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SOCRATE (8)

1) La vita
Con Socrate siamo arrivati ad affrontare il primo dei tre “grandi” della filosofia greca.
Gli altri due sono Platone ed Aristotele. Come sicuramente vi ricordate, rimaniamo nel
periodo “antropologico”.
Nacque ad Atene, dove visse tutta la vita, nel 470 o 469 a.C. Della sua biografia diremo
solo che la madre era levatrice (cioè ostetrica); che dedicò tutta la sua vita alla
ricerca filosofica (e per sessa decise di morire) intesa come <<esame incessante di
se stesso e degli altri>>1 e che non scrisse nulla perché <<nessuno scritto poteva
suscitare e dirigere il filosofare. Uno scritto poteva forse comunicare una dottrina, ma
non stimolare la ricerca. Se Socrate rinunciò a scrivere, questo si deve quindi al suo
stesso atteggiamento filosofico, di cui tale scelta costituisce un aspetto
essenziale>>2.

2) Socrate ed i sofisti: continuità o rottura?


Platone descriverà Socrate come un anti-sofista. In realtà <<Socrate è
indissolubilmente figlio e avversario della sofistica, e come tale deve essere
studiato>>3. Ora vediamo gli elementi in comune e quelli che lo differenziano dai
sofisti.
Socrate ed i sofisti hanno in comune:
<<■ l’attenzione per l’uomo e il disinteresse per le indagini intorno al cosmo;
■ la tendenza a cercare nell’uomo e non fuori dell’uomo i criteri del pensiero e
dell’azione;
■ l’atteggiamento spregiudicato e la mentalità razionalistica, anticonformistica e
antitradizionalistica, che induce a mettere tutto in discussione e a non accettare
alcunché, se non attraverso il vaglio critico e la discussione;
■ l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso.

Gli elementi che invece allontanano Socrate dai sofisti – a parte le manifestazioni
esteriori e la volontà di non fare della cultura una “professione” – sono invece:
■ un più sofferto amore della verità e il rifiuto di ridurre la filosofia a vuota
retorica o ad esibizionismo verbale fine a se stesso;
■ il tentativo di andare oltre lo sterile relativismo conoscitivo e morale in cui si era
avviluppata la sofistica post-protagorea. […] In Socrate vi è infatti l’esigenza di far
“partorire” agli uomini delle verità comuni, che al di là dei punti di vista soggettivi
possano avvicinarli intellettualmente tra loro (pur senza indurli ad abbandonare
l’orizzonte dell’umano)>>4.

3) L’ironia socratica e la maieutica


Molto giovane, era attratto dalla filosofia degli ultimi naturalisti, in particolare di
Anassagora di cui forse fu addirittura discepolo. Ben presto però si rende conto che
<<alla mente umana sfuggono inevitabilmente i “perché” ultimi delle cose e che a
essa non è dato di conoscere con certezza l’essere e i principi del mondo>>5. Così
Socrate rivolge l’indagine della filosofia verso l’uomo, <<rintracciando il significato

1 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica, (con la collaborazione di
Giancarlo Burghi), Pearson, Milano-Torino, 2013, p. 108.
2 Ivi, p. 109 (parte del neretto è mia)
3 Ivi, p. 110 (il neretto è mio).
4 Ivi, pp. 109-110 (parte del neretto è mia).
5 Ivi, p. 111.

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profondo del proprio essere uomo: “di tutte le ricerche la più bella è proprio questa:
indagare quale debba essere l’uomo, cosa l’uomo debba fare” (Platone, Gorgia, 488a).
Per questo motivo Socrate fece proprio il motto dell’oracolo delfico, “conosci te
stesso”, vedendo in esso la motivazione ultima del filosofare e la missione stessa del
filosofo. E poiché, secondo Socrate, non si è uomini se non tra uomini, in quanto ciò
che ci costituisce come tali è proprio il rapporto con gli altri, la sua filosofia assunse i
caratteri di un dialogo interpersonale in cui ognuno, con-filosofando con il prossimo,
affronta e discute le questioni relative alla propria umanità. In questo colloquio
incessante, in questa ricerca senza fine, Socrate pose il valore dell’esistenza,
convinto, come si dice nella platonica Apologia di Socrate, che “una vita senza esame
non è degna di essere vissuta”>>6.
Molto spesso quando si pensa a Socrate gli si associano due affermazioni: “sapiente è
soltanto chi sa di non sapere” e l’altra l’abbiamo già incontrata: “conosci te stesso”.
In effetti queste due frasi toccano un punto centrale della filosofia socratica, che però va
spiegata. La prima frase (so di non sapere) è rivolta in modo polemico verso i filosofi
della natura che in giovinezza lo avevano attratto. Abbiamo già visto che se ne distacca
perché consapevole che sulla cosmologia non si può arrivare a conoscenze certe: su
questi temi l’unico sapiente è Dio. Questa consapevolezza però non va intesa come una
“rinuncia” alla ricerca, al contrario, perché solo <<chi si crede già in possesso della
verità non sente l’impellente bisogno interiore di cercarla>>7. Abbiamo già visto,
inoltre, che questa ricerca non va indirizzata verso la natura, di cui non possiamo
sapere, ma verso l’uomo ed i problemi etico-esistenziali.
Quindi la prima preoccupazione di Socrate è quella di rendere gli uomini
consapevoli della propria ignoranza. Per raggiungere questo scopo utilizza
l’ironia. Vediamo in cosa consiste. <<Facendo ironicamente finta di non sapere,
Socrate chiede al proprio interlocutore, il più delle volte un illustre e celebrato
“maestro” di qualche arte, di renderlo edotto circa l’ambito di sua competenza. Dopo
una teatrale adulazione del sapere del personaggio, Socrate comincia a investirlo con
domande e ad avvolgerlo in una rete di quesiti. Utilizzando l’arma del dubbio […] e
manovrando l’abile tecnica della confutazione delle deboli e avventate risposte
ottenute, Socrate giunge a mostrare a chi gli sta di fronte l’inconsistenza delle sue
persuasioni, provocando in lui vergogna e stizza. Con questo “irritante” gioco di
finzioni programmaticamente messo in atto da Socrate per distruggere la presunzione
del sapere, il filosofo può raggiungere il proprio scopo principale: invogliare alla
ricerca del vero>>8.
Una volta demolite le false convinzioni degli altri, lo scopo di Socrate non è quello
di sostituirle con la “propria” dottrina o le “proprie” idee. In Socrate, infatti,
abbiamo <<il concetto della verità come conquista personale e della filosofia come
avventura della mente di ciascuno, si è anche visto uno dei principi fondamentali
della pedagogia: la vera educazione è sempre auto-educazione, ossia un processo in
cui il discepolo, grazie all’opera del maestro,viene aiutato a maturare autonomamente
e a partire dalle proprie inclinazioni interiori>>9. Il termine chiave è quello di
“maieutica” cioè <<l’aspetto positivo-costruttivo del metodo di Socrate, il quale, per
mezzo di opportune domande poste al suo interlocutore, lo aiuta a “partorire” le
verità che egli custodisce, in modo latente, dentro di sé>>10. Per questo nella

6 Ivi, p. 112 (parte del neretto è mia).


7 Ivi, p. 113.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 114 (parte del neretto è mia).

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biografia ho messo in evidenza il fatto che la madre fosse ostetrica, del resto Socrate
stesso si paragona ad un <<ostetrico di anime, [che] aiutava gli intelletti a partorire
il loro genuino punto di vista sulle cose>>11.

4) Definizione, induzione, deduzione e concetto


Abbiamo detto che la maieutica è l’arte di far partorire la verità che l’interlocutore
possiede in modo latente. Ora dobbiamo capire “cosa” fa partorire. <<Nella
movimentata struttura a spirale del dialogo socratico, fatto di domande, risposte,
obiezioni, nuove domande, nuove risposte, nuove obiezioni ecc., la molla dell’intero
processo è l’interrogativo <<ti estí>> (che cos’è?), ossia la richiesta di una
definizione precisa di ciò di cui si sta parlando>>12. Ma cosa è la definizione per
Socrate? <<Corrisponde al “concetto” di una cosa, alla sua “essenza”. Il filosofo vi
giunge ponendo a qualcuno in maniera reiterata “ti estí” (ad esempio “che cos’è il
bello?”, “che cos’è la virtù?”), senza accontentarsi delle prime superficiali risposte, ma
inducendo l’interlocutore a spogliare progressivamente l’oggetto della ricerca da tutti
gli elementi che non sono essenziali ad esso>>13. Facciamo un esempio: quando si
domanda cosa sia la virtù, è frequente rispondere con un elenco di caratteristiche ma
Socrate cerca la “definizione”. <<La domanda “che cos’è?” – di cui si nutre e in cui si
concretizza l’ironia – rivela dunque un duplice volto: uno negativo, indirizzato a
mettere in crisi l’interlocutore e a spogliarlo delle formule acriticamente accettate;
l’altro positivo, teso a condurlo verso una definizione soddisfacente dell’argomento
trattato, su cui possa esserci un accordo linguistico e concettuale tra le menti>>14.
Ora dobbiamo affrontare un tema molto importante per la filosofia: il ragionamento
induttivo. Partiamo dalla definizione: è <<il procedimento mentale che dall’esame di
una serie di casi particolari risale a un concetto o ad un principio universale>>15.
Ora facciamo un esempio: <<dopo aver visto che “giusto” è chi segue questa, quella e
quell’altra legge, si può risalire al concetto di “giustizia”, ovvero alla definizione di
quest’ultima come rispetto delle leggi>>16. Facciamo un altro esempio: osservando i
cani che incontro mi accorgo che tutti hanno 4 zampe. Attraverso il ragionamento
induttivo arrivo alla conclusione che “tutti” i cani hanno 4 zampe. Il problema è che
arrivo a tale conclusione senza avere visto effettivamente “tutti” i cani esistenti,
cosa oltretutto impossibile (in questo caso) visto che la conclusione vale anche per
quelli morti e per quelli che nasceranno. Quindi <<il problema a questo proposito più
dibattuto è stato quello dei limiti e della giustificazione di questo processo. […] Nella
filosofia moderna e contemporanea si assiste a un sempre più deciso rifiuto
dell’i[nduzione] come processo in grado di raggiungere conclusioni universali, ma,
diversamente da quanto accadeva nella filosofia antica, questo rifiuto non sempre è
accompagnato da una definitiva liquidazione dell’i[nduzione] e dall’affermazione che
essa ha un valore secondario, a cui si contrappone la via privilegiata della scienza>>17.
Aristotele, invece, gli contrappone il ragionamento “deduttivo” che possiamo definire
come <<nesso di derivazione che sussiste tra premesse e conclusione di un
ragionamento>>18. Un classico esempio di ragionamento deduttivo è il sillogismo

10 Ibidem (il neretto è mio).


11 Ibidem.
12 Ivi, pp. 114-115.
13 Ibidem (il neretto e la sottolineatura sono miei).
14 Ivi, p. 115.
15 Ibidem (il neretto e la sottolineatura sono miei).
16 Ibidem.
17 Induzione, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2008, vol. 1, p. 507.

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aristotelico cioè <<l’argomentazione logica in cui, poste due premesse, ne deriva di
necessità una conclusione>>19. Facciamo un esempio: Tutti gli uomini sono mortali
(premessa). Socrate è uomo (premessa). Quindi Socrate è mortale (conclusione). <<La
concezione aristotelica fu studiata e perfezionata nelle riflessioni filosofiche
successive. In modo particolare si raffinò l’analisi dei ragionamenti deduttivi come
opposti ai ragionamenti induttivi, intendendo con i primi quei ragionamenti che
procedono dall’universale al particolare, ossia da premesse generali a conclusioni più
particolari o anche singolari; e intendendo con i secondi quei ragionamenti che vanno
dal particolare all’universale, ossia traggono conclusioni generali da premesse
particolari o singolari>>20. Secondo Aristotele <<due cose si possono a buon diritto
attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione dell’universale; e tutte e
due riguardano il principio della scienza>>21. A questo punto, sebbene lo abbiamo già
visto, riprecisiamo che <<nell’accezione socratico-platonico-aristotelica, il termine
“concetto” indica ogni contenuto mentale in grado di fissare in modo
universalmente valido le note essenziali di una realtà qualsiasi>>22. Ma fino a che
punto è arrivato Socrate nella pratica del concetto e dell’induzione? <<Contro i sofisti e
contro il caos verbale e concettuale degli eristi, Socrate sente il bisogno di portare un
po’ d’ordine nel discorso interpersonale, prospettando la necessità di una precisazione
anche linguistica dei concetti, in grado di consentire agli uomini di intendersi meglio e
di trovare un punto d’accordo capace di far superare criticamente la molteplicità
dissonante delle loro opinioni. In tal modo, con Socrate comincia a delinearsi quella
reazione al relativismo linguistico, conoscitivo e morale della peggior sofistica che
Platone porterà avanti per proprio conto. Tuttavia Socrate, a differenza di Platone e di
Aristotele, non costruisce una “scienza delle definizioni”, né elabora un “concetto del
concetto”, e tanto meno intende la definizione come una forma di sapere assoluto,
capace di rispecchiare entità metafisiche “eterne” (quelle che Platone chiamerà “idee” e
Aristotele “forme”), in quanto per lui le definizioni e il concetto rimangono allo stato
esigenziale>>23.

5) La morale
L’areté,cioè la virtù, era per i greci <<il modo di essere ottimale di qualcosa (ad
esempio, la velocità era la virtù del ghepardo e la forza quella del leone). Riferito alle
persone, il concetto di virtù indicava dunque la maniera ottimale di essere uomini e,
quindi, il modo migliore di comportarsi nella vita>>24. Se nella tradizione greca la
virtù è una qualcosa che è data all’uomo per nascita o dagli dei, per i sofisti è <<un
valore o un fine che deve essere umanamente cercato e conquistato con sforzo e
impegno. Come tale, essa dipende dall’educazione, in quanto virtuosi non si nasce,
ma si diventa, attraverso la paidéia, o cultura. In questo stesso universo mentale si
colloca Socrate, affermando anch’egli che la virtù non è un dono gratuito, ma una
faticosa conquista, in quanto l’essere uomini è il frutto di un’arte che è la più
difficile e la più importante di tutte>>25. Per Socrate la morale è una forma di
“sapere”. In altre parole <<per essere uomini nel modo migliore è indispensabile

18 Deduzione, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2008, vol. 1, pp. 242-243, p. 242 (il
neretto è mio).
19 Casalegno P., sillogismo, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano, 1993 (I ed. 1981), pp. 1054-1055, p. 1054.
20 Deduzione, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, cit., p. 242.
21 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica, cit., p. 115.
22 Ibidem (il neretto è mio).
23 Ivi, pp. 116-117.
24 Ivi, p. 117.
25 Ibidem (parte dl neretto è mia; la sottolineatura è mia).

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riflettere, cercare e ragionare: in una parola, è indispensabile far filosofia nel senso
più vasto del termine, ossia riflettere criticamente sull’esistenza>>26. Ogni uomo
deve imparare a discernere il bene dal male, ma attraverso quali strumenti si arriva a
questa capacità? Innanzitutto è fondamentale dire che secondo il filosofo non esiste il
“Bene” come entità, come qualcosa di “fisso”, definibile una volta per sempre. <<Il
bene e il giusto sono valori umani, che scaturiscono di volta in volta dal nostro
lucido ragionare>>27. Quindi è necessario che ognuno attraverso la consapevolezza di
se stesso ed il ragionare con se stesso e con gli altri arrivi a definire ciò che è bene fare
e ciò che non si deve fare “in quel momento” ed in “quella occasione”. La virtù
socratica può essere comunicata ed insegnata, ma tale insegnamento non può essere
fatto in modo dogmatico ed assolutistico. In questo c’è una coerenza con il suo concetto
di sapere, che è sempre il frutto di un dialogo interiore e con gli altri. Anche il maestro,
lo abbiamo visto, deve far partorire la verità che è insita nell’allievo. La scienza del
bene è quella più importante e se non la si possiede le altre conoscenze diventano
inutili se non dannose. Insomma <<la vita come avventura disciplinata dalla
ragione: ecco il senso profondo del razionalismo morale di Socrate e della sua
concezione della virtù come scienza>>28. A questo punto è bene definire il
razionalismo morale, che è <<la dottrina filosofica che attribuisce alla ragione e
all’intelligenza la direzione suprema della vita, reputando che per agire
correttamente siano indispensabili la conoscenza e la riflessione>>29. Come
abbiamo già visto, quindi <<intesa come sapere razionale, la virtù socratica, […] può
essere insegnata e comunicata a tutti e deve costituire il patrimonio di ogni
uomo>>30. La virtù è la scienza del bene. Da questa definizione ne deriva che la
virtù è unica: tutte, infatti, si riducono al sapere cosa è bene fare. Sulla scia di
Democrito, Socrate afferma che i valori veri non sono legati alla ricchezza, fama,
esteriorità quali la bellezza, ma sono valori interiori che praticamente si identificano
con la conoscenza. Nietzsche, filosofo della seconda metà dell’Ottocento, accusava
Socrate di aver ucciso l’istinto e la gioia di vivere. In realtà la morale di Socrate era
<<un modo di essere che mira all’utilità e alla felicità della vita. In questo senso, la
morale socratica è una forma di eudemonismo […], poiché vede nel conseguimento
della felicità lo scopo ultimo o il movente dell’azione>>31. Non mira alla
mortificazione o alla negazione dei beni quali il benessere, ma al <<calcolo intelligente
finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita>>32. In fondo è proprio la
ragione a renderci maggiormente felici perché chi si abbandona agli istinti (pensiamo
alla collera) ne rimane schiavo e la sua vita sarà infelice. Abbiamo già detto che per
Socrate l’uomo è un animale sociale, quindi la virtù si concretizza nella capacità di
saper vivere con gli altri. In questo senso la virtù socratica è legata strettamente alla
politicità, non nel senso di “dominio” ma di “ragionare insieme” sul bene comune.
Secondo Socrate ogni uomo fa ciò che ritiene sia il bene. In altre parole nessuno
commette il male volontariamente. Chi commette un’azione negativa lo fa perché
ignora il bene. Insomma Socrate fa l’equazione virtù = sapienza e vizio = ignoranza.
Per questo molti filosofi e alcuni psicoanalisti lo hanno accusato di “intellettualismo
etico”, sopravvalutando la ragione a discapito dei fattori emotivi. In fondo sappiamo

26 Ivi, p. 118.
27 Ibidem.
28 Ibidem (parte del neretto è mia).
29 Ibidem (il neretto e la sottolineatura sono miei).
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 119.
32 Ibidem.

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tutti, per esperienza, che a volte pur sapendo quale sarebbe il comportamento più
corretto ce ne discostiamo. Alcuni hanno difeso Socrate dicendo che, in realtà, chi è
profondamente convinto di cosa sia il bene lo attua. Altri hanno accusato Socrate di
<<“formalismo etico”, in quanto egli non definirebbe in concreto la virtù […In
realtà] come aveva già lasciato intendere Protagora, spetta infatti all’individuo e alla
comunità decidere liberamente di volta in volta in che cosa consista il bene, sulla base
di un calcolo razionale maturato a contatto dell’esperienza>>33. L’imperativo morale
di Socrate è quello di agire secondo ragione ed è convinto che il bene <<sia
“morale” solo nel caso in cui rispetti la propria e l’altrui dignità umana>>34.
Socrate intende la sua filosofia come un compito affidatogli dalla divinità. Inoltre
raccontava di avere un “demone” che in tutti i momenti decisivi gli sconsigliava di fare
certe cose. <<Per i greci il “demone” è un essere intermedio e mediatore tra il mondo
divino e quello umano. […] Socrate allude a “qualcosa di demoniaco” […] che egli
sente dentro di sé, una sorta di “voce” divina che gli suggerisce che cosa non deve
fare>>35. Secondo alcuni questo demone è la voce della coscienza, secondo altri invece
sarebbe la <<guida trascendente e divina della condotta umana. Il demone è dunque
un concetto religioso, non semplicemente morale>>36. In fondo, comunque, può
essere considerato <<come la personificazione dell’anima individuale>>37. L’anima
di Socrate è prigioniera del corpo (lo riprende dalla dottrina orfica) ed è la <<sede della
vita intellettuale dell’uomo>>38. Questa concezione porta con sé l’immortalità
dell’anima, tema al quale, però, Socrate non dà importanza. L’uomo, essendo l’unico
dotato di ragione, è l’unico <<in grado di rapportarsi alla divinità, in quanto simile ad
essa>>39. Secondo Socrate esiste un’unica mente che organizza e governa l’intero
universo (gli dei greci sovrintendevano, ognuno, un proprio ambito). <<Oltre a tenere
insieme l’universo, la divinità socratica è anche custode del destino degli uomini,
presidio dei valori morali […]. Questa fiducia in un ordine buono dell’universo
costituì senza dubbio l’essenza della religiosità socratica, una religiosità che non
riposava su credenze, ma animava la ricerca filosofica. Proprio per questo suo
carattere religioso la ricerca aveva il massimo valore agli occhi di Socrate, il quale
impersonò nel modo più evidente quella libertà dell’indagine che fu propria dello
spirito greco>>40.

6) La morte di Socrate
Pare che Socrate fosse <<fautore di un aristocraticismo politico antitetico rispetto
all’ideologia democratica teorizzata da Protagora, e che concepisse il governo come
arte e competenza, da affidare a poche persone preparate in materia>>41, inoltre era
amico della gioventù aristocratica che aveva portato al potere i Trenta tiranni attraverso
un colpo di Stato. Nonostante questo, <<durante il governo dei Trenta tiranni, si rifiutò
di eseguire l’ordine di partecipare alla cattura di un cittadino ateniese, che doveva
essere condotto a morte; forse avrebbe pagato tale disobbedienza con la morte se il
regime dei Trenta non fosse presto caduto>>42 per una decisa reazione popolare. La

33 Ivi, p. 121 (una parte del neretto è mia).


34 Ivi, p. 122 (il neretto e la sottolineatura sono miei).
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37 Ibidem (il neretto è mio).
38 Ibidem.
39 Ivi, p. 123.
40 Ibidem (una parte del neretto è mia).
41 Ivi, p. 124.
42 Socrate, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2009, vol. 2, pp. 450-453, p. 450.

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nuova democrazia aveva caratteri fortemente conservatori e <<tendeva a chiudersi
alle novità e a fare dell’antica religione un baluardo di coesione sociale e ideale. Per
questo un uomo come Socrate, indipendente in fatto di religione e “spregiudicato” in
filosofia, poteva apparire come un elemento politicamente pericoloso>>43.
Probabilmente, quindi, l’accusa rivolta a Socrate di aver introdotto nuove divinità e di
aver corrotto i giovani era un pretesto. Socrate affronta il processo a testa alta e arriva a
dire che, per tutto quello che aveva fatto, avrebbe meritato non la condanna ma di
essere mantenuto a spese pubbliche. Il verdetto era il più severo di tutti: la condanna a
morte. <<La lealtà di Socrate verso la città e le sue leggi affonda le proprie radici nel
pensiero del filosofo, che, analogamente a Protagora, ritiene che l’uomo sia tale solo in
quanto rapportato alla società, ossia che l’uomo emerga dall’animalità primitiva e
si autocostituisca come essere umano solo in un contesto comunitario retto da
leggi. Da questo punto di vista dire che “l’uomo è la società” equivale a dire che
“l’uomo è uomo in quanto legge”, o meglio in quanto “figlio delle leggi”. Pertanto,
chi rifiuta le leggi del proprio Stato o della propria civiltà cessa di essere uomo, a
meno che non accetti le leggi di un altro Stato. Le leggi si possono cambiare e
migliorare, ma non violare, perché altrimenti verrebbe meno la stessa vita in società.
Questa tesi fondamentale di Socrate, che farà dire a Platone che il suo maestro, pur non
essendo un politico, era stato l’unico vero politico di Atene, ci permette di capire perché
egli abbia scelto la condanna al posto della fuga, “preferendo morire rimanendo
fedele alle leggi, anziché vivere violandole”>>44. In effetti sappiamo che
<<l’esecuzione della sentenza fu peraltro ritardata, per motivi rituali, di circa un mese:
S[ocrate] avrebbe avuto perciò il tempo di accogliere il progetto di fuga, che il
discepolo e amico Critone gli sottoponeva; ma preferì concludere la sua vita con un
ultimo gesto di ossequio verso quelle leggi che era stato accusato di trasgredire>>45.
Così, dopo aver bevuto la cicuta, Socrate muore nel 399 testimoniando con la sua fine
<<la piena fedeltà di Socrate a se stesso e ai propri principi teorici>>46.

BIBLIOGRAFIA
Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle
origini alla scolastica, (con la collaborazione di Giancarlo Burghi), Pearson, Milano-
Torino, 2013.
Casalegno P., sillogismo, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano, 1993 (I
ed. 1981), pp. 1054-1055.
Deduzione, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni
Treccani, Roma, 2008, vol. 1, pp. 242-243.
Induzione, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni
Treccani, Roma, 2008, vol. 1, p. 507.
Socrate, in Treccani filosofia, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni
Treccani, Roma, 2009, vol. 2, pp. 450-453.

43 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica, cit., p. 123 (una parte del
neretto è mia).
44 Ivi, p. 124 (una parte del neretto è mia, la sottolineatura è mia).
45 Socrate, in Treccani filosofia, cit., vol. 2, pp. 450-453, p. 451
46 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica, cit., p. 124.

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