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INTRODUZIONE
Col termine “morale” si allude al comportamento, al costume, al modo di agire degli
uomini. La filosofia morale non si limita a descrivere la vita e l’agire dell’uomo, ma si
chiede quale dovrebbe essere il suo comportamento per poter dire che la sua è una
buona vita e un agire degno.
SOCRATE
E’ solo grazie ai primi Dialoghi di Platone che conosciamo il pensiero socratico, dato
che Socrate non ha lasciato scritti autografati.
Secondo Socrate solo se conosciamo noi stessi saremo in grado di sapere cosa sia il
bene o il male, in più conoscendo noi stessi sapremo anche cosa è meglio per gli altri.
Se il bene dipende da chi sono, allora dovrò capire cosa mi qualifica come uomo, ovvero
l’anima, dove risiede la razionalità (logos).
Non è possibile essere felici se non si è saggi e buoni, ovvero se non si è virtuosi:
l’intelligenza ci consente di cogliere ciò che è più bello e conveniente per la propria vita
liberandoci dai condizionamenti e facendoci dipendere solo dall’anima razionale.
In particolare si fa riferimento alla virtù dell’uomo, la parte razionale dell’anima, quella
che è segno del divino in noi: bene è ciò che è più consono alla nostra anima conoscitiva
e razionale.
Se governate dalla ragione tutte le azioni saranno utili, il contrario accadrà se non
si segue l’anima razionale. Tutte le qualità dell’anima non sono in sé né utili né nocive,
ma tali divengono se accompagnate dall’intelligenza e dalla stoltezza.
Quindi secondo Socrate chi SA fa il bene mentre chi NON SA fa il male, dunque se ci
comportiamo male è perché non conosciamo il bene, questo accade anche quando
fraintendiamo il significato e il valore del male e quindi lo scambiamo per il bene.
Il male non si presenta mai come tale, ma con l’aspetto attraente del bene, la
conoscenza aiuta a smascherare i travestimenti del male.
Se si è virtuosi, quindi buoni, si è anche liberi, altrimenti si è schiavi della propria
ignoranza.
PLATONE
Platone parte dalla riflessione di Socrate, arricchendola. Afferma che la vera realtà non
è data dal mondo sensibile, ma dal mondo soprasensibile delle idee che può essere
conosciuto dalla ragione (dianoia) e dall’intelligenza (nous).
Il bene è conoscenza, come affermava Socrate, ma conoscenza del bene supremo,
quello in virtù del quale tutte le cose buone sono tali, perché le rende intellegibili e reali,
cioè l’idea del bene.
L’idea del bene è anche al di sopra dell’essere, quindi inaccessibile alla nostra
comprensione se non attraverso metafore e similitudini. Il bene è qualcosa di
trascendente di cui si può avere solo una conoscenza parziale, l’importante è che l’uomo
sia consapevole che i beni umani siano relativi e non assoluti.
Nella Repubblica, Platone espone la sua concezione ontologica (relativa all’essere) e
gnoseologica (relativa alla conoscenza). La realtà e la conoscenza sono strutturate per
gradi:
MONDO SOPRASENSIBILE CONOSCENZA FORMATA DA
Idea del bene Sapere che si esplica in:
- nous (intelligenza, coglie la conoscenza
dialettica delle idee)
- diànoia (ragione, coglie il ragionamento
matematico-geometrico)
idee Doxa (grado di conoscenza inferiore e
contrapposto allo stadio della verità
assoluta) che si esplica in:
- pistis (credenza, coglie le cose stesse)
- eikasìa (immaginazione, coglie
l’immagine sensibile delle cose e ritiene
erroneamente che si tratti della realtà)
Numeri, figure geometriche, enti
matematici
Enti sensibili
Immagine sensibile delle cose
L’idea del bene è ciò che viene perseguito da tutti e costituisce il fine di ogni azione.
Per raggiungerla occorre abbandonare il sapere della doxa per ricorrere a quello della
dianoia ma soprattutto del nous.
Nel Filebo Platone affronta la questione di quale sia la vita buona dell’uomo, ponendo a
confronto i due fenomeni del piacere e del pensiero.
Afferma che una vita costituita solo dal piacere si addice più agli animali che all’uomo;
una vita costituita solo dal pensiero avrebbe una matrice più divina che umana. E’ quindi
opportuno adottare una vita mista, vissuta sia dal piacere che dal pensiero.
Ma l’accento è posto sull’intelligenza dato che ha certamente una maggior affinità con i
caratteri del bene ed è in essa che risiede la ragion d’essere della bontà della vita mista.
La metafisica è una disciplina che nasce legata agli scritti di Aristotele, il concetto nasce
però con Platone, cioè individuare le cause delle cose non in questa realtà, ma in una
superiore che funga da modello, in cui è possibile individuare il vero essere.
Egli riteneva che ci fossero due modi in cui l’uomo si rapporta alla stessa realtà.
C’è un modo che si ferma all’apparenza.
Mentre per Platone bisogna andare oltre, non con i sensi dell’intelligenza, così è
possibile scoprire il vero essere delle cose e le loro vere ragioni, i veri principi a cui
bisogna conformarsi da un punto di vista dell’agire morale.
Platone va oltre Socrate, individuando una realtà superiore.
Platone fa un passo avanti nello studio della natura umana, perché si rende conto che il
problema non è di contrapposizione di anima e corpo.
L’anima dell’uomo è tripartita:
- l’irascibile, che contiene l’impulso ad agire
- la concupiscibile, che contiene appetito e desiderio
- la razionale, che deve fungere da guida alle altre
L’uomo è anche corpo, ed è anche emozioni e passioni che sono strettamente legate al
corpo.
Il percorso che l’uomo deve realizzare secondo Platone è sempre un percorso virtuoso,
l’uomo per natura deve andare oltre l’apparenza delle cose.
L’uomo deve far prevalere la razionalità sugli istinti, ciò nonostante gli istinti non
possono essere sradicati, quindi alla fine egli invita a seguire una vita mista di
intelligenza e piacere.
I piaceri a cui l’uomo buono si atterrà sono soprattutto i piaceri dell’anima e i piaceri del
corpo, ovvero quelli naturali e necessari.
DIFFERENZE
Per Socrate il bene si conosce attraverso l’esperienza dello stesso, per Platone il bene si
conosce attraverso un percorso in cui bisogna utilizzare ragione e intelletto.
Platone fa un’analogia col Sole, che per lui è l’idea del bene, che rende possibile la
conoscenza di tutte le altre idee.
ARISTOTELE
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele afferma che il bene è ciò a cui tutto tende, quindi
bene e fine (telos) si identificano. Questi fini, e i relativi beni, sono collocati
gerarchicamente tra loro, oltre ad essere l’uno strumentale dell’altro, e ve n’è uno che è
fine di ogni azione: il bene supremo, ossia la felicità (eudaimonìa) non ricercata in
funzione di altro. La felicità non può essere ricercata negli onori, che possono venire a
mancare, nel piacere, che ci rende schiavi degli stessi, o nella ricchezza che è per
definizione un mezzo e non un fine.
Aristotele critica il ragionamento astratto di Platone sull’idea del bene: Aristotele era
un filosofo più concreto e legato al mondo sensibile e a quella che è l’esistenza
dell’uomo in questa dimensione. Quindi l’idea del bene di Platone e la sua ricerca sono
per Aristotele impraticabili, anche quando il sapiente lo individua, perché non è facile da
mettere in atto.
Aristotele critica il dualismo platonico (mondo sensibile/mondo delle idee), non esistono
due dimensioni, bisogna occuparsi di quello che c’è in questa dimensione.
Per Aristotele la felicità non è altro che la piena fioritura e realizzazione del proprio
essere. Tutto ciò che vive nella realtà vive grazie all’anima.
L’anima è una funzione biologica, tanto che quando un essere vivente muore l’anima si
dissolve perché essa non è altro che la funzione che da la possibilità al corpo di vivere.
Quando Aristotele individua l’uomo, fa una distinzione rispetto alle altre specie,
parlando di logos (parola, discorso, ragione).
Il buon vivere è contrassegnato dalla bontà, un insieme di qualità che l’uomo deve
acquisire. Queste qualità Aristotele le chiama virtù, ossia gli strumenti essenziali per
essere felici. Le virtù sono tante e non sono tutte uguali, alcune possono essere acquisite
da tutti gli uomini, altre solo da uomini che sono riusciti ad acquisire tutte le virtù del
primo tipo e sono capaci di acquisire anche quelle del secondo tipo.
La virtù è necessaria ma non è sufficiente, perché l’uomo è un animale mortale e
razionale, non possiamo pretendere che l’uomo a cui mancano dei beni materiali,
dei beni del corpo, possa essere felice.
L’uomo quindi per essere felice deve essere virtuoso ma deve anche avere dei beni,
come una casa, amici e una famiglia.
Per Aristotele vi sono diversi tipi di uomo:
- l’uomo bestia
- l’uomo civilizzato
- gli dei
LE VIRTU’
Le virtù possono essere:
- etiche, come la giustizia e il coraggio, inerenti alla sfera pratica della ragione
- dianoetiche, che riguardano l’intuizione intellettuale
Le virtù etiche devono essere acquisite da tutti gli uomini e sono le virtù che fanno capo
all’anima sensitiva dell’uomo.
L’anima ha tre funzioni diverse:
- funzione vegetativa
- funzione sensitiva
- funzione razionale
Le due virtù più note sono la sapienza e la saggezza.
Il filosofo è colui che ha raggiunto il sapere massimo, è l’uomo più felice, perché ha
tutto: virtù etiche, dianoetiche e i beni.
LE SCUOLE ELLENISTICHE
Le scuole ellenistiche nascono nel 300 a.C., e sono basate sulla fusione della cultura
greca con quella orientale.
Le tre scuole ellenistiche sono:
- EPICUREISMO (Epicuro di Samo)
- STOICISMO (Zenone di Cizio)
- SCETTICISMO (Pirrone di Elide)
Fattori comuni delle tre scuole:
- crisi della polis e dell’ideale politico democratico a causa degli eventi storici: nasce
l’ideale cosmopolita, in cui l’uomo non è più il cittadino della polis, ma il cittadino del
mondo.
- crollo dell’identificazione dell’uomo con il cittadino della polis. L’uomo non ha più
valori politici di riferimento e la vita umana non ha più lo scopo di diventare buoni
cittadini. L’uomo quindi si chiude in se stesso e ricerca nuovi valori e si scopre come
individuo. Essere individuo è qualcosa di più di essere cittadino.
- distacco tra etica e politica. Queste scuole indagheranno solo sull’etica, mentre la
politica viene rifiutata come una cosa neutra o nociva, perché fonte di turbamenti e
preoccupazioni.
- separazione tra filosofia e scienza. Se prima molti filosofi erano anche scienziati, ora
le due discipline diventano autonome. Questa separazione viene ancor di più legittimata
da una dislocazione geografica: Atene diventa centro della filosofia e Alessandria
d’Egitto diventa centro della scienza.
La differenza tra le etiche antiche e medievali sta nella dimensione nella quale realizzare
la propria felicità.
Nelle filosofie pagane la dimensione è quella del mondo terreno; nelle filosofie
medievali la felicità non può essere un obiettivo del percorso terreno, l’importante è
rendersi degno per la felicità nell’aldilà.
PLOTINO
La sua visione è esposta nelle raccolte dette Enneadi.
In esse identifica il Bene con l’Uno di Parmenide, e ad esso fa derivare il mondo
intellegibile e quindi quello sensibile. Il bene per l’uomo consiste nel ritornare alla
propria origine, ovvero al principio di tutto ciò che è, al Bene-Uno.
L’uomo deve sganciarsi dalla realtà corporea e materiale ed elevarsi sino al
accoglimento dell’Uno; dovrà percorrere una via di purificazione che esigerà anche il
concorso della filosofia, ma che poi richiederà un suo superamento attraverso una sorte
di unione sovra-nazionale con l’Uno stesso.
Il pensiero di Plotino ruota attorno al problema di come sia possibile giustificare l’unità
del reale, di come si debba intendere il rapporto tra l’Uno e i molti. Per egli si può
parlare di unità solo in riferimento al soprasensibile e allo spirituale.
Per Plotino il corpo è nell’anima, l’uomo deve capire che la fonte della vita è
nell’ipostasi dell’anima, che il fondamento della verità sta nell’Intelligenza, che la radice
del bene e del divino sta nell’Uno, e che quindi l’origine di tutto sta nell’Uno.
Il bene per l’uomo quindi è il bene della sua parte migliore, del suo vero essere, quello
spirituale, ovvero è il bene dell’anima, che a sua volta dipende dal Bene supremo.
Nell’uomo è l’anima che ha natura eccellente ed orienta all’eccellenza il suo agire.
Il bene non tende a nulla, è al di là dell’essere: è come un centro rispetto al quale si
dispongono un cerchio immobile dell’Intelligenza, e uno mobile dell’anima.
Il cammino verso l’Uno può avvenire inizialmente usando l’intelligenza e la
razionalità, ma da un certo punto in poi si dovrà divenire una sola cosa con l’Uno e
questo non si può insegnare o comunicare, è un esperienza intima e personale.
CONCLUSIONE
La ricerca del bene assume in tutti un carattere etico, e fonda sempre le sue radici
nell’antropologia. Ciò che distingue i due movimenti (Platone-Plotino e Aristotele) è la
presenza di un itinerario etico-ontologico di purificazione nei primi, e la necessità di
interrogarsi sul bene pratico per poterlo realizzare nel secondo.
CAPITOLO 2
FELICITA’ E VIRTU’: ARISTOTELE, EPICURO, STOICI
Per gli antichi parlare di etica significava parlare di felicità, quindi c’è una forte
differenza con il nostro consueto modo di guardare alla vita morale, secondo il quale
l’etica ha a che fare con l’obbedienza della legge e dell’obbligo.
EPICURO
Considera la saggezza e la vita pratica condizioni sufficienti e necessarie al
compimento della felicità, ma il punto di partenza è sempre la felicità (piacere), non la
virtù (questo lo distingue da Aristotele e stoici). Se l’uomo è virtuoso può essere felice
anche in situazioni drammatiche e dolorose; egli parla di auto sufficienza ed autonomia
del soggetto, di ricercare la serenità rinunciando a ciò che è superfluo e coltivando
l’amicizia. E’ da sfatare quindi il mito di un epicureismo che promuove il piacere
materiale.
STOICI
Secondo gli stoici la virtù è il fine ultimo che l’uomo deve perseguire.
La virtù è quella predisposizione alla coerenza morale che ci fa porre in secondo piano
l’interesse personale: quando si agisce immoralmente in vista di un interesse personale si
è infelici.
La felicità si realizza solo nella virtù. Il saggio è distaccato da quegli aspetti che gli
stoici chiamano indifferenti: vita, morte, malattia, salute, bellezza, bruttezza, ricchezza,
desiderio, paura, dolore e piacere.
La virtù non ammette adesioni intermedie, si esplica in ogni azione o in nessuna.
Concludendo, per Aristotele sono necessari alcuni beni esterni, per gli Epicurei e gli
Stoici no: per gli epicurei il primato è della felicità, per gli storici è la virtù.
CAPITOLO 3
IL BENE E LA VIRTU’: AGOSTINO, BONAVENTURA E TOMMASO
D’AQUINO
Agostino (354-430 d.C.) funge da cerniera tra l’epoca tardo antica e il medioevo, è il
primo esponente della filosofia cristiana. Si fa coincidere la crisi della filosofia pagana
con l’editto di chiusura delle scuole di Atene promulgato da Giustiniano.
Egli riprende molte concezioni da Plotino ma alcune le rifiuta, come l’identificazione
del male con la materia.
Secondo lui tutta la realtà creata è buona, perché è creata da Dio a sua immagine e
somiglianza, ed egli è un Dio buono. Il male coincide con il peccato.
Viene definito Apologista, ovvero difensore e sostenitore, lui infatti difende il
Cristianesimo, crede che cristianesimo e filosofia debbano collaborare.
Per Agostino la creazione delle cose è dal nulla, ossia non dalla sostanza di Dio e
nemmeno da qualcosa che preesisteva. Per lui una realtà può derivare da un’altra in tre
modi:
- Generazione: il generato deriva dalla stessa sostanza del generante
- Fabbricazione: il generato deriva da una sostanza esterna al generante
- Per creazione dal nulla assoluto: il generato non viene né dalla sostanza del
generante, né dalla materia esterna, E’ un dono divino dovuto alla libera volontà di Dio.
Per Agostino il male non esiste, non è una sostanza, ma i beni sono disposti in una
gerarchia di valore che giunge fino al Sommo Bene (Dio), e quando l’uomo sceglie
un bene minore rispetto a uno maggiore, attua il male (desertio meliorum).
DE MAGISTRO
Dialogo diviso in tre sezioni sull’efficacia del linguaggio.
1. Parlare significa trasmettere i contenuti del proprio pensiero utilizzando dei segni
2. Le parole da sole non sono capaci di comunicare un contenuto, ma sono
semplicemente delle etichette che rimandano a un ricordo
3. Introduce quindi una riflessione teologica finalizzata a mostrare come solo la comune
fede in Dio possa essere garanzia di una comunicazione efficace tra gli uomini.
CITTA’ DI DIO
Noi non dobbiamo disprezzare il mondo in cui viviamo perché è stato creato da Dio,
tuttavia è possibile che le leggi a cui l’uomo deve sottostare non siano buone: ciò non
vuol dire che dobbiamo opporci, ma bisogna vivere distinguendoci, e se le leggi non
sono buone bisogna farlo notare o seguirle comunque.
BONAVENTURA DI BAGNOREGIO
Bonaventura (1221-1274) scrive il “Itinerarium mentis in Deum”. Qui afferma che
occorre ricercare il sommo bene di Dio al di sopra di se stessi, non in senso fisico ma
con uno slancio del cuore, con la consapevolezza di non poterci riuscire se una forza
superiore alla nostra non ce lo consente, l’aiuto di Dio.
Grazie a Dio l’uomo è in grado di compiere tre tappe:
- la considerazione del mondo fuori di noi contemplandone la bellezza ed i segni di Dio.
- il ritorno in noi stessi, nella nostra mente, che è immagine di Dio
- l’atto di trascendere noi stessi e incontrare Dio
Egli afferma l’unitarietà del sapere garantita dalla teologia ma che prevede anche un
ruolo subordinato della filosofia.
Nella Prima Secundae della Summa Teologica, Tommaso istituisce una gerarchia tra il
concetto di virtù e quello di legge:
- la virtù è vista come uno dei principi intrinsechi degli atti umani
- La legge è definita come un principio estrinseco, quindi subordinato al primo
La virtù è un habitus, lo stile di vita che contraddistingue l’essere di una persona.
L’abito non è innato ma si costruisce con la nostra volontà.
La virtù è un abito operativo, che richiede impegno ed esercizio perché si formi in noi:
la virtù è la perfezione della potenza.
Secondo Tommaso esistono due tipi di potenza e quindi due generi di virtù:
- Potenza dell’essere: si realizza quando la materia o il corpo realizza il proprio scopo
di base, ad esempio un corpo in salute. E’ riscontrabile negli uomini ma anche negli
animali
- Potenza a operare: è in relazione con la forma, e la forma dell’uomo è l’anima
razionale. Essa è la potenza propria dell’uomo che rende possibile l’agire libero
dell’uomo.
CAPITOLO 4
LIBERTA’ E VOLONTA’: AGOSTINO, TOMMASO D’AQUINO, DUNS
SCOTTO
In epoca medioevale il concetto di libertà era molto diverso da quello attuale: oggi
libertà significa possibilità di fare ciò che si desidera, tenendo conto anche delle
esigenze altrui. Per i filosofi medioevali la libertà si riferiva alla piena adesione al bene
(libertas maior) o a una scelta che può portare al bene o al male (libertas minor).
Il libero arbitrio era considerato come un’adesione all’ordine ontologico del creato.
Il campo di azione della libertas minor sono i beni piccoli e medi (salute, ricchezza),
perché possono essere rivolti sia al bene che al male; la libertas maior agisce nelle virtù,
che non possono essere utilizzate per compiere il male.
Per Tommaso D’Aquino la volontà è un appetito intellettivo, cioè l’inclinazione verso
un oggetto desiderato.
Questo appetito può mostrarsi in tre modalità:
- Appetito naturale: riscontrabile in tutti gli esseri esistenti ed è la tendenza
inconsapevole alla preservazione del proprio essere
- Appetito sensitivo: impulso animale a conservare sé stessi attraverso il cibo e la
procreazione
- Appetito intellettivo: di sola competenza umana, tendenza verso un oggetto che viene
riconosciuto come bene.
Per Tommaso volontà e libero arbitrio costituiscono la stessa potenza, a cui ci riferiamo
col primo termine quando rivolta al fine ultimo, con il secondo quando si riferisce ai
mezzi per raggiungerlo.
L’uomo, con la volontà, non può non volere il bene universale, ma il libero arbitrio,
rivolto ai beni inferiori, può valutare erroneamente rapporto gerarchico tra i beni e
prediligere quelli inferiori.
Per Tommaso il primato della scelta è da attribuire all’intelletto, perché è vero che
l’azione diretta è della volontà, ma la volontà riceve gli elementi di valutazione dalla
razionalità, ed è quest’ultima che ci caratterizza come esseri umani.
Tommaso nella Summa sostiene che l’atto con cui la volontà tende a qualcosa presentata
come buona appartiene materialmente alla volontà e formalmente alla ragione.
Questa posizione viene spesso interpretata come Intellettualismo (intelletto come
fondamento di ogni conoscenza), ma in realtà Tommaso attribuisce anche alla volontà un
aspetto rilevante, perché essa può anche agire in contrasto con l’intelletto.
DUNS SCOTO
La posizione di Duns Scoto viene definita volontaristica (concezione che afferma la
preminenza della volontà sull’intelletto).
Per Scoto è la volontà a risultare superiore perché questa attesta la dignità dell’uomo
come essere libero. Per egli esiste una netta separazione tra natura e volontà: la natura
è caratterizzata dalla necessità, ovvero poste alcune cause si avranno degli effetti, mentre
la volontà è libera.
La volontà non è determinata né dall’intelletto, né dall’oggetto a cui si riferisce.
Quindi le modalità, i tempi, le circostanze di un atto sono sicuramente dettate dalla
ragione, ma l’atto è morale in quanto frutto della libertà e quindi della volontà.
Egli afferma che è più importante amare il bene e ricercarlo con tutte le forze, piuttosto
che conoscerlo.
L’essenza dell’uomo quindi è amore, non razionalità.
ETICA E POLITICA:
MACHIAVELLI, ERASMO DA ROTTERDAM, TOMMASO MORO
1400-1500
E’ un periodo che fa da cerniera tra il medioevo e l’epoca moderna: nasce in
contrapposizione al medioevo, che viene considerato un’epoca buia, contrassegnata da
superstizioni, un atteggiamento antiscientifico, religioni monoteiste e filosofie che si
articolano attorno ai principi dogmatici.
Inoltre, la politica si distacca dall’etica, perché, secondo i politici, essa deve procedere
secondo i suoi principi e non quelli dell’etica. Inizia a farsi strada la cosiddetta ragion di
Stato, per cui ciò che conviene allo stato e alla politica è superiore a ciò che
converrebbe da un punto di vista morale.
MACHIAVELLI
Machiavelli, in esilio, scrisse Il Principe.
Qui esprime la sua visione pragmatica della politica, ambito in cui il principe non deve
perseguire finalità astratte o idealistiche, ma analizzare la verità fattuale delle cose,
non pensare a come si dovrebbe vivere ma a come si vive.
Egli afferma che il principe deve farsi temere piuttosto che amare: l’obiettivo
dell’autore era quello di esporre le ragioni in favore dell’autonomia della politica.
Il principe deve conoscere la natura dei suoi cittadini, e nel momento in cui la conosce
saprà come agire su di loro.
Secondo Machiavelli, dato che la natura dell’uomo è malvagia, il principe non deve
imparare a essere buono, ma dovrà farsi temere.
Anche Platone aveva una visione pessimistica dell’uomo, ma mentre per quest’ultimo
l’individuo può cambiare con l’educazione, per Machiavelli l’uomo non cambia.
ERASMO DA ROTTERDAM
E’ noto per aver preso parte al movimento della riforma protestante, un importante
movimento religioso sorto all’interno del cristianesimo occidentale nell’Europa del XVI
secolo che pone una sfida teologica e politica alla Chiesa cattolica e in particolare al
Papa, derivante da ciò che era percepito come errore, abuso e discrepanza rispetto
all’ideale cristiano. La riforma causò la scissione della Chiesa in Chiese riformate e
Chiesa cattolica romana.
Erasmo è un filologo che legge direttamente gli autori antichi, facendo anche delle
traduzioni. I suoi scritti hanno soprattutto una finalità formativa, secondo lui il vero
principe deve avere la formazione del filosofo, ovvero dovrebbe saper riconoscere e
ricercare i beni autentici.
Tuttavia anche per lui gli uomini sono corruttibili, quindi descrive il politico in senso
negativo: l’ottimo principe per lui è il meno corrotto, il meno avido, il meno
irascibile e il meno avventato, colui che cerca di imitare il bene.
Per Erasmo il modello dell’uomo buono è Cristo, quindi in qualche modo il principe
deve essere l’immagine di Cristo.
In Educazione del Principe Cristiano (1515), opera dedicata a Carlo re di Spagna, colui
che diventerà Carlo V, egli parla della philosophia christi, cioè la sua posizione
filosofico-teologica: il principe deve essere educato come un filosofo per vedere oltre
l’apparenza delle cose e riconoscere i beni autentici. E’ un riferimento a Platone.
Con Erasmo si ha di nuovo la necessità di intrecciare politica ed etica.
Per lui la forma politica migliore è la monarchia, poiché siccome è difficile trovare
uomini giusti, virtuosi e corretti, quando se ne trova uno allora la monarchia potrebbe
essere la soluzione ai problemi.
Ma la monarchia può trasformarsi in tirannide, se il principe persegue i suoi interessi
personali. In assenza di un uomo adeguato a ricoprire il ruolo del monarca è preferibile il
governo misto di monarchia, aristocrazia e popolo, in modo da suddividere il potere
dell’uno su più persone.
Erasmo viene considerato uno dei primi pacifisti della storia, credeva che il principe
deve cedere, se si rende conto che il suo operato fa male al suo stato e ai suoi cittadini.
TOMMASO MORO
Tommaso Moro è stato uno studioso, presidente della camera dei comuni e Gran
cancelliere sotto Enrico VIII.
Nel 1516 pubblica grazie all’aiuto di Erasmo il De optimo reipublicae statu, deque nova
insula utopia, due libri resoconti del navigatore Roberto Itlodeo.
Nel primo libro egli descrive la società inglese, di come buona parte della popolazione
sia ridotta in povertà e di come invece ne abbia guadagnato una piccola parte; inoltre
aggiunge che a nulla servono le pene più dure in quanto basterebbe evitare che la gente
sia costretta a rubare.
Nel secondo libro descrive Utopia: etimologicamente indica qualcosa che non esiste
ma che potrebbe esistere.
Questa è un’opera visionaria, che rientra nell’ambito della letteratura utopica, che
denuncia da una parte una realtà, e in una seconda fase propone un ideale.
Nella prima parte Moro chiede a Itlodeo di riflettere sulle condizioni storiche in cui essi
stanno vivendo in Inghilterra, epoca di grande crisi economica, causata soprattutto dalla
chiusura di grandi terreni per adibirli a pascoli, dato che il Paese aveva scoperto
l’industria tessile. Ciò ha determinato l’abbandono delle campagne e un impoverimento
dei contadini, che a loro volta diventano ladri, creando una situazione critica dal punto di
vista della sicurezza.
Itlodeo si imbarca con Vespucci e viene a conoscere l’isola di Utopia, un luogo che nella
realtà deve fungere da metro di giudizio per il mondo esistente e da realtà a cui ispirarsi.
Su Utopia vige la giustizia e la comunione dei beni, perché la proprietà privata è vista
come l’origine di ogni male. Ciascun gruppo di 30 famiglie elegge un magistrato, il
senato dei magistrati elegge un magistrato supremo.
Le attività lavorative si concentrano nell’agricoltura, alla quale tutti sono chiamati, i
letterati possono dedicarsi allo studio, le malattie si curano in ospedali pubblici e
gratuiti, gli anziani sono sostenuti dalla comunità.
Vi è un totale ripudio della guerra, che è ammessa solo per difendersi o per difendere
altri popoli.
E’ ammessa la professione di ogni religione, ma posta al vertice vi è una religione
monoteista (cristianesimo).
Quando, nel 1534, la Chiesa non concesse ad Enrico VIII la possibilità di divorziare da
Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena, Moro si rifiutò di giurare fedeltà all’Atto
di supremazia, che poneva il re a capo della nuova Chiesa di Inghilterra. Fu arrestato e
giustiziato.
Col tempo, oltre al fenomeno dell’utopia, nasce il fenomeno della distopia: usato dagli
autori per indicare al lettore la probabilità che si verifichi qualcosa di molto negativo nel
futuro (Es: Fattoria degli animali di Orwell).
Moro sostiene che questa isola è un’isola che tutti dovremmo cercare di realizzare nella
realtà in cui viviamo. Secondo l’autore è semplice mettere ordine nella politica del
proprio tempo, perché esiste una legge di natura che guida il campo politico, ossia
attraverso la ragione l’uomo può comprendere e seguire quella che è la Legge di
natura, ciò che rende l’uomo felice perché uguale a tutti, quindi porta ad evitare
discriminazioni.
SPINOZA
Secondo Spinoza non esiste il bene e non esiste il male, esse non sono realtà obiettive,
non hanno una loro sostanzialità, sono dei concetti relativi che l’uomo ha forgiato per
indicare ciò che si deve perseguire e ciò che si deve rifiutare. Se si volesse indicare
cos’è il bene assoluto non lo potremmo dire perché sono solo parole, sono delle
convenzioni umane.
In “Etica” egli si pone l’obiettivo di dimostrare l’etica da un punto di vista geometrico,
affermando che si può dimostrare. Infatti le sue tesi, i suoi teoremi, si concludono
sempre con “come volevasi dimostrare”.
Spinoza afferma che non c’è un bene e un male, ma è necessario mantenere questi
termini perché sono dei termini regolativi, sulla base dei quali noi regoliamo la nostra
esistenza, che comunque deve volgere al bene.
Per Spinoza il bene è tutto ciò che riteniamo utile, male è tutto ciò che è nocivo.
Secondo lo studioso tutto ciò che avviene nella realtà è frutto di Necessità e
Determinismo, non esiste la libertà, non c’è libero arbitrio perché tutto è
meccanicisticamente determinato: ciò che davvero domina la realtà è la Volontà, che
lui chiama conatus, lo sforzo di ogni ente a mantenersi in vita e di realizzare la sua
esistenza nel migliore dei modi.
La sua visione è fortemente determinista e necessitante, ma priva di finalismo.
Per lui Dio non ha creato tutto per l’uomo, il fine della creazione è l’uomo.
Attributi: sono elementi che definiscono l’essenza della sostanza, sono infiniti, ma
l’intelletto riconosce solo pensiero ed estensione.
Modi: sono le manifestazioni della sostanza. Il modo è tutto ciò che non è Dio.
Tutto questo l’uomo lo capisce attraverso gli strumenti cognitivi superiori: la ragione e
l’intelletto.
Natura naturante: natura come causa (Dio)
Natura naturata: la natura intesa come effetto
CONSERVAZIONE DI SE’
L’idea di bene consente la conservazione di sé.
Ogni cosa si sforza di preservare il suo essere, questo sforzo si chiama conatus:
nell’uomo lo sforzo si chiama volontà se riferito alla mente, e cupiditas se riferito alla
mente e al corpo.
Il conatus è lo strumento con cui le cose esistono e non si dissolvono, un principio di
autoconservazione.
La cupiditas è ciò che caratterizza l’uomo, ed è ciò che ci porta a desiderare cose che in
virtù di questo desiderio definiamo buone. Dal momento che nell’uomo la cupiditas è
consapevole, occorre porla sotto il controllo della ragione, soprattutto nel momento in
cui affetti diversi possono porre gli uomini l’uno contro l’altro, è infatti la sola ragione
che può portare ad un accordo.
La virtù consiste quindi nella capacità di conservare il proprio essere e di farlo con
il controllo della ragione.
L’etica di Spinoza è un’etica metafisica, perché crede che la realtà sia una sostanza
divina, che tutto derivi da Dio e che egli costituisca il tutto.
“Deus sive natura” = la natura è la manifestazione di Dio.
Se uno pretende di essere libero e potersi opporre al proprio destino, vive male.
Le sofferenze, gli errori che l’uomo commette dipendono da una conoscenza inadeguata
della volontà.
ANTROPOCENTRISMO-ANTROPOMORFISMO-FINALISMO
Vi è un rifiuto dell’antropocentrico, quella tendenza per la quale si stabilisce un
parallelo tra Dio e l’uomo, e si assume che l’azione di Dio tenda a un fine secondo le
dinamiche con cui anche l’uomo tende alla propria realizzazione personale ricercando
ciò che gli manca.
L’uomo deve abbandonare la presunzione di essere al centro dell’universo e di esser
libero. Lo stoicismo è la filosofia che sta alla base della filosofia di Spinoza.
Vi è un rifiuto del finalismo, secondo cui Dio ha creato il mondo ai fini dell’uomo, per
l’uomo. Secondo Spinoza:
- fare dell’uomo il centro dell’universo, l’obiettivo della creazione divina.
Nemmeno la creazione è libera, Dio non ha la volontà di creare, perché se l’avesse
sarebbe a immagine e somiglianza dell’uomo.
LEIBNIZ
E’ vissuto tra il 600 e il 700.
Per lui il bene e il male sono delle nozioni che rinviano a delle idee innate in noi, le
abbiamo tutti allo stesso modo.
Nel saggio Discorso di metafisica, Leibniz si oppone alla visione relativistica di Hobbes
e alla critica del finalismo di Spinoza: ritiene che esista una regola di bontà e di
perfezione nella natura delle cose.
Afferma che esiste una legge di natura, e questo lo pone in contrasto con Hobbes, che
invece fa dipendere la giustizia dalle leggi arbitrarie dei superiori e pone nel potere il
fondamento di legittimità del sovrano.
Secondo Leibniz questi principi sono equiparabili alle idee matematiche, perché sia le
verità metafisiche che le idee matematiche sono obiettive, universali per tutti, idee innate
Noi non dobbiamo avere dubbi sul nostro comportamento, sul cosa sia il bene o il male,
perché questi principi morali sono presenti alla mente dell’uomo perché sono innate.
Le idee innate sono poste nell’anima da Dio nel momento della creazione, l’uomo
arriva ad esse attraverso la ragione.
La mente per Leibniz è come un blocco di marmo con alcune venature che delineano
già la forma.
Leibniz distingue:
- la legge positiva, promulgata dagli uomini, che può essere buona o cattiva
- legge di natura, l’insieme delle leggi oggettive del giusto e del bene, alla quale il
potere deve ispirarsi per determinare le leggi civili.
TEODICEA
Termine che riassume il problema della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla
giustificazione della divinità e del suo operato.
Leibniz si domanda perché esiste il male se esiste Dio.
Teodicea è una specie di arringa giudiziaria in cui si cerca di difendere Dio dalle accuse
di essere l’autore del male o comunque di averlo permesso.
Egli afferma anche che per quanto siano numerosi i mali che affliggono gli uomini, il
mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili.
LE MONADI
Ne la Monadologia si descrivono gli elementi unici della realtà e la loro gerarchia.
La monade per Leibniz (deriva dal greco monas, che significa uno, unico) è un “atomo
spirituale”, una sostanza semplice e indivisibile, senza parti e quindi priva di
estensione.
Non potendosi disgregare è eterna, e soltanto Dio può crearla o annullarla.
Ogni monade è diversa dall’altra, in natura infatti non vi sono due esseri perfettamente
uguali, cioè che non siano caratterizzati da una differenza sostanziale, che Leibniz
chiama Principio dell’identità degli indiscernibili.
Le monadi sono mondi chiusi, non possono influenzarsi a vicenda né subire modifiche
dall’esterno. Ogni monade rappresenta l’universo da un particolare punto di vista.
L’attività delle monadi si sviluppa in due momenti:
- la percezione, cioè l’attività rappresentativa
- l’appetizione, cioè il tendere da una percezione all’altra
Percezione: appartiene sia agli animali che alle piante
Appercezione: è la consapevolezza della percezione, appartiene solo all’uomo
Le monadi formano una gerarchia:
1. La materia è al gradino più basso, è un aggregato di monadi. Leibniz la suddivide in:
- materia prima, che coincide con la forza di inerzia e di resistenza insita nella monade
- materia seconda, nel caso degli animali e degli uomini è tenuta insieme e diretta
dall’anima.
2. L’anima
3. Lo spirito, la monade più elevata, ha una consapevolezza di sé e del proprio agire
grazie alla razionalità. Sono capaci di cogliere verità innate, possono produrre opere
paragonabili all’opera di Dio.
Quindi, come Dio si può concepire sia come causa di tutte le sostanze che come capo di
tutte le persone o sostanze intelligenti, così l’uomo può concepirsi con la stessa
ambivalenza: lo spirito, infatti, è da una parte sostanza individuale e reale, ma è anche
persona morale, e le due identità costituiscono la realtà complessa della nostra identità
soggettiva.
Gli spiriti, in quanto anime razionali, sono in comunicazione con Dio.
In questa configurazione, che Leibniz chiama La Città di Dio, coabitano Dio e tutti gli
spiriti, ciascuno con la sua identità morale e individuale.
Inizia a farsi strada quindi l’idea che i concetti di bene e male non siano universali e
validi per tutti, ma siano relativi.
KANT (1724-1804)
E’ stato il più importante esponente dell’Illuminismo tedesco: concepì la sua filosofia
come una rivoluzione copernicana, volta a superare il dogmatismo metafisico per
assumere i caratteri di una ricerca critica sulle condizioni del conoscere.
Per la prima volta non si da priorità all’oggetto conosciuto ma al soggetto
conoscente.
Non è la mente che si modella sulla realtà, ma la realtà che si modella sulle forme a
priori della mente attraverso cui percepiamo.
Per Kant l’oggetto della conoscenza morale è il bene o il male, la novità sta nel fatto che
egli sostiene che il concetto di bene non deve essere determinato prima della legge
morale, ma solo dopo e mediante essa. Il motivo che determina la volontà morale deve
essere secondo la forma della legge e non sulla ricerca del proprio interesse.
L’azione moralmente buona è quella che si basa sull’imperativo categorico, ovvero un
comando/dovere che non è sottoposto a nessuna condizione.
Il bene completo e il bene sommo sono dati dall’unione della virtù, intesa come primato
del dovere, e della felicità, che non deve essere intesa come movente della moralità.
LEGGE MORALE
La legge morale kantiana è caratterizzata da formalismo, non ha contenuti, Kant
non dice cosa sia il bene o il male, ma dice che l’uomo deve agire in un certo modo.
La morale deve fare gli interessi di tutti e non del singolo.
Kant ribadisce che l’etica è una disciplina autonoma, non è una branca della filosofia.
La legge morale è formale, oggettiva, a priori, universale.
Il dovere è il movente dell’azione morale. L’uomo agisce perché deve agire in quel
modo, non perché mira ad un suo interesse. La legge morale non è imposta da
nessuno, si trova dentro ogni uomo, che essendo un essere razionale riesce a coglierla.
Kant distingue i principi pratici (regole generali) in:
1. Massime = prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida per l’individuo
che la fa propria (vendicarsi a ogni offesa subita)
2. Imperativi = prescrizione di valore oggettivo, ossia valida per tutti, si dividono in:
- imperativi ipotetici, che determinano la volontà e valgono se si vuole un determinato
fine (se vuoi laurearti devi studiare)
- imperativi categorici, ordinano il dovere in senso incondizionato, a prescindere da
qualsiasi fine e hanno la forma del “devi” puro.
Ne derivano due formulazioni:
- Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a
legge universale della natura. Devi volere che la tua azione possa essere una legge
universale. L’azione deve valere per tutti, se supera questo test allora è un’azione
morale.
- Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni
altro, sempre nello stesso tempo come un fine e mai semplicemente come un mezzo.
L’essere umano ha una dignità superiore ad ogni altro essere ed è per questo che l’agire
dell’uomo deve essere orientato al rispetto dell’altro. L’obiettivo non è il mio bene,
bisogna agire trattando l’umanità come fine.
La legge morale è l’imperativo, è un principio oggettivo, perché l’uomo deve
comportarsi seguendo il tornaconto dell’umanità.
Gli enti non ragionevoli vengono chiamati Cose, gli esseri ragionevoli prendono il nome
di Persone; quando si tratta di questi ultimi Kant si riferisce anche a Dio.
Questo perché la legge morale vale anche per Dio, che deve agire in un determinato
modo. La differenza tra Dio e uomo è che Dio è un essere totalmente noumenico.
LA FELICITA’
Per Kant la felicità non è di questo mondo, l’uomo si deve rendere degno della felicità, e
ciò può avvenire solo dopo la morte.
CARTESIO
In Le passioni dell’anima, Cartesio pone una netta separazione tra corpo, materia
estesa, e anima, che non è dotata di estensione, ci si chiede quindi come quest’ultima
possa influenzare il corpo.
Egli definisce le passioni come emozioni dell’anima, passive, quindi diverse da
pensiero e volontà, che costituiscono l’attività propria dell’anima, e lega il concetto di
passione a quello di azione in cui deve necessariamente manifestarsi e determinarsi la
passione.
Ed è quindi il corpo che, attraverso l’azione, determina il patire dell’anima.
Cartesio nomina anche la ghiandola pineale nella sua teoria, presente nel cervello e
sede dell’anima; lì la nostra volontà determina o la passione o l’azione: non è detto che
l’anima abbia solo delle passioni, essa ha anche delle azioni, quindi bisogna
trasformare le passioni in azioni, perché le passioni possono determinare infelicità. Ma
le passioni non vanno sradicate, per questo è fondamentale il ruolo della volontà.
Cartesio individua sei passioni principali:
- odio
- amore
- ammirazione
- desiderio
- gioia
- tristezza
Le passioni sono di natura buona, l’uomo deve solo conoscerle per evitare un
cattivo utilizzo. L’uomo saggio quindi è l’uomo libero, con animo fermo, che sa
padroneggiare le passioni e non si lascia condizionare dagli eventi.
SPINOZA
Per Spinoza invece è sbagliato parlare di passioni dell’anima, perché gli effetti e le
passioni sono affezioni del corpo.
Egli crede che vi sia un’identificazione tra “ordine e connessione delle idee” (mente) e
“ordine e connessione delle cose” (corpi). Essendo l’uomo l’unione di corpo e mente,
l’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo.
L’affetto può essere passione o azione: nel primo caso la mente è succube di idee
inadeguate e l’uomo diventa passivo e schiavo; nel secondo caso la mente possiede idee
adeguate.
Conoscere adeguatamente vuol dire assumere la prospettiva dell’eternità che è propria di
Dio, tralasciando le indicazioni incerte che arrivano dai sensi, dai segni e dalle
testimonianze altrui.
Spinoza si pone in contrapposizione a:
- trattatisti scolastici: secondo cui gli affetti costituiscono qualcosa di innaturale.
- stoici: per i quali la libertà dell’uomo saggio si ottiene liberandosi dalle passioni.
- Cartesio: per le stesse ragioni degli stoici
Quindi un’etica della volontà non potrà mai liberarci dalla schiavitù delle passioni, la
loro estirpazione è contro natura, occorre trasfigurarle con la vera conoscenza,
trasformando le passioni in azioni.
L’uomo saggio è chi ha consapevolezza e accettazione della necessità che sovrintende la
realtà.
HUME
Secondo Hume la morale è una questione che ha a che fare con i fatti, non è qualcosa di
astratto.
SIMPATIA
Le passioni trovano la loro sintesi nel Principio della simpatia (subire in comune).
Tutte le nostre azioni morali sono fondate sulla simpatia; essa ti fa percepire se l’azione
è morale e può portare al bene di tutti.
E’ la passione più caratteristica dell’essere umano.
SPETTATORE IMPARZIALE
Kant si chiede cosa ci da la certezza che stiamo agendo moralmente, l’azione deve
essere sottoposta a una sorta di test: nel caso di Hume l’uomo dovrebbe comportarsi
come uno spettatore imparziale, questo atteggiamento viene detto test dello spettatore
simpatetico imparziale. Nel momento in cui noi decidiamo di agire in un certo modo è
come se l’uomo dovesse staccarsi dal proprio essere e rimanere terzo rispetto a sé stesso
e l’altro, verificando dall’esterno la validità morale del comportamento.
SCHOPENHAUER
Ne Il fondamento della morale, Schopenhauer sviluppa una critica nei confronti
dell’etica kantiana, soprattutto per quanto riguarda l’imperativo categorico. Alla base di
questa critica c’è il concetto di volontà, intesa come forza irrazionale, volontà di vivere.
Per cui egli afferma che il principio a cui può giungere il processo di universalizzazione
della massima, piuttosto che essere il principio morale, è l’egoismo.
Ciò che ci spinge a universalizzare una massima è la convenienza, perché la massima
non può che esprimere la volontà, che a sua volta non può che esprimere ciò che è
meglio per me.
Schopenhauer ha una visione pessimista della natura umana, per lui la morale non
è incondizionata, è una forma di egoismo mascherato.
Afferma che l’uomo è un essere finito e limitato e vive in una situazione di inferiorità, e
dato che siamo deboli l’uomo si conforma alla legge morale.
Se l’uomo fosse forte allora si opporrebbe alla legge morale, ma la accetta perché gli
conviene.
La volontà di vivere è ciò che determina sofferenza, l’uomo è spinto dalla volontà e
dai desideri, ma poi la realtà non è quella che immaginiamo.
L’uomo deve imparare a non volere, a frenare la sua volontà che spinge a
desiderare e quindi a soffrire.
Schopenhauer ritiene che alla base dell’agire umano ci siano tre tipi di impulsi:
- l’egoismo, in cui l’uomo pensa a se stesso
- la cattiveria, che vuole il male altrui
- la compassione, che vuole il bene altrui
Solo la compassione può fungere da fondamento della morale, perché al suo interno
comprende sia la giustizia che l’amore verso il prossimo.
La compassione nasce dalla consapevolezza che gli uomini soffrono tutti dello
stesso problema, ossia l’impossibilità di vivere una vita soddisfacente, perché l’uomo
non può davvero realizzare i propri desideri.
Le due virtù che accompagnano la compassione sono:
- giustizia: l’uomo deve agire moralmente per giustizia
- amore nel prossimo: la compassione si declina nell’amore del prossimo, poiché si
condivide la stessa situazione e con l’amore è possibile rendere più felice l’altro.
Per questa ragione attribuisce un grande merito alle religioni come il Cristianesimo.
Critica al Cristianesimo: il fatto che esso ha staccato l’essere umano dal mondo degli
animali, dando valore solo all’uomo e considerando gli animali come cose.
Amare il prossimo vuol dire rispettare anche gli animali e la natura.
La compassione è un elemento umano universale, non serve essere religiosi.
HEGEL
Hegel supera la posizione kantiana.
L’etica kantiana è criticata da Hegel per il suo rigore e per il formalismo.
Secondo Hegel la legge morale kantiana vincola ciascuno ad agire come ciascuno
immagina che anche gli altri debbano agire, ma non prescrive niente in concreto.
Questo spiega per Hegel la razionalità del reale e diventa lo schema di ogni processo
della realtà, secondo la sequenza di tesi, antitesi e sintesi.
Il continuo cambiamento dello Spirito assoluto avviene attraverso tre momenti dialettici:
- idea in sé (tesi), che può essere identificata con il Dio prima della creazione del mondo
- idea fuori di sé (antitesi), è la natura
- idea in sé per sé (sintesi), l’idea che ritorna al suo stadio iniziale, dopo il passaggio
attraverso la natura.
L’ETHOS
Hegel sostiene che all’etica vada agganciato l’ethos, cioè il costume, la norma di vita,
la convinzione e il comportamento umano, e gli istituti con cui si manifestano
storicamente.
Hegel crea il superamento della moralità nell’eticità attraverso il riferimento all’ethos.
E’ una parola che egli prende in prestito dall’epoca di Aristotele, perché secondo Hegel
il pensiero antico può aiutare a capire che la morale kantiana vada superata.
A questo l’autore integra l’agire umano e il concetto di libertà.
La moralità considera l’individuo in rapporto a se stesso, l’eticità è l’attuazione del
bene in realtà storiche o istituzionali (famiglia, società, stato), nelle quali la libertà da
individuale diventa universale.
Il rapporto tra soggetto ed ethos è immediato. L’accusa mossa da Hegel è quella di aver
esaltato il ruolo dello stato, favorendo fenomeni come il nazionalismo.
L’ethos ha un contenuto stabile che è dato dalle leggi, dalle istituzioni e dai costumi.
Hegel articola l’eticità in tre momenti: famiglia, società civile e Stato.
L’eticità supera la moralità kantiana, perché essa rimane avulsa dalla situazione in cui
l’uomo vive, egli non dovrebbe tener conto della famiglia e deve rispettare le leggi solo
per dovere. Hegel invece sostiene che l’uomo nel suo agire deve tener conto di tante
situazioni, perché esse possono variare nel tempo. L’agire deve rispettare l’ethos,
ossia il contesto in cui ci si trova.
NIETZSCHE
Egli utilizza il metodo genealogico, il suo compito era quello di fare una storia della
morale.
In “Al di là del bene e del male” propone una riflessione sul fatto che agli albori
dell’umanità, buona parte dei valori di un’azione erano determinati dalle conseguenze
delle azioni: il valore positivo o negativo di un’azione dipendeva dal successo o
insuccesso dell’azione.
In un secondo momento vi è la Fase morale, dove non si considerava più la conseguenza
ma l’intenzione.
A questa fase ne segue una detta extramorale, caratterizzata dalla rimozione dei valori
affermati nelle altre tradizioni, perché il valore dell’azione è nell’elemento non
intenzionale, la forza vitale, invece nell’elemento intenzionale c’è qualcosa che richiede
una decifrazione, una demistificazione.
Il filosofo effettuerà questa decifrazione analizzando i termini buono e malvagio, e
procederà a una decostruzione della morale allo scopo di smascherarla dalla sua pretesa
di autonomia, decretando l’inattendibilità delle teorie sull’etica degli altri filosofi.
Per Nietzsche la morale di oggi è una morale mediocre: egli parla di Trionfo della
mediocrità, che si mostra attraverso la morale del risentimento, quella dell’uomo
medio, che vede il cattivo in tutto ciò che lo circonda per poter giustificare tutto il
male che gli capita e autoconcepirsi come buono.
L’uomo nobile deve creare i valori indipendentemente dal giudizio altrui, non deve
cercare approvazione, ma è chiamato a un continuo autosuperamento.
Per Nietzsche tutta la filosofia è immorale perché usata in chiave ideologica per
manipolare la volontà degli uomini. Ogni sistema filosofico ha uno spirito apollineo,
amore per l’ordine e la sistematizzazione, ma tutto ciò distoglie l’uomo dalla sua volontà
di vita (spirito dionisiaco).
CAUSE MEDIOCRITA’
- Platonismo, che ha creato una dimensione terrena e una che trascende quella terrena, e
fa in modo che il soggetto sia orientato solo all’altra dimensione, quindi tutto quello che
si fa nella vita terrena perde di importanza.
- Cristianesimo, che con il senso di colpa genera un potente controllo sulle coscienze.
Nietzsche afferma che Dio è morto, cioè l’uomo ha scoperto che per molto tempo è
stato schiavo di qualcosa che non esiste.
- Idee democratiche, socialiste e utilitariste, che propugnano una falsa uguaglianza tra
gli individui.
OLTREUOMO
Bisogna superare l’uomo attraverso l’Oltreuomo, cioè quel soggetto che si libera di quei
vincoli morali del gregge, creando dei valori propri.
Egli propone la metafora del cammello, del leone e del bambino.
Il cammello rappresenta l’animale più resistente = uomo addomesticato e ubbidiente
(io devo)
Il leone rappresenta l’animale più potente, si libera del carico della morale (io voglio)
Il bambino rappresenta l’entusiasmo (io sono) e quindi l’Oltreuomo.
KIERKEGAARD
Egli ritiene Kant superato e non attribuisce all’etica alcun ruolo importante nella vita
dell’uomo, perché l’etica non rende l’uomo felice. Egli può trovare la serenità solo
nella fede.
Kierkegaard afferma che bisogna superare l’etica per cercare risposte nella religione
cristiana. E’ illusorio che l’uomo riesca a compiere il bene contando solo sulle proprie
forze, poiché l’etica è impotente di fronte al peccato.
Vita estetica < vita etica < religione cristiana
CONCETTO DI ANGOSCIA
Riformula la sua idea, e afferma che si debba sostituire la sospensione con il
superamento. In una prima fase credeva che la morale servisse all’uomo, nella seconda
fase dice che la morale non serve più perché l’uomo deve affidarsi solo alla religione.
I primi due stadi quindi (estetico e etico) devono essere aboliti, la fede deve
rappresentare l’unico aspetto dell’esistenza umana.
CONCETTO DI DIALETTICA
Kierkegaard (dialettica oppositiva) afferma che non è possibile passare da tutti e tre gli
stadi, ma è necessario sceglierne uno.
ROSMINI
Afferma che l’etica non può essere una disciplina autonoma, e la fa dipendere dalla
metafisica. E’ un filosofo di matrice cattolica, che si aggrappa al pensiero platonico-
agostiniano. E’ la metafisica che ci conduce alla fonte del bene, dove questo bene
coincide con Dio.
Il pensiero di Rosmini parte individuando l’idea dell’essere come origine di tutte le
nostre idee e del nostro conoscere. L’idea dell’essere è innata, oggettiva e universale.
L’essere è oggetto di conoscenza da parte dell’intelletto: noi non potremmo conoscere
e comunicare agli altri ciò che conosciamo se il processo della conoscenza fosse
soggettivo e arbitrario.
Bene: consiste nell’amare ciascun essere secondo il valore che gli è proprio
Male: deriva dal mancato rispetto dell’ordine gerarchico
2. FASE NORMATIVA. Secondo Moore prima di elaborare dei principi e delle teorie,
bisogna tener conto dei termini che si utilizzano nel discorso morale, cercando di
capire se si possono definire questi termini. Tutti i filosofi precedenti hanno commesso
l’errore di pretendere di definire il bene, ma esso non è definibile.
Li accusa quindi di Fallacia naturalistica, errore che può anche essere definito come
Violazione della legge di Hume, ossia hanno preteso di definire il bene condizionando
l’etica. (errore di natura logico-linguistica)
Io so cosa è il buono ma non posso dire cosa è. Nozioni come bene, giusto e corretto
sono termini semplici che non possono essere definiti perché non possono essere
scomposti nei loro componenti; essendo unici hanno una sola componente.
Questi concetti si hanno per intuizione, si hanno dentro di sé, non è la razionalità che
porta alla loro comprensione. La morale non è soggettiva perché l’intuizione è qualcosa
di innato.
LA LEGGE DI HUME
Afferma che bisogna operare in ogni momento la distinzione tra “ciò che è” e “ciò che
deve essere”.
SCHELER
Scheler non accetta la contrapposizione tra ragione e sentimento, non accetta di
considerare la legge morale come qualcosa di razionale, universale e a priori, e non
accetta il formalismo dell’etica kantiana, perché fa dell’etica qualcosa di astratto che non
tiene conto della personalità.
Egli propone un’etica materiale, fondata sui contenuti, che sia anche personalistica,
tenendo conto anche della dimensione che riguarda la sensibilità umana.
Anche per Scheler il valore morale lo cogliamo attraverso l’intuizione.
Egli parla di Residuo fenomenologico, ossia ciò che rimane di un’esperienza, dunque la
coscienza, e ciò che rimane alla coscienza è il cosiddetto residuo. Il residuo è il vero e
proprio valore, ciò che rimane quando noi facciamo esperienza di qualcosa.
Scheler traccia una gerarchia dei valori, dai più bassi ai più alti:
- valori tecnici
- valori vitali
- valori spirituali
- valori del sacro: sono valori personali, che si colgono attraverso atti d’amore tra
persona e persona. Sono i più importanti ma i più difficili da realizzare.
HARE
Si inserisce nel filone metaetico, con i suoi Principia Ethica (1903), secondo il quale il
compito del filosofo morale è quello di analizzare il linguaggio che si utilizza in
filosofia.
EMOTIVISMO
Sostiene che i valori morali vengono colti tramite intuizione, però critica l’emotivismo
del tempo, ossia una corrente filosofica che attribuisce tutto alla sfera emozionale,
qualunque tipo di realtà l’uomo la percepisce tramite le emozioni.
Afferma quindi che i nostri giudizi morali non sono immotivati, non esprimono
soltanto un nostro stato d’animo, ma sono il risultato di un processo razionale volto al
reperimento di alcuni criteri che giustificano il giudizio stesso.
Hare è convinto che le proposizioni della morale possiedono un significato prescrittivo,
in quanto devono fornire ragioni per la condotta: l’etica quindi gode di uno spazio
autonomo, giacché le sue proposizioni non devono essere vere o false, ma universali e
prescrittive.
TEST DELL’ARCANGELO
L’arcangelo è come se fosse uno spettatore esterno: quando si agisce bisogna pensare di
essere lui, ossia la figura più pura, imparziale, che incarna maggiormente i valori positivi
della morale. L’azione deve essere imparziale altrimenti non è morale, poiché ha come
fine il proprio tornaconto.
3. Livello meta-etico, sul quale si opera quando si discute il significato delle parole
RAWLS
E’ un filosofo del 900, autore neokantiano: sostiene che l’utilitarismo non ha niente a
che vedere con il kantismo.
Nella sua opera più importante, ovvero Una teoria della giustizia, Rawls afferma che la
giustizia si caratterizza per essere una delle proprietà fondamentali delle istituzioni
sociali, e che nel caso in cui tali istituzioni risultino ingiuste devono essere eliminate o
riformate. Da qui intuiamo la sua posizione di disaccordo nei confronti dell’utilitarismo
e della sua teoria secondo cui bisogna essere disposti a sacrificare i propri interessi per il
bene della società.
La sua concezione è nota anche come Teoria della giustizia come equità.
Il concetto di equità è un concetto che parte dalla considerazione che esistono delle
disuguaglianze, alle quali bisogna rispondere con un criterio di giustizia, non di bontà.
LA GIUSTIZIA
La concezione di giustizia di Rawls si basa sull’idea che tutti i beni sociali principali
devono essere distribuiti in modo eguale, e questa distribuzione può esserci solo se
avvantaggia i più svantaggiati.
Contrappone la sua teoria alla teoria dell’uguaglianza delle opportunità: in una
società che si fonda sull’uguaglianza delle opportunità, le disuguaglianze di reddito sono
giuste perché sono legate alle capacità e ai meriti di ogni individuo. Egli critica le
disuguaglianze immeritate.
Nascere ricchi o poveri non è un merito, così come nascere intelligenti o disabili, si
tratta solo di fortuna.
Egli critica questa teoria perché non tiene conto delle disuguaglianze legate ai talenti
naturali di ogni uomo: ritiene che una giustizia distributiva equa debba tener conto
delle disuguaglianze immeritate e creare un sistema dove i meno avvantaggiati
possano ottenere il massimo possibile.
TEORIA NEOCONTRATTUALISTA
Per creare questa giustizia equa, Rawls utilizza lo strumento del contratto sociale.
Con esso, si ipotizza una situazione pre-sociale dove ogni individuo si trovi in una
“posizione originaria”, nell’incapacità cioè di conoscere e prevedere quale sarà il suo
posto nella società, se sarà ricco o povero, intelligente o meno, il celebre “velo
dell’ignoranza”.
VELO DI IGNORANZA
E’ una sorta di test, di contratto sociale tra le parti. Come se si dovesse ignorare la
propria condizione personale ed essere obiettivi ed imparziali.
Ovviamente è una soluzione utopica, difficilmente praticabile perché di mezzo c’è la
natura dell’uomo, natura che tende a prevaricare e a far dominare il proprio interesse.
PRINCIPI DI GIUSTIZIA
Rawls individua due principi:
- Diritto alla libertà. Si parla di libertà politica di pensiero. La libertà è il bene più
importante per ogni uomo e deve essere garantita
- Equità. Principio che dovrebbe far sì che queste disuguaglianze non pesino sugli
svantaggiati ma che ci siano delle procedure che possano colmare questo divario.
CRITICHE
Le critiche più forti vengono dalle filosofie femministe anglosassoni, che da una parte
hanno apprezzato il suo sforzo, ma dall’altra lo hanno criticato perché non vi è
simmetria tra le parti, alla fine non ci sarà mai un contratto paritario e ci sarà sempre
qualche avvantaggiato.
Per quanto sia stato un grande filosofo della politica è stato molto criticato perché la sua
proposta è irrealizzabile.
HABERMAS
E’ un pensatore vivente, nato nel 1919.
Si affida molto alla razionalità, al criticismo, considera l’etica una disciplina forte e
autonoma che deve dare un contributo in quanto scienza oggettiva e universale.
La sua concezione si può definire Etica del discorso o della comunicazione: egli dà una
grande importanza al linguaggio.
Il linguaggio è lo strumento fondamentale dell’uomo, che lo ha distinto
dall’animale.
Habermas è favorevole all’etica kantiana, ma è convinto che non può essere accolta così
com’è nelle società odierne.
Per Kant la legge morale è dentro di noi e ogni singolo uomo sa come deve agire e deve
agire indipendentemente da una norma che lo guidi.
Quindi la volontà è scelta morale, ma la scelta morale è scelta del singolo.
La differenza è che all’epoca di Kant l’individuo non interagiva con molte persone,
adesso invece è molto diverso.
Habermas quindi prende questo principio kantiano, lo cala nella società attuale e
sostituisce la sua soggettività con la dialogicità, affermando che le leggi devono essere
obiettive e imparziali, ma che tutto questo deve nascere dal dialogo delle parti.
LE SUE CRITICHE
Egli critica l’utopia di Rawls e gli emotivisti.
Propone più concretezza, utilizzando il concetto di comunicazione, perché la parola è
l’elemento fondamentale delle relazioni umane, nonostante possa essere usata anche per
ingannare.
Bisogna imporre delle leggi che strutturino la comunicazione, Habermas ne individua
quattro:
1. Comprensibilità
2. Verità
3. Veridicità, cioè l’intenzione di dire il vero
4. Giustezza, correttezza
Principio “di”: possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano il
consenso di tutti i partecipanti ad un discorso pratico. Va applicato quando si deve
decidere per un agire morale
Principio “U”: il principio di universalizzazione, si deve pretendere che la
comunicazione linguistica abbia validità universale
I filosofi riprendono Aristotele perché la sua etica è valida anche ai tempi attuali; è un
momento di pensiero noto come Riabilitazione della filosofia pratica.
Egli distingue le scienze in tre branche:
- le scienze teoretiche, quelle che permettono di conoscere i principi della realtà
(matematica, fisica, metafisica)
- le scienze pratiche, che hanno come fine quello di imparare ad agire in un certo modo
(etica e politica)
- le scienze poietiche, che riguardano l’agire strategico (arte, tecnica), agire finalizzato
alla realizzazione di qualcosa di concreto che possa portare ad un profitto
MACINTYRE
Nel 1981 scrive Dopo la virtù. Qui immagina una catastrofe per l’umanità che
comporterebbe un azzeramento del progresso scientifico.
Immaginiamo un mondo in cui, a seguito della presa di potere da parte di una frazione
contraria alle scienze, non esistono più scienziati e testi scientifici.
I superstiti inizierebbero a ricomporre le diverse teorie in modo frammentato e casuale.
Questa è la situazione in cui si trova il pensiero etico, perché si è arrivati a un punto di
totale sfiducia. Fino agli albori della modernità l’etica delle virtù aristotelica costituiva
la base delle diverse elaborazioni dei filosofi, poi il sapere si è frammentato e ha perso
ogni riferimento.
Secondo MacIntyre l’Illuminismo ha distrutto la morale, nel senso che ha impedito
all’uomo di dare libero sfogo ai suoi sentimenti, criticando anche Kant.
Il risultato di quest’opera distruttiva è rappresentato dall’emotivismo, cioè il ricorrere a
pratiche emotive e soggettive nella ricerca dei principi morali, con il risultato di non
poter accedere ad una conclusione universalmente valida.
PROPOSTA MORALE
Il risultato è che le morali moderne non si chiedono più “che genere di uomo devo
diventare?” ma piuttosto “che regola devo seguire?”.
Secondo MacIntyre dobbiamo abbandonare definitivamente i principi illuministi, e
propone di riscoprire la pluralità delle virtù.
JONAS
Egli ha coniato il principio di responsabilità da un punto di vista morale.
Inizialmente si è dedicato agli studi sulla biologia; da lì si è approcciato in maniera
differente nei confronti dell’ambiente.
L’aver osservato come il progresso tecnologico stia avendo degli effetti negativi sul
pianeta, lo ha portato a spostarsi verso una riflessione etica.
Egli afferma che bisogna tener conto l’ipotesi di annientamento di ogni essere vivente.
Jonas dice che l’uomo non è consapevole di quanto sia dominante questo progresso.
ETICA DELLA RESPONSABILITA’ VS ETICA KANTIANA
Jonas afferma che l’etica tradizionale non è in grado di guidare l’uomo contemporaneo.
Secondo lui l’etica più autorevole è quella di Kant, ma a differenza sua Jonas si fonda su
un principio di natura metafisico e non di natura logico, criticando la formulazione
dell’imperativo.
La sua è una concezione che può essere definita eco-centrica, nel senso che non è più
solo l’uomo al centro della riflessione etica, ma l’uomo fa parte di una realtà molto più
ampia, il pianeta, che richiede un intervento di salvaguardia.
Non si deve agire sulla base di un presupposto a priori, ma si deve agire e assumersi la
responsabilità delle azioni in vista degli effetti che possono scaturire; effetti che non
vanno collocati nel breve termine ma nel lungo periodo.
Riprende l’imperativo di Kant e lo riformula: Agisci in modo da consentire l’esistenza di
un’autentica vita umana sulla Terra.
Il principale precetto morale da lui individuato è la prudenza, che deve essere quel
sentimento che deve guidare e su cui devono essere orientate le scelte in ambito
bioetico, soprattutto verso quelle categorie che vengono sfruttate ai fini di ricerca e
spesso si sottopongono ad una serie di trattamenti senza avere piena consapevolezza
della loro libertà di scelta.
Il soggetto sottoposto a sperimentazione viene trattato come oggetto passivo, per questo
Jonas propone di usare il metodo della scala discendente per reclutare soggetti
idonei.
Lui afferma che bisogna partire dagli individui che si trovano a un maggior livello
culturale, che possono esprimere un consenso pienamente informato su ciò a cui vanno
incontro e hanno possibilmente una maggiore consapevolezza dei propri diritti.
E pian piano reclutare tutti gli altri individui che invece provengono da contesti più
lontani rispetto all’ambito di ricerca medica, allo scopo di evitare il ricorso a questa
pratica per il proprio sostentamento, ma solo come scelta libera e consapevole.
Si scende questa scala fino ad arrivare ai soggetti più deboli e vulnerabili, i quali non
hanno coscienza di essere sottoposti ad osservazioni mediche o a degli esperimenti,
come gli individui in stato di coma o dichiarati deceduti cerebralmente, che vengono
tenuti in vita perché possono essere adatti per condurre esperimenti.
Jonas afferma il diritto di morire dignitosamente, evitando l’accanimento terapeutico,
pur non ammettendo l’eutanasia.
WEBER
Weber, celebre sociologo, crede che la responsabilità non nasce come un principio
morale ma come un principio regolativo in politica.
Fa una distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, ma, in altri
momenti, afferma che è necessaria l’integrazione tra le due etiche, pena il rischio di
cadere nel cinismo se prevale una delle due.
Un rappresentante dell’etica della convinzione sono tutti coloro i quali non
guardano alle conseguenze delle loro azioni, ma fanno ruotare le proprie azioni
attorno ad un principio di base che deve essere rispettato a prescindere.
Weber critica i sindacalisti ad esempio, che agiscono senza pensare alle conseguenze
sulla base di principi.
Nell’etica della responsabilità il rappresentante si assume le sue responsabilità in
caso di conseguenze negative.
CRITICHE
Egli prende le distanze dalle etiche della convinzione, prive di realismo; in particolare
critica l’etica dell’intenzione, che non guarda alle conseguenze.
Critica pacifismo, sindacalismo e spirito rivoluzionario
Teleologia: indica l’etica della responsabilità, che guarda alle conseguenze
Deontologia: in cui si inserisce l’etica della convinzione, non ammette il calcolo delle
conseguenze, parte da un principio e norma la vita dell’uomo sulla base di essi.
Apel crede che l’uomo deve mettere insieme il principio dell’agire strategico e
dell’agire comunicativo, perché da un lato l’uomo ha il dovere di seguire la legge
morale, dato che le leggi della comunicazione sono universali; e dall’altro lato è un’etica
anche teleologica perché mira a un fine, ossia il benessere dell’uomo e della Terra.
Co-responsabilità = etica simmetrica e reciproca
LEVINAS
Per lui l’etica è la filosofia prima, perché attraverso essa l’uomo realizza un’esistenza
degna di un essere umano ma soprattutto si creano i presupposti per un’esistenza
buona e felice di tutti, soprattutto degli emarginati.
Lui è un emarginato, poiché a causa delle leggi razziali deve abbandonare il proprio
Paese, come Jonas, e questo determinerà una profonda riflessione sull’esistenza umana.
Lui prende le distanze dal modello simmetrico.
Il suo saggio più importante è Totalità e infinito (1961). Qui sostiene che prima ancora
di essere soggetto, l’uomo è preso in una relazione con altri uomini. Per Levinas infatti,
ciò che caratterizza l’uomo è la sua inevitabile possibilità di rapportarsi all’Altro.
Pone l’esempio dell’epifania, manifestazione dell’Altro, che avviene nel dialogo, nel
faccia a faccia. L’Altro è quindi una rivelazione concessa in particolare dal volto, che è il
mezzo di comunicazione primo e lo strumento attraverso il quale l’uomo si palesa.
Il volto è il luogo in cui si giocano tutte le dinamiche dell’uomo e costituisce una crepa
dalla quale l’essere è libero di uscire.
Questo rapporto tra l’Altro e l’Altro viene chiamato Ospitalità.
Una difesa psicologica in cui l’uomo si rifugia è quella di non guardare l’Altro nel volto,
negli occhi.
La formulazione etica di Levinas si può definire Etica come responsabilità: ciò
significa che il fondamento dell’etica è proprio la responsabilità che l’uomo ha nei
riguardi dell’altro, che si manifesta attraverso il volto.
La sua è un’etica asimmetrica, chi è più forte ha la responsabilità di chi è più debole.
La vera giustizia si ha solamente attraverso la responsabilità per l’altro.
ETICHE APPLICATE
Tra le prime vi è l’Etica delle responsabilità, proposta che trova radici già nel XVIII
secolo ma che nasce ufficialmente con Jonas.
Le etiche applicate sono delle nuove proposte morali che la riflessione morale si è
data perché la filosofia morale tradizionale non è più in grado di risolvere i
problemi attuali.
Queste formulazioni sono molto pratiche, e vengono applicate ai problemi affinché
vengano risolti.
BIOETICA
Il termine è stato coniato nel 1970 dal cancerologo statunitense Potter, indica un’etica
non incentrata sugli esseri umani e sulle loro azioni, ma sulla responsabilità dell’uomo
verso il sistema complessivo della vita.
Si articola in:
- Bioetica animale
- Bioetica media, la più antica
A causa dello sviluppo troppo rapido delle nuove tecnologie, l’uomo si è trovato a dover
affrontare questioni che precedentemente non immaginava.
Nasce ad esempio l’ecologia, iniziano a farsi strada i cambiamenti climatici,
inquinamento ambientale e il danno che l’uomo ha provocato alla natura.
LA RETE
Naes elabora la metafora della rete, secondo la quale tutte le specie viventi sono come
dei nodi di una rete, in cui ognuno di essi contribuisce alla vita del pianeta.
MARITAIN
Jacques Maritain (1882-1973) è uno dei pensatori più importanti del XX secolo.
Partecipa alla riunione dell’UNESCO del 1947, dove tiene un discorso sulla possibilità
di cooperazione in un mondo all’epoca diviso.
Maritain pone al centro dell’attenzione il concetto di persona, distinguendolo e allo
stesso tempo collegandolo a quello di individuo.
L’essere dell’uomo è contrassegnato da due dimensioni:
- l’individualità, che rinvia alla realtà materiale e corporea
- la personalità, che rinvia alla realtà spirituale
E’ un errore separare le due dimensioni, perché l’essere umano è l’unione di esse.
Nel saggio I diritti dell’uomo e la legge naturale, Maritain sostiene che la persona è un
tutto aperto, che per sua natura è aperto alla vita sociale e alla comunione.
Tutti gli esseri umani devono collaborare per realizzare questo tutto che sia favorevole a
tutti.
La sua filosofia umanistica si colloca in un periodo particolare: egli vive a Parigi ma con
l’avvento della seconda guerra mondiale è costretto a scappare negli USA, in cui scrive
The man and the State, affermando che l’uomo non è concepito per lo stato altrimenti si
ha dittatura.
In questi anni, segnati dal nazismo, fascismo e totalitarismo staliniano, la dignità
umana è al centro del pensiero di Maritain.
Dopo la guerra egli avvertì la necessità di approfondire le ragioni del vivere assieme, ma
la guerra fredda e la minaccia nucleare avevano spento molte speranze trovate in un
cammino come la firma della carta dell’ONU del 1945 e la Dichiarazione Universale dei
diritti dell’Uomo del 1948. L’idea era quella di un ordine internazionale fondato sulla
persona e sui suoi diritti.
Maritain parla di Legge naturale e Legge positiva, perché per far capire il fondamento
dei diritti umani è necessario ristabilire la nostra fede dei diritti dell’essere umano sulla
base di una vera filosofia. Questa vera filosofia dei diritti dell’uomo è fondata sul
concetto della legge naturale.
La legge naturale non è scritta sulla carta ma nel cuore dell’uomo: è un ordine che la
ragione può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire per accordarsi ai
fini necessari dell’essere umano.
La legge positiva è la legge posta come il diritto, che non deve contraddire la legge
naturale. Maritain afferma che non ci può essere contrapposizione tra il diritto positivo e
il diritto naturale in quanto i diritti umani sono inalienabili e non negoziabili.
ENGELART
Egli sostiene che ogni uomo è portatore di una sua cultura, un suo ethos, l’uomo non può
prescindere dai valori nella comunità in cui vive.
A causa della moltitudine di culture nel mondo, è come se ognuna di esse fosse straniera
alle altre.
Per lui quando nasce una controversia di natura morale, non si può risolvere né con la
forza né imporre a un popolo la nostra cultura.
SPECISMO
Singer vuole combattere lo specismo, che viene messo da parte sua sullo stesso piano
del sessismo e del razzismo: esso crea una gerarchia di valore tra le specie,
considerando la specie umana come la specie migliore.
Animal Liberation esce nel 1975, è la prima opera dove si dà una veste filosofica alla
critica sull’attuale sfruttamento degli animali, in particolare analizzando i temi degli
allevamenti intensivi e della vivisezione.
La sua teoria filosofica di riferimento è L’Utilitarismo della preferenza, secondo il
quale la valutazione sulla legittimità etica di un’azione deve tener conto delle
conseguenze che questa provoca sull’intero sistema coinvolto, non sommando le singole
conseguenze, ma valutando le preferenze di tutti gli individui coinvolti.
Anche Singer, come Engelart, crede che non bisogna pensare che l’uomo sia al centro
dell’universo e il domatore assoluto.
Singer sostiene l’eutanasia, sostituendo all’etica della “sacralità della vita” un’etica
della “qualità della vita”, secondo la quale non è la vita in se ad essere sacra, ma è
quello che sono e che faccio nella vita.
- Quinto comandamento vecchio: tratta ogni vita umana come più preziosa di ogni vita
non umana
- Quinto comandamento nuovo: non operare discriminazioni sulla base della specie
BEAUCHAMP E CHILDRESS
Essi hanno teorizzato nella celebre opera Principi delle Etiche biomediche (1979)
4 principi fondamentali:
- i principi di autonomia (autodeterminazione)
- i principi di beneficenza (il maggior bene del paziente)
- i principi di non maleficenza (non infliggere danno)
- i principi di giustizia (equa distribuzione di benefici e obblighi nella società)
Nella teoria normativa i due ritengono che non sia possibile tracciare una
gerarchizzazione tra i 4 principi bioetici e che quindi non si possa stabilire alcuna forma
di primato dell’uno rispetto all’altro.
Questo significa che quando ci si trova davanti a un interrogativo di natura bioetica, ci
troviamo di fronte alla necessità di stabilire quale dei principi abbia la predominanza.
Se ad esempio un medico si trova davanti un paziente in condizioni gravissime ed è
quindi in uno stato di incoscienza, il principio di benevolenza prende il sopravvento su
quello di autonomia.
Il rispetto del principio di autonomia richiede da parte del medico l’adempimento di un
obbligo negativo e uno positivo:
- quello negativo è un obbligo di non interferenza, cioè il medico non deve sostituirsi
alle decisioni che spettano al paziente
- quello positivo afferma che attraverso adeguate informazioni sulla diagnosi, possibili
alternative terapeutiche, il medico dovrebbe favorire l’adozione consapevole da parte del
paziente di decisioni autonome.
AMARTYA SEN
Sen è d’accordo con Rawls, il quale richiede l’uguaglianza dei diritti e doveri
fondamentali e sostiene in contrapposizione con l’utilitarismo che le inuguaglianze
economiche e sociali sono ammesse, ma non se avvantaggiano pochi, molti, tralasciando
coloro che si trovano nelle situazioni più precarie.
Il fatto che esistano degli svantaggiati è un dato di fatto, ma è necessario che le
istituzioni usino dei criteri che possano compensare queste situazioni.
Sen parte da un esame critico dell’economia del benessere, che appiattisce la felicità
sull’utilità e concepisce il bene nei termini del mero benessere economico.
Sen propone di interpretare la felicità come realizzazione di sé, come fioritura delle
qualità delle capacità umane.
HOMO ECONOMICUS
Fa riferimento all’uomo che persegue, nella sua attività e nelle sue scelte,
unicamente il proprio interesse.
Il superamento di ciò è la condizione necessaria per riportare l’economia alla sua vera
funzione, cioè quella di mirare alla promozione del bene personale collettivo, attraverso
una relazione con la politica e l’etica.