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FILOSOFIA MORALE - STORIA, TEORIE, ARGOMENTI

CAPITOLO 1 - LA VITA BUONA E LA CONOSCENZA DEL BENE: SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE


È a partire dal magistero di Socrate che l’interrogazione filosofica sul bene viene posta in modo esplicito
e approfondito. In precedenza, con i primi filosofi naturalisti la domanda concernente il bene non viene
formulata in modo esplicito; anche se sembra difficile poter sostenere che la riflessione sull’archè della
realtà non sollevi un interrogativo sulla realtà dell’uomo e sul senso della sua origine, in altre parole
che concerne la vita buona dell’uomo.
Certamente l’indagine sul bene richiede una riflessione di carattere espressamente antropologico ed
etico e tale riflessione comincia a svilupparsi con la sofistica e con Socrate. Nella sua Apologia di fronte
ai giudici egli dichiara di non sapere nulla della scienza della natura, di non occuparsi di “ciò che c’è
sotto terra e di quello che c’è in cielo”.
L’interrogazione sul bene si presenta, a partire dall’insegnamento di Socrate, come un’indagine di tipo
antropologico ed etico e solleva la questione di quale sia la vita buona per l’uomo. La risposta è che la
vita buona risiede nella virtù (arete), o meglio nella virtù specifica dell’uomo, nella virtù che qualifica
l’uomo rispetto a tutti gli altri essere, giacché, secondo la prospettiva greca, si da anche una virtù
dell’occhio, quando questo adempie al meglio alle funzioni alle quali è preposto, o una virtù del cavallo,
quando questo esprime al meglio, per esempio nella corsa, l’essere cavallo. Viene così a delinearsi
un’identificazione tra bene e virtù, tra bene e sapienza.
Un secondo elemento tipico della riflessione antica sul bene è che essa, soprattutto a partire da Platone
assume un connotato fortemente ontologico: l’idea del bene rende conoscibili le cose; di più: le
conserva in vita. La realtà sensibile è, infatti, un essere di secondo livello; in vero essere è costituito dal
mondo delle idee, le quali sono tali perché partecipano dell’Idea del bene.
SOCRATE → Come è noto egli non ha lasciato niente di scritto. Per conoscere il suo pensiero dobbiamo
quindi affidarci alle testimonianze di Aristofane, di Senofonte, Platone, Aristotele e di alcuni autori
minori chiamati socratici.
Il tenore di queste testimonianze varia in modo consistente a seconda degli autori: Senofonte, per
esempio seguì da giovane e solamente per un breve periodo le lezioni di Socrate e di esse riferì in alcuni
scritti, quando ormai era vecchio; Aristotele non poté conoscerlo personalmente: egli arrivò
diciottenne ad Atene, tredici anni dopo il famoso processo e la condanna a morte. Platone si presentava
invece come un discepolo convinto ed entusiasta della grandezza del maestro: Socrate divenne così il
filosofo per antonomasia, il protagonista di gran parte dei suoi dialoghi.
Sul piano teoretico la fonte più accreditata è comunque quella platonica: Platone traspone il proprio
pensiero in quello di Socrate, con l’intento di meglio giustificarlo e avvalorarlo: si produce quindi una
sovrapposizione tra le due posizioni, al punto che non è sempre agevole riuscire a identificare l’apporto
originale dell’uno e dell’altro pensatore. La stessa decisione da parte di Platone di rincorrere allo
strumento stilistico del “dialogo” sembra esemplificare bene questo continuo gioco di trasposizione e
di sovrapposizione: anch’egli, sulla di Socrate, si mostra sospettoso nei riguardi della scrittura, per il
suo carattere di fissità e di rigidità.
I dialoghi giovanili di Platone sono definiti non a caso “socratici” proprio perché in essi, a differenza dei
dialoghi cosiddetti “dialettici” della maturità, dove ugualmente Socrate riveste il ruolo di protagonista,
sembra essere più marcato il debito del discepolo verso il maestro e il compito di individuare l’apporto
specifico di quest’ultimo risulta essere quindi meno difficoltoso.
Come possiamo sapere che cosa sia bene o male per noi? La risposta è altrettanto chiara: per sapere
che cosa sia bene o male per noi, dobbiamo tenere presente l’iscrizione del tempio di Pito, dedicato al
dio Apollo: “Conosci te stesso”.
Solo se saremo in grado di conoscere noi stessi, potremo sapere in che cosa consistano il bene e il male
e potremo anche prenderci cura di noi. Non solo: conoscendo noi stessi, possiamo anche conoscere ciò
che è bene per gli altri e ciò che è bene per la polis. Si viene così a delineare una struttura a cerchi
concentrici che dalla conoscenza e dalla cura di sé si allarga alla conoscenza degli altri uomini e della
stessa vita in comune nella polis.
Il problema del bene a questo punto ha già subito una sua rilevante trasformazione: è diventato il
problema di chi siamo noi, il problema di quale sia la natura. Se, infatti, il bene dipende dalla conoscenza
di sé allora dovrò cercare di capire chi sono io, che cos’è che mi qualifica come uomo. Secondo Socrate
chi si prende cura del corpo non i prende cura di sé stesso; e anche chi si prende cura delle ricchezze
ancor meno si prende cura di sé, perché le ricchezze sono pur sempre qualcosa di estrinseco, che può
esserci o non esserci, senza che venga intaccata la realtà del sé.
Insomma, noi siamo la nostra anima: è questo ciò che secondo Socrate ci è proprio e che ci qualifica
rispetto agli altri esseri. Più precisamente quella parte che è segno del divino che è in noi. Guardando
al dio e tra le realtà umane alla virtù dell’anima saremo in grado di conoscere noi stessi e quindi di
sapere qual è il nostro bene.
Non è possibile essere felici se non si è saggi e buoni e quindi se non si è virtuosi. Se si è buoni e virtuosi
si è anche liberi; l’intelligenza, espressione della parte migliore dell’uomo, ci consente, infatti, di
cogliere ciò che è più conveniente e più bello per la propria vita. L’uomo malvagio invece si trova in una
condizione servile: egli, non assecondando la virtù della sua anima razionale, dispone di un potere che
non sa e non può indirizzare e che finisce perciò per provocare disgrazie a sé e agli altri, come
accadrebbe a un malato che curasse sé stesso, senza possedere le necessarie conoscenze mediche, o
un pilota che guidasse la nave senza conoscere l’arte della navigazione.
L’intelligenza rende liberi, l’ignoranza rende schiavi. Così potrebbe essere riassunta la tesi di Socrate.
La salute, la forza, la bellezza, la ricchezza risultano essere cose utili per noi solamente quando vengono
usate correttamente, ovvero quando sono sottoposte al controllo dell’intelligenza; sono al contrario
nocive quando l’intelligenza non esercita il suo ruolo di guida. Lo stesso si potrebbe dire a proposito
delle virtù particolari della giustizia, della temperanza, del coraggio ecc., che senza la guida della virtù
vera e propria, l’intelligenza, possono provocare danni.
“Nell’uomo tutto dipende dall’anima”, ricorda Socrate, e “le qualità della stessa anima” dipendono
dall’intelligenza, se debbono essere buone”: in ciò consiste la libertà; si è schiavi invece, quando si è
soggiogati dalla forza e dal richiamo di cose e qualità che non sono in sé e per sé cattive, ma che lo
diventano quando sono sottratte al governo della ragione.
Esaminando l’argomentazione di Socrate, è difficile sottrarsi all’impressione che essa cada in un circolo
vizioso, ossia che si definisca qualcosa di cui non si conosce la realtà con un termine (la virtù) che implica
nuovamente il riferimento al bene, ovvero a ciò che inizialmente doveva essere definito. Ancora più
rilevante sembra essere la tesi che la virtù per eccellenza è la conoscenza del bene, e che un uomo che
non abbia questa conoscenza, la cui vita quindi non sia governata dall’intelligenza, non può fare il bene.
Il termine intellettualismo non ha evidentemente un'accezione positiva; positiva; lo si usa perché
sembra poco plausibile sostenere che la conoscenza del bene sia di per sé stessa, a garanzia
dell'attuazione del bene: a tutti noi sarà capitato di comportarci male pur essendo consapevoli che si
trattava di un comportamento malvagio, e quindi conoscendo anche qual era il comportamento buono
che ci veniva richiesto. Si potrebbe dire che l'Intellettualismo si produce quando si misconosce o
almeno si sottovaluta il ruolo della volontà nelle nostre scelte: può essere che noi facciamo il male
perché lo vogliamo, anche se sappiamo che è male. È ragionevole ritenere che per fare il bene
dobbiamo sapere in che cosa consista, altrimenti non potremmo distinguere ciò che è bene da ciò che
è male.
PLATONE → La riflessione di Platone sul bene è molto ricca e complessa. Essa prende avvio dalla lezione
socratica, investendo però livelli di approfondimento e di comprensione che vanno al di là di
un'indagine solamente etica. Si presenta, infatti, come una riflessione di carattere antropologico ed
etico e, nel contempo di carattere metafisico e ontologico. Siamo invitati a leggere i passi celeberrimi
del mito della caverna, dove la struttura del reale e del mondo delle idee trova la sua finalizzazione
nell'Idea del bene.
La virtù è sapere del bene, sosteneva Socrate. Per Platone un tale sapere deve riguardare il bene
pienamente appagante. L'istanza metafisica emerge chiaramente nell'argomentazione di Platone: il
bene umano, le cose buone, perché siano tali devono riferirsi al bene assoluto, ovvero a ciò che viene
denominato “Idea del bene”.
L'idea del bene non può essere paragonata alle altre idee, né tantomeno alle cose del mondo sensibile,
talmente essa è superiore. Platone arriva a dire che l'Idea del bene è “al di là dell'essere”, proprio per
sottolineare la superiorità del bene, che per questo sfugge a qualsiasi tentativo di definizione da parte
dell'uomo. Nella Repubblica, Platone sottolinea il primato, sia ontologico sia gnoseologico, dell'Idea del
bene. È grazie a tale Idea, infatti, se gli oggetti conoscibili possono esistere ed essere conosciuti. La
superiorità dell'Idea del bene è tale che essa stessa non può venir conosciuta se non attraverso
immagini e similitudini, perché va al di là dell'essere, ovvero “trascende l'essenza”.
Il bene è dunque un principio trascendente del quale non si può avere una conoscenza adeguata, ma
solo parziale e per approssimazione, come mostra il ricorso alla forma del mito e alla metafora del sole.
Ci troviamo qui, al cospetto di alcuni principi cardine della filosofia platonica: Se ci sono le cose buone
e belle e perché vi è un principio assoluto; se vi sono la molteplicità e la differenza è perché vi è l'unità.
Non importa che all'uomo, in quanto essere finito e limitato, sia preclusa la possibilità di conoscere
completamente e adeguatamente il bene; importa piuttosto che egli riconosca come i beni umani siano
relativi e non assoluti e che essi siano beni perché sono in relazione con il bene in sé. Sarebbe errato
considerare le realtà umane, le cose sensibili e visibili, come realtà che prescindono dagli oggetti
intellegibili e dall'Idea suprema del bene; ma sarebbe altrettanto errato ritenere che tra le prime e le
seconde non vi sia alcun legame e relazione. Scrive Platone a conclusione del mito della caverna
“occorre spingere le migliori nature ad accostarsi a quella disciplina [la filosofia] che prima abbiamo
definito la massima, vedere il bene e fare quel l'ascesa”.
In uno dei suoi ultimi dialoghi, il Filebo, Platone affronta la questione di che cosa sia la vita buona per
l'uomo e di come possa essere definito il bene umano. Il dialogo si apre con la messa a confronto di
due tesi fra loro contrapposte.
- La prima tesi, edonistica, è sostenuta da Filebo e da Protarco: il bene consiste in una vita di piacere e di
godimento.
- La seconda tesi è inizialmente avanzata da Socrate: il bene si identifica con il pensiero e l’intelligenza.
Nella discussione con i suoi interlocutori, in particolare con Protarco, Socrate fa inizialmente notare
come il bene sia per sua natura qualcosa di compiuto, che viene ricercato da ogni uomo per sé stesso,
qualcosa che basta alla felicità. Secondo Socrate né il piacere né il pensiero, considerati separatamente,
possono essere definiti “bene”. Una vita piene di piaceri, ma priva di pensiero e di intelligenza non
sarebbe una vita degna dell'uomo, non sarebbe una vita buona, se non altro perché senza l'intelligenza
non avremmo la possibilità di distinguere il piacere dal non piacere, non potremmo comprendere se
effettivamente godiamo oppure no.
Ma neppure una vita di sola intelligenza potrebbe dirsi buona, perché essa, priva di piacere di dolore,
non potrebbe costituire un bene compiuto, autosufficiente. A questo punto Socrate prospetta una
terza possibilità, ovvero che la vita buona per l'uomo consista in una vita mista di pensiero e di piacere:
si tratta di un bene compiuto, degno dell'uomo, che è piuttosto il tipo di vita proprio degli animali, ma
nemmeno una vita esclusivamente di pensiero. Una volta stabilito che la vita mista è la vita migliore
per gli uomini, viene naturale domandarsi quale dei due elementi determini in maniera più decisa il
bene, se insomma sia l'intelligenza oppure il piacere a costituire la causa della bontà della vita mista.
ARISTOTELE → Per Platone il bene, o meglio l'idea del bene, e ciò che viene perseguito da ogni anima
e che costituisce il fine di ogni nostra azione. Aristotele riprende questa concezione del bene come fine
e come oggetto del desiderio e dell'aspirazione, precisandola ulteriormente e cercando soprattutto di
mettere a fuoco la questione del rapporto tra il bene supremo e il bene dell'uomo. Proprio
l'approfondimento di questo rapporto induce Aristotele a prendere le distanze dal maestro, e a
criticarlo per l'amore della verità.
L’Etica nicomachea, l'opera più importante di Aristotele dedicata alla filosofia pratica, ovvero alla
filosofia che ha per oggetto d'indagine l'agire dell'uomo, fornisce questa definizione, il bene è “ciò cui
tutto tende”. Ogni arte e ogni ricerca, ogni azione e ogni scelta mirano a secondo Aristotele a un bene;
e da ciò si possono trarre subito due indicazioni molto importanti:
- bene e fine, si identificano
- vi è una pluralità di fini e quindi vi è una pluralità di beni
Dire che vi è una pluralità di fini non significa dire che tali fini-beni siano tutti dello stesso valore. Tra le
attività si può stabilire una gerarchia, di modo che si dirà che alcuni fini sono subordinati ad altri fini,
superiori ai primi. Se voglio esercitare la professione di medico, che ha come fine la salute del paziente,
devo iscrivermi alla facoltà di medicina e chirurgia e conseguire la laurea; e per proseguire la laurea in
medicina devo presentare e discutere di fronte alla commissione giudicatrice una tesi scritta; ma per
far ciò debbo prima sostenere diversi esami. E così via di seguito, la catena potrebbe facilmente
allungarsi. Vi è però un fine delle azioni, sostiene Aristotele, che noi vogliamo per sé stesso e non in
vista di altro, un fine che non dipende da altro e dal quale dipendono tutti gli altri fini: tale fine ultimo
è il bene, anzi il bene supremo.
Il bene supremo per l'uomo consiste nella sua felicità, nella sua eudaimonia. Noi tutti ricerchiamo la
felicità. I problemi sorgono però quando si tratta di precisare meglio la natura di tale felicità, e lo stesso
Aristotele riconosce molto apertamente che sulla base della loro esperienza gli uomini arrivano a
formulare diverse e inadeguate con concezioni della felicità e del bene, identificandoli vuoi con la
ricerca degli onori, vuoi con la vita dedita ai piaceri, vuoi con l'accumulazione delle ricchezze materiali.
Onore, piacere, ricchezza possono indubbiamente contribuire a rendere migliore la vita degli uomini;
essi non vengono quindi disprezzati da Aristotele.
Né l'onore, né il piacere, né tantomeno la ricchezza possono assicurare quell’autosufficienza, quella
completezza che contraddistinguono il bene perfetto: ricercando l'onore nella vita politica, dipendiamo
dal giudizio altrui; una vita interamente dedita ai piaceri ci rende schiavi, di questi e simili alle bestie;
del tutto assurda è infine l'identificazione tra felicità e ricerca del guadagno, perché la ricchezza per sua
natura è un mezzo, utile per raggiungere qualcos'altro, non un fine.
Per Aristotele la felicità, ovvero il fine ultimo, risiede nell’esercitare in modo eccellente la funzione
propria dell'uomo, ovvero nell'esercitare al meglio ciò che lo distingue dagli altri esseri. Secondo
Aristotele, ciò che specifica l'uomo non può essere la dimensione vegetativa, né la dimensione
sensitiva. Ciò che è proprio dell'uomo è “un certo tipo di attività della parte razionale dell'anima”.
Anche nell'uomo la parte desiderativa e sensitiva è irrazionale ma, a differenza della parte nutritiva o
vegetativa, essa si lascia guidare dalla ragione. Il desiderio nell'uomo, pur essendo irrazionale, è in
grado di obbedire alla parte razionale. Infine, vi è la parte prettamente razionale, dalla quale prendono
forma le virtù dianoetiche (o appunto razionali) della saggezza e della sapienza.
Per Aristotele l'anima dell'uomo si suddivide in due parti, razionale e irrazionale, e questa a sua volta
si distingue in vegetativa e in desiderativa.
- Le virtù etiche (della temperanza, del coraggio, della giustizia) sono chiamate anche virtù del carattere o del
giusto mezzo. Esse derivano dall'esercizio e dall'abitudine a ripetere determinati atti: non basta infatti,
sostiene Aristotele, un singolo atto di coraggio per definire coraggioso un uomo. Ci vuole l'abitudine ad agire
coraggiosamente nelle situazioni e nelle circostanze più disparate. Le virtù etiche risiedono nella
componente desiderava dell'anima.
- le virtù dianoetiche (phronesis, ovvero saggezza e sophia, ovvero sapienza) che derivano invece
dall'insegnamento, afferiscono alla parte dell'anima espressamente razionale. La virtù dianoetica propria
dell'ambito pratico è la saggezza. Essa ci consente di scegliere bene nella concretezza della situazione, è
sempre rivolta al perseguimento di fini buoni.
CAPITOLO 2 - FELICITA’ E VIRTU’: ARISTOTELE, EPICURO, STOICI
Nel pensiero antico il tema della felicità ritorna continuamente. Parlare di etica significa per gli antichi
parlare di felicità. Per gli antichi il punto di partenza della riflessione etica non è costituito dal dovere,
ma dal significato della vita buona: il soggetto è invitato a guardare alla propria vita come a un tutto,
come a un intero, di fronte al quale solamente acquistano senso le scelte e le decisioni particolari. Una
vita buona è una vita compiuta, completa, nella quale il presente viene letto e compreso alla luce del
passato e nella proiezione del futuro. La compiutezza è uno dei requisiti fondamentali dell'eudaimonia.
Il soggetto dà senso alla propria vita se guarda essa come a una storia della quale egli stesso è
protagonista; rielaborando continuamente il proprio progetto di vita egli si scopre così responsabile del
proprio agire e ancor prima del proprio essere, del proprio carattere.
Va detto che il termine eudaimonia per i greci copriva un ambito semantico assai ricco, che solo
parzialmente può essere reso con la nostra espressione “felicità”. L’eudaimonia è il bene supremo per
l'uomo, ciò che viene ricercato per sé stesso e non in vista di altro, il fine ultimo della nostra vita. Essa
è espressione dell'attività propria dell'uomo e come tale non può essere identificata con la fortuna, la
quale è invece del tutto casuale e sfugge al nostro controllo. L’Eudaimonia non è nemmeno uno stato
di soddisfazione, essa è l'espressione dell'attività dell'agente; essa richiede la realizzazione di sé “in una
vita completa”.
È condivisa l'idea che tra eudaimonia e virtù vi sia una stretta correlazione, anche se poi questa viene
interpretata in modo differente. Per Aristotele, infatti, la realizzazione di sé si dà attraverso la
formazione del carattere e quindi attraverso l'esercizio delle virtù etiche, che a loro volta sono
sostenute dalla virtù dianoetica della saggezza pratica: solo l'uomo saggio, infatti, ossia chi è dotato di
phronosis (saggezza pratica), può esprimere adeguatamente le virtù etiche nei diversi contesti della
vita. L'epicureismo e ancor più lo stoicismo proporranno invece una concezione monistica della virtù
(al singolare), identificata con la saggezza e con quello che modernamente potremmo chiamare il punto
di vista morale: il saggio è l'uomo virtuoso, colui che conduce una vita moralmente buona e sa quindi
distinguere tra il vero bene e quei beni relativi che a volte possono però anche essere usati in modo
erroneo e quindi tramutarsi in mali.
Al di là delle somiglianze, le differenze tra gli autori considerati non mancano e concernono il modo di
porre e di risolvere un problema assai rilevante sul piano teorico e ancor più su quello pratico, ovvero
di come si debba intendere il rapporto tra felicità e virtù, nonché il rapporto tra felicità e beni relativi.
Il problema potrebbe essere affrontato avanzando tre interrogativi:
1) Si può essere felici senza essere virtuosi?
2) Si può essere virtuosi senza essere felici?
3) Si può essere felici senza disporre di beni?
Al primo interrogativo, la soluzione offerta è condivisa sia da Aristotele sia dagli epicurei e dagli stoici:
no, non si può essere felici senza essere virtuosi. La risposta consente, tra l'altro, di rimarcare ancor più
la ricchezza di significato dell'eudaimonia, che non può essere equiparata a una qualche felicità
meramente materiale o addirittura amorale, dal momento che essa esige sempre il riferimento alla
virtù.
ARISTOTELE → in diversi luoghi dell’Etica Nicomachea Aristotele esprime la convinzione che la virtù sia
necessaria per il darsi della felicità. Non si può quindi essere felici se non si è nel contempo virtuosi. In
qualche passo Aristotele sembra addirittura andare oltre, verso una posizione ancor più drastica, che,
come tale verrà difesa solamente dagli stoici, ovvero che la virtù, oltre che necessaria, sia anche
sufficiente per essere felici.
Altrove però Aristotele parla espressamente di incompiutezza della virtù, lasciando intendere che solo
la felicità è in sé compiuta, e quindi è la sola che possa giustificarsi come fine ultimo, scelto per sé stesso
e mai in vista di altro.
Aristotele ricorda come vi sia bisogno di risorse quali per esempio, gli amici, la ricchezza, il poter
politico, per riuscire a compiere le stesse azioni virtuose; e osserva come sia difficile poter parlare di
felicità in assenza di beni quali la buona nascita, i buoni figli, la bellezza, anche se è del tutto chiaro che
la felicità non si può ridurre all’esclusivo godimento di beni esteriori, per esempio la ricchezza. Alla
domanda quindi se si possa essere felici in mancanza di tali beni, Aristotele risponde negativamente,
proprio perché egli ha della felicità una concezione composita, nella quale sono indispensabili sia
l’esercizio della virtù sia la presenza di beni esteriori.
EPICURO → Per Epicuro il piacere è “un bene primo e connaturato”, da cui muoviamo per operare
qualsiasi tipo di scelta e che quindi costituisce per noi il criterio di giudizio fondamentale, alla base di
tutte le nostre valutazioni sul bene. Innanzitutto, va osservato che l’edonismo epicureo costituisce una
revisione consistente di quello propugnato dai cirenaici: se costoro avevano parlato del piacere come
di un movimento e allo stesso modo avevano rappresentato il dolore come un movimento, Epicuro
ritiene invece che il piacere più autentico sia il piacere catastematico, ovvero il piacere stabile, privo di
movimento. Di conseguenza, egli trae la conclusione che non vi sia uno stato intermedio tra piacere e
dolore; e che l’assenza di dolore, identificata erroneamente da alcuni con uno stato intermedio, altro
non sia in verità che il supremo piacere. Epicuro distingue poi tra piaceri del corpo e piaceri dell’anima:
- I primi comportano uno stabile equilibrio della carne e trovano la loro compiutezza nell’aponia, ovvero
nell’assenza di dolore
- I secondi perseguono uno stato di quiete, di ataraxia, ovvero assenza di turbamento.
L’Epistola a Meneceo espone in forma sintetica i capisaldi dell’etica epicurea, che trova il suo apice
nell’idea di piacere e di felicità come imperturbabilità, tranquillità dell’anima e assenza di dolore.
Epicuro stabilisce un collegamento tra felicità e virtù. Questa non è altro che la saggezza ovvero la virtù
che è preposta indirizzare e a guidare la vita pratica dell’uomo. Diversamente da Aristotele, Epicuro
rivendica il primato della saggezza e della vita pratica. “Principio di tutto ciò e massimo bene è la
saggezza. Perciò la saggezza appare ancor più apprezzabile che la filosofia, giacché da essa provengono
tutte le altre virtù”.
GLI STOICI → La tesi della identificazione tra virtù e felicità, apertamente rigettata da Aristotele e invece
in qualche modo già prefigurata da Epicuro viene con grande chiarezza e fermezza difesa dagli stoici.
In questa sede prenderemo in esame le testimonianze di Zenone di Cizio e di Crisippo, due tra i massimi
esponenti dello stoicismo.
A differenza di Epicuro, il punto di partenza per gli stoici non è costituito dal piacere o dalla felicità, ma
dalla stessa virtù. La virtù è ciò che di per sé è degno di scelta per l’uomo, ciò che merita di essere
perseguito. Zenone dichiara che “ai fini della felicità la virtù non ha bisogno di nulla”. La virtù, quindi
non è solo necessaria, è anche sufficiente alla felicità. La virtù “basta a sé stessa”. Su questo punto gli
stoici sono consapevolmente critici con le tesi di Aristotele: se gli aristotelici sostenevano che si può
essere virtuosi, senza essere necessariamente felici, gli stoici ribattono che l’uomo saggio e virtuoso è
sempre felice.
CAPITOLO 3 - IL BENE E LE VIRTU’: AGOSTINO E TOMMASO D’AQUINO
La filosofia medievale ha tra i suoi maggiori esponenti Agostino d’Ippona. Il nuovo modo di concepire
il bene è paradigmatico; Agostino scrive: “dal momento che tutte le cose buone, sia grandi sia piccole,
a qualsiasi livello della realtà si trovino, non possono essere se non ad opera di Dio, ne consegue che
ogni natura in quanto natura è un bene, e che ogni natura non può essere se non dal Dio supremo e
vero”.
AGOSTINO → Vi è una diversità tra i vari essere e quindi una diversità tra i tipi di bene: alcuni sono
superiori, altri inferiori; ma ciò che è inferiore, anche al massimo livello, in sé e per sé è un bene. questa
visione è determinante per spiegare perché noi facciamo esperienza del male, nonostante a rigore il
male non sia come ritenevano i manichei.
[IL MANICHEISMO → la religione manichea si presenta come un radicale dualismo sia sul piano cosmologico e
metafisico, sia sul piano morale. L’intera realtà poggia su due principi, quello della Luce, ovvero del bene, e il
principio delle Tenebre, ovvero del male. L’uomo stesso è attraversato da questo dualismo, in lui vi sono due
anime, l’una corporea, l’altra luminosa, che sono in lotta tra loro. L’uomo è chiamato a separare la sua anima
luminosa e divina dall’anima corporea e demoniaca.]

Agostino definisce il male morale (iniquitas) come desertio meliorum, ossia abbandono dei beni
migliori, da parte della volontà libera. Ciò significa che la volontà, quando compie il male, non si dirige
propriamente verso delle realtà malvagie, si dirige piuttosto verso dei beni inferiori, quando invece
dovrebbe privilegiare i beni superiori. L’iniquitas è il peccato che la volontà libera compie rinunciando
al bene superiore. Lo stesso peccato originale non risiede nel desiderio di qualcosa di cattivo, ma nella
rinuncia a ciò che è meglio, nel rifiuto in definitiva del sommo bene (Dio), nella pretesa di potersi a Lui
sostituire.
Per i medievali la felicità o, meglio, la beatitudine è il bene sommo, il fine ultimo a cui tende tutto il
nostro essere e nel quale abbiamo il nostro più completo appagamento e la nostra più piena
realizzazione. La beatitudine coincide con il possesso stesso di Dio: essa, quindi, può essere goduta
pienamente solo nella vita eterna. La beatitudine, la salvezza non possono essere guadagnate
dall’uomo con le sue sole forze naturali, perché esse sono in primo luogo opera della grazia divina,
ovvero dono dell’amore di Dio, a cui l’uomo è chiamato a aderire con la sua vita.
Per spiegare la capacità conoscitiva dell’uomo, Agostino ricorre alla dottrina dell’illuminazione: l’uomo
si accorge di servirsi di concetti, di idee, di verità che egli non desume dall’esterno, ma che ritrova in sé
stesso e che sono costantemente presenti alla sua memoria. L’uomo è capace di conoscere perché nella
anima interviene un maestro interiore che lo istruisce: è la stessa verità immutabile, eterna di Dio che
dal di dietro illumina la sua mente e la dà la forza di riconoscere la verità stessa.
Nel De libero arbitrio, un dialogo filosofico, viene posta la seguente domanda: “Si può trovare qualcosa
che tutti coloro che pensano vedono universalmente, ciascuno con la sua propria mente e ragione?”,
qualcosa che possa essere riconosciuto da ciascuno, che sia quindi comune a tutti, e che non sia invece
percepibile solamente in maniera provata e individuale? Inizialmente viene portato l’esempio del
numero: tutti gli esseri pensanti possono cogliere “la verità del numero”, l’ordine con il quale si
struttura la successione dei numeri, le leggi che sovrintendono ai loro rapporti. Vi è nei numeri una
“regola fissa, immutabile e inalterabile”, che non può essere prodotta dalla conoscenza particolare
dell’individuo, ma che al contrario può essere riconosciuta razionalmente da tutti. Lo stesso può dirsi
della sapienza: ogni uomo scopre dentro di sé di desiderare il bene e di voler fuggire il male; ogni uomo
trova impressa nella propria mente la nozione di felicità.
Agostino non ha il timore di ammettere che vi è una molteplicità di beni, tra i quali ciascuno può poi
scegliere quello che preferisce, così come vi è una molteplicità di cose da vedere: c’è chi può decidere
di fermarsi con lo sguardo sull’altezza di un monte, chi sulla pianura del campo, chi sulla distesa del
mare e via dicendo. Ma ciò non esclude che vi sia un sommo bene, così come la vista di molte cose è
resa possibile dalla luce del sole che è unica. Nelle loro scelte gli uomini sono posti di fronte a
un’alternativa di fondo: essi possono tendere al vero bene, possono considerare l’essere secondo
l’ordine che lo governa e quindi valorizzare i diversi beni sulla base della loro gerarchia ontologica,
fermo restando che il bene sommo è Dio stesso; oppure possono rivolgersi ai beni inferiori, per esempio
alle ricchezze e alla bellezza dei corpi, trattandoli come beni superiori e persino esclusivi. In entrambi i
casi è la volontà dell’uomo che agisce, è la forza dell’amore che interviene e che muove l’anima a volere
il bene.
Agostino sottolinea ripetutamente la forza straordinaria dell’amore, la sua capacità di muovere
all’azione e di produrre continui cambiamenti e trasformazioni nella vita degli uomini.
L’amore vero, quello che desidera ardentemente godere del sommo bene, viene anche chiamato carità.
La caritas è virtù per eccellenza, è virtù teologale, che attinge all’amore di Dio, e che poi riversa tale
amore sulla gerarchia dei beni. Ripetutamente, nel De libero arbitrio, Agostino individua nella prudenza,
nella giustizia, nella fortezza, nella temperanza le virtù fondamentali che l’uomo è chiamato a esercitare
se vuole mirare al bene e alla felicità. Ma in definitiva le stesse virtù cardinali, come pure altre virtù,
vengono ricondotte a un’unica e fondante virtù, quella della carità. È per questo che Agostino può
arrivare a sostenere che la virtù è “l’ordine dell’amore”. Vivere secondo la carità significa vivere
secondo l’ordine dell’amore, il che vuol dire vivere rispettando l’ordine dell’essere.
TOMMASO → La riflessione morale trova un approfondimento straordinariamente analitico nella
cosiddetta Prima secundae della Summa theologiae, l’opera più importante di Tommaso.
[La Summa si suddivide in tre grandi parti. La parte seconda a sua volta si distingue in due sotto parti: la Prima
secondae, che comprende la trattazione del fine ultimo e della beatitudine, dell’atto umano, della volontarietà
dell’agire, delle passioni, delle virtù e dei vizi, e infine della legge eterna, della legge naturale e della legge
umana; e la Seconda secundae, che tratta delle tre virtù teologali e delle quattro virtù cardinali. La parte prima
riguarda l’esistenza e l’essenza di Dio, nonché il rapporto tra Dio e la creazione; la parte terza considera Dio
come causa della Redenzione.]

La virtù in primo luogo è un abito, ovvero una qualità che contraddistingue l’essere di una determinata
persona. Per questo Tommaso ne sottolinea il carattere della stabilità: non basta un singolo atto per
qualificare l’habitus di una persona; è necessario che l’atto si ripeta, che esso sia frutto di un esercizio
continuo. La virtù è quindi un abito buono, mentre il vizio si definisce come un abito cattivo. Entrambi,
sia virtù che vizio, sono qualità che si formano nel tempo in base ai nostri ripetuti comportamenti. Essi,
quindi dipendono da noi e dall’esercizio della nostra libertà.
CAPITOLO 4 - LIBERTA’ E VOLONTA’: AGOSTINO E TOMMASO D’AQUINO
AGOSTINO → Nel secondo libro del De libero arbitrio la volontà libera viene presentata come un bene
medio: sopra di essa troviamo i grandi beni costituiti dalle virtù cardinali, ovvero da quelle virtù
fondamentali che costituiscono appunto il cardine della vita morale; sotto di essa vi sono i beni più
piccoli, costituiti dalle forme belle dei corpi, dalla salute, dalla ricchezza, ecc. Le virtù sono beni superiori
perché non possono essere usate per compiere il male; l’uomo virtuoso, giusto, prudente, non può per
sua definizione agire malvagiamente. Invece, i beni piccoli, come quelli medi, tra le quali vi è anche la
volontà, si possono usare sia bene sia male. La volontà libera può indirizzarsi verso il bene universale e
immutabile, può quindi unirsi ai beni superiori costituiti dalle virtù, ma può anche allontanarsi dal bene
universale, e rivolgersi ai beni piccoli trattandoli come beni superiori.
TOMMASO → Egli definisce la volontà come appetitus intellectivus. Per la precisione l’appetito può
presentarsi secondi tre modalità: naturale, sensitivo e intellettivo.
- L’appetito naturale si riscontra in tutti gli esseri esistenti, comprese le piante: è il tendere del tutto
inconsapevole al proprio fine;
- L’appetito sensitivo indica l’impulso animale a conservare sé stessi, attraverso il nutrimento, e la specie a cui
si appartiene, attraverso la procreazione;
- L’appetito intellettivo, quello presente nell’uomo: in lui non vi è un tendere spontaneo a necessitato verso
l’oggetto desiderato; in lui l’oggetto viene anche conosciuto e nel contempo percepito e valutato come un
bene.
CAPITOLO 6 - BENE E SOMMO BENE: SPINOZA E KANT
SPINOZA → Spinoza afferma che se nell’uomo accade qualcosa di cui egli non è causa adeguata, se
insomma egli è passivo, soggiogato dalle passioni, allora non può considerarsi libero, ma schiavo.
Dopo aver esposto brevemente tale tesi, Spinoza si sofferma su alcuni concetti cardine della riflessione
filosofica e morale tradizionale: i concetti di bene e male e quelli di perfezione e imperfezione.
I primi vengono definiti come dei semplici “modi del pensare, o nozioni che formiamo perché
confrontiamo le cose tra di loro”: una medesima cosa può essere buona per una persona, cattiva per
un’altra e indifferente per un’altra ancora. E tuttavia, Spinoza dichiara apertamente che tali vocaboli
vanno conservati; noi siamo soliti formarci un’idea di modello al quale riferirci nei nostri giudizi: buono
sarà ciò che sappiamo essere un mezzo che ci avvicina al modello; cattivo invece quello che ci allontana.
Stessa situazione per la seconda coppia di concetti esaminati: più perfetti sono gli uomini che si
avvicinano al modello, più imperfetti quelli che si allontanano.
Per Spinoza quanto più uno si sforza, tanto più è virtuoso. La virtù è “agire, vivere, conservare il proprio
essere”; se uno ricerca il proprio utile al massimo grado, desidera anche che tutti si sforzino di
conservare sé stessi e così facendo contribuiscano all’utilità comune. La ricerca dell’utile deve avvenire
“sotto la guida della ragione”, infatti la virtù, intesa come ricerca dell’utile, trova nella ragione la propria
guida; e se gli uomini vivono secondo ragione, sono in grado di accordarsi tra loro, se invece si lasciano
dominare dalle passioni si mettono in contrasto gli uni verso gli altri. L’uomo guidato dalla ragione non
desidera altro per sé che non desideri anche per gli altri uomini; in ciò risiede il suo essere giusto e
onesto.
KANT → La riflessione sul bene costituisce sicuramente una chiave interpretativa privilegiata per poter
comprendere la proposta morale di Kant. A prima vista egli sembra situarsi nella tradizione antica e
medievale, riproponendo l’importanza in etica del concetto di bene. Nella Critica della ragion pratica
egli si domanda quale sia l’“oggetto della ragion pura pratica”→ per oggetto della conoscenza pratica
s’intende ciò che riguarda il modo di rapportarsi della volontà all’azione. Secondo Kant l’oggetto non è
altro che il bene (e il male).
I problemi sorgono quando si tratta di stabilire come debba essere determinato il bene; l’indicazione
fornita al riguardo da Kant segna una netta cesura con il pensiero morale tradizionale. Se infatti in etica
si era soliti sostenere che la legge morale comanda il bene, il quale, veniva identificato con la felicità,
con l’amore, con l’utile, con il piacere, ora è necessario sostenere che è bene ciò che la legge comanda,
male ciò che essa proibisce.
Kant parla di “paradosso del metodo di una Critica della ragion pratica”. Il paradosso consiste nel fatto
che il “concetto del bene e del male non deve essere determinato prima della legge morale”, ma
solamente dopo e mediante essa. Quindi prima si dà la legge morale e poi si può determinare il bene,
a partire da quel che comanda la legge morale.
L’etica kantiana è stata spesso accusata di sviluppare un atteggiamento negativo e sospettoso nei
confronti di tutto ciò che ha attinenza con la sfera propriamente umana del desiderio e della ricerca di
felicità, come se, per essere morali, si dovesse per forza di cose essere anche infelici. Kant, a dire il vero,
non sostiene questo: egli non esclude che chi agisce moralmente possa anche essere di fatto felice; ma
non vi è alcuna certezza, almeno in questo mondo, che ciò possa avvenire. Egli esclude in modo risoluto
che alla base dell’agire morale vi possa essere la ricerca della felicità. Un tentativo di recuperare le
ragioni del desiderio e della felicità si ritrova nella dottrina del sommo bene. Nella Dialettica della
Critica della ragion pratica, Kant recuperando il linguaggio degli antichi definisce il sommo bene come
l’unione di virtù e felicità. Con il termine virtù si intende far riferimento alla realtà stessa della moralità
e quindi al primato del dovere.
Pur essendo il bene supremo, ovvero il bene propriamente morale, la virtù non è però il bene pieno e
completo; per essere tale essa ha bisogno della felicità, secondo Kant: il bene completo è il bene sommo
che è dato dall’unione di virtù e felicità. Tuttavia, la felicità non può essere qui considerata come il
movente della moralità, ma come il compimento della moralità. Quindi potremmo dire che la moralità
costituisce il bene supremo (la virtù) e che tale bene non è ancora completo, anche se il suo
adempimento ci rende degni di essere felici. Dunque, agiamo moralmente non siamo affatto certi di
essere felici → la moralità quindi non ci rende felici, ma ci rende degni di poter essere felici.
CAPITOLO 7 - IL MOVENTE DELL’AZIONE MORALE: SPINOZA, HUME E KANT
HUME → Alla domanda di quali siano i motivi che influenzano il comportamento e l’agire Hume fornisce
una risposta ben precisa: le passioni. Sono queste e non tanto la ragione a condizionare la volontà.
Hume precisa, inoltre, che si è soliti interpretare il rapporto tra ragione e passioni in termini fortemente
conflittuali; soprattutto si è soliti considerare come superiore la ragione, quasi che questa sia eterna,
invariabile e di origine divina, mentre le passioni al contrario sarebbero sinonimo di cecità, incostanza
e falsità. Hume respinge invece la tesi della presunta superiorità della ragione e dichiara che questa
“non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà”. La ragione continua a svolgere un
suo ruolo, infatti, può essere d’aiuto nello stabilire delle connessioni, può mostrare le false supposizioni
sulle quali si basano le passioni, può mostrare l’infondatezza di ciò che viene desiderato. Tuttavia, la
ragione non può opporsi alla forza di determinazione della passione: “Nulla può ostacolare o rallentare
l’impulso di una passione se non un impulso contrario”.
Secondo Hume le passioni non hanno bisogno di affinamento o trasformazione, sono del tutto naturali
ed è completamente fuori luogo definirle irragionevoli.
Hume dichiara che nelle nostre scelte e nella vita pratica noi non disponiamo di verità evidenti e
indiscutibili, non possediamo certezze; se per agire noi ci preoccupassimo di dotarci di tali certezze
intellettuali, finiremmo per rimanere come immobilizzati. Possiamo però contare sulle passioni, che
non sono affatto cieche e inaffidabili. Hume ha una visione positiva e ottimistica: la natura dell’uomo è
contraddistinta da un insieme di passioni, di desideri, di istinti, attraverso i quali si esprimono la
conoscenza e l’esperienza morale.
KANT → Non mette in discussione la forza condizionante delle passioni, dei desideri, degli impulsi, ma
contesta che tale forza possa valere come movente morale, ovvero come la causa che muove, che dà
la spinta – per così dire – all’agire morale.
Per esempio, se un uomo riceve del denaro per errore che non gli spetta e che egli sente di dover
restituire alla banca, secondo Kant tale uomo potrebbe benissimo trattenere con sé tale somma ma,
se agisse così, non si comporterebbe in modo morale; il suo comportamento sarebbe mosso da un
desiderio di guadagno: il movente che determina la volontà sarebbe quindi di tipo materiale, cioè
fondato sulla ricerca della propria felicità. Nel caso in cui, invece, il soggetto restituisca la somma che
non gli appartiene si ha l’esemplificazione di un movente che determina la volontà in senso morale: il
soggetto sceglie secondo la forma della legge; egli presuppone che qualsiasi altro soggetto morale,
nella medesima situazione; restituirebbe il denaro. Il principio pratico che guida tale agire è per Kant
un principio oggettivo, universale, a priori. È evidente che per Kant le passioni, i desideri, i sentimenti
non possono fungere da movente dell’agire morale. A questo compito è invece preposta la ragion pura.
Kant sostiene che la ragion pura, attraverso la rappresentazione della legge morale, produce un duplice
effetto nell’animo umano. In primo luogo, la legge morale opera nell’animo umano producendo un
effetto negativo: essa esige che si rinunci all’amor di sé, all’egoismo, alla presunzione; per agire
moralmente l’uomo deve innanzi tutto combattere le inclinazioni sensibili. Ciò arreca dispiacere e
diventa motivo di umiliazione per il soggetto. Ma ecco subito introdotto il segno dell’effetto positivo:
può infatti umiliare solamente ciò che è degno di rispetto. La motivazione morale, pertanto di carica di
due diverse valenze: negativa quando il soggetto combatte i propri impulsi sensibili, positiva quando il
soggetto prova un sentimento di rispetto per la legge. Non va comunque dimenticato che il sentimento
di cui tratta Kant nella propria teoria della motivazione è pur sempre un sentimento morale e che esso
non funge direttamente da movente. Il sentimento è l’effetto prodotto dalla coscienza morale: io
scopro in me tale sentimento quando metto a confronto il limite, l’imperfezione della mia volontà con
la “maestà” della legge morale.
Egli propone anche una formulazione dell’imperativo categorico (l’imperativo propriamente morale)
centrata proprio sul rispetto della persona, che va trattata sempre come fine in sé e mai semplicemente
come mezzo. Solo la persona, infatti, suscita un sentimento di rispetto, non le cose, che invece possono
essere acquistate, vendute, scambiante, perché hanno un prezzo.
CAPITOLO 8 - Il DOVERE MORALE E IL TEST DI UNIVERSALIZZABILITA’: KANT, SCHOPENHAUER
KANT → Ogni uomo avverte in sé il richiamo della morale; perché l’uomo libero, è responsabile delle
proprie scelte: in ognuno, anche nel delinquente più incallito, la legge morale s’impone alla sua libera
volontà, ricordandogli che è in suo potere rispettare tale legge oppure trasgredirla. Simili espressioni
fanno da sfondo alla dottrina dell’imperativo categorico. Per comprendere tale dottrina è opportuno
specificare che secondo Kant la legge morale è valida per ogni essere razionale, quindi anche per Dio.
La volontà di Dio, però, è perfetta, è santa, il che significa che essa non può mai determinarsi in modo
differente o contrastante rispetto a quando richiesto dalla legge stessa. Il motivo di una simile
conformità da parte di Dio è dato dal fatto che egli non è combattuto dalle inclinazioni sensibili, dal
desiderio o dalla ricerca del proprio interesse personale. Non così avviene nell’uomo, il quale per un
verso è un essere libero, razionale, morale; per un altro verso è un essere segnato dall’empiricità e dalla
fenomenicità. A differenza di quanto avviene in Dio, la volontà degli uomini, non può essere definita
santa, perché essa può determinare sé stessa sia secondo la legge morale, come pure secondo la ricerca
dell’amor proprio, che è soggettivo e particolare. L’imperativo altro non è che il modo proprio
attraverso il quale la legge morale si presenta come un imperativo, come la formulazione di comando,
di un dovere, che richiede il sacrificio dei propri desideri e inclinazioni.
L’imperativo morale viene chiamato da Kant categorico, perché esso vale in modo incondizionato e non
dipende da alcuna inclinazione sensibile.
Il grado di assolutezza, tipico dell’imperativo categorico, non è presente nell’imperativo ipotetico, così
definito perché in esso il comando è condizionato dall’ipotesi di voler raggiungere un certo scopo.
L’esempio presente nella Critica della ragion pratica: “Se non vuoi stentare nella vecchiaia, devi lavorare
e risparmiare nella giovinezza”.
Test di universalizzabilità → Secondo Kant, il soggetto, per agire in maniera moralmente buona,
dovrebbe adottare una massima, e quindi un principio soggettivo, tale però che essa possa valere non
solo per il soggetto che l’assume, ma per ogni essere razionale. Gli interpreti hanno parlato di test di
universalizzabilità: il soggetto, nel valutare una determinata massima, dovrebbe chiedersi se un tale
principio possa diventare oggettivo, e quindi possa essere universalizzato. Se ciò non è possibile, allora
la massima non può assumere la forma dell’universalità, e non può valere come legge pratica. Tra gli
esempi riportati da Kant vi è quello della falsa promessa: mi faccio prestare del denaro, perché ne ho
bisogno, e prometto di restituirlo, pur sapendo che non lo farò mai. Se noi trasgrediamo un dovere non
è perché non riconosciamo validità all’imperativo categorico o perché non riusciamo a impostare
correttamente il test di universalizzabilità: “ci prendiamo semplicemente la libertà di fare un’eccezione
per noi a causa della nostra inclinazione”. Quindi, si può riconoscere la validità dell’imperativo
categorico e tuttavia trasgredirlo, perché si è fragili e incoerenti sul piano pratico.
SCHOPENHAUER → nel 1839 e nel 1840 due distinte memorie di Schopenhauer vennero giudicate in
modo del tutto differente: la prima intitolata la libertà del volere, che venne premiata; la seconda,
invece, il fondamento della morale che venne valutata piuttosto negativamente. I due scritti vennero
poi riuniti in un volume. Nel secondo egli sviluppa un’ampia e articolata critica nei riguardi dell’etica
kantiana, in particolare del concetto di imperativo categorico.
L’analisi di Schopenhauer assume un valore di demistificazione della presunta purezza e
incondizionatezza del dovere morale. Egli, infatti, trae la conclusione che tale principio altro non è che
l’egoismo stesso, perché l’universalizzazione si basa sulla premessa che io possa volere soltanto ciò che
è il meglio per me. Ne consegue che il principio della morale, così come viene concepito da Kant, ha un
valore solo ipotetico e per nulla categorico.
Uno dei punti nodali della critica di Schopenhauer risiede nella rilevazione che l’universalizzazione,
considerata in sé e per sé, non è sinonimo di moralità. Più precisamente, egli distingue tra principio
fondamento, impuntando a Kant una certa confusione e in definitiva l’identificazione tra i due termini.
Il principio infatti è l’espressione più breve e precisa del modo di agire, al quale essa riconosce un vero
valore morale; il fondamento ha una valenza ancora più rilevante: è la ragion d’essere del principio
stesso, ciò che lo giustifica. Kant ha finito per considerare il principio alla stregua del fondamento.
Schopenhauer si domanda anche quali siano gli impulsi fondamentali dell’agire umano e ne individua
tre:
- Egoismo, che vuole il bene proprio
- Cattiveria, che vuole il male altrui
- Compassione, che vuole il bene altrui
Di questi tre moventi della volontà solamente la compassione è un impulso genuinamente morale, che
funge anche da vero e unico fondamento della morale.
La compassione rimane il grande mistero dell’etica, il suo primordiale fenomeno. Certo è che solo essa
può fungere da autentico fondamento morale del principio “non fare del male a nessuno; sii piuttosto,
per quel che ti è possibile, di aiuto a tutti”.
La compassione comprende infatti le due virtù, definite da Schopenhauer cardinali, della giustizia e
dell’amore del prossimo. In primo luogo, la compassione mi chiede di essere giusto e di oppormi al
dolore che io stesso potrei causare agli altri; a un livello superiore essa esige che le mie azioni siano
positive e non si limitino a evitare il male, ma riescano ad aiutare gli altri.
CAPITOLO 9 - IL PROBLEMA DELL’AUTONOMIA MORALE: HEGEL, KIERKEGAARD, NIETZSCHE
HEGEL → nella filosofia dialettica di Hegel lo Spirito rappresenta il momento conclusivo, nel quale l’idea
ritorna pienamente in sé e si realizza, dopo essere stata posta nella sua immediatezza nella logica ed
essersi alienata nella natura (idea fuori di sé).
Lo spirito a sua volta conosce delle manifestazioni: inizialmente si presenta come Spirito soggettivo,
quindi come Spirito oggettivo, infine come Spirito assoluto. Anche se lo Spirito oggettivo non
rappresenta il punto d’arrivo nel cammino di sviluppo dello Spirito, esso costituisce comunque un
momento eccezionalmente ricco e concettualmente denso di significati, senza il quale d’altra parte
nemmeno potrebbe manifestarsi lo Spirito assoluto attraverso le autocomprensioni dell’arte, della
religione e infine della filosofia. Con il concetto di Spirito oggettivo Hegel intende fare riferimento a
realtà storiche e sociali nelle quali la soggettività si realizza, ossia si oggettiva e assume una consistenza
tale da determinare in maniera decisiva la realtà e l’esperienza degli individui. Lo Spirito si estrinseca
perciò in tradizioni, in consuetudini, in regole, in leggi, in strutture, in istituzioni; non a caso Hegel indica
nel diritto, nella moralità e infine nell’eticità i momenti propri di sviluppo dello Spirito oggettivo.
A questo punto vale la pena ricordare che il termine greco ethos denota prima di tutto la “dimora” nella
quale vive abitualmente il soggetto; si potrebbe quindi dire: l’ethos identifica l’insieme delle
consuetudini e dei costumi, perché questi costituiscono la dimora, la casa, nella quale il soggetto nasce,
cresce e vive.
Kant aveva sostenuto che il movente della volontà morale non può essere secondo la materia, non può
quindi basarsi su un qualche contenuto, ma deve essere secondo la forma della legge, ossia secondo
l’universalità. Criticando apertamente tale soluzione, Hegel ribadisce con decisione che la coscienza
non è formale, che essa si rapporta a un bene che è già carico di contenuti; bene e coscienza nella
moralità, si costituiscono come momenti unilaterale, raggiungono nell’eticità la loro concretezza,
rapportandosi l’uno all’altro.
Fondamentale è ciò che sostiene Hegel a proposito del rapporto tra soggetto e ethos, che è qualcosa
di immediato, ancora più identico che la stessa fede e fiducia. Fede e fiducia richiedono pur sempre un
procedimento rappresentativo da parte del soggetto, che dichiara appunto di avere fede o di fidarsi, il
rapporto con l’ethos è invece ancor più diretto, più immediato: prima di poter dire io ho fiducia, il
soggetto ha già interiorizzato il senso dell’ethos. Ovviamente non è detto che la coscienza continui
sempre a immedesimarsi nell’ethos, senza avanzare la benché minima istanza critica e riflessiva. Hegel
a tale proposito individua una scansione di piani in cui progressivamente si attinge a una conoscenza
sempre più adeguata de rapporto tra soggetto ed ethos.
KIERKEGAARD → La sua riflessione sull’etica è contenuta in alcuni testi molto famosi, quali Aut-Aut,
Timore e Tremore, Il concetto dell’angoscia, che appartengono tutti al cosiddetto “ciclo di Regine”. Il
ciclo comprende l’imponente produzione letteraria e fa seguito alla traumatica rottura del
fidanzamento con Regine Olsen. La sofferta decisione di rinunciare a sposare Regine, come pure il
rifiuto di assumere la carica di pastore protestante, vanno interpretate come lo sforzo di vivere
esistenzialmente la radicalità del cristianesimo, senza compromessi e mezze misure. Rispetto a Hegel
la critica Kierkegaardiana è ancora più radicale e colpisce al cuore la pretesa di autonomia dell’etica: è
illusorio ritenere che l’uomo nella vita etica riesca a compiere il bene confidando nelle sue sole forze;
l’etica si scopre impotente di fronte al peccato.
Alla logica conciliante della filosofia hegeliana egli contrappone la dialettica dell’aut-aut; di
conseguenza la vita religiosa non può essere interpretata come la comprensione a un livello superiore
di quanto già guadagnato sul piano della vita etica: l’uomo religioso è radicalmente diverso dall’uomo
etico.
Partiamo dall’analisi di tali distinzioni. In Aut-Aut la figura dell’esteta è personificata dal Don Giovanni
dell’omonima opera musicale di Mozart, ossia da un seduttore che va sempre alla ricerca di nuove
esperienze, che vuole conquistare una donna dietro l’altra, facendo bene attenzione però a non legarsi
con nessuna. Di contro, l’assessore Guglielmo rappresenta la stabilità della vita etica: è il marito fedele
che ha sempre amato e sempre amerà una sola donna, il funzionario di Stato che compie il suo lavoro
con lealtà e devozione. La vita estetica è improntata al godimento e al desiderio, ma i desideri sono
molteplici e l’esteta li vuole gustare tutti. Egli così si trova a vivere fuori di sé, è sempre teso alla rincorsa
di ogni possibile soddisfazione, senza mai riuscire a trovare appagamento, è incapace di scegliere.
L’esteta si trova così esposto alla disperazione, e tuttavia egli cercherà di occultarla e di rimuoverla,
cercherà di non scegliere. La scelta evitata dall’esteta permette al contrario di accedere alla vita etica.
L’uomo etico non vive nell’indifferenza, né vive spontaneamente o nell’immediatezza. Egli è chiamato
a diventare sé stesso, sceglie di assumersi un compito, portandone la responsabilità.
L'uomo etico è responsabile anche verso Dio, oltre che verso se stesso e verso gli altri. La relazione con
Dio è quindi considerata come una sorta di ulteriore esplicitazione della sua vita etica e tra le due
dimensioni, quella etica e quella religiosa, non sussistono particolari contrasti e conflitti. L'uomo etico
è anche, un uomo naturalmente religioso. La fede di Guglielmo, in effetti, è una fede che rassicura, una
fede conciliante che rafforza il suo senso di responsabilità. Del tutto diversa è la fede di Abramo quale
emerge dalle pagine di Timore e Tremore: qui non vi è alcuna linea di continuità tra etica e religione,
ma uno stato di tensione, che potrà allentarsi solo sospendendo l'etica e quindi proclamando il primato
della fede. Dio, infatti domanda ad Abramo di sacrificare Isacco, l'unico figlio, lungamente atteso e
finalmente concepito, quando ormai il padre e la madre Sara erano molto anziani e già si erano
rassegnati. Il sacrificio di un figlio non è giustificabile dal punto di vista etico, perché il padre deve amare
il figlio più di sé stesso. Si tratta di un principio che vale indistintamente per ogni padre, per ogni uomo.
NIETZSCHE → Nel pensiero di Nietzsche la risposta alla domanda iniziale di che cosa sia l'etica assume
una valenza radicalmente differente da quella attribuibile alle prospettive degli autori finora
considerati. Nietzsche osserva come agli albori della storia umana si fosse soliti giudicare il valore o il
disvalore di un'azione in base alle sue conseguenze, ovvero in base alla forza del successo o
all'insuccesso, che spingeva poi gli uomini a parlare bene o male di quell'azione. Successivamente il
criterio della conseguenza che contraddistingue il cosiddetto periodo premorale dell'umanità, venne
lentamente soppiantato dal criterio dell'origine. Prese così forma il periodo morale nel quale il valore
di un'azione dipende dal valore della sua intenzione. Benché il nome di Kant non sia espressamente
menzionato, è evidente che il suo pensiero può essere considerato come la più rigorosa e potente
giustificazione della “morale dell'intenzione”. Tale morale costituisce però agli occhi di Nietzsche un
pregiudizio che danneggia la vita. Egli, quindi, auspica l'avvento di una nuova fase, denominata come
extra-morale, la quale dovrebbe rivolgersi in un rovesciamento e una radicale rimozione dei valori.
CAPITOLO 10 - RAGIONE E SENTIMENTO IN ETICA: SCHELER, RAWLS E HABERMAS
Nel 1913 Max Scheler pubblica la prima parte della sua fondamentale opera. Scheler con questo suo
monumentale lavoro si propone due obiettivi:
- giustificare un'etica materiale, ovvero un'etica centrata su dei contenuti, in netto contrasto con l'etica
ritenuta meramente formale e astratta di Kant;
- Fondare un personalismo etico.

I due obiettivi, in verità, sono strettamente connessi, perché per Scheler non vi può essere un'etica
materiale se al contempo non si supera il “vecchio pregiudizio” secondo il quale lo spirito umano si
dovrebbe esaurire in una radicale contrapposizione tra “ragione” e “sensibilità”.
Scheler rifiuta apertamente l'equiparazione kantiana tra razionale-a priori-formale da un lato e
sensibile-a posteriori-materiale dall'altro. Tale equiparazione spiegherebbe il rigorismo, il carattere
imperativo e repressivo, l'assenza di gioia e di amore che si riscontra nell'etica kantiana. L'obiettivo di
Scheler è quello di giustificare un'etica oggettiva, a priori, che non sia però formale, bensì materiale.
Tale obiettivo viene guadagnato attraverso il metodo fenomenologico.
La fenomenologia si prefigge il compito di descrivere le modalità tipiche attraverso le quali le cose e i
fatti si prospettano alla coscienza: tali modalità tipiche sono le essenze, ovvero i fenomeni, intesi come
ciò che si manifesta a priori alla purezza della coscienza, astraendo appunto dall'atteggiamento
naturale. I veri fenomeni non sono affatto quelli che noi crediamo solitamente di cogliere attraverso i
sensi o l'osservazione empirica, ma delle essenze, delle qualità essenziali tipiche. Per rendere conto
della natura dei valori, Scheler introduce un'analogia con i colori: al pari di questi rispetto agli oggetti
colorati, i valori sono “indipendenti” dai beni dai quali vengono portati; i valori sono oggettivi e a priori,
mentre i beni sono relativi e mutevoli. Vi è quindi differenza tra il valore oggettivo della giustizia e in
molteplici atti e comportamenti concreti di giustizia o ingiustizia.
I valori sono delle “qualità” irriducibili alle cose e ai beni, sebbene diventino reali, per così dire,
attraverso i beni; essi sono oggettivi e a priori. Ciò significa che il valore dell’amichevole non potrebbe
essere ricostruito attraverso una generalizzazione che assuma ciò che c'è di comune nei diversi atti di
amicizia o inimicizia. Pertanto, così come “è privo di senso ricercare i tratti comuni a tutte le cose
azzurre o rosse”, “è privo di senso, cercare le proprietà comuni di azioni, intenzioni, uomini ecc. buoni
o cattivi”: le essenze, le qualità, tanto del colore quanto del valore si danno a priori, attraverso
l'intuizione. Non sono la cosa concreta o l'atto reale e determinare le essenze, ma è la loro apprensione
che consente di qualificare una cosa concreta come rossa o azzurra, oppure un atto o un
comportamento reale come amichevole o meno.
RAWL → John Rawls ritiene che l'utilitarismo non sia minimamente compatibile con il kantismo. Tale
opposizione viene formulata sin dalle prime pagine della sua fondamentale opera Una teoria della
giustizia, attraverso la distinzione terminologica concernente le cosiddette teorie teleologiche da un
lato e le teorie deontologiche dall'altro. Le prime individuano il fine dell'agire e delle scelte pubbliche
nel bene, che a sua volta viene definito indipendentemente dal giusto; le seconde stabiliscono il
primato del giusto e la necessità quindi che il bene venga determinato in riferimento al criterio del
giusto. L'obiettivo di Rawls è volto espressamente a criticare le varie forme di utilitarismo, che
concepiscono il bene come utilità o benessere sociale, e a rimarcare la superiorità della deontologia e
quindi di un approccio teorico di tipo kantiano.
Il primo dei due principi suona così: “Ogni persona ha un eguale diritto alla più estesa libertà
fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri”. Con il secondo principio si riconosce
che vi possono essere ineguaglianze economiche e sociali che però vanno combinate in modo da
essere:
a) ragionevolmente prevista a vantaggio di ciascuno;
b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti
Altrove questo secondo principio viene ulteriormente riformulato, precisando che le ineguaglianze
sociali ed economiche sono ammesse a patto che siano previste per il beneficio dei meno avvantaggiati.
I cittadini di una società giusta, pertanto, devono avere gli stessi diritti e poter disporre tutti delle
medesime libertà fondamentali, per esempio la libertà politica, di parola, di pensiero, ecc. (Primo
principio). Inoltre, vengono formulati i criteri in base ai quali dovrebbero avvenire la distribuzione di
reddito, di ricchezze e non solo, perché quella proposta da Rawls non è un'interpretazione meramente
economicistica della giustizia: la distribuzione, infatti, concerne anche le cariche e le responsabilità in
condizioni di eguaglianza di opportunità (Secondo principio).
HABERMAS → Nella procedura del discorso pratico proposta da Habermas, non vi sarebbe bisogno di
astrarre, per così dire, dalla situazione reale, perché già attraverso la prassi argomentativa, è possibile
guadagnare l'imparzialità del “punto di vista morale”.
Per meglio comprendere, conviene innanzitutto chiarire due elementi tra loro strettamente collegati
della teoria dell'agire comunicativo di Habermas.
Il primo riguarda le condizioni della comunicazione. Ogni qualvolta comunichiamo, se vogliamo che la
nostra comunicazione sia dotata di senso, avanziamo inevitabilmente delle pretese di validità, che
finiscono poi con l'avere anche un'indiretta valenza morale. Tali pretese di carattere universale e
necessario sono la comprensibilità, la verità, la veridicità, la giustezza.
Quando noi parliamo presupponiamo, sia pure implicitamente, tali pretese e un eventuale giudizio sulla
mancata comprensibilità o giustezza di un asserto, all'interno del processo comunicativo, o sulla
mancata verità, o sull'assenza di un atteggiamento veritiero da parte di chi parla, può essere formulato
solo sulla scorta del riferimento imprescindibile a tali istanze. La presenza inevitabile di tali pretese
spinge Habermas a sostenere che l'agire comunicativo è, per sua essenza, orientato all'intesa.
Assumendo questa logica dell'argomentazione, l'etica discorsiva richiede ai partecipanti alla
discussione di giustificare argomentativamente le proprie posizioni, di riconoscere gli altri attori
dell'interazione comunicativa, di trattarli su un piano di uguaglianza e pariteticità, ovvero, in definitiva,
di dar vita al “procedimento dell'argomentazione morale”.
Il “procedimento dell'argomentazione morale” esige preliminarmente che siano prese in
considerazione le pretese e gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nel discorso; sulla base del principio
“D” (così denominato, per richiamare la valenza cognitiva e normativa del discorso pratico), “una norma
può pretendere di avere valore soltanto se tutti coloro che possono esserne coinvolti raggiungono,
come partecipanti a un discorso pratico, un accordo sulla validità di tale norma”.
Il principio “D” va poi completato con il principio di universalizzazione “U”, il quale stabilisce che le
norme morali sono valide quando gli effetti e le conseguenze secondarie, derivanti probabilmente da
una loro osservanza universale, possono essere accettati da tutti gli interessati, senza costrizione.
CAPITOLO 11 - L’ETICA DELLA RESPONSABILITA’: WEBER, APEL E LEVINAS
Il termine “responsabilità” fa il suo ingresso nel lessico filosofico, in particolare in quello di carattere
giuridico-politico, in tempi relativamente recenti, ovvero nel corso del secolo XVIII, per indicare la
responsabilità propria del governo, dei ministri, dei funzionari dell’apparato statale.
È interessante osservare come l'etimologia stessa sottolinei con forza la prospettiva del futuro.
“Responsabilità” deriva dal latino spondeo, che in primo luogo significa “prometto, do la mia parola,
garantisco”. Tale accezione compariva nelle cerimonie matrimoniali: spondeo indicava l'impegno che il
padre assumeva con il promesso sposo, dandogli in sposa la propria figlia. Respondeo assume questi
significati da spondeo, allargando la sfera degli impegni e delle garanzie: da parte dello sposo c'è a sua
la volontà di fornire delle assicurazioni di fronte alle possibili incertezze del futuro, di ricambiare, di
“rispondere” all'impegno del padre, rendendosi responsabile del proprio agire attraverso una
“promessa solenne” riguardo alla futura vita matrimoniale.
Oltre a questo aspetto è evidente il collegamento tra “responsabilità” e “risposta”, presente a livello
terminologico nella nostra lingua. Tale collegamento spiega perché la responsabilità implica un
necessario riferimento all'altro e per questo si eserciti nell'ambito dei rapporti interpersonali, rapporti
che vengono regolati attraverso impegni, garanzie reciproche, promesse e spiega altresì perché tale
termine abbia trovato una prima utilizzazione in ambito giuridico e politico.
Si deve a Max Weber, in una celeberrima conferenza, la definizione dell'etica della responsabilità come
dell'etica tipica dell'uomo politico, che si interroga sulle conseguenze delle proprie scelte. Anche in
Weber riaffiora quello orientamento verso il futuro che rende necessaria l'assunzione di un
atteggiamento di responsabilità. Il futuro non è ancora, esso si prospetta inevitabilmente
nell'incertezza: per questo l'uomo politico deve essere ben conscio delle sue responsabilità, del peso
che le sue decisioni avranno sulla vita dei propri simili.
WEBER → Max Weber afferma che l'agire dell'uomo politico dovrebbe essere improntato all'etica della
responsabilità, secondo la quale “bisogna rispondere delle conseguenze delle proprie azioni”
Per Weber la vita politica è segnata inevitabilmente dal conflitto, dalla lotta, dalla presenza della
violenza e del male. Colui quindi che voglia dedicarsi a una missione così alta e impegnativa, deve essere
ben consapevole della durezza delle condizioni nelle quali egli si troverà a operare.
Per questo egli avrà bisogno di tre qualità:
- la passione autentica, ovvero una sincera dedizione alla causa che lo sostenga anche quando
incontrerà ostacoli, difficoltà, sconfitte personali;
- la lungimiranza, ovvero necessario distacco rispetto alle cose e agli altri uomini;
- il senso di responsabilità verso la causa che ha scelto.
Il vero politico si fa carico fino in fondo del proprio agire, non disdegnando di far uso della forza qualora
le circostanze lo richiedessero. Il suo obiettivo è infatti quello di poter incidere sulla realtà
modificandola per quel che è possibile. In margine a quanto sostiene Weber si potrebbe inoltre
osservare che l'adozione dell'etica della responsabilità richiede da parte del soggetto lo sviluppo
dell'argomento ad consequentiam: la valutazione di un atto o di un evento dipende dalle conseguenze
attese, conseguenze che sono ritenute altamente probabili sulla scorta dell'esperienza fatta.
All'etica della responsabilità si contrappone l'etica della convinzione o dell'intenzionalità, un'etica
assoluta che esige un rispetto incondizionato dei comandamenti o degli ideali che essa propugna.
Egli parla della purezza dell'etica evangelica esplicabile attraverso il discorso della montagna di Gesù o
la testimonianza di Francesco d'Assisi. Invece, è assai più critico nei riguardi del pacifismo, perché
rinuncia sempre e comunque all'uso della forza, o nei riguardi dello spirito rivoluzionario, perché
vagheggia la costituzione di una società radicalmente nuova, o nei riguardi del sindacalismo quando
porta avanti delle battaglie massimalistiche, con il concreto rischio di provocare una dura reazione della
controparte e in definitiva condizione di vita peggiori per gli operai.
Per Weber non si può pretendere dall'etica evangelica ciò che essa non può dare, ovvero di
preoccuparsi, di salvaguardare il fine della sicurezza e lo sviluppo della comunità politica, quando invece
essa è tutta tesa a proclamare un messaggio religioso di salvezza personale che non conosce
compromessi e mezze misure.
APEL → ha espressamente ripreso la distinzione weberiana, condividendo anch'egli la tesi di una
necessaria integrazione. Più precisamente Apel ha parlato di due livelli dell'etica del discorso, tra loro
strettamente legati, che rispondono alle esigenze poste sia da una giustificazione di tipo deontologico
delle norme morali, sia da una giustificazione di tipo teleologico.
Per Apel, come Habermas, la prassi della comunicazione linguistica si struttura secondo delle pretese
di validità universali e necessarie. Tali pretese o condizioni a priori del linguaggio sono la
comprensibilità, la verità, la veridicità, la giustezza. Quando noi parliamo, quando comunichiamo,
avanziamo, sia pure implicitamente, tali pretese. Esigiamo, cioè, che la nostra argomentazione sia
comprensibile, sia fondata sulla verità, pretendiamo, inoltre che quello che diciamo sia sostenuto da
un'istanza di veridicità ovvero di sincerità, facciamo ugualmente valere una pretesa di correttezza.
È chiaro che di fatto non sempre i nostri discorsi sono comprensibili e dotati di senso ed è chiaro che in
essi sono non sempre vi è rispetto formale della correttezza e della verità, o si riscontra un
atteggiamento sincero da parte di chi discute.
A differenza di Habermas, Apel ritiene però sia possibile fornire una fondazione ultima, di tipo
trascendentale, dell'etica. Il riconoscimento delle quattro pretese di validità della comunicazione
comporterebbe l'accettazione di una norma fondamentale e tale accettazione giungerebbe sui
presupposti stessi dell'argomentare sensato.
LEVINAS → Un deciso rifiuto di concepire la relazione etica tra i soggetti attraverso le modalità del
rapporto simmetrico e della reciprocità è presente nella riflessione di Lévinas. Lévinas si è formato
filosoficamente alla scuola fenomenologica.
Nel 1961 egli pubblica Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, nel quale sono tracciate, con uno stile
espressivo spesso arduo anche se assai suggestivo, le linee guida del suo pensiero. In particolare, egli
suggerisce di interpretare la relazione con altri come una relazione originariamente asimmetrica, nella
quale l’ego, non può presumere di ridurre l'alterità a una semplice proiezione della propria identità.
Tale proposta diviene anzi il criterio fondamentale, a partire dal quale avanzare delle critiche radicali
nei riguardi dell'ontologia dell'Occidente.
La filosofia dell'Occidente è secondo Lévinas una filosofia dell'Identico, nella quale l'io si pone come
centro e totalità, al quale tutto deve essere ricondotto. Alla concezione narcisistica e onnicomprensiva
della soggettività occidentale, Lévinas contrappone una “difesa della soggettività… fondata nell'idea
dell'infinito”, ovvero “la soggettività come ciò che accoglie altri, come ospitalità”.
L'etica non è derivata, anzi a essere più precisi è la relazionalità etica a porsi come luogo originario della
responsabilità; l'etica, se è concepita nella sua radicalità, come rottura della totalità, non fa che
esprimere questa responsabilità per l'Altro, è essa stessa, quindi, responsabilità. Nella prospettiva di
Lévinas, quindi, l'etica ha senso solo come responsabilità; le varie etiche della responsabilità, sono
invece solo delle forme derivate che non attingono pertanto alla fonte originaria della relazione
asimmetrica. Il movimento dell’esteriorità, dall'Altro si manifesta attraverso il volto.
Il volto si dà nell'immediatezza e nella concretezza: biblicamente si presenta come il volto del povero,
dell'orfano, della vedova, dello straniero; esso ci conduce verso una nozione di senso originaria.
Nel volto l'Altro rimane esteriore, infinitamente trascendente rispetto al porsi dell'Io. Il volto parla e
rivolge un appello, rispetto al quale l'Io non può rimanere sordo. “Essere Io significa, dunque, non
potersi sottrarre alla responsabilità”.
CAPITOLO 12 - L’ETICA APPLICATA: NAESS E JONAS
NAESS → il norvegese Naess è il teorico della cosiddetta ecologia profonda, che egli contrappone
all'ecologia superficiale. Questa si limita a lottare contro l'inquinamento e l'esaurirsi delle risorse
naturali, con l'obiettivo in definitiva di salvaguardare l'elevato tenore di vita dei popoli dei paesi
industrializzati.
Per l'ecologia profonda, invece, tutte le forme di vita, non solo quelle umane, hanno “un eguale diritto
a vivere e a realizzarsi pienamente”. All'antropocentrismo, criticato Naess contrappone il biocentrismo,
per il quale è il bios ovvero la vita come tale a essere messa al centro e ad avere un valore intrinseco,
che non dipende da altro. Il mancato riconoscimento dell’egualitarismo da parte dell'uomo si ritorce
paradossalmente contro di sé: quando infatti l'uomo si comporta da padrone e stabilisce una relazione
di asservimento nei confronti della natura e delle altre realtà viventi finisce con l’alienarsi da sé stesso
e con il compromettere presentemente la qualità del proprio vivere.
Per giustificare l'egualitarismo biosferico, Naess ricorre frequentemente a un'immagine, quella della
rete: l'ambiente è una rete che collega una molteplicità di nodi, ovvero di organismi viventi. Ciò significa
che gli organismi sono tutti tra loro collegati come lo sono i nodi di una rete e che la qualità di vita di
una forma dipende strettamente dalla relazione instaurata con le altre forme. Non vi è quindi una
forma vivente privilegiata: l'uomo è uno dei nodi e la sua vita dipende da quella degli altri esseri.
Questa nuova visione della realtà richiede da parte dell'uomo l'assunzione di nuovi stili di vita più sobri.
Essa si fonda su una nuova modalità di sapere, l'ecosofia, che è una forma di sapienza, di saggezza
concernente l'oikos, ovvero la “casa-Terra”, le condizioni di vita dell’ecosfera.
JONAS → La sua opera più importante, intitolata Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà
tecnologica, prende le mosse dalla constatazione che per la prima volta nella storia dell'umanità,
dobbiamo mettere in conto l'ipotesi dell'annientamento di ogni forma vivente in un primo luogo della
natura umana.
Di fronte a questo terribile scenario, l'etica tradizionale si mostra del tutto inadeguata. Essa è
fondamentalmente un'etica della reciprocità tra coloro che compongono la società umana: al dovere
dell'uno corrisponde il diritto dell'altro e viceversa.
Di fronte alla dinamica inarrestabile della tecnica Jonas fa quindi l'appello alle “euristica della paura”.
L'euristica è l'arte di cercare e trovare le regole adatte per condurre la ricerca; la paura gioca un ruolo
fondamentale nella costruzione di Jonas, perché aiuta a rinvenire i principi dell'”etica del futuro”, che
necessita sia di un sapere di tipo scientifico, per poter calcolare gli effetti a lungo termine della tecnica,
sia di un sapere di tipo espressamente etico. Noi, spiega Jonas, non coglieremmo la sacralità della vita
se non ci fosse l'omicidio, né conosceremo la veridicità se non esistesse la menzogna; così la paura per
il completo stravolgimento dell'uomo, ci permette di elaborare il relativo principio della salvaguardia
dell'umanità.

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