza emotiva importante perché
la formulazione verbale libera emozioni e affetti che sono stati sepolti e compromessi da
forme degradate del pensiero e da una perdita di interesse per la parola stessa.
Descrivere nel dettaglio i propri pensieri a un’analista significa fissare residui
psicologici diurni. La libera associazione stimola la curiosità: tutto questo contribuisce a
quello che Freud definisce il “magazzino delle idee”.

CAPITOLO 11: LA MENTE DEMOCRATICA


I pensieri che attraversano la mente sono vari e contraddittori, alcuni sono talmente
mostruosi da risultare intollerabili alla coscienza.
L’analista deve impegnarsi a mantenere la neutralità: non deve intervenire in alcun
modo che possa impedire a una qualsiasi idea di trovare espressione.
John Stuart Mill ritiene infatti che il Sè in ascolto debba tollerare tutto il peso dei punti
di vista degli altri, non semplicemente come fenomeni affini, ma come esperienze
emotive potenti.
L’autore però riconosce anche i problemi posti dai pregiudizi, dalle superstizioni,
dall’invidia, dall’arroganza o dal disprezzo, sentimenti che fanno parte dell’agire
nell’interesse personale. Questa dottrina dell’interesse personale corrisponde a ciò che
oggi definiremmo una difesa narcisistica: la persona proietta le proprie opinioni sugli
altri, ritenendo che siano universali, mentre qualsiasi altro punto di vista è considerato
errato.

Bion, invece, era d’accordo con il pensiero di Mill, ma dopo aver visto le due guerre e
aver preso parte a esperimenti di psicologia sociale, si rese conto che se lo psicoanalista
non si prende cura del gruppo, i membri scivolano verso stati primitivi e molto
disturbati. Insieme ad altri studiosi, egli credeva che la democrazia fosse un
riconoscimento del modo in cui la mente lavora.

Barbu credeva che la democrazia avesse bisogno dei cittadini giusti per poter essere
efficace: sostiene che vi sia la necessità di una disposizione mentale ben precisa,
ovvero di particolari esperienze, atteggiamenti, pregiudizi e credenze condivise da tutti.

La Tavistock Clinic (anni 70) veniva scelta da analisti provenienti da ogni parte del
mondo per la propria formazione. Il Gruppo Tavi si distingueva per un particolare
approccio: qualunque cosa venisse detta, in qualsiasi momento e da qualsiasi membro,
doveva essere considerata rappresentativa di tutti i membri di quel gruppo.
In questo modo stati della mente apparentemente estremi sono trasformati in idee
sopportabili su cui poi è possibile riflettere.
Ciò crea uno “spazio potenziale”: il gruppo ha la possibilità di esprimere e considerare
qualsiasi pensiero collegato all’idea che è stata espressa.
Lavorando in questo modo, si scopre l’effetto terapeutico del processo democratico: la
democratizzazione dissemina emozioni o idee divergenti tra molte persone, che le
elaboreranno e le tradurranno in modo diverso.

L’autore afferma che tutti abbiamo una pulsione a rappresentare, un bisogno di


esprimere le nostre opinioni. Questa pulsione deriva dal godimento che il bambino prova
quando riesce a esprimersi e quando poi riesce a parlare: essa non è qualcosa che si
manifesta perché è stata trasmessa nei secoli, ma perché esiste in ognuno di noi come
caratteristica intrinseca della necessità di parlare liberamente.
La paranoia positiva è colma di opinioni estremamente conflittuali e controverse,
mentre la paranoia negativa è priva di qualsiasi opinione, eccetto quelle che servono a
negare l’altro.
Nessuno di questi due stati mentali consente la partecipazione al processo democratico,
perché nessuno dei due è in grado di riflettere sulle idee diverse dalle proprie né di farne
uso.

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