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ANTROPOLOGIA

FILOSOFICA

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 27/09/21 – PRIMO MODULO

La definizione di antropologia filosofica è una parte, un sotto insieme della filosofia, che si occupa
di un problema specifico.

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La filosofia non è altro che una disciplina del domandare, del chiedere e dare ragioni. Disciplina del
domandare, un domandare che deve allenarsi, che non sono tutte uguali, sono domande successive
ad una riflessione, sono domande meditate, che non si accontentano dunque delle prime risposte.
La filosofia fornisce profondità a risposte semplici, dunque dalla domanda arriveremo alla domanda
sull’uomo.
PRIMO BRANO PLATONE: APOLOGIA DI SOCRATE (37 – 28 a.C.)

Il primo brano è L’Apologia di Socrate dove esso si sta difendendo di fronte ad un tribunale che lo
condannerà a morte, e nella sua difesa dichiarerà apertamente che non ha pentimenti se quello di cui
lo si accusa, è l’aver dedicato la sua vita alla ricerca, non può pentirsi di qualcosa che qualifica un
uomo in quanto tale, una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.
Mi accusate di aver dedicato la mia vita all’indagine filosofica, al domandare. Attraverso il dialogo
era capace di convincere tutti senza proporre una sua verità, lasciando che gli altri la potessero
vedere con i propri occhi. Per tutta la vita Socrate non ha fatto altro che ricercare la verità attraverso
il dialogo, esaminare la vita, riflettere sull’esperienza, facendo ragionare me e gli altri insieme. Se
mi accusate di questo allora sono colpevole diceva Platone. Una vita senza esame, una vita senza
profondità, una vita vissuta in superficie è certamente una vita impoverita e quindi non è degna di
essere vissuta.
Questa idea che compare nella Grecia del IV secolo che corrisponde alla nascita della filosofia. In
realtà ci dice che la realtà filosofica è la pratica del domandare, del chiedere spiegazioni, del darsi
ragione.
Se io vi dico che ho passato una vita così racconta Socrate, voi mi prendete in giro, non potete
credere che questo sia quella a cui non posso rinunciare; non mi importa degli onori, degli applausi,
della gloria, delle cariche politiche; ciò che importa a Platone è conoscere la verità o avvicinarsi il
più possibile a essa perché è questa l’esistenza umana, che è una esistenza che per guadagnare sé
stessa ha bisogno di questo supplemento di ragionamento.
La filosofia insegna ed allena a farsi le domande giuste, con quel coraggio che una persona possa
avere senza delegare qualcuno a chiederci ciò che ci riguarda, le domanda scaturiscono dalla nostra
esperienza, nostra cultura, ferite, passato e futuro, relazioni, epoca, storia.
“Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”
SECONDO BRANO – S. NATOLI – Parole delle filosofia o dell’arte di meditare
La filosofia comincia dalla meraviglia o possiamo dire dallo stupore. Socrate in un dialogo dice di
stare tranquilli perché il sentimento di meraviglia o di stupore è normale, è sano, perché il non
sapere ovvero l’atteggiamento spaesato di chi non sa, di chi prova meraviglia è il primo ingrediente
della filosofia, non c’è altro inizio della filosofia, che non sia questo meravigliarsi ovvero sgranare
gli occhi su qualcosa che non ci aspettavamo.
La meraviglia ovvero il disorientarsi rispetto ad un qualcosa che non si conosce, la meraviglia e lo
stupore non sono sempre positivi (es. sensazione primo lockdown).
Esempio dello stupore = bambino che sgrana gli occhi.

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La meraviglia è il primo sentire che genera la domanda, è quel sentire che porta con sé il desiderio
di porsi la domanda, l’interrogativo.
L’insolito è qualcosa che scardina le nostre abitudini, qualcosa che non avevamo previsto,
l’incidente di percorso. Anche questo credo che sia un esperienza comune il fatto che noi ci
troviamo spesso e non sempre volentieri a dover gestire imprevisti, l’insolito che entra nelle nostre
esistenze o qualcosa che non è proprio come lo immaginavamo noi. Questa discrepanza tra quello
che noi pensavamo accedesse e quello che poi veramente accade è dunque fonte di meraviglia e
quindi di domande.
Questo sentimento ci guida dritti verso la ricerca della verità, ma quale verità?
La verità coincide sempre con quello che noi vediamo?
La verità è qualcosa che sta oltre, la verità è ciò che spiega la realtà, la ricerca della verità è la
comprensione di ciò che sta dietro a ciò che vediamo, il suo senso.
La verità non è oggettivamente data, ci dobbiamo ragionare un po'. Non dobbiamo soffermarci sulla
superficie ma dobbiamo capire il perché; quindi, è qualcosa che ci obbliga a guardare oltre, a
confrontarci con gli altri, ad interpretare i dati di fatto. Non basta la realtà per capire la verità.
Anche in questo caso bisogna moltiplicare le domande, e non cercare la risposta più facile (che di
solito è sempre sbagliata!)
La risposta al meravigliarsi innesca la ricerca, lo stupore è la benzina del nostro domandare, il
motore parte se c’è la meraviglia.
La verità secondo Natoli è il non accontentarsi delle prime risposte, guardarsi lontano, immaginare
il “cosa sarebbe accaduto se…”.
Meravigliarsi e domandare significa dunque avere uno sguardo profondo sulla realtà della quale noi
siamo responsabili per noi e per gli altri (es. gli atri che ti chiedono aiuto)

TERZO BRANO: PLATONE – LETTERA VII – 344 B – C

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In questa lettera Platone scrive diretto descrivendo la sua esperienza fallimentare che ha avuto con il
tiranno di Siracusa, che era stato venduto come schiavo, che ha rischiato la vita. Al termine di tutte
queste esperienze traumatiche scrive la lettera VII dove ad un certo punto scrive qualcosa che passa
inosservato ma che è fondamentale per la comprensione della filosofia.
Platone in questa lettera sostiene che c’è bisogno di una certa affinità tra chi conosce e l’oggetto del
conoscere. Senza questa affinità nessuno sforzo di memoria può sopperire a questa mancanza. Virtù
e vizio che sono per Platone la cosa più importante da capire, il bene e il male.
La verità non è mai neutra, non esiste una verità neutrale, esiste una verità buona o viceversa una
menzogna cattiva.
Virtù e vizio, si raggiungono insieme attraverso confronti sereni, attraverso rapporti di amicizia (o
di collaborazione) privi di qualsiasi invidia.
Quello che sta suggerendo Platone è che non si può scoprire o cercare la verità da soli ma lo si deve
fare insieme e soprattutto lo si deve fare in un ambiente sereno e senza invidia.
La verità è sempre buona, non è possibile cercala da soli. Per un confronto che aspiri alla verità
bisogna coltivare relazioni serene e senza invidia.
Questo trattato di etica della ricerca ci dice che se vogliamo raggiungere la verità dobbiamo
abbandonare l’idea della competizione sfrenata reciproca, dobbiamo abbandonare la concezione
della verità come possesso (se ce l’ho io la tolgo a te), dunque la verità non è un possesso, la verità
è qualcosa che si coglie insieme.

QUARTO BRANO: R. DE MONTICELLI – ESERCIZI DI PENSIERO PER APPRENDISTI FILOSOFI

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Secondo Roberta de Monticelli, la domanda è proprio “PERCHE’?”
Quando io chiedo perché sto chiedendo ragioni, infatti ci sono due esempi in cui chiediamo perché:
● Chiediamo la ragione di un determinato comportamento (es. Perché ti sei comportato in quel
modo?)
● Chiediamo perché quando qualcuno fa una affermazione e noi dobbiamo comprenderla (es.
perché hai detto questo?)
Il filosofo cerca e trova continuamente giustificazione per quello che si fa e per quello che si dice,
ovvero argomenta, motiva le risposte che dà. Questo rispondere o chiedere perché significa proprio
giustificare che percorre due strade:
1. Strada del comportamento: soprattutto quando il comportamento è fonte di sofferenza e di
dolore.
2. Strada della conoscenza: la teoria, la logica, perché stai facendo questa affermazione? Quali
giustificazioni puoi portare? argomenta
Il fatto che noi siamo obbligati ad argomentare serve a farci capire dagli altri in modo che gli altri
possano controbattere ed argomentare. (es. se io dico una cosa è così e basta non riesco ad
argomentare mentre se dico una cosa è così perché…. e qui posso argomentare e ricevere risposte
dagli altri)
Dare e chiedere ragioni è la filosofia da sempre!
La prassi del dare e chiedere è consolidata in tutti qui luoghi che hanno istituzionalizzato i dibattiti
(es. tribunali, laboratorio di fisica, laboratorio di chimica, aula del parlamento o senato, in famiglia),
dai contesti meno istituzionalizzati a quelli più istituzionalizzati la pratica del dare e chiedere
ragione è una pratica tipicamente umana ed è la regola del nostro pensare che non è mai un pensare
da soli. Se non avessi esigenza di dare ragione ed evidenza di ciò che dico, se non avessi questa
esigenza il mondo sarebbe condannato al silenzio, come facciamo a metterci in gioco se non
rispondiamo delle nostre azioni e delle nostre affermazioni.
Il percorso che abbiamo fatto lo possiamo vedere così articolato:
1. La filosofia è quella disciplina che ci invita ad una vita esaminata, ad una vita fatta di ricerca
2. La ricerca nasce dalla meraviglia e dallo stupore.
3. Meraviglia e stupore ci portano a ricercare la verità insieme agli altri in modo sereno e senza
invidia.
4. La domanda fondamentale che ci facciamo quando siamo colti dalla meraviglia è perché. Questa
domanda si rivolge sia alle nostre azioni (etica) sia alle nostre affermazioni.

Il tutto per arrivare a dire che dare e chiedere ragioni è la miglior forma del dialogo. (es. funziona
questa metodologia se non siamo autentici, in competizione con l’altro oppure quando non
ascoltiamo? NO)
Una delle costanti antropologiche è proprio il domandarsi, chiedersi, rispetto a ciò che vale per me.
Ciò che vale per me è sempre lo stesso anche se cambia forma.
Possiamo riassumere il segno dell’impegno filosofico attraverso queste tre semantiche:
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1. Vita Esaminata: vita senza ricerca non degna di essere vissuta
2. Meraviglia: con tutte le domande che ne consegue (Perché?)
3. Ricerca Comune
La filosofia ha sempre un carattere auto – implicativo ovvero che le domande partono da noi, in
prima persona ci riguardano, partono da noi e riguardano noi, sono domande sull’umano.
Quando noi conosciamo il mondo stiamo conoscendo noi stessi e viceversa. La nostra conoscenza
del mondo non è mai disinteressata e dunque le domande che ci facciamo scaturiscono dallo nostra
esperienza, dalla vita.
La pratica filosofica mette in circolo esperienza e riflessione dove faccio esperienza e rifletto sulla
stessa, rifaccio esperienza attraverso l’ausilio della riflessione. Ogni esperienza porta con sé alcune
domande ci chiediamo perché? dove va? (il suo scopo o fine).
Il domandare della filosofia è radicale, ovvero non si accontenta della superficie, delle apparenze
ma ricerca l’origine profonda delle forme della nostra vita comune nel bene e nel male.
Kant si è fatto queste tre domande nel testo canone della ragion pura (dicendo che la sua opera gli è
servita per formularle meglio le tre domande) ed esse sono:
- Che cosa posso sapere
- Che cosa devo fare
- Che cosa ho diritto di sperare
La filosofia si pratica attraverso il dialogo, puntando al consenso universale (trovando un accordo
tra i soggetti che ricercano) attraverso la condivisione di dare e ricevere ragioni.
La giustificazione è volta ad eliminare i pregiudizi, (le apparenze non piacciono alla filosofia e i
pregiudizi senza giudizi non sono qualcosa che riguarda la filosofia) e allena alla vita democratica,
al dialogo e al rispetto delle posizioni altrui se e quando argomentiamo.
Le domande:
- passano dalla vita e generano meraviglia
- si fanno insieme e si rispondono insieme
- riguardano sia il nostro sapere che il nostro fare

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – PRIMO MODULO – 01/10/21

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La filosofia rielabora le risposte che si è data. Il filosofo dovrebbe essere colui che non impone la
verità, se la cerca con gli altri, non la impone dall’alto e quindi se la imponesse dall’alto gli altri non
si farebbero domande, che sarebbe dunque il contrario della filosofia, perché la filosofia è
democratica perché tende a farsi domande, a vedere con i proprio occhi la verità.

LE PAROLE DELLA FILOSOFIA


ANIMA
Parleremo molto di ANIMA non è altro ciò che rende vivo un corpo, è la vita del corpo in tutte
quelle attività che il corpo fa, (es. si nutre, riproduce, muove, cresce etc.). Oltre a questo, l’anima
per i filosofi è razionalità, quindi la sede del pensiero ovvero di tutte quelle operazioni che noi
classifichiamo come mentali.
Fino ad un certo punto della storia della filosofia, l’anima per i filosofi è un’entità, una sostanza, ha
una vita propria, è un qualcosa, un ente. Per la filosofia l’anima è il principio della vita, è ciò che
vive in un corpo, che permette a quel corpo di vivere molte funzioni sia vitali che quelle legate al
pensiero.
Per gli antichi l’anima entrava e usciva dal corpo, e questo entrare ed uscire dal corpo significava
vita e morte; l’anima aveva un ciclo poi di reincarnazione (credenza diffusa in occidente anche tra i
filosofi). L’ANIMA è il vivente in quanto tale.

ESSENZA
L’ESSENZA è ciò che rende riconoscibile un ente, che rende quell’ente un’oggetto proprio quello
e non altro. È l’insieme delle caratteristiche fondamentali di un ente. Quando noi dobbiamo chiarire
l’essenza di qualcosa, in realtà ci facciamo una domanda semplicissima “CHE COSA E’?” (Es. Che
cos’è un gatto?) Qual è l’essenza di un oggetto significa rispondere alla domanda “che cos’è
quell’oggetto?”, qual è quell’insieme di caratteristiche fondamentali che rende quell’oggetto proprio
quello lì, cioè appartenente al gruppo di oggetti simili tra loro (Es. il colore dei capelli, avere o no i
capelli, etc.)
Per definire l’umano in quanto tale dobbiamo togliere tutto ciò che è inessenziale e arrivare a ciò
che invece è essenziale. Togliendo quei caratteri essenziali noi toglieremmo l’umanità parleremmo
di un'altra cosa. Pensiamo dunque agli insiemi che sono una classe di oggetti accomunata da certe
caratteristiche così come l’essenza che è una parola che contiene una serie di caratteristiche comuni
a più entità.
L’essenza è dunque ogni risposta alla domanda “che cosa?” ed indica i tratti comuni, generali,
costitutivi di una classe di oggetti, che permettono di identificarli e distinguerli dagli altri.
Quale essenza cercherà l’antropologia filosofica? L’UOMO

Esiste una corrente di pensiero nata tra fine ‘800 e inizi del ‘900 che si è occupata in modo esplicito
di studiare le essenze che noi conosciamo, cioè di cogliere quegli aspetti essenziali della realtà, di
rintracciare nella nostra esperienza, i tratti che definiscono gli oggetti come tali.

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FENOMENOLOGIA
La fenomenologia (il cui fondatore è stato Husserl) si è occupata di farci capire come la nostra
mente o coscienza sia naturalmente portata a cogliere ciò che è essenziale degli oggetti che incontra.
Fenomenologia possiamo dunque descriverla come una scienza di essenze e non di dati di fatto.

FORMALISMO
Il formalismo si applica, riguarda un contesto particolare della filosofia ovvero quella morale
dell’etica, cioè la filosofia che studia il comportamento umano che studia a partire da ciò che è bene
e ciò che è male. Una dottrina formalistica è una dottrina etica, che non dirà mai che cosa devo fare,
non ci darà mai un contenuto, ma piuttosto ci dirà come devo fare per scegliere cosa fare. Se vuoi
agire moralmente ti dico in che modo devi ragionare per scegliere, per fare bene. Le dottrine
formalistiche rispondono alla domanda COME e non che cosa.
Il formalismo è una dottrina etica dove non ti si dice cosa devi fare; dunque, non c’è contenuto (ciò
che è meglio o peggio), ma ti si dice semplicemente come devi procedere per scegliere. Essa è una
questione di ragionamento pratico ovvero: come devo ragionare per scegliere la cosa migliore
adottando dei criteri di scelta (e non di contenuto).

MORALE
La filosofia morale è una disciplina che studia il comportamento umano, ma con una pretesa
normativa, valutativa, sulla base di una scala che va dal bene al male e che riguarda le relazioni
della persona con sé e con gli altri.
Quante discipline studiano il comportamento oltre alla filosofia morale? (es. psicologia, pedagogia,
sociologia, economia).
Tutte queste discipline menzionate ci raccontano come l’uomo si comporta in determinate
situazioni, raccolgono dati e ci forniscono un’immagine dell’uomo, non ci dicono cosa è giusto o
sbagliato (anche il bene o male). Il primo approccio che si ha con quello che si osserva è descrittivo.
Le cose cambiano quando andiamo attraverso la filosofia morale, dove non si limita a descrivere il
comportamento dell’uomo, ma valuta anche il comportamento dell’uomo (da solo, in gruppo o in
comunità) sulla base di una scala che va dal bene al male. In questo senso la filosofia ha un carattere
normativo o prescrittivo, cioè si occupa del bene, chiarisce il significato del bene e del male. La
domanda sul male in filosofia è la prima che ci si pone. Fa parte del DNA della filosofia morale
chiedersi che cosa è bene o che cosa è male e quindi valutare sé stessi sulla base di questo criterio
(qual è il male che faro?: qual è il bene che farò?; o viceversa)
L’approccio valutativo che non può prescindere quindi da una riflessione sul bene o sul male, è
proprio fondamentale per la filosofia morale, che non solo descrive il comportamento dell’uomo ma
ambisce a dire che cosa è meglio, giusto, sbagliato, buono, cattivo etc.
VALORE
Il valore è un criterio che orienta le scelte individuali in quanto considerato capace di promuovere il
bene e a sua volta oggetto di promozione da parte dell’uomo.
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Il valore è ciò che vale per noi ciò che consideriamo per noi e che traspare dai nostri comportamenti
dalle nostre scelte.
Perché il valore è importante per le nostre scelte? Perché è sulla base di quel criterio che noi ci
consideriamo capaci di promuovere un bene. (es. se per me è importante essere leale con l’altro, il
valore della lealtà è più importante di tutto il resto, quindi quando agisco lealmente, agisco in quel
modo perché sono sicura che quell’azione aumenterà il bene dell’altro). Il bene quando lo mettiamo
in pratica il suo effetto è di incrementare il bene secondo noi.
Se io riconosco un valore in qualcuno, farò di tutto affinché questo valore venga promosso,
riconosciuto dagli altri. Agire sulla base del valore è dunque agire sulla base di criteri che
aumentino il bene, agendo per riconoscere ciò che vale nell’altro e far sì che si sviluppi, che venga
riconosciuto.

CENNI DI ANTROPOLOGIA FILOSOFICA

Se la filosofia procede dalla meraviglia e dallo stupore che generano domande e ricerche,
l’antropologia filosofica applica la stessa meraviglia e la stessa radicalità del domandare ad un
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particolare oggetto ovvero L’ESSERE UMANO. Questo ci porta a dire che nell’antropologia
filosofica il soggetto e l’oggetto dell’indagine sono la stessa cosa, coincidono, cioè l’uomo che si fa
domande indaga sé stesso, l’oggetto del suo indagare è sé stesso. Questo aspetto ci fa dire che il
carattere della filosofia ma soprattutto quello dell’antropologia filosofica è un carattere AUTO –
IMPLICATIVO.
Quali sono le domande che l’antropologia filosofica prova a rispondere?
- Che cos’è?
- Chi è l’uomo?
- Qual è la sua essenza?
- Quali sono i suoi tratti specifici?
Le domande che noi ci facciamo sull’umano sono quelle che partono dalla nostra esperienza. Noi
cerchiamo l’essenza dell’umano in antropologia filosofica, cioè quei tratti che lo
contraddistinguano, che lo rendono tale. Questo interrogativo sull’essenza nell’antropologia
filosofica riguarda noi come singoli e noi come gruppo, specie, che significa appartenere
all’umanità. È un interrogativo su noi stessi e sul genere umano in quanto tale.
La domanda riformulata potrebbe essere è possibile trovare un elemento comune per l’umano in
quanto tale che non cambia? (trovare un qualcosa che identifica il mio stare nel mondo).
(Es. La ricerca della felicità, La ricerca del potere. La manipolazione del mondo etc.)
Le domande sull’uomo non nascono con l’antropologia filosofica, ma sono domande che nascono
con la filosofia, o anche molto prima. Nonostante l’interrogativo sull’uomo da sempre ovvero da
quando l’uomo compare sulla terra, solamente nei primi anni del 900 questa domanda diventa
talmente pressante, talmente urgente, da giustificare la nascita di una disciplina con una vita
propria, rispetto alla filosofia intesa come contenitore più ampio. Essa si chiamerà
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA.
Come ogni disciplina che si rispetta anche l’antropologia filosofica avrà una specificità, utilizzerà
un suo metodo, le sue fonti, dialogherà con alcune discipline invece che con altre.

PRIMA TESTIMONIANZA - CASSIRER – SAGGIO SULL’UOMO

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Questo saggio risale a metà degli anni 40 del ‘900. Ci sono due passi significativi che rispondono
alla domanda sul perché l’antropologia filosofica nasce nei primi anni del 900 né prima né dopo?
Cassirer sostiene che la conoscenza dell’uomo da parte dell’uomo è una constante del pensiero
filosofico cioè c’è da sempre. Eppure, l’antropologia filosofica nasce in quel periodo storico preciso
nei primi venti del 900. Dobbiamo dunque evidenziare alcune questioni:
Secondo Cassirer si sono complessificati i dati della realtà che riguardano l’uomo. Tantissime
discipline si occupano dell’umano, raccolgono elementi (es. psicologia, etnologia, etc.), dunque
sappiamo tanto ma questo tipo di conoscenze accumulate è solo un ammasso di dati. L’immagine
del l’uomo risulta dunque frastagliata perché ogni disciplina pensa di aver capito qualcosa
dell’uomo che l’altra non ha capito. Pensiamo dunque a un prisma dove le facce della questione si
moltiplicano a tal punto che si perde quella che Cassirer definisce una UNITA’ IDEALE. Non è
detto che accumulando dati poi li sappiamo gestire. Non è detto che accumulando dati sull’uomo
sappiamo poi dire qualcosa di più vero sull’uomo, che li sappiamo organizzare o addirittura
armonizzare tra di loro. È possibile che queste discipline ci diano un immagine dell’uomo
conflittuale ogni disciplina potrebbe proporre anche essere in contrasto con le altre. Questa
dispersione, che in termini quantitativi è un successo, potrebbe non esserlo in termini qualitativi;
quindi, quello che devono fare i filosofi è cerca di trovare un principio che possa unificare, le
diverse visioni dell’uomo, i numerosi dati raccolti, senza perdere mai di vista la domanda originaria
ovvero “CHI È LUOMO?” “CHE COS’E’ L’UOMO?”
Non si può non tenere conto dei risultati della scienza e non bisogna rinunciare alla pretesa di
unificare queste conoscenze, non bisogna rinunciare dunque alla pretesa di rinunciare alla pretesa di
rintracciare che cosa caratterizza l’uomo in quanto tale. Non bisogna chiudere le porte rispetto alla
complessità, però bisogna allenarsi ad abitarla senza semplificare, senza pregiudizi cercando di
puntare sempre all’essenza.
La filosofia non fa altro che trovare ciò che unisce diversi elementi, definire, trovare il che cos’è
che ci accomuna. La filosofia, dunque, si pone un compito unificatore dalla sua origine, unificare le
diverse immagini dell’uomo che si sono moltiplicate, ribadire qual è l’essenza dell’uomo alla luce
di un dialogo con tutte le discipline che se ne occupano.
L’antropologia si impegna verso l’uomo e la sua unificazione. Non bisogna arrendersi alla
disgregazione, ma al contrario non bisogna sottovalutare la complessità, altrimenti si ha il rischio
della ipersemplificazione, del pregiudizio.

La filosofia risponde alla domanda che cos’è che è molto simile alla domanda perché. Quando
cerchiamo di definire delle caratteristiche specifiche stiamo definendo perché l’individuo è proprio
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quello e non altro; perché la persona seduta a sinistra del banco appartiene al genere umano. Questa
è la stessa domanda nel dire che cos’è quell’ente. Rispondere a questa domanda, dunque, significa
trovare degli elementi che siano comuni all’umano in quanto tale, che lo definiscano in quanto
entità che ha dei tratti comuni con altri individui, simili ma non identici.
Essere filosofi significa ricondurre i molti all’unità, essere antropologi filosofi invece significa
capire che l’essenza umana è una a partire dalla pluralità degli individui e delle discipline che se ne
occupano. Possiamo dire dunque che l’antropologia filosofica fa sintesi delle diverse visioni
dell’uomo, in modo tale da restituire all’uomo stesso una immagine unitaria, definendone tratti
specifici che siano comuni a tutti coloro che appartengono a questa categoria.
Tra le diverse discipline che hanno studiato e che studiano l’uomo l’antropologia filosofica ha
instaurato un dialogo molto fruttuoso con le scienze della natura in particolare con la biologia, per
poter chiarire il posto dell’uomo nella natura e nel mondo. Ma perché proprio la biologia tra tante
discipline? La biologia negli stessi anni in cui si sviluppa l’antropologia filosofica, conduce una
serie di indagini sempre più approfondite e sempre più documentate sulla vita organica dell’uomo,
sul modo in cui l’uomo sopravvive esiste biologicamente, sulle sue differenze con gli altri viventi,
trovando un accordo con alcuni esponenti di questa disciplina.
Sulla base di queste indagini l’antropologia filosofica si chiede ancora una volta che cosa l’uomo
abbia di diverso dagli altri viventi, a partire dal proprio dal suo modo di vivere organico (come si
nutre, riproduce, viene al mondo, dal posto che ha nella catena evolutiva).
Una delle questioni rilevanti che tutti gli autori si pongono è relativa alla naturalità dell’uomo,
cioè in che senso l’uomo può considerarsi parte della natura?, qual è il rapporto che intrattiene con
gli altri viventi?, qual è il rapporto che intrattiene con l’ambiente esterno?; in che senso e in che
modo l’uomo si distingue dagli animali?
SECONDA TESTIMONIANZA – FINK
La naturalità dell’uomo consiste nel fatto che per vivere quella naturalità l’uomo si deve sempre
mediare attraverso simboli, costruzioni culturali; dunque, non ci si accontenta dell’immediato essere
naturale ma piuttosto cerchiamo costantemente di modificare quello che abbiamo intorno,
recuperando una naturalità che non è quella degli animali dato che essa non coincide con la nostra
perché la loro (quella degli animali) è di totale spontaneità.
Fink sottolinea che lo specifico dell’umano è quello di lavorare la natura, abitare la natura per
l’uomo significa lavorarla, modificarla, plasmarla etc. L’uomo non lascia il mondo come lo ha
trovato ma lo rielabora, lavora. Se questo è vero, dunque, riflette sugli elementi specifici dell’umano
a partire dal complicato rapporto che l’umano ha proprio con quella natura, con l’artificialità e
anche a partire dal rapporto che l’uomo ha con l’essere vivente.

TERZA TESTIMONIANZA – ARISTOTELE


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Naturale è il contrario di artificiale.
Aristotele dice che tutto ciò che è naturale vive di vita propria (pensiamo agli animali o alle piante),
tutto ciò invece che deriva dalla tecnica non sono capaci di questi atti, tutto ciò che deriva dalla
tecnica cioè tutto ciò che fabbrichiamo, quelli non sono capaci di questi atti, ciò che è per tecnica
dipende dall’uomo, tutto quello che l’uomo fabbrica non vive di vita propria vive della vita che gli
imprime l’uomo. (es. una ruota si muove perché la facciamo muovere noi)
Es. Se io seppellisco un letto, quello potrà diventare un legno ma mai un letto da quel legno. Il letto
è il prodotto artificiale del lavoro umano, ciò che è per natura è diverso da ciò che è per tecnica.
Ciò che esiste per natura è diverso da ciò che esiste perché qualcuno lo ha fabbricato.
Un primo significato, dunque, quello dell’artificialità ovvero è artificiale ciò che è prodotto dal
nostro lavoro. Ma c’è anche un secondo significato del termine artificiale che non è solo l’oggetto
che non c’è in natura Artificiale significa anche convenzionale, cioè prodotto di un accordo tra gli
uomini che deriva da un artificio che consiste nella possibilità che gli uomini hanno nel creare
qualcosa che prima non c’era. (es. istituzioni politiche, scuole, ospedali etc.)
L’artificiale qui si contrappone al naturale è un artificiale che deriva dalle convenzioni umani, le
leggi sono convenzioni umane che noi adottiamo per poter vivere meglio. Le leggi umane sono
diverse dalle leggi naturali. Es.: la legge del più forte che mangia il più debole che è una legge che
funziona nella natura.
Artificiale, dunque, vuol dire due cose sempre in contrapposizione al naturale perché è :
- Frutto del lavoro dell’uomo
- Frutto di convezioni (più o meno arbitrarie)

Queste testimonianze ci fanno capire come l’uomo vive immersi nella natura, ma in un modo
particolare, diverso rispetto agli altri viventi, ci dobbiamo mettere sempre del nostro. Dobbiamo
recuperare attraverso l’artificio una naturalità che ci appartiene. (es. cibarsi e la cottura del cibo).
L’umano è autonomo riesce a darsi delle leggi da solo, l’animale invece segue le leggi della natura
in modo inconsapevole. Noi umani non siamo fatti per abitare il caos della natura perché non siamo
sufficientemente attrezzati. Naturale e artificiale nell’uomo hanno molti sensi e significati.
Naturale e artificiale si possono declinare con altre parole, che è quella del rapporto tra naturale e
cultura. È difficile dunque stabilire tra ciò che è naturale e ciò che è stato stabilito culturalmente.
I popoli che abitano la terra hanno tantissimi modi di vivere l’esperienza della genitorialità ma c’è
una costante che è LA CURA.
Il nostro faro deve essere in questo caso l’ambivalenza dell’umano, che vive sempre in questa
incapacità di distinguere direttamente e anche l’idea che in noi ci sia una naturalità che possiamo
vivere in modo spontaneo.
L’antropologia filosofica è quella disciplina che si occupa di capire come l’uomo abita il
mondo e come si appropria della sua naturalità, dunque ci deve lavorare.

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Ci appropriamo dunque di una naturalità e impariamo ad abitare un modo che all’inizio non è
ospitale, che ci fa sentire sia appartenenti a esso ma anche estranei, creando un senso di
smarrimento e spaesamento.
L’umanità nelle diverse epoche storiche ha creato di sé stessa delle immagini. In ogni epoca e
luogo che l’umanità abbia abitato, gli uomini si sono chiesti qual è il mio posto nel mondo sempre
per gestire quel senso di caos e spaesamento. Si sono prodotte tante immagini, autocomprensioni
del genere umano.
Autocomprensione significa come capisco, comprendo me stesso, non solo come singolo ma anche
come gruppo umano. Come l’umanità si auto compresa nel corso della storia?
Anche le nostre autocomprensioni subiscono dei mutamenti, non saremmo sempre gli stessi ai
nostri occhi, cambiamo sulla base di eventi esterni dell’affinamento o variazione delle nostre facoltà
e competenze sulla base degli incontri che facciamo. Anche il nostro modo di interpretarci come
umani sulla terra sarà inevitabilmente cambiato.
Per l’antropologia filosofica questo bagaglio di autocomprensioni è fondamentale: L’antropologo
filosofo considera queste immagini come sua materia prima, il suo materiale di indagine per
eccellenza. Sono indizi queste autocomprensioni, queste immagini prodotte, ci fanno capire le
regolarità, le costanti, le varianti e ciò che invece è sottoposto a cambiamento.
L’antropologia filosofica, dunque, fa tesoro del passato, studia quello che il passato ha offerto in
termini di autocomprensione.
Autocomprensione indica un processo attraverso cui l’uomo comprende sé stesso, interpreta
la propria esistenza, i propri valori, le proprie costruzioni culturali. Tale processo è essenziale
per l’uomo e orienta anche le sue produzioni sociali, storiche, le sue istituzioni.
L’autocomprensione dunque conduce all’azione. La nostra autocomprensione e quello che noi
facciamo costituisce un circolo,; cioè mi auto comprendo, agisco di conseguenza e quelle azioni
sono di nuovo oggetto di quelle autocomprensioni. Questa circolarità è infinita a patto che
continuiamo a tenere aperto quel domandare, che fa parte del nostro essere.
Questo circolo è stato definito ERMENEUTICO, che è sinonimo di interpretativo ovvero legato
all’interpretazione.
Il circolo ermeneutico solitamente viene applicato sui testi. La caratteristica, dunque, di questo
circolo ermeneutico parte dalle nostre pre comprensioni cioè da quello che noi abbiamo in testa
prima di fare una terminata esperienza interpretativa. Arrivo dunque con le mie precomprensioni
(che orienta la mia lettura con il testo o l’altro etc.) una volta che io entro in contatto con il testo o
l’altro emergeranno nuovi significati, l’interpretazione sgorgherà quindi dall’incontro della mia
precomprensione con quello che il testo ha da dirmi, comunica, per giungere ad una lettura che non
sarà soltanto solo quello che c’è scritto nel testo o viceversa oppure solo quello che io ci ho voluto
leggere, si arriverà ad uno orizzonte che comprenderà tanto le mie precomprensioni quanto quello
che il testo mi ha detto e allora ci saremo modificati reciprocamente, il testo avrà avuto qualcosa a
me che non aveva detto prima d’ora a nessuno e io avrò parzialmente corretto le mie
precomprensioni.
Ogni processo interpretativo è quindi un incontro, perché è un circolo, perché c’è un soggetto
che va verso l’oggetto da interpretare e in seguito a questo incontro accade una comprensione
estesa/migliore ma non è quella definitiva.
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L’antropologia filosofica si incontrerà con le altre discipline, produrrà una comprensione più estesa
del fenomeno umano così possiamo riconoscere l’esistenza un circolo antropologico così come
riconosciamo un circolo ermeneutico. Si tratta sempre quindi di interpretare la natura umana
attraverso le nostre precomprensioni.

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ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 04/10/21
L’antropologia si basa sulle domande che ha posto l’uomo durante il corso della storia e
dietro a queste immagini possiamo riconosce la domanda intorno a “chi siamo?” e qual è il
mio rapporto con la natura, ambiente o con i miei simili. Tutte le immagini di sé che l’uomo
ha prodotto nel tempo sono risposte alla domanda fondamentale su chi siamo e qual è il
nostro posto nel mondo.
Il fondatore dell’antropologia filosofica dell’antropologia del ‘900 è MAX SCHELER che parte
dalle diverse immagini che a suo avviso l’uomo ha prodotto di sé stesso nel corso della sua vicenda
storica.
Le immagini che Scheler elenca non sono immagini che si escludono a vicenda, si saranno prodotte
in epoche storiche ben determinate, potremmo riconoscere una certa successione, ma questo non
significa che non possono convivere insieme.
Le cinque immagini di cui Scheler parla sono:
● HOMO RELIGIOSUS:
● HOMO SAPIENS
● HOMO FABER
● HOMO DYONISIACUS
● HOMO CREATOR

HOMO RELIGIOSUS
Si tratta dell’immagine dell’uomo che può essere fatta risalire alla tradizione ebraico-cristiana.
L’uomo è rappresentato all’insegna di una colpa originaria che ha causato la perdita di uno stato di
felicità piena. Il sentimento che scaturisce da questa perdita sarà certamente legato ad una
imperfezione che l’uomo riconosce a sé stesso, ma anche di una grande nostalgia verso una felicità
perduta. L’uomo che cade, che a causa del peccato originale perde la pienezza della felicità sarà un
uomo che si percepisce come colpevole, imperfetto, limitato ma desideroso di compimento. La
felicità della quale prova nostalgia è qualcosa che vorrebbe raggiungere. L’homo religiosus sarà un
uomo che percepisce la piccolezza, che sente di aver perso qualcosa di prezioso, avvertendone la
colpa ed è spaventato della infelicità che lo attende e cerca redenzione. L’esperienza della caduta,
dell’allontanamento dal bene e della mancanza che se ne avverte caratterizza la natura umana, che si
autocomprende come limitata, imperfetta, incompleta e incompiuta.

HOMO SAPIENS
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Per Scheler l’immagine dell’uomo venne elaborata per primi dai filosofi greci (Aristotele, Platone
etc..). Secondo questa autocomprensione l’uomo è colui che ha il LOGOS cioè la ragione. Questa
tradizione ne incontra un'altra ne suo cammino che è la tradizione religiosa del cristianesimo.
Come si fondo queste due tradizioni secondo Scheler?
L’uomo è quell’animale dotato di ragione perché quella ragione qualcuno gliel’ha infusa, e chi
gliel’ha infusa? DIO.
I greci mettono un tassello e dicono l’uomo è animale razionale (lo specifico dell’umano sta nella
ragione) poi incontrando il cristianesimo dopo qualche secolo questa tradizione diventa
correggendosi, l’uomo ha la ragione perché dio gli ha dato la ragione in quanto l’uomo è creatura
prediletta da dio nel creato e quindi in piccolo l’uomo fa quello che dio ha fatto in grande.
Creare e dare un ordine per l’uomo diventa utilizzare la ragione che dio gli ha dato cercando di
gestire il proprio mondo attraverso la ragione.
L’uomo può utilizzare la ragione per mettere ordine per procedere dal caos al cosmos. L’homo
sapiens è l’uomo dotato di ragione che diventa la sintesi tra il pensiero greco e quello cristiano.
Qui parliamo di essenza che caratterizza l’umano e questa essenza è la ragione.

HOMO FABER
Per homo Faber si intende un uomo capace di fabbricare strumenti raffinati. (Per strumenti non
intendiamo solo quelli materiali ma anche quelli simbolici, tutto quello dunque che ci serve per
appropriarci della natura).
L’uomo è quell’animale capace di innovazioni in termini di strumenti con cui produce e fabbrica
tutto quello che non si trova in natura.
Le ultime cose che abbiamo detto sull’homo sapiens erano quelle che secondo la visione di sé
dell’homo sapiens l’umano si distingue dagli animali per qualità, perché ha la ragione che lo rende
diverso. Per Scheler l’homo Faber non è qualitativamente diverso dagli altri animali è diverso solo
dal punto di vista quantitativo, ovvero sa fare più cose. Esso ha raffinato a tal punto le sue abilità
diventando quantitativamente dagli altri, essendo più competente. Dunque, per definire meglio:
L’homo Sapiens: è qualitativamente diverso da tutti gli altri animali
L’homo Faber è quantitativamente diverso da tutti gli altri animali
L’uomo si percepisce superiore perché riconosce di saper fare più cose, è sempre un animale ma più
raffinato, non c’è nessuna spaccatura o salto è solo un processo di cui noi abbiamo fatto più passi
avanti, abbiamo camminato di più.
Questo succede perché noi abbiamo diretto parte delle nostre energie vitali alle attività del cervello,
della mente. Noi siamo al pari di tutti gli altri, abbiamo sviluppato un organo in più rispetto agli altri
quindi e questo organo ci dà la supremazia ed esso è il CERVELLO.

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Secondo questa modalità di autocomprenderci saremo:
● Animali simbolici: utilizzatori di linguaggio grazie allo sviluppo del nostro cervello
● Animali fabbricatori di strumenti: sempre perché il nostro cervello è andato più avanti,
dunque saremo animali CEREBRALI.

L’homo Faber è colui che fa in continuità con gli altri animali ha potenziato attraverso le sue
energie vitali in prevalenza un organo che è il cervello, che gli ha dato un vantaggio.

HOMO DYONISIACUS
Fino negli homo precedenti erano immagini positive (diverso dagli altri positivo, può migliorare).
Con l’introduzione di quest’immagine, quell’ottimismo antropologico se ne va e la visione
dell’homo dyonisiacus è piuttosto una visione di un uomo decadente, malato e certamente non più
legato al progresso.
La fiducia del progresso storico viene meno, dal punto di vista antropologico il venire meno di
questa fiducia significa che noi non ci pensiamo più come diretti verso una meta o fiducia nel
progresso. Accanto a questo viene messa anche in discussione quella razionalità che ci
contraddistingueva. Sia nel caso dell’homo Habilis sia nel caso dell’homo Faber, noi ci vedevamo
come esseri capaci di ragione, sia perché qualcuno ci aveva infuso il lume; sia perché noi c’eravamo
sviluppati in un modo che ci aveva privilegiato il cervello, comunque noi eravamo convinti di
essere animali razionali. Il problema secondo i fautori dell’Homo Dyonisiacus è che proprio quella
ragione è la malattia dell’uomo che non è la cura ma il male, perché tutto questo riflettere e insistere
sulle nostre capacità, (mentali, ragionative, riflessive etc.…) secondo quest’immagine ha
progressivamente svilito, spento la nostra vitalità.
Allontanandoci dunque dalla nostra vitalità ci siamo progressivamente ammalati, siamo diventati
negatori di quella vita che invece andava vissuta spontaneamente nella sua immediatezza. Se la
ragione umana era ciò che qualificava l’umano in quanto tale ora diventa il suo problema.
Perfino la libertà (che consideriamo come il nostro vantaggio) è da questi considerata come un
sintomo di debolezza. La libertà di scelta, dunque, sarebbe sinonimo di indecisione.
Es. L’animale agiste per necessità, per istinto ma non è libero; però per l’uomo dyonisiacus è
meglio non essere liberi e vivere immediatamente i propri istinti piuttosto che essere liberi frenando
la propria vitalità.
La ragione non è più sintomo di superiorità ma sintomo di inferiorità, debolezza, malattia.
In questa fase comincia ad emergere un dualismo (duplicità) tra da una parte la MENTE (le attività
spirituali) e dall’altra parte la VITA (le attività biologiche che possono essere legate alla
riproduzione all’alimentazione ovvero tutto quello che per noi è biologicamente vita anche tutto
quello che fanno gli animali)

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LO SPIRITO è inteso come una capacità superiore ed è collegato a delle operazioni mentali (il
nostro ragionare)
LA VITA è la vita animale
Da una parte c’è lo spirito e dall’altra la vita, queste due forze entrano in contrapposizione. Per
l’homo dyonisiacus tanto maggiore sarà lo spirito nella nostra vita (l’utilizzo della mente) tanto
minore sarà la nostra vita.
Semplificando:
+ VIVO – RAGIONO
+ RAGIONO – VIVO

HOMO CREATOR
Secondo Scheler questa immagine si fonda su un presupposto di tipo ateistico; dunque, si nega
l’esistenza di un dio, Se dio non c’è allora si può tutto, se dio non esiste l’uomo è completamente
libero di creare il proprio destino. Siamo completamente liberi e responsabili di ciò che facciamo.
Su di noi non c’è il disegno di nessuno, non c’è provvidenza, non c’è un percorso che già qualcuno
ha tracciato per noi, ma al contrario siamo noi che tracciamo il nostro percorso in totale libertà.
Questo evidentemente ha delle conseguenze sul tipo di azione e sulle pratiche che un uomo che si
autocomprende così potrà istituire: se dio non c’è tutto è permesso.
La legge morale che si poteva ricondurre ad una legge di tipo divino, vacilla, i valori che esistevano
prima vengono spazzati via e ne se ne creano dei nuovi.
L’uomo si considera dio, si considera alla stregua di dio, onnipotente e forse anche onnisciente.
Tutte queste sono immagini di sé, essersi prodotte storicamente, essere nate in un determinato
contesto culturale, da una certa tradizione filosofica o religiosa, che però non dobbiamo pensarla
come autoescludentesi cioè l’una non esclude l’altra alla sua comparsa ma potrà diventare
prevalente l’una rispetto all’altra ma di certo non si escludono, tanto che le diverse immagini le
possiamo riconoscere ancora oggi in altre culture o nella stessa nostra cultura.
Il fatto che si affermi un autocomprensione non comporta necessariamente l’eliminazione totale
dell’altra. (es. homo dyonisiacus vs homo creator sono incompatibili)
L’antropologia filosofica come prima missione ha proprio quella di analizzare le diverse immagini
di sé che l’uomo produce e cercare il più possibile di trovare una sintesi.

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L’antropologia filosofica nasce anche attraverso l’esigenza di reagire alle diverse umiliazioni che
l’uomo abbia subito da parte di diverse correnti filosofiche o psicologiche.
Le umiliazioni oltre alla teoria copernicana bisogna menzionare il Darwinismo e la psicoanalisi
freudiana perché da un lato il darwinismo portava a pensare che l’umano non avesse nessun tratto
specifico e fosse in totale continuità con il mondo animale; mentre dall’altro lato la psicoanalisi
restituiva l’immagine di un uomo che non è “padrone in casa propria” persino rispetto ai miei
pensieri, sogni e desideri io non sono padrone, quindi come posso pensare di essere padrone del
mondo esterno o del mondo naturale.
Rispetto a questa perdita progressiva di centralità dell’uomo nel mondo, l’antropologia filosofica
reagisce cercando riportare il problema uomo al centro non in modo ingenuo (sapendo che quelle
ferite sono state inferte) ma tiene conto dei risultati delle altre discipline.
Se c’è un problema filosofico negli anni 20 è quello dell’antropologia filosofica perché riguarda la
pluralizzazione delle immagini di sé che l’uomo a prodotto in base ai risultati della ricerca
scientifica.
Quindi cosa serve secondo Scheler?
Secondo Scheler serve una scienza (antropologia filosofica) che è in grado di indagare l’essenza
dell’uomo. Noi dobbiamo ancora una volta in maniera convinta e unitaria rispondere alla domanda
chi è l’uomo? Qual è il suo rapporto con i regni della natura (minerali, piante, animali)? Qual è il
suo rapporto con il principio di tutte le cose (divino, naturale o a ciascuno il suo)? Da dove arriva
l’uomo? Tutto questo per Scheler è fondamentale per capire l’umano. Ma che cosa ancora
dobbiamo capire secondo Scheler? Dobbiamo capire che cosa sono le nostre società, in che rapporto
stiamo con gli altri animali, che cosa possiamo fare e che cosa possiamo realizzare, qual è il
rapporto tra lo spirito e la vita? Possibile che li dobbiamo vivere solo in contrapposizione e non
possiamo trovare un modo per trovare un’armonia tra questi due elementi.
Dentro questo passaggio di Scheler c’è il programma di ricerca dell’antropologia filosofica in
quanto tale.
Vista questa pluralizzazione tra quello che abbiamo ereditato dal passato (le 5 immagini di prima) e
quello che continuamente le scienze ci dicono , l’antropologia filosofica è quella disciplina che
riesce a dare una risposta tenendo conto di tutto senza rinunciare alla sua pretesa fondativa, radicale.

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Le correnti dell’antropologia filosofica (alcune di esse possono considerarsi anche come collaterali
a essa)
1)Antropologia filosofica dei fondatori (Scheler, Ghelen e Plessner ) : Scheler alla domanda qual
è lo specifico dell’umano risponderà che lo specifico dell’umano è il suo essere spirituale e lo
collegherà al concetto di persona. Alla stessa domanda (qual è lo specifico dell’umano?) Gehlen
risponderà che lo specifico dell’uomo è la capacità di sopperire alle sue carenze istintuali e
organiche attraverso la plasticità del suo pensiero e della sua azione. Plesxner alla stessa domanda
risponderà che lo specifico dell’umano è la capacità di prendere le distanze dal proprio centro
biologico cioè dalla propria vita, dai propri istinti.
Che cosa accomuna tutti questi autori? Li accomuna il fatto che l’uomo è un essere specifico
rispetto a tutti gli altri esseri viventi e che questa sua specificità consista in un diverso modo di
relazionarsi con il mondo naturale.
2)Antropologia filosofica socio-culturale: Appartengono a questa corrente alcuni autori secondo
cui la specificità dell’umano consiste proprio nella sua capacità di generare sistemi socio culturali,
quindi sistemi sociale e culturali insieme, unici, particolarissimi, diversi in base al tempo e allo
spazio. Questa corrente, visto che si concentra sui sistemi sociali e culturali, sarà inevitabilmente
più portata a rintracciare le differenze fra le varie società piuttosto che le loro analogie. Occuparsi
dell’umano per antropologi filosofi è stare attenti alle differenze facendo attenzione alle barriere.
3)Antropologia filosofica biologica: Nel corso del ‘900 alcuni biologi (tra i quali Portman, Bolk)
cominciano a maturare l’idea (attraverso studi e dati scientifici), che l’uomo sia caratterizzato
rispetto all’ambiente una sorta di apertura. L’uomo dunque non sarebbe predestinato per un
particolare ambiente ma sarebbe piuttosto caratterizzato dalla capacità di adattarsi, interagire con
quell’ambiente modificandolo e in qualche modo manipolandolo.
4)Antropologia filosofica psicologica: Maggior esponente Freud. L’immagine dell’uomo che
emerge è tutt’latro che trionfale.
5)Antropologia filosofica come critica della società: La teoria critica della società si sviluppa degli
anni 20 del ‘900 a Francoforte all’istituto di ricerca sociale ed avrà vita complicata durante il
nazismo per poi riprendere vita dopo la Seconda guerra mondiale e tutt’ora è attivo. La sentenza che
Adorno cita e che si inventa: “Non si dà vera vita nella falsa” significa che non è possibile condurre
una vita buona e giusta se il contesto sociale di riferimento non è buono e giusto. Non è possibile
ricavarsi uno spazio di bontà e di giustizia se prima non si sono trasformate in modo radicale le
condizioni sociali, culturali, politiche che conducono l’umano alla sofferenza. La prima missione
(da rivedere…)
6) Antropologia filosofica Teologica: per comprendere l’umano in quanto tale non si possa ignorare
il suo desiderio, aspirazione ad una dimensione ulteriore, ovvero che va oltre il visibile, che coglie
una profondità che nessun’altro essere vivente può cogliere, che è la relazione con il divino. È un
essere che entra in relazione con gli altri, con la natura (es. natura biologica) ed è un essere che
pensa che possa entrare in relazione con il divino.

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ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 08/10/21

MAX SCHELER
Quello che intende proporre Scheler inizialmente, proponendo un umano che risponde ad una
domanda etica, che riguarda la nostra vita morale, ovvero il nostro agire, che abbiamo bene in
mente che cosa è bene e che cosa è male.
Per Scheler è fondamentale chiarire la natura del bene, di ciò che è buono e qualificare l’umano
come colui che è capace di interrogarsi intorno al bene , vederlo, riconoscerlo, promuoverlo.
La domanda guida di Scheler sarà quella etica consisterà nel tentativo di indentificare il bene e
come fa l’uomo a conoscerlo e come questo lo definisce rispetto agli altri viventi.
Dentro un orizzonte metafisico che rintraccia nel bene e nell’amore la chiave di comprensione di
tutto l’universo per lo meno abitato dagli umani. Questo è un metodo rigoroso, che guarda alle
essenze, che si concerta su ciò che conta e tralascia l’inessenziale e farà sempre i conti con la
dimensione interdisciplinare, cioè guarderà ai risultati delle altre scienze in dialogo con la
psicoanalisi ma soprattutto con la biologia.
La ricerca di ciò che è peculiare nell’umano lo porterà quindi ad intraprendere un processo di
unificazione e Scheler riconoscerà all’umano la capacità di identificare ciò che è bene e ciò che
vale, promuoverlo, inserendolo in una gerarchia di enti dove l’uomo rappresenta sempre il vertice
più alto rispetto a tutti gli altri viventi.
PANENTEISMO: Tutto è in dio, dove dio mantiene la sua autonomia rispetto al creato, ma che
quel creato è una certa derivazione sua e quindi in un certo senso anche il creato è divino.
PANTEISMO: tutto è dio. Dio è entità autonoma e tutto quanto gli appartiene, come se il creato
fosse il creatore stesso che ha preso forma.
Un indice per orientarsi nell’antropologia filosofica di Scheler:
1) Il punto di partenza: gli influssi filosofici, culturali, religiosi e il tentativo di fondare un’etica
materiale.
2) I valori, la loro esistenza, la loro gerarchizzazione, la loro connessione con l’umano
3) La persona in rapporto ai valori e la sua definizione
4) I sentimenti che fondano la vita interpersonale
5) La posizione dell’uomo nella natura e il suo rapporto con la vita
6) La relazione tra uomo e Dio

1) Il punto di partenza: gli influssi filosofici, culturali, religiosi e il tentativo di fondare un’etica
materiale. Il primo influsso per Scheler è il fenomenologo Edmund Husserl, mentre il secondo è
Kant influendo su Scheler per contrapposizione, ovvero contrapponendosi a Kant si sviluppa la sua
risposta etica. Gli influssi religiosi invece riguardano principalmente il Cattolicesimo. L’influenza
che la religiosità ha sul pensiero dell’autore è determinante. L’idea che l’uomo sia un essere
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spirituale, che la sua parte migliore consista nella spiritualità, l’idea che questa spiritualità sia una
via di comunicazione verso e con il divino sono per Scheler elementi imprescindibili che
evidentemente segnano profondamente la sua visione dell’umano.
Il suo tentativo, dunque, è quello di esaminare il fenomeno vita, senza rassegnarsi ad un approccio
di tipo empirico, non basta osservare il dato ma bisogna andare oltre capendo il senso. Analizzare la
vita umana, comprendere l’esperienza dell’umano in quanto tale, significherà cercare qual è la sua
essenza. In questo senso Scheler crede che ci sia qualcosa oltre il fenomeno, che si dia alla nostra
esperienza e che sia in grado di dare senso alle nostre esperienze. L’interesse che muove Scheler è il
tentativo di comprendere la vita umana, l’esperienza vitale dell’uomo nella sua esistenza concreta e
contemporaneamente nel suo spessore metafisico. Il suo tentativo è quello di esaminare l’esperienza
vita senza rassegnarsi ad un approccio empirico. Non basta solo osservare il dato ma bisogna
capirne anche il fondamento. Analizzare la vita umana, comprendere l’esperienza vivente
dell’umano in quanto tale, è cercare di capire qual è la sua essenza. In questo senso Scheler è un
autore profondamente metafisico, crede che ci sia qualcosa oltre il fenomeno, che sia la nostra
esperienza e che sia capace di dare senso alle nostre esperienze.
È in questo quadro metafisico che Scheler vuole investigare le vite umane e sempre in questo stesso
quadro che Scheler cercherà di rispondere alla domanda “Che cosa è proprio dell’umano e solo
dell’umano?” “Qual è la sua specificità?” “Quali sono i suoi tratti peculiari?”
Per l’autore i tratti peculiari dell’umano non sono soltanto il ragionare, la capacità logica (proprie
dell’homo sapiens), sono più che altro il sentire, la vita emotiva, le ragioni del cuore, senza
interpretare questo appello a sentire come un banale sentimentalismo. Il sentire ha le sue ragioni, ha
la sua intelligenza, ha la sua educabilità. Scheler, dunque, è l’apripista di questa concezione, non si
tratta di assegnare all’uomo la ragione. Tra gli elementi che distinguono gli umani dagli altri
animali c’è proprio un sentire intelligente ovvero comprendere i sentire altrui che non è irrazionale
ma si serve di strumenti educabili e comunicabili.
Il sentire, l’idea stessa dell’amore, di un amore che non è cogli l’attimo, di un amore intelligente,
che riconosce nell’altro il valore e lo sa promuovere, valorizzare, di un amore che coinvolge tutto il
vivente e gli umani tra di loro, che fonda le comunità degli uomini, che non è impulso travolgente
fine a sé stesso o alla riproduzione della specie, ma è molto altro l’amore per l’umano.
Che l’amore entri a far parte a pieno titolo nella filosofia (che viene considerata una disciplina
fredda e razionale) è possibile grazie a Scheler.
Le attività spirituali per Scheler sono la ricerca del giusto per sé, il chiedersi che cosa significa
essere giusti con gli altri. Queste sono le attività spirituali non dobbiamo subito pensare all’attività
spirituale esclusivamente dal punto di vista religioso.
La parte spirituale di noi è tutto ciò che riguarda la nostra capacità di fare gesti gratuiti, che non
sono destinati alla mera sopravvivenza o al calcolo del nostro interesse. L’umano è quell’ X di
gratuità, di dono, di gioco.
Per Scheler essere umani significa anche essere diversi da tutti gli altri viventi e quindi avere un
particolare rapporto con il nostro corpo, con la nostra fisicità e con il vivente.
Qual è il rapporto che ha l’umano con il resto del vivente?
L’UOMO PER SCHELER È QUELL’ANIMALE CHE RIESCE A DISTACCARSI DALLA
VITA, DI DIRLE NO, DI VOLTARLE LE SPALLE, DI NON SEGUIRLA.
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Scheler è interessato a fondare una filosofia morale, su basi certe, cioè un etica che valga per tutti,
quindi universale.
È possibile un concetto di bene che accomuna tutti? Esiste un criterio che può valere per tutti?
L’obiettivo di Scheler è quello di fondare un etica condivisa su basi certe, oggettive, valide per tutti.
Come Scheler si può fondare un etica su basi oggettive?
Scheler parte dal fatto che l’umano intuisce, percepisce e sente i valori nella propria coscienza.
L’umano, dunque, è quell’entità spirituale capace di cogliere delle qualità oggettive che esistono
realmente nel mondo esterno, che sono I VALORI.
Fondare l’etica, dunque, è possibile perché l’umano ha già una capacità in sé di cogliere, intuire non
con il ragionamento ma con il sentire, ciò che è bene, ciò che vale e che esiste realmente in quanto
tale fuori di noi. Noi non dobbiamo far altro che coglierlo, valorizzarlo, riconoscerlo, dagli spazio,
promuoverlo quel bene.
In Husserl il metodo fenomenologico consiste in una ricerca dell’essenza, ovvero in un tentativo di
rintracciare nell’esperienza ciò che è fondamentale, essenziale per Husserl.
Fenomenologia significa cogliere l’essenza che sta dentro l’esperienza (es. se io incontro uno
studente faccio una esperienza e dentro essa io colgo l’essenza ovvero colgo i tratti di questa
persona dunque ne colgo l’essenza, cogliendo quello che lui è veramente) Il mio sguardo coglie in
profondità al sua essenza, ovvero il significato delle cose.
Per Husserl ogni esperienza di conoscenza contiene un significato che noi sappiamo cogliere con gli
occhi della mente.
L’approccio fenomenologico è di chi guarda le essenze e le coglie perché ne è capace cioè
coglie il significato profondo dell’esperienza.
Perché noi siamo capaci di fare questo con gli occhi della mente? Fondamentalmente perché la
nostra coscienza ha una struttura abbastanza singolare, particolare per Husserl. La nostra coscienza
è sempre coscienza di qualcosa, coscienza di..; non esiste una coscienza e basta, è sempre dunque
fatta apposta per tendere verso gli oggetti che conosciamo, tendendo verso il mondo esterno. Questa
nostra coscienza, che è predisposta ad andare verso l’oggetto che conosce viene definita da Husserl
come COSCIENZA INTENZIONALE, ovvero che tende verso qualcosa.
La conoscenza per Husserl sarà l’incontro che avviene fra una coscienza intenzionale ovvero fra la
possibilità di cogliere l’oggetto vs. l’oggetto che io colgo. Un incontro fra un soggetto ed uno
oggetto che è possibile soltanto perché la coscienza è aperta intenzionalmente sul mondo, cioè tende
il verso il mondo esterno.
Per riassumere dunque, Husserl e il suo metodo fenomenologico dice che esiste una coscienza
intenzionale aperta al mondo dell’esperienza la cui capacità è essenzialmente quella di catturare
l’essenza dell’oggetto che sta conoscendo, in questo senso la conoscenza è proprio una correlazione
fra la coscienza intenzionale che va verso l’essenza dell’oggetto e l’oggetto stesso che viene
ospitato dalla coscienza, il tutto a caccia di essenza.
Per Scheler l’intenzionalità della coscienza non è altro che LO SPIRITO ovvero la capacità di
cogliere in profondità il valore, l’essenza delle cose.
Lo spirito in Scheler che cosa sarà in grado di cogliere di oggettivo, vero, profondo della realtà?
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Lo spirito, dunque, sarà capace di cogliere, sentire, intuire I VALORI.
A partire dall’intenzionalità della coscienza, Scheler intende fondare un’etica «materiale dei
valori», che non sia cioè relativistica (morale assoluta che vale per tutti e non relativa), utilitaristica
(cioè il cui criterio non sia l’utile, ciò che ci fa comodo) o eudemonistica (non deve essere neanche
un etica orientata alla felicità), ma che non sia astratta e formalistica (ovvero risponde solo alla
domanda come ma non che cosa sono i valori, quali sono, che cosa è il bene etc.) come quella
kantiana, in cui non è possibile identificare valori né riconoscere alla vita emotiva alcun ruolo
fondativo.
L’etica di Kant però ha un problema ovvero quella di essere fondata solamente sulla ragione. Per
Kant il sentimento è un ostacolo enorme per la morale, ci porta sempre lontani da quello che
dobbiamo fare.
Per Kant non esiste la possibilità di fondare una morale sul sentimento, perché per lui il sentimento
è particolare ovvero ciascuno ha il suo mentre la ragione è di tutti, universale.
Per Kant il sentimento ci porta lontani dalla vita morale perché è singolare, ciascuno sente in modo
particolare e diverso dagli altri ed è qualcosa che subiamo (il sentire), quindi per Kant non c’è
qualcosa di più lontano che il sentire.
Scheler ribalterà questo presupposto, la morale ovvero la nostra capacità di vita etica si fonda su
questa nostra capacità di sentire, su questa nostra capacità emotiva di intuizione.
La nostra coscienza intenzionale è proprio questa capacità di sentire ciò che vale, di percepire ciò
che conta, di intuire il bene. Non c’entra la ragione Kantiana. Non è sulla ragione che possiamo
fondare un etica, è piuttosto sulla nostra vita emotiva, sul nostro sentire.
Niente razionalità in senso Kantiano, largo spazio al sentire che diventa il fondamento della nostra
vita morale e della possibilità di un etica che valga per tutti.
Scheler fa una doppia mossa:
- Critica del formalismo
- Critica dell’astratta razionalità
È possibile fondare un etica di contenuto, materiale, tangibile ed è possibile perché noi umani siamo
coloro che ne possono sentire il valore.
L’obiettivo di Scheler è proprio il tentativo di andare oltre al dualismo tra ragione e sentimento,
riconoscendo che il sentire ha una sua intelligenza e questa cosa è possibile farla anche senza il
contatto con l’esperienza, non si raggiunge per via esperienziale perché noi ce l’abbiamo già da
sempre. Il termine tecnico con cui si identifica questa cosa è APRIORISMO EMOZIONALE che
è quella capacità di sentire, percepire i valori.
Il campo del nostro sentire è qualcosa di assolutamente certo, la nostra facoltà di sentire, intuire
preferire amare o odiare dunque è qualcosa di certo, di innato. Non dobbiamo fare tante prove
proprio perché non è una certezza che si acquisisce facendo esperimenti ma al contrario è qualcosa
che noi già possediamo senza bisogno di fare troppe prove. Il nostro sentire, diversamente da
quanto dice Kant, possiamo dire che è una APRIORI ovvero che c’è già da sempre. Per Kant
erano a priori tutte quelle categorie che si permettevano di conoscere il mondo, dell’intelletto, della
ragione mentre per Scheler sono a priori anche le categorie del sentire, perché costituisce la nostra
coscienza intenzionale che significa andare verso l’oggetto sentendolo, percependolo.
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Le nostre emozioni, il nostro sentire è una forma preziosissima di conoscenza dei valori, del bene.
DIRE APRIORISMO EMOZIONALE SIGNIFICA DIRE IL POTER FONDARE UN
ETICA SUL SENTIRE E INTUIRNE IL CONTENUTO VEDENDONE, PERCEPENDONE
I VALORI, CHE SONO ESSENZE ESISTENTI VERAMENTE NEGLI OGGETTI, CHE
QUINDI SONO TALMENTE OGGETTIVE CHE SONO GERARCHIZZABILI.
L’uomo è capace di cogliere il valore o i valori delle cose (strutturati in una gerarchia), attraverso
l’intuizione che è di tipo emozionale e non razionale. Intuire significa sempre conoscere, è di tipo
immediato.
Un conto è ragionare e un conto è intuire, dunque:
- INTUIRE: significa arrivare a qualcosa senza passaggi, direttamente, immediatamente.
- RAGIONARE: significa arrivare a qualcosa attraverso dei passaggi logici uno dietro l’altro
(es. dimostrazione geometrica e/o matematica)
Noi intuiamo i valori dal punto di vista emozionale e non razionale e li rende assolutamente certi e
oggettivi. I valori dunque sono essenze, esistono davvero nelle cose, e sono tali a prescindere dalle
esperienze che noi facciamo, esisterebbero lo stesso anche se noi non ci fossimo. Questo in filosofia
si chiama APRIORI ovvero prima di ogni contatto esperienziale con essi.
I VALORI SONO LE ESSENZE
Questi valori stanno nei beni che sono oggetti concreti che possono essere più o meno dotati di certi
valori. Il valore è ciò che rende un bene desiderabile ai nostri occhi, importante per noi. Il fatto che
la nostra coscienza accolga questi valori ci fa capire la sua intenzionalità.
Il correlato dei valori oggettivi sarà un soggetto (una coscienza) che è capace di questo.
Per Scheler il nome della coscienza che percepisce i valori è PERSONA. La coscienza intenzionale
per Husserl diventa in Scheler la PERSONA SPIRITUALE capace di sentire.
Il passaggio fondamentale è il collegamento tra i valori che sono essenze che possono essere colte
intuitivamente solamente da dei soggetti che sono persone.

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ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 11/10/21
I valori, la loro esistenza, la loro gerarchizzazione, la loro connessione con l’umano: Scheler
articola in modo il più possibile completo i valori e dall’altra parte si chiede chi è che li percepisce.
Per Scheler esiste una gerarchia dei valori, una gradazione rispetto la sua importanza, dove ci sono
alcuni che valgono meno, altri un po’ di più fino ad arrivare al valore massimo.
La gerarchia dei valori che Scheler elenca sono:
1. Sensoriali (piacere/dolore – gioia /tristezza): I valori sensoriali sono quelli che ci fanno
dire che proviamo piacere o dolore. Per Scheler questi valori non sono da criticare in quanto
tali, ma sono da comprenderli in una scala gerarchica e riguardano l’umano in quanto tale.

2. Tecnici o civili (utile/dannoso): Utile o Dannoso qui non è riferito al singolo individuo
quanto alla società in quanto tale. Questi valori tecnici o civili sono quei valori che sono utili
per il buon funzionamento della società (es. opere ingegneristiche, le scuole, i posti di lavoro
etc.). Utili o dannosi non per l’uomo ma per la società nel suo complesso.

3. Vitali (nobile/volgare): Qui l’idea della vita a cui Scheler sta pensando è proprio quella del
vitalismo di Nitche, il valore della forza fisica, del coraggio, della temerarietà ovvero tutto
ciò che promuove il valore della vita stessa che per Nitche era segno di nobiltà (il contrario
della morale del gregge) la volontà di emergere rispetto agli altri. di farsi riconoscere per il
proprio valore, per il proprio coraggio. Per Scheler questi valori sono legati quindi ad una
scala che va dal nobile al volgare. Tutto quello che rende la vita degna di emergere, essere
vissuta, con coraggio, senza paura è per Scheler un valore, nobile legato alla nobiltà
d’animo. Questo discorso è molto vicino al vitalismo che c’era con Nitche.
Anche questi aspetti non sono particolarmente significativi per definire l’umano in quanto
tale.

4. Spirituali, a loro volta distinti in estetici, giuridici, filosofici (rispettivamente


bello/brutto, giusto/sbagliato, vero/falso): sono legati alla presenza dello spirito, alla
spiritualità e sono distinti da Scheler in tre sottogruppi:

- I valori Estetici: la cui gradazione va dal bello al brutto: Tutti questi valori
caratterizzano l’umano in quanto tale, proprio perché solo l’uomo può riconoscere il
bello o il brutto. L’umano è capace, dunque, di cogliere la bellezza, ma non solo
l’umano si chiede anche che cosa è giusto e cosa è sbagliato. L’umano si dà delle
leggi, istituisce tribunali, punisce o premia dei comportamenti.

- I valori giuridici: che si estendono dal giusto all’ingiusto: L’umano si


contraddistingue perché attraverso la sua spiritualità può vedere il giusto o l’ingiusto.
L’interrogativo intorno al giusto e l’ingiusto è qualcosa di tipicamente umano, che
riguarda la sua vita da singolo e nella collettività ed è possibile perché l’umano è
spirituale ovvero la capacità di andare e guardare oltre e dunque anche i valori
giuridici sono spirituali.
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- I valori Filosofici: il cui criterio è il vero o il falso: Per Scheler la verità si può
riconoscere nel mondo e il nostro spirito la può vedere, possiamo intuire il vero.
Farsi delle domande dunque cercando costantemente di arrivare a un verità, per
Scheler è possibile proprio perché noi siamo esseri spirituali che non si limitano a
sopravvivere.

5. Religiosi (sacro/profano): anche i valori religiosi ancor più di quelli spirituali perché
contraddistinguono l’umano in quanto tale. L’umano è il solo essere vivente che può
pronunciare la parola dio. Il divino per Scheler si può proprio intuire. I valori religiosi si
collocano dentro una scala che va dal sacro al profano dove il primo sarà il valore e il
secondo il disvalore. I valori religiosi tendono a far sentire l’uomo felice per aver raggiunto
la propria destinazione oppure sommamente disperato per la sua lontananza da dio.
Valori religiosi sono quindi ciò che contraddistingue l’umano al massimo grado, che
completa questa gerarchizzazione e riconosco all’umano la capacità di essere in rapporto
con dio.
Pur essendoci una diversa importanza tra i valori in Scheler tutto va tenuto insieme, l’importante è
non limitarsi a questo e non l’unico valore che ci interessa. Non si tratta di eliminare i valori più
bassi per accettare soltanto di accettare quelli più alti, si tratta dunque di vivere all’insegna dei
valori più alti anche i valori più bassi. Per Scheler noi siamo un unità vivente.
La capacità umana di cogliere, sentire, i valori è ciò che contraddistingue la persona in quanto tale,
da una parte dunque ci saranno quindi degli oggetti che sono i valori mentre dall’altra parte ci
saranno dei soggetti che saranno in grado di coglierli nella realtà il valore che Scheler chiama
PERSONE.
Scheler perviene alla definizione di persona proprio attraverso la riflessione sui valori. Attraverso il
metodo fenomenologico, che conduce a vedere l’essenziale, Scheler procede per via negativa,
elencando cosa la persona non è per poi soffermarsi sull’essenziale. Solo così si può intuire il suo
essere. La persona è un enigma perché difficilmente definibile una volta per tutte, impossibile
racchiuderla in delle definizioni statiche proprio è perché è libertà, abilità, tenacia etc.
“Potremmo dire che la persona è centro d’irradiamento dai cui partono tante attività diverse tra
loro e ragione unificante di tutti i suoi atti, che è prima di tali atti sia in senso ontologico (sussiste
anche senza atti) che logico e cronologico, e che essa è inoggettivabile unità psicofisica.”.
Che cosa vuol dire dunque che la persona è inoggettivabile?
Inoggettivabile vuol dire che la persona non può mai essere ridotta ad un oggetto, la persona non
può essere trattata, studiata come fosse un oggetto. Non ci possiamo accontentare delle persona
delle immagini che noi ci facciamo. L’idea di persona si può capire solo sulla possibilità che la
persona ha di andare sempre oltre sé stessa, quello che è; quello che fa, la capacità dunque di
guardare sempre più in là che non permette di considerarla con quelle caratteristiche una volta per
tutte. L’oggetto è un ente che possiamo riconoscere per delle caratteristiche più o meno immutabili.
Un oggetto è tale perché ha determinate caratteristiche fisse e dunque la persona non ha
caratteristiche fisse ed immutabili che restano le stesse con il passare del tempo, ma non può essere
lo stesso fatta coincidere con le azioni che fa, perché è più delle sue azioni, è oltre le sue azioni e

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oltre le nostre immagini dunque inoggettivabile, ovvero non la posso studiare come se fosse un
oggetto.
Quell’insieme spirituale è sempre superiore alla somma delle sue azioni, delle immagini che noi
abbiamo di essa. (es. non vogliamo essere ridotti a ciò che gli altri pensano di noi).
Dire che la persona è inoggettivabile significa proteggerla, dall’uso e dall’abuso che se ne fa,
proteggerla dalla sua riduzione a strumento o oggetto e soprattutto dare sempre la seconda o più
possibilità. Non inchiodare la persona a quello che ha fatto, compiuto. La persona è anche molto
altro, ovvero non è solo responsabile di quello che fa o non fa perché ne può e ne deve rispondere
ma essa è anche capacità di riscatto, di andare oltre, non è soltanto capace di cominciare ma anche
di ricominciare.
Quando Scheler fa riferimento, dunque, all’inoggettivabilità della persona fa riferimento alla sua
dignità oltre tutto, che non è riconducibile alla somma dei suoi gesti, dei suoi atti, delle sue
immagini.
Se noi non riconosciamo nell’altro la persona di migliorarsi, comprendere, andare avanti o indietro,
non possiamo dire di svolgere una missione educativa.
Dunque, EDUCAZIONE significa INSEGNARE A RIALZARSI A CONVIVERE CON LA
FRAGILITA’ che non è un elemento del quale avere vergona, non ci appartiene la forza, ma la
fragilità (che significa prezioso, che si può rompere e deve essere curato con maggiore attenzione)
Dire persona significa inneggiare alla vita fragile all’esistenza precaria dell’uomo in quanto capace
di grandezza, di spiritualità, di gratuità, di tendere la mano, di fare gesti contro il proprio interesse,
educare significa questa attenzione con la persona che abbiamo di fronte, che non coincide mai con
l’errore che ha fatto, o mai totalmente con l’errore che ha fatto ma anche con il merito che si è
presa. Essere persone non significa coincidere totalmente con le cose buone o cattive che si sono
fatte, ma c’è sempre un oltre. Essere persona per Scheler significa aprirsi ad orizzonti di elevazione
spirituale tendendo la mano a chi riconosciamo nostro simile.

La persona per Scheler non è:


- Io penso (perché non è oggettivabile e si auto-implica): L’io penso è una funzione
che per Scheler ha un problema ovvero che si può oggettivare e dunque la persona
non può corrispondere all’io penso perché essa si implica concretamente in quello
che fa, sono io con la mia storia ad essere una persona e il mio vissuto non lo posso
accantonare, la persona dunque si auto-implica cioè si chiama in causa
continuamente, è qualcosa di concreto legato al vissuto, alle storie, a qualcosa di
concreto.

- Non è ragione astratta e disincarnata: L’esperienza dell’essere persona è quella


che si fa con tutto il proprio se, con le emozioni, con le parole che si dicono, silenzi,
gesti, sguardi, essere persona è tutto questo.

- Non è anima intesa in senso sostanzialistico: cioè se consideriamo l’anima come


una sostanza, noi la stiamo considerando come un’oggetto; quindi, non possiamo

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pensare che la persona coincida con un anima in senso sostanziale perché altrimenti
la stiamo oggettivando..

- Non è corpo: Però non possiamo pensare che la persona sia solo corpo ed allora
possiamo dire che la persona ricomprende in sé questa unità che è fatta di anima e
corpo insieme, non è nell’una e nell’altra è tutto e più dell’anima e del corpo
sommate insieme. La persona non è una operazione algebrica

- Non è sostanza, cioè non è oggetto: qualsiasi declinazione sostanzialistica della


persona la farebbe percepire come un oggetto.

- Non è il mondo, in cui e di cui vive: è chiaro che la persona vive del e nel mondo e
dobbiamo con esso interagire perché ci serve per il nostro sostentamento, il nostro
abitare, per il nostro esistere. La persona non può dissolversi nella natura e nel
mondo, non coincide con la natura e con il mondo ma ci vive, è immersa nel mondo
e vive del mondo in cui e di cui vive ma non si può sciogliere dentro al mondo,
eccede rispetto al mondo la persona.

- Non è uomo – unità psicofisica – ma il suo principio spirituale: La persona non è


uomo e l’uomo non è persona. Queste due entità non coincidono. Per capire questo
assunto bisogna far riferimento a Locke che ne suo “Saggio dell’intelletto umano”
avanza questa ipotesi dicendo che un conto è dire lo stesso uomo e un conto dire la
stessa persona. Non basta essere uomini per essere persone, dunque non basta essere
identificabili come una entità psicofisica vivente per essere anche persona. La
persona è il principio spirituale di questa unità psicofisica. (Per Scheler la persona è
la spiritualità che unifica, che tiene insieme le nostre esperienze). Uomo e persona
non è la stessa cosa, lo stesso uomo si può identificare dall’esterno con criteri
esteriori, la stessa persona è qualcosa di più, è la sua interiorità, è il suo essere
spirituale.
Possiamo dunque dare una seconda definizione di persona che è il Soggetto spirituale centro di atti
intenzionali che sono spirituali (es. capacità di cogliere i valori, di agire in libertà, etc.). La persona
è un soggetto spirituale a cui si possono ricondurre tutti suoi atti intenzionali, non coincide con gli
atti intenzionali ma ne è l’origine.
La persona è un soggetto spirituale centro di atti intenzionali (da cui partono gli atti verso qualcosa,
siano essi atti di natura conoscitiva, pratica etc.)
La persona si compie nell’esercizio delle facoltà superiori dello spirito, mentre resta simile agli altri
viventi se limita la sua esistenza alle sue funzioni vitali: è dunque l’essere spirituale che la
differenzia dagli altri viventi.
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La persona diventa più persona seguendo la gerarchia di valori che abbiamo elencato sopra. Più
percorriamo questa scala di valori e ci avviciniamo a essa più ci avvicineremo a ciò che solo la
persona umana sa e può fare, cogliere. Se noi ci limitiamo alle nostre funzioni vitali, ci
barcameniamo stando sui valori sensoriali, civili, tecnici e non ci eleviamo, restiamo più vicini al
resto del vivente, dunque, non ci distinguiamo dal resto del vivente. Limitarsi a vivere, esistere a
condurre una vita organica può essere una fonte di piacere, auto conservarsi può avere la sua logica,
ma queste cose non ci distinguono dagli altri viventi, ma esse sono le cose che abbiamo in comune
con gli altri viventi, ciò che ci distingue invece è questa progressione, dove noi possiamo essere
capaci di esercitare le nostre facoltà spirituali e solo queste secondo Scheler permette il compimento
della persona.
Il paradosso sta nel fatto che noi possiamo allontanarci da quella vita per andare verso la nostra vita
spirituale per farla fiorire.

La vita biologica e lo spirito sono due direzioni che si possono allontanarsi l’una dall’altra. La vita
biologica, dunque, ci accomuna a tutto il resto del vivente mentre le funzioni spirituali sono quelle
che ci contraddistinguono in modo esclusivo. Mentre la vita biologica è incapace di spirito,
quest’ultimo è capace di ricomprendere dentro di sé la vita biologica.

Cosa si intende per essere spirituale o spirito?


Per Scheler non è possibile pensare all’idea di spirito come qualcosa di impersonale. Questo
significa che queste due categorie vanno insieme, la persona coincide con i suoi atti spirituali e gli
atti spirituali coincidono con la persona, non esiste uno spirito impersonale.
La persona è sempre quell’io concreto e vivente che si pone nel mondo e dirige la sua
intenzionalità. Non ha senso di parlare di una persona impersonale, perché lo spirito non è cosa
astratta ma è cosa concreta ovvero che ama, odia, riflette, si rialza, aiuta gli altri etc.
La persona è concretezza, di uno spirito che si dirige verso i contenuti intenzionali, che è capace di
provare sentimenti, emozioni e che è capace di pienezza di senso. A partire dal suo posto nel mondo
lo spirito a quello stesso posto può dare un senso. Non basta essere corpi o anime per riconoscere il
senso delle nostre esistenze. Occorre essere persone, spirito per accedere alla pienezza del senso,
che inevitabilmente complesso, articolato, che richiede uno sforzo, una cura, un attenzione.
Ciò che differenzia l’umano da qualsiasi altro essere vivente sta proprio nel suo essere spirituale,
nel potersi definire persona concreta perché sempre unica. Ciascuno è unico nel nostro essere
persona.

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Essere persona per Scheler significa essere in relazione con la natura, gli altri, con dio ovvero
instaurare dei rapporti sentendo l’altro in quanto tale, riconoscendo nell’altro il valore, la bellezza,
l’essere a sua volta persona.

Secondo Scheler esistono diverse relazioni per essere in relazioni con gli altri:
★ La Massa (contagio emotivo): Bisogna qui fare una distinzione tra massa e società, la
prima è un insieme indistinto unito da ragioni immediate, estemporanee, irrazionali. La
massa si contraddistingue per essere questo agglomerato disarticolato in cui prevale quello
che Scheler definisce il CONTAGIO EMOTIVO che consiste nella diffusione
esponenziale di un emozione in modo del tutto irrazionale (es. i fenomeni della paura
collettiva) dove non c’è una riflessione su quel sentire.

★ La società (contatto): C’è un'altra forma più articolata di vita con gli altri, che Scheler
chiama LA SOCIETA’. Essa è un organizzazione che ha alla base un contratto. Per essere
società dobbiamo dunque aver sottoscritto un contratto con tutti gli altri anche in modo
implicito. (es. io mi adeguo alle regole che l’organizzazione si dà). Ogni società secondo
Scheler è tale perché ha sottoscritto un contratto.
Che cosa è in comune tra i diversi membri della società? L’accettazione più o meno
implicita di regole sociali che stabiliscono ciò che va bene e ciò che non va bene. Questa
accettazione lui lo chiama CONTRATTO.

★ La comunità vitale: che per Scheler è la comunità nazionale, la comunità di popolo. Dire
comunità vitale significa pensare al popolo, alla nazione, al folk, alla condivisione di una
lingua e una tradizione.
Che cosa ha in comune una comunità vitale oltre ad essere un entità geograficamente
connotata? Avrà in comune una determinata tradizione culturale, determinati stili di vita,
una determinata lingua ed anche l’idea di un popolo che affronta un passato più o meno
mitico.

★ La comunità giuridico – culturale: In Scheler qui c’è il riferimento allo stato vero e
proprio, alle istituzioni (es. scuola) dove ciò che si condivide è un sistema di regole
formalizzate, un apparato amministrativo, un apparato educativo volti alla promozione di
alcuni valori rispetto ad altri. In questo possiamo ritrovare i valori spirituali che erano legati
al giuridico ma anche alle forme della cultura.

★ La comunità d’amore: dove la massima esemplificazione per Scheler è LA CHIESA.


Questa istituzione le serve per dire che l’umano non può stare senza gli altri e che ci sono

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istituzioni più o meno organizzate di relazione, più o meno solide, più o meno orientate
all’altro.

Allora qual è il sentire che fonda la nostra vita con gli atri che è alla base della nostra vita relazionale?

LA SIMPATIA (che significa sentire insieme) è profondamente diversa dal contagio emotivo e dal
sentire immediato del sentimento dell’altro ovvero quando c’è il contagio emotivo non prevede
alcun tipo di distacco tra me e l’altro mentre la simpatia è la capacità di comprendere il sentire
dell’altro riconoscendo che quel sentire non è il nostro ma è dell’altro. Dunque, bisogna cercare di
comprendere il sentire dell’altro e provare un sentimento legato al sentire dell’altro senza alcun tipo
di confusione.

Che vuol dire dunque, provare simpatia quando un altro sta soffrendo per un lutto?
Significa capire il suo sentire senza proiettarci il nostro sentire ed essere capaci di stare in quel
dolore, provare dolore di accompagnamento e non di sostituzione, senza pretendere di sentire la
stessa cosa che sta sentendo l’altro oppure senza pretendere che l’altro viva quell’esperienza come
noi la vivremmo. Essere simpatetici nei confronti del dolore dell’altro non significa né sostituirsi
all’altro nel provare quel dolore né presumere che l’altro senta quello che noi sentiremmo al suo
posto. Questa è la base dell0educatore.
Simpatia significa dunque comprensione del vissuto dell’altro, sentendolo. Comprensione del
vissuto dell’latro, accompagnamento del vissuto dell’altro, provando dolore d’accompagnamento e
non di sostituzione. Patire insieme, sentire insieme essendo bene attenti al confine tra me e l’altro.
Ora, questo non è contagio emotivo perché implica il concetto di persona, perché non arrivo mai
ad un punto di indistinzione, non è personalizzante ma è proprio il contrario, il riconoscimento che
quel dolore è tuo e non può e non deve essere contagiato.
Simpatia non è provare in modo immediato il suo dolore, perché è impossibile da replicare perché
l’altro è unico. Io sento il dolore dell’altro, lo comprendo ma non posso infrangere un limite che è
inviolabile ovvero non posso presumere di sapere come lui vive il suo dolore e non posso trasferire
il mio modo di vivere il dolore alla persona.
Simpatia non è una unipatia o fusione affettiva. Unipatia significa fare di due cuori uno solo,
fondersi insieme all’insegna di uno stesso sentire. La simpatia non è questo fondersi. L’unipatia
presuppone un sentire che io riconosco come tale e quindi lo individuo come unico insieme
all’altro.
La simpatia non va intesa neanche come immedesimazione, perché se io mi immedesimo rivendico
la possibilità di sentire proprio quello stesso tuo sentire, il che non potrà mai essere. (es. mettersi nei
panni di qualcun altro cancello le differenze tra me e l’altro e quindi non c’è simpatia, dove
l’immedesimazione è una cosa che va evitata a tutti i costi)
L’intelligenza dell’amore significa essere delicati nel sostegno che si dà, essere delicati, non essere
invadenti, non sostituirsi e tutto ciò è difficilissimo.
Noi siamo abituati a considerare l’amore in modo spontaneo, invece l’amore è una delle modalità di
stare al mondo più complessa, bisognosa di cura e attenzione, più delicata che noi possiamo
sperimentare. Di tanti modi che abbiamo di stare in relazione quello dell’amore è quello più elevato

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perché riconosce il valore dell’altro, lo promuove, lo valorizza, ma allo stesso tempo è così difficile,
rischioso perché nella quotidianità è molto più semplice trovare delle scorciatoie che possano essere
legate al contagio. Tutto questo succede quando noi lo consideriamo il sentire come una forma di
spontaneità e l’intelligenza come una forma di sapienza e invece l’amore deve essere sapiente, non
basta la spontaneità del sentire, occorre educarlo, occorre stare in guardia rispetto a tutte quelle
situazioni dove rischiamo di fare troppo e male.
Che vuol dire educare ad essere autonomi dunque?
Significa lasciare che l’atro sbagli, amare, dargli fiducia nonostante tutto.

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 18/10/21


Scheler, per chiarire il significato della simpatia, delinea le seguenti «leggi di fondazione della
simpatia»:
● L’unipatia fonda l’immedesimazione affettiva: Unipatia significa sentire un unico
sentimento con l’altro. Unipatia, dunque, è un unione dello stesso sentire tra due persone.
Unipatia è lo stadio più grezzo, più immediato. (es. Madre / Bambino) A partire da questa
caratteristica di unione possiamo poi distinguere che in principio c’è l’uno che poi all’uno
seguono le diverse distinzioni. In principio non ci sono confini c’è un uno. Proprio grazie a
questo uno nel sentire l’umano è capace di immedesimazione. Siccome noi siamo capace di
questa unità proprio per questo diventiamo capaci di farci una sola cosa ovvero di
immedesimarci. L’unipatia è la condizione di possibilità della immedesimazione affettiva
(mettersi nei panni dell’altro).

● L’immedesimazione affettiva fonda la simpatia: proprio per che noi siamo capaci di fusione
possiamo poi sviluppare l’ulteriore capacità di immedesimarsi nell’altro.

● La simpatia fonda la filantropia: Una volta che ci siamo immedesimati nell’altro possiamo
provare simpatia ovvero vivere il sentire dell’altro ed accompagnare questo suo soffrire
anche con il nostro patire che è nostro e non suo. Questo tipo di fondazione ci fa capire
come per Scheler la simpatia sia un sentimento che certamente è fondamentale per le
relazioni umane e che però presuppone davvero una distinzione tra me e l’altro. Questa
distinzione non c’è , matura inizialmente ma si sviluppa, matura, attraverso la
consapevolezza, la riflessione, l’educazione a partire da una unità originaria immediata che
non contempla la distinzione fra io e tu arriviamo invece ad un sentimento più evoluto per
cui io resto io resto me stesso e tu resti te stesso ma possiamo trovare un terreno comune
nella simpatia che non è unità, sostituzione, contagio, ma è comprendere il vissuto dell’altro
e starci accanto a questo vissuto, averne cura, senza pensare che quel vissuto sia mio. Dalla
indistinzione si passa alla distinzione che è la chiave per poter sperimentare un’autentica
simpatia.

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● La filantropia fonda l’amore acosmico: una volta che abbiamo definito i nostri confini, e
abbiamo compreso il sentire, possiamo estendere questo nostro sentire alla cura
dell’umanità, a chi non conosciamo, alla filantropia. Questo tipo di amore può coinvolgere
tutto il vivente. L’amore tra le persone è una forza capace di unire, tenere insieme.

● L’amore è riconosciuto come principio unificante che tiene insieme il vivente: un amore
disinteressato, che non chiede nulla in cambio, un amore gratuito, un amore che ci riconosce
tutte creature.

È proprio a partire da queste riflessioni sulla simpatia, che arriviamo all’idea Scheleriana di Amore.
Quando noi amiamo una persona questo amore di cui la investiamo, funziona esattamente allo
stesso modo del carburante di una automobile, è quella forza dunque che ci permette di elevarci
verso la nostra parte migliore. Amare significa desiderare il bene dell’atro laddove per bene
intendiamo realizzare la sua piena fioritura. Amare significa non solo riconosce il valore che c’è ma
anche quello che c’è in potenza e farlo diventare attuale. Questo significa che l’amore è una forza
che cede in qualche modo e noi ne siamo portatori ma che significa anche una pienezza nostra, del
mondo intero.
Amore è anche il riconoscimento dell’unicità della persona che ci sta a fianco e tentativo
accompagnarlo alla sua ricerca di sé.
Questo cosa c’entra con la simpatia?
Alla base dell’amore sta la simpatia, se non ci fosse questo intuire, comprendere emotivo del tuo
vissuto, della tua essenza, di ciò che tu sei, come potrei io amarti. Amare dunque significa anche
imparare a comprendere, conoscere senza sostituirsi. Senza simpatia non si dà amore, anzi si dà un
amore cieco, ma non un amore che rispetta l’unicità dell’altro.
Qui torna di nuovo un tema ovvero come l’amore debba essere intelligente. Amare è dunque
riconoscere dell’altro in quanto tale. L’amore è sempre pensato quando è autentico. Ed è proprio
perché l’amore è autentico che possiamo dire che l’amore ci rende migliori.
Per concludere dunque la vita emotiva:
● Ha le sue ragioni
● Ha una portata conoscitiva
● L’amore è esso stesso una forza capace di renderci migliori
● L’amore ha un potere unificante
● Tutto questo è qualcosa che la persona e solo essa sa fare e può fare.

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La posizione dell’uomo nel cosmo è il titolo dell’opera di Scheler che molti considerano la pietra
miliare dell’antropologia filosofica del ‘900. Da questa opera dobbiamo aspettarci di vedere
concretamente in atto quella metodologia che abbiamo discusso riguardo all’antropologia filosofica.
(es. il circolo antropologico, le precomprensioni, il nostro rapporto con la natura, la ricerca
dell’essenza in quanto tale)
Se dovessimo dare una brevissima descrizione di quest’opera Scheler rispetto alla nostra vita in
quanto tale noi siamo quegli esseri capaci di emanciparsi, di fare un passo indietro rispetto alla vita
stessa, di trattenerci, di allontanarci dai nostri istinti, di prendere distanza dallo scorrere, dal fluire,
della vita organica di cui noi siamo parte.
Emancipazione vuol dire liberarsi diventare autonomi, autonomizzarsi, liberarsi da qualcosa (es.
devo emanciparmi dalla mia famiglia, etc.). Emanciparsi dalla vita biologica significa distaccarsi
dalle catene dell’istinto, dalle catene degli impulsi che possono essere legati al mangiare, bere. Noi
siamo capaci di prendere tempo (se abbiamo fame o sete possiamo resistere). L’umano si
caratterizza proprio per questo e dobbiamo capire cosa permette all’umano di allontanarsi dalla vita.

Un’altra espressione tipica che ricorre in Scheler è proprio quest’idea dell’uomo come “ASCETA
DELLA VITA” che significa qualcuno che si tira indietro rispetto alla vita quotidiana, alle cure, al
negozio, per poi elevarsi.
Asceta della vita per Scheler significa qualcuno che si tira indietro dalla vita quotidiana per elevarsi
alla ricerca della nostra essenza più autentica. Questa essenza è messa da Scheler uno studio
sistematico con le scienze della natura in particolare con la biologia, le scienze psicologiche e anche
attraverso un analisi minuziosa delle forme di energia vivente che caratterizzano il mondo organico.
L’idea di Scheler è quella di dare una definizione dell’umano a partire dalle sue precomprensioni,
confrontandosi con le scienze della natura e arrivando attraverso un opera di sintesi di
sistematizzazione a cogliere lo specifico dell’uomo, che ha questa capacità di girare le spalle alla
vita istintuale, biologica in senso stretto.
Quando facciamo riferimento alle scienze della natura, utilizziamo una categoria che ha una sua
storia. Alla fine, dell’800 e i primissimi del ‘900 un certo Diltai definisce dunque due tipi di
scienze ovvero le Scienze dello spirito non sono meno scienze delle altre, il loro metodo è
differente. La proposta che fa Diltai sono le scienze dello spirito sono le scienze del comprendere
mentre le Scienze della natura sono le scienze dello spiegare. Spiegazione e comprensione
diventano due modalità di fare scienza che vengono percepiti come contrapposti per molti anni. La
comprensione delle scienze dello spirito è il perché dei fenomeni umani, qual è l’origine e il fine ,
qual è il senso di essa, mentre le scienze della natura dice Diltai sono scienze che ci spiegano come
avvengono i fenomeni.
Il presupposto che c’è dietro questa diversificazione è che le scienze dello spirito sono scienze di
tipo riflessivo, si occupano quasi sempre dei fenomeni umani, comprendere il senso significa
indagare l’ambito dell’umanità mentre spiegare è qualcosa che si addice ai fenomeni oggettivi.
Comprendere e spiegare sono tutte scienze però ciascuna mira al ragionamento sul mondo con
diversi approcci.
Comprendere e spiegare = perché e come

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Per comprendere meglio l’uomo c’è anche bisogno di spiegare come funziona l’uomo
psicologicamente, biologicamente, Per comprendere meglio dunque c’è bisogno di spiegare di più
quindi lo scarto tra questi due movimenti il come e il perché si riduce già con Scheler (es. il circolo
antropologico ne è la prova).
Opera intitolata sull’idea di uomo è quella di Scheler nel libro “La posizione dell’uomo nel cosmo”
in cui ci si propone di catturare l’essenza. Questo libro è il migliore esempio che possiamo parte
riguardo al metodo che l’antropologia filosofica adotta.
Nel libro si parte con alcuni pregiudizi, pre intuizioni, che vengono messe alla prova ovvero che
possono essere confermate o smentite che poi in un secondo momento vengono unificate attraverso
nuove sintesi il cui obiettivo è proprio quello di unificare l’immagine dell’uomo.
La persuasione che guida il filosofo è quella di fornire un sapere solido, di base, radicato.
Quali possono essere le precomprensione che hanno guidato Scheler nella sua indagine
antropologico filosofica?
Scheler parte da una precomprensione filosofica che è di natura fenomenologica (es. Husserl).
La sua precomprensione quanto a mentalità è una sensibilità certamente di natura etica, ,a anche
religiosa e c’è anche una componente molto forte di spiritualismo ovvero un attenzione alla attività
dello spirito.
Da che cosa parte Scheler per indagare l’umano? Qual è la sua visione?
È una visione che filosoficamente può essere ricondotta alla fenomenologia, e che dal punto di vista
della sensibilità umana è legata all’etica della religione, alla spiritualità.
Scheler parte da una domanda ovvero :
“In che misura possiamo parlare di una posizione particolare dell’uomo nel mondo?”
“Su che base possiamo dire che abbiamo un posto particolare nel mondo?”
Scheler dice che noi umani siamo capaci di fare un passo avanti rispetto alla biologia. È proprio a
partire dalla biologia noi ci scopriamo capaci di oltrepassarla.
Scheler analizzando il vivente si pone l’obiettivo di classificarlo, di stabilire una scala (come aveva
già fatto con i valori) cercando di catalogare l’energia psichica, vivente ovvero tutto quello che è
organico. Questa gerarchia riguarda la vita, il che cosa sanno fare i viventi.
I gradi dunque sono:
1. IMPULSO AFFETTIVO: è quell’impulso impersonale che contraddistingue tutto il vivente
e che lo porta a compiere due operazioni basilari che sono:

★ La crescita
★ La riproduzione

2. ISTINTO: Se noi pensiamo all’istinto pensiamo alla coincidenza immediata tra interno ed
esterno. Nell’istinto è l’espressione immediata senza filtri dello stato interno. (es. lo stato di
fame del predatore è un comportamento istintuale dato che non c’è spazio per la riflessione)

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quello che vediamo dall’esterno invece e tutto quello che dobbiamo sapere di quel
determinato comportamento.
L’istinto che contraddistingue gran parte del vivente animale ha alcune caratteristiche che
Scheler elenca nel seguente modo:

★ Rigido: significa che è determinato, fisso e non è flessibile. Chi è governato


dall’istinto a quell’istinto non sfugge e non ha possibilità di tirarsi indietro. Non ci
sono sorprese in natura da questo punto di vista. Se dunque è fisso, rigido e costante
significa anche che è poco incline al cambiamento. Il comportamento istintuale così
determinato, così lineare, così basato su questo meccanismo di corrispondenza
perfetta tra stimolo – risposta, non è utile solo ad un singolo membro di quella
specie ma è anche utilissimo per la storia di quella specie nella sua interezza, la fa
sopravvivere. Anche al livello dell’istinto (come nell’impulso affettivo) parlare di
specie è parlare di una mancanza di personalità. L’individuo che rappresenta la
specie non è mica una persona ma ha in sé i tratti impersonali della specie intera,
dunque unico soltanto numericamente ma non qualitativamente. Qui è fortissima
l’idea di una legge naturale che è intesa in senso deterministico, non c’è libertà così
come non c’è personalità.

★ Essere Innato: non c’è bisogno di apprenderlo attraverso l’esperienza ma è qualcosa


che riguardando la specie il vivente ha in dotazione; dunque, è una dotazione innata
del vivente. L’animale è dotato di istinto anche rispetto allo sviluppo dei cuccioli
nessuno insegna dove e come procacciarsi il cibo è qualcosa che viene in automatico
e quindi l’aiuto dell’istinto è qualcosa di innato.

3. MEMORIA ASSOCIATIVA: Permette ai viventi di comportarsi conformemente ad una


abitudine acquisita. La memoria associativa permette di agire sulla base del passato e le
diverse esperienze maturate nel corso del tempo permettono di acquisire un bagaglio
rudimentale di conoscenze utili per orientare l’azione. È solo perché ricordo gli errori fatti
che non cado più e posso orientare il mio comportamento verso il meglio. Si impara dagli
errori o meglio il mondo animale impara dagli errori, sia a livello individuale, sia a livello
specifico. Che cos’è il principio del successo e dell’errore? Significa semplicemente che in
base a quanto accaduto se un mio comportamento ha provocato un esperienza negativa
dentro di me (es. fuoco) io acquisirò, faro tesoro di quella esperienza negativa e alla
prossima occasione mi comporterò diversamente. Questo comportarmi diversamente
replicato nel tempo diventa una abitudine. Il bagaglio acquisito attraverso i successi e gli
errori ce lo portiamo dietro come individui e come specie molto più negli animali che negli
uomini, i quali animali sono noti ad imparare poco sia a livello individuale che di specie. Se
ci sono comportamenti che in passato si sono rivelati efficaci vengono ripetuti e quindi
diventano abitudine, vengono acquisiti. Se invece c’è un comportamento che si è rivelato
nocivo, quel comportamento viene progressivamente abbandonato. Questo tipo di memoria
associativa che si basa sull’esperienza, non è immutabile proprio perché si basa
sull’esperienza e allora può essere fonte di lentissimi e percettibili cambiamenti (es. specie
animali che si adattano ad un nuovo habitat) Anche questo livello è presente nell’uomo ma
non è predominante. La memoria associativa non è una caratteristica degli umani.
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4. INTELLIGENZA PRATICA: Non è propria soltanto di noi umani ma è diversa da quella
associativa. La memoria associativa guarda indietro e impara dal passato mentre
l’intelligenza pratica invece è capace di novità. Quando pensiamo all’intelligenza pratica
descritta da Scheler possiamo dire di stare parlando del problem solving, capacità di
risoluzione di problemi nuovi indipendentemente dal pregresso cioè da quello che è stato
ovvero dai successi e dagli insuccessi. Questo essere capaci di novità significa rispondere a
delle sfide inedite mai verificatesi prima attraverso una certa malleabilità, uno scostamento
da quella rigidità tipica del vivente e dell’organico. Se la memoria associativa è di tipo
riproduttivo di comportamenti vincenti, l’intelligenza pratica è invece di tipo produttivo
ovvero produce qualcosa che prima non c’era. (es. scimmie antropoidi)
Se anche questo stadio non è esclusivo dell’umano che cosa (proprio a quello che ci dice la
biologia) sarà in un posto dimetricamente opposto da qui
Nessuno di questi gradi rappresenta lo specifico dell’umano, nessuno di questi quattro gradi
sia tipico dell’umano e dunque per cercare lo specifico dell’umano occorrerà andare oltre
questi quattro livelli
Dobbiamo leggere dunque questa gerarchia che ha tracciato Scheler come una progressione in
termini di personalizzazione.
In tutti questi casi è come se si passasse dallo 0 che è una totale impersonalità ad una progressiva
individualizzazione, cioè quando noi parliamo di impersonale in riferimento alla natura stiamo
facendo mente locale all’incidenza tra individuo e specie. L’individuo e la specie sono soltanto
numericamente distinti, l’individuo è uno di una specie. Man mano che si procede verso l’umano la
questione tra la relazione tra individuo e specie comincia a barcollare, l’individuo è sempre più
autonomo rispetto alla specie nel mondo del vivente superiore. Quando c’è un forte legame tra
individuo e specie mentre se si sale di livello l’individuo e la specie hanno un rapporto più
complesso, più articolato, fino a giungere all’umano la cui unicità non è soltanto quantitativa ma
anche qualitativa. Io non sono umano soltanto perché appartengo al genere umano ma perché unico
e capace di una unicità distante dal mio essere appartenente a quella specie. Così progressivamente
l’essere persona diventa fondamentale che è del tutto assente nei primi gradi del vivente, ma
comincia a palesarsi quando ci chiediamo che cosa ci rende unici.
Tutto questo serve a sottolineare come la nostra modalità di approcciarci al mondo e alla natura è
caratterizzata non dal determinismo che caratterizza tutti gli altri viventi ma proprio dalla apertura
indeterminata, che ciascuno di noi incarna nella sua unicità e allora la persona diventa
fondamentale.
Si passa dunque da un legame iniziale fortissimo tra individuo e specie, ad un assenza di personalità
per poi arrivare infine al culmine di questa gerarchia che è rappresentata dall’umano in cui c’è una
maggiore indeterminazione nel rapporto tra individuo e specie e soprattutto l’esigenza di una unicità
di tipo personale e che non sia soltanto di tipo quantitativo.
Scheler alla domanda che si è fatto risponde che lo specifico dell’umano si trova fuori da tutto ciò
che noi possiamo definire fuori dalla vita e ciò che sta fuori da essa è proprio lo spirito, che prende
forma nella persona. La caratteristica fondamentale di un essere spirituale qualunque possa essere la
sua costituzione psicofisica consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico,
nella sua libertà e capacità che esso ha dal divincolarsi dal legame con la vita e con ciò che essa
abbraccia.
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Scheler dunque dice che l’emancipazione che è ciò che ci permette di distanziarci dall’organico,
svincolandoci dalla pressione della vita, dal potere della tendenza (l’istinto, l’impulso) perché in
fondo anche l’intelligenza pratica non è altro uno strumento che noi abbiamo per assecondare
quell’istinto ed è per questo che Scheler scrive che l’intelligenza è in parte sottomessa alla
tendenza, spesso ci serve per soddisfare le nostre esigenze vitali (intelligenza pratica oggi è una
sorta di saggezza pratica in soccorso nei momenti difficili) attraverso la creazione di soluzioni
nuove.
Spesso questa intelligenza pratica l’uomo la ha in comune con gli animali e però è anche
qualitativamente diverso è colui che sa dire di no e dunque è l’asceta della vita.
Dentro all’idea di vita c’è un fortissimo bisogno di riconoscere qualcosa che noi abbiamo in
comune con tutti gli altri. L’impulso affettivo, l’intelligenza pratica e tutte gli altri gradi sono
assoggettati dalla vita. Solamente se ci sganciamo da questa vita noi ci riconosciamo umani ovvero
essere capaci di emanciparci dall’organico.
Nell’ultima fase del suo pensiero (quella del rapporto tra uomo e dio) si assiste un ripensamento del
rapporto tra uomo e dio.

Esistono dunque per Scheler due forze nell’ultima fase del suo pensiero:
★ La prima è lo spirito (il gaist): Avevamo detto in precedenza che in Scheler lo spirito era
capace di realizzarsi, era visibile nel nostro essere concretamente liberi; dunque, lo spirito
aveva una dualità con la vita ma del tutto gestibile dove lo spirito aveva una dimensione di
concretezza, di efficacia nel mondo. Nell’ultima fase del suo pensiero lo spirito diventa del
tutto impotente, incapace di manifestarsi nel mondo in quanto spirito, senza l’apporto del
l’impulso vitale. Lo spirito diventa ancora di più la parte migliore, legato ai valori assoluti,
alle idee, completamente sganciato dalla realtà mentre dall’altra parte la vita diventa quella
forza cieca, imperfetta, mutevole che però è l’unica efficace.

★ La seconda è l’impulso vitale (il drang): Lo spirito, dunque, non produce più mentre
l’impulso vitale è ciò che corrisponde alla realtà. Il divino all’interno di questa prospettiva si
colloca dentro al mondo, nel tentativo incessante di manifestarsi attraverso questa polarità
tra spirito e impulso vitale. C0è un dualismo che si accentua tra spirito e vita perché lo
spirito è visto come depotenziato rispetto alla realtà. Lo spirituale la libertà dalla nostra
immediatezza.

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PRIMA LETTURA DI SCHELER DAL SUO LIBRO “IL FORMALISMO NELL’ETICA E L’ETICA DEI VALORI”

In questa opera Scheler si concentra sulla definizione di persona, definendo prima ciò che non è
persona e alcune caratteristiche che per Scheler individuano la persona in quanto tale.

La prima sottolineatura che fa Scheler è che la persona non è l’uomo cioè la persona non coincide
con l’uomo in quanto tale, è piuttosto uno stadio dello sviluppo umano. Tutte le persone sono anche
uomini ma non tutti gli esseri umani sono anche persone perché c’è bisogno di specifiche
caratteristiche per esserlo. Sono tre le condizioni in presenza delle quali possiamo dire di essere
persone:
1. La salute mentale (non intesa in senso psicologico): significa la capacità di comprendere il
senso l’altro, di farsi una domanda sul senso del vissuto dell’altro.

2. La maggiore età (in senso figurato e non anagrafico): che significa la capacità di controllare
sé stessi, il riconoscimento che siamo noi a fare quelle azioni, ovvero L’AUTONOMIA

3. Dominio rispetto al proprio corpo: Significa sapere prima immaginare e poi fare, ovvero noi
dominiamo il nostro corpo nel momento in cui prima capiamo che cosa possiamo fare e poi
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facciamo. Noi sappiamo che abbiamo un potere, sappiamo di poter agire e in base a quel
nostro poter agire scegliamo di conseguenza. Interiore ed esteriore non coincidono più.

Essere persona per Scheler è sottoposto a questa triplice condizione: la salute mentale, la maggiore
età e il dominio del proprio corpo.

A partire da questa triplice condizione noi possiamo dire che la persona non è:
- Un Io: Io penso, L’io non è persona perché troppo astratto, perché tutto possiedono (non
posso essere consapevole del pensiero)
- Un essere animato: perché l’anima è sempre vita, una funzione del vivente. È vita e non
spirito.
- Anima – Sostanza: perché la persona è sempre inoggettivabile
- Il suo carattere: perché il carattere è ciò che ci determina.
Tutto questo discorso sul carattere serve a Scheler per argomentare la tesi opposta: La persona non
è carattere ma la persona è libertà (libertà anche da quel carattere).
Se è vero che la persona è libertà possiamo dare anche un'altra definizione dove la persona è
soggetto di atti intenzionali in un contesto di senso.
Soggetto di atti intenzionali è colui/lei che può assegnarsi la responsabilità delle sue azioni e
riconoscersi come il punto di partenza da cui si irradiano i suoi atti intenzionali.
Persona, dunque, è un soggetto responsabile e centro da cui partono gli atti di comprensione e del
sentire verso oggetti.
Questo soggetto di atti intenzionali abita dentro un contesto di senso, ovvero dentro una domanda
introno ai nostri fini, scopi, al senso della nostra esperienza. È il senso il luogo naturale dell’uomo.
Riassumendo la persona è un soggetto responsabile delle proprie azioni e dei propri atti intenzionali
all’interno di un mondo nel quale lei cerca il senso. La persona è libertà dal vivente in quanto tale
ed è anche libera di agire responsabilmente, di vivere dentro relazioni sensate e infine anche libertà
di amare l’altro/a per quello che è.

Di questa lettura dobbiamo ricordare:


★ Le condizioni che ci permettono di definire la persona
★ Tutto ciò che la persona non è
★ Definizione stessa di persona come soggetto di atti intenzionali in un contesto di senso

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SECONDA LETTURA NEL MANUALE – LA POSIZIONE UMANA NEL COSMO

In questa seconda lettura Scheler prova a riepilogare i tratti dell’umano in quanto tale attraverso
l’idea che questa differenza si possa focalizzare confrontando l’umano con l’animale.
Scheler si chiede se la differenza tra noi e gli animali è una differenza di grado oppure se questo
differenziarsi dipenda da una essenza.
La domanda di Scheler si può capire solo se poniamo questa domanda differiamo dagli animali
soltanto da un punto di vista di quantità o differiamo dagli animali per qualità? (Dove per qualità si
intende, un principio, un essenza)
La differenza tra noi ed animali è una differenza qualitativa, di essenza. Questa essenza è la cosa
che ci caratterizza non solo dal punto di vista culturale ma anche da quello religioso.
Che cosa però caratterizza lo spirito secondo Scheler?
Il pensiero ideativo: è capace di creatività. Un’idea significa vedere con la mente che serve a noi
umani tantissimo, è un operazione di sintesi, a me basta l’idea per capire di cui ciò stiamo parlando;
non devo aver visto la cosa di cui si parla per farmi un idea.
L’intuizione: intuire, di percepire con la mente in modo diretto senza i passaggi del ragionamento.
Per Scheler questo non è solamente conoscitivo ma anche emozionale, io sento l’altro simpatizzo
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con l’altro, sono quindi capace di intuire, idee concetti, percepirle e afferrarle correttamente ed
anche percepire le emozioni e i sentimenti dell’altro.
Atti emozionali e volitivi: Quando dico volontà dico consapevolezza, il volontario è il contrario
dell’involontario, ci sono processi di cui noi siamo soggetti che però sono del tutto involontari. Gli
atti volitivi sono frutto di una deliberazione, ovvero di una determinazione all’agire.
Tutto questo vuol dire spirito e la volontà fa sempre rima con la responsabilità è perché io posso
essere capace di volontà che sono anche responsabile di quello che faccio. Se agisco
volontariamente non sono responsabile di quello che faccio, non ho scelto, quindi qualcun altro ha
scelto per me.
L’indeterminazione ci rende protagonisti di una libertà positiva ovvero liberarci di, quell’oggettività
per l’animale è una catena, noi quell’oggettività la sappiamo costruire, la manipoliamo, la
rinneghiamo. L’animale, dunque, si fa determinare dall’oggetto esterno mentre noi no proprio
perché rompiamo quel circolo chiuso, cambiandone i connotati, trasformandolo.
In quanto essere spirituale che fa tutte queste operazioni l’uomo è prima di tutti libero dalla
tendenza e dall’ambiente dove la tendenza è l’istinto, l’impulso che fa tendere a. Noi come uomini
siamo liberi di non assecondare quella tendenza. Se la natura ci vuole portare in quella direzione noi
siamo quegli esseri che si sganciano dalla determinazione naturale. La libertà dalla tendenza
coincide con il saper dire di no, che ci pone in una posizione di apertura rispetto al mondo.

L’uomo dunque è capace di oggettivare la propria costituzione fisiologica e psichica che significa
essere capaci di riconoscere il nostro sentire, anche legato al corpo ed anche riferimento agli stati
psichici. Se noi trattiamo come oggetto il nostro essere corpo e il nostro stato psicofisico, significa
anche che li sappiamo controllare, li sappiamo disattivare, ne prendiamo distanza. Essere capace di
questa oggettivazione significa riconoscere e gestire, quindi da una parte c’è la consapevolezza che
noi dobbiamo avere o che possiamo avere rispetto ai nostri stadi, mentre dall’altra parte non basta la
consapevolezza ma c’è bisogno anche un lavoro di gestione, allenamento al controllo.
L’uomo ha la capacità di derealizzare la realtà che significa uscire dalla realtà ovvero uscire da
quell’urgenza che la condizione reale ci imporrebbe. Se pensiamo alla vita la possiamo
depotenziare, la possiamo rendere non reale. Questa capacità di derealizzazione, significa dunque
fare a meno di credere alla realtà, sospendere a credere a quello che sentiamo. Questa sospensione è
del tutto consapevole. Noi ci astraiamo dalla realtà che ci circonda e ci da quella libertà nei
confronti del reale che è il luogo dei nostri bisogni, della nostra vita, del nostro legame con le cose,
la natura.
Noi siamo consapevoli che stiamo spegnendo la realtà. Questa consapevolezza, dunque, ci fa stare
con i piedi per terra, ci fa riconoscere il delirio distinguendolo dalla derealizzazione e ci fa assumere
una distanza da quello che stiamo vivendo e sperimentando che è una distanza produttiva, positiva,
torniamo alla realtà rigenerati, ricaricati.

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Questo liberarsi della realtà è uno dei pilastri fondamentali del processo di ideazione. Sgomberare la
nostra coscienza dalla realtà permette di far emergere la sua creativit2à, la sua unica originalità,
favorendo un pensiero astratto (come per esempio quello concettuale).
Derealizzazione e ideazione presso si trovano mescolate nei nostri processi mentali.
Scheler per definire la derealizzazione dice che noi siamo capaci di disattivare, spegnere la realtà,
non perché siamo nel pieno del delirio psicotico, ma al contrario ne siamo consapevoli che quella è
la realtà e ce ne possiamo distanziare. Questo rimanda al tema dell’ascesi, ovvero il dire di no,
elevarsi al disopra della realtà, il che comporta un forte lavoro su noi stessi perché ci impone di
gestire la nostra parte istintuale, di canalizzare quell’energia verso altro.
Tutte queste caratteristiche si manifestano nella persona

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 22/10/21


ARNOLD GHELEN
(N.1904 – M.1976)
Nasce a Lipsia, dove studia filosofia. Segue i corsi di Scheler a Colonia.
Nel 1933 è chiamato a Francoforte, nel 1938 a Königsberg, nel 1940 a Vienna I rapporti con il
nazismo e i motivi filosofico-antropologici del distanziamento.
Alla fine della sua carriera insegna sociologia a Spira, poi ad Aquisgrana L’opera che lo inscrive
nell’alveo degli antropologi-filosofi è:
L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940)
Gehlen è noto anche per le sue riflessioni sulla tecnica.
Prima analogia tra Scheler e Ghelen nel metodo (oltre che nel merito) che quest’ultimo adotta per
delineare la sua proposta antropologica:

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1. Per Ghelen come per Scheler è necessario il confronto con le scienze della natura: che vuol
dire che anche qui si parla di un circolo antropologico dove Ghelen partirà dalle sue
precomprensioni, si confronterà con la biologia e ritornerà a sintetizzare la sua idea di uomo
dopo questo confronto. Possiamo dunque dire che la prima evidenza con cui siamo a
contatto è proprio quella del dialogo con le altre discipline. In Ghelen è molto forte questo
contatto con la natura. Si arriva ad una definizione unitaria dell’umano solo dopo un
confronto con i dati della biologia e le altre discipline.

2. Entrambi (Ghelen e Scheler) considerano l’uomo come unico, quindi molto diverso da tutto
il resto del vivente. Esattamente come per Scheler, per Ghelen l’uomo occupa un posto del
tutto particolare nel mondo, nell’ambiente.

Ghelen con Scheler condivide un riconoscimento, una consapevolezza, che ci siano capacità
solo ed esclusivamente umane. (es. la morale, il linguaggio, il rifiuto dell’impulso). A cambiare
radicalmente è la motivazione, il perché l’uomo differisce dall’animale che non sarà quella
proposta da Scheler.

Il pensiero di Ghelen differisce da quello di Scheler fondamentalmente per due cose:


★ Uomini e animali non differiscono tra di loro per nessuna essenza particolare. Ghelen
volta le spalle totalmente alla prospettiva metafisica di Scheler.

★ Per Ghelen l’umano non può essere ricompreso in una scala gerarchica. Non c’è una
graduale affermazione dell’uomo a partire dai viventi che lo precedono. L’uomo non
arriva dopo nessuno. L’uomo non deriva dagli animali. Dire che l’umano non può
essere ricompreso in una scala gerarchica significa contrastare insieme il principio
evoluzionistico entro certi limiti e contrastare anche il pensiero di Max Scheler,
secondo il quale noi abbiamo qualcosa in comune con gli animali più qualcos’altro che
è lo spirito.

A proposito di essenze e gradualismo di essenza e gradualismo Ghelen mette nero su bianco questa
sua teoria:
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“L’antropologia conquista fondamentalmente il campo suo proprio soltanto se si lascia alle
spalle siffatti pregiudizi; essa deve tener fermo a una legge strutturale particolare, la quale è la
medesima in tutte le peculiari caratteristiche umane, e va compresa muovendo dal progetto posto
in essere dalla natura di un essere che agisce.”
L’antropologia filosofica deve abbandonare i suoi pregiudizi, andando a cercare come funziona
l’uomo trovandone le costanti, capendo il suo modo di stare al mondo. Questo modo di stare al
mondo non riguarda solo una regione particolare dell’umano, ma è proprio tipico di tutto quello che
l’uomo fa, è il suo atteggiamento, dobbiamo capire come si pone l’umano rispetto al mondo, senza
stare a pensare che lo spirito e la vita si contrappongano perché anche in quella stessa vita
manifestiamo un atteggiamento che è solo nostro.
Per Ghelen, dunque, si tratta di cogliere l’umano in relazione con il suo ambiente. Farci dire
qualcosa su questo e bisogna comprendere questo atteggiamento attraverso quel progetto che
l’uomo è e che l’uomo fa quando agisce; dobbiamo dunque riconoscere una INELUDIBILE
DIMENSIONE PROGETTUALE, ovvero l’uomo è in grado di progettare azioni trasformative. È
questa la sua natura più propria. Dunque, che progetto della natura è l’uomo? Che senso ha l’uomo?
Qual è il suo senso a partire da questa sua attitudine all’agire, al fare?
Scavare, indagare la natura umana, significherà quindi cogliere la sua postura che è sempre attiva,
trasformativa rispetto al mondo, all’ambiente. Il tratto caratteristico dell’umano è l’agire, ovvero
agisco e trasformo, modifico l’ambiente e lo plasmo, lo faccio mio. Abbandonare questa dualità tra
spirito e vita significherà percepire e concepire l’umano come un intero, come qualcuno che anche
la sua dimensione istintuale se la vive attraverso la mediazione della cultura o dello spirito, è un
intero che ha una sua struttura un suo funzionamento del tutto particolare rispetto alla natura.
Se per Scheler spirito e vita erano diverse, per Ghelen devono essere riunificate. Nell’uomo occorre
riconoscere una postura che tiene insieme sia l’aspetto naturale, che quello culturale.
Per Ghelen non ci sono capacità che abbiamo perfezionato, ovvero quello che sappiamo fare è
diverso dal mondo animale. Dunque, possiamo dire che l’umano non è il risultato di un continuo
perfezionamento né della natura, né di un continuo affinamento di capacità che si trovano anche in
altri.
Quindi, che cosa ci caratterizza in quanto umani se non c’è nessun principio metafisico, se non si
tratta di un processo evolutivo che ci ha portato ad essere superiori ad altri animali. Che cosa ci
caratterizza? Che cosa ci contraddistingue?
Qui accade dunque il rovesciamento di tutta una tradizione di pensiero, ovvero quello che ci
caratterizza non è l’essere naturalmente migliori, ma sono piuttosto queste tre parole:
- Carenza
- Apertura
- Indeterminazione
Riconoscere che l’uomo è poco attrezzato, carenza va insieme ad apertura, ci manca la
determinazione precisa del nostro posto, l’attrezzatura che ci serve per stare in un posto o per stare
dentro un certo anello della catena alimentare e quindi siamo aperti, abbiamo questo rapporto molto
flessibile con l’ambiente e siamo dunque indeterminati. (es. non possiamo né abitare il mare senza
niente né abitare i cieli, ma però possiamo volare, fare immersioni, viaggiare attraverso i mari sia in
superfice che in profondità, siamo stati capaci di abitare il nostro pianeta in lungo e in largo.

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Possiamo dire che forse ci percepiamo come un eccezione rispetto alla natura. (Es. Quante volte
abbiamo pensato che fosse stato meglio nascere animali?) Il non avere istinto per noi è una grande
fatica. Siamo un eccezione rispetto a tutta la natura ma siamo però sempre un’eccezione che sta
dentro la natura. Questa eccezione non si giustifica con principi metafisici ma si giustifica con
principi metafisici è completamente naturali perché noi siamo i primi ad essere naturali.
Ghelen inizialmente come punto di partenza opera un rovesciamento totale di quell’idea di uomo
come essere superiore al vertice della natura, come essere più sviluppato degli altri per soffermarsi
sulla concezione opposta sull’idea che l’uomo manchi di qualcosa e che non è più dotato
naturalmente ma è meno dotato. Guardando la sua forma, la sua vita, ci possiamo convincere che
l’uomo è un essere CARENTE.
Nell’uomo si possono rintracciare:
● Inadattamenti (es. adattamento orso polare lui ha la pelliccia noi no)
● Non specializzazioni (es. perché non abbiamo artigli, agilità, gli artigli, le ali, pinne, etc.)
● Primitivismi (es. i 5 sensi degli animali, udito, vista, olfatto etc.)

Nonostante tutte le nostre carenze, siamo riusciti comunque a sopravvivere perché proprio a partite
da quelle carenze, ne abbiamo fatto tesoro e abbiamo sviluppato una flessibilità tali da permetterci
di adattarci praticamente ad ogni ambiente.
Essendo così plasmabili che cosa abbiamo fatto noi, siamo stati capaci di trasformare l’ambiente in
un mondo. Noi nasciamo nell’ambiente e immediatamente ci lavoriamo trasformandolo in un
mondo, dove esso è l’ambiente trasformato dall’uomo. È proprio per questo che noi abitiamo
ovunque, prendendo le dovute precauzioni, siamo capaci di grandi spostamenti sia come singoli
che, come popoli, siamo adattabili a qualsiasi latitudine; abbiamo dunque la capacità di agire
proprio grazie a questa nostra apertura; infatti, se fossimo vincolati non saremmo capaci di incidere
sull’ambiente.
L’uomo secondo Ghelen vive attraverso il supporto della Tecnica, degli strumenti e della sua
azione.

Due sono i tratti sempre in collegamento tra di loro da un lato la mancanza e dall’altro l’apertura al
mondo. Proprio perché siamo mancanti e siamo aperti al mondo, proprio perché siamo
indeterminati e costitutivamente poveri siamo aperti al mondo.
Come ci adattiamo alla natura se non lo possiamo fare attraverso gli organi (es. istinto ecc.)?
Troviamo un'altra strada che si chiama in questo caso CULTURA.
Noi adattiamo alla natura grazie a tutto quell’insieme di azioni trasformative rispetto al mondo,
istituzioni, osservando le quali percepiamo che l’uomo ha una grande grandissima risorsa che
consiste nella capacità di prevedere, progettare e pianificare non soltanto a livello dell’individuo
ma anche a livello collettivo.
Prevedere dunque significa metterci al riparo sapendo o prevendendo quello che accadrà possiamo
giocare d’anticipo.

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Arriviamo dunque fino a quest’idea che è importante in Ghelen ovvero L’ESONERO, ovvero è
legato alla carenza istintuale che non è altro dire che ci manca l’istinto perché esso ci permette di
scappare quando siamo in pericolo, di mangiare quando abbiamo fame sapendo dove andare a
cercare il cibo, i predatori hanno un olfatto incredibili perché devono subito individuare la preda e
l’istituto permette loro di farlo in modo immediato, quindi se noi siamo carenti in fatto di istinto
tutte queste operazione che per gli animali sono naturali e spontanee, per noi saranno difficili e
faticose. Inoltre, la nostra condizione di essere viventi è una condizione faticosa perché il fatto che
siamo aperti ci espone ad una quantità enorme di stimoli. Noi siamo disorientati nel mondo, non
sappiamo dove dobbiamo andare.
Come noi ci siamo organizzati rispetto a questo disorientamento (bombardamento di stimoli)?
L’uomo è esposto una quantità inedita di stimoli a cui risponde in modo altrettanto confuso che
risponde in modo altrettanto confuso con impulsi che non sono ben orientati. Se avessimo avuto
l’istinto come gli animali noi sapremmo sempre dove e come andare a cercare ciò di cui abbiamo
bisogno.
Per poter affrontare questa tempesta l’uomo adotta dei comportamenti esonerati, ovvero trova degli
stratagemmi che gli permettono di proteggerci da questa molteplicità di stimoli.
L’esonero è caratterizzato da due movimenti:
- Passo indietro: mi metto a distanza dagli stimoli, non reagisco subito allo stimolo. Dopo che
non mi sono messo a distanza che derivano dal fatto che siamo aperti e quindi esposti a
questo bombardamento comincio a fabbricare tutta una serie di abitudini, routine che mi
consentano da una parte di capire quello che mi sta succedendo intorno a me e che mi
permettano di agire di conseguenza. Prendo tempo, progetto soluzioni, mi creo delle
abitudini che non mi fanno sprecare energia per pensare a cosa devo fare; quindi, posso
convivere con quella fame senza che sia la fame a determinare il mio comportamento.
Riconosco mi proteggo, metto a distanza e poi agisco dentro una cornice di senso.

- L’esonero mi risparmia una grande fatica, risparmiandomi di fare tutto da solo. Mi


risparmiano una risposta istintuale, mi risparmiano una energia che adopererei per
rispondere a quella stimolazione che ho ricevuto, mi risparmia la fatica di mangiare o di
cercare cibo ogni volta che sento la fame perché essa verrà saziata in routine predeterminate.
Questo vale per la vita organica e umana.

I meccanismi esoneranti è il messaggio più forte di Ghelen. L’esonero ci permette di creare


abitudini.
Scheler dice che tutto quello che accorcia e semplifica visto che noi non abbiamo questa
relazione immediata con ciò che ci circonda viene definito ESONERO.
L’esonero dunque è una scorciatoia che ci fa dispensare un sacco di energia che impiegheremmo
per i tentativi, per le motivazioni, per il controllo; noi tutto questo lo deleghiamo a delle abitudini,
che fanno la fatica al posto nostro e dunque non ce ne dobbiamo preoccupare.
L’esonero si presenta:
- Sul piano motorio: perché abbiamo imparato a servirci dei riflessi condizionati

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- Sul piano percettivo: anche i nostri sensi sono abitudinari , noi ci aspettiamo sempre
qualcosa. Coni i nostri sensi riconosciamo, sintetizziamo, facciamo economia, risparmiamo
energia.
- Sul piano linguistico e comunicativo: niente di più esonerante del linguaggio. A noi basta
una parola, non c’è bisogno di gesti, di esibire. di avere tutto quell’apparato dei simboli.
Simboleggiare, dunque, ci fa risparmiare tanto tempo perché basta dire una cosa, presentare
un simbolo, presentare un immagine per capire di ciò che si sta parlando risparmiando una
fatica enorme che sarebbe quella del riprodurre ogni volta ciò che noi vogliamo dire o
significare.
Ogni volta che io metto in atto un esonero, faccio a meno di fare una esperienza, ogni volta che io
posso sostituire questa esperienza viva con qualcosa di astratto, con un segno che sta per altro, sono
in tutti quei casi in presenza di un MECCANISMO ESONERANTE.
La postura dell’uomo è legata a questo doppio registro della carenza e dell’esonero; il male e il suo
rimedio; la mancanza e la tecnica per colmare questa mancanza. Questo non riguarda solo la nuda
vita; la vita biologica ma riguarda anche la nostra vita astratta, la nostra capacità di concettualizzare
differenziandolo da Scheler perché Ghelen ha trovato un tratto che unifica tutta l’0esperienza che
non riguarda solo lo spirito o solo la vita. Questa capacità esonerante legata alla carenza è un tratto
unitario dell’esperienza umana riguarda tutte le manifestazioni dell’esperienza umana, non solo
quelle biologiche, non solo quelle culturali.
All’inizio abbiamo detto che le mancate specializzazioni mettono in forte discussione l’ipotesi
evoluzionistica, l’uomo è un problema biologico.
L’ipotesi che Ghelen sostiene (supportato anche di altri biologi) è quella per cui esisterebbero due
diramazioni indipendenti l’una dall’altra dell’ipotesi evoluzionistica. L’evoluzione dunque prende
due strade:
● Una strada lineare, continua che accomuna tutti i viventi è quella che porta fino alle scimmie
dette Antropoidi

● Un’altra strada è quella che porta all’umano dove quest’ultimo sarebbe il frutto di un'altra
linea e non della stessa linea delle scimmie antropoidi.

Per dire questo però bisogna essere supportati dalla biologia, dunque proprio per questo Ghelen si
confronta con due si confronta con Bolk e Portmann che permettono a Ghelen di permettere di dire
che l’evoluzione prende due strade, tutto ciò supportato da argomenti scientifici.
Questi argomenti dunque sono:
1. L’uomo non è dotato di organi specializzati e neanche di automatismi funzionali; dunque,
quello che lo caratterizza dicono i biologi è la sua plasticità ovvero questa capacità di
adattarsi modificando. Qual è l’organo della plasticità? Il cervello.
Esso non si serve di organi così raffinati e specializzati anzi se proprio vuole portare avanti
le sue operazioni il cervello ha bisogno di organi che non siano specializzati, si deve servire
di organi grezzi, primitivi. Il cervello, dunque, utilizza organi estremamente elementari,
semplici per essere così plastico, malleabile.

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2. Non esiste un anello intermedio tra uomo e scimmia: rispetto a tutta la catena evolutiva ci
sono tracce della presenza di qualche anello di congiunzione (anche vivente), che però è
assente nell’umano dato che sono mancanti. Questo dà modo a Ghelen, di ipotizzare una
sorta di salto che quindi avvalorerebbe l’idea di questa diramazione.

3. Non esistono vantaggi evolutivi: ovvero l’uomo ha preso un'altra strada.

4. Anche in età adulta l’uomo conserva tratti fetali: noi conserveremmo dei tratti fetali anche
quando diventiamo adulti. /es. comportamenti regressivi, etc.). Quando nasciamo dunque
non siamo pronti alla vita, siamo bisognosi di cure, supporto, di un supplemento di
attenzione, che gli animali non hanno proprio nella loro relazione tra cuccioli – madri/padri.

Per Ghelen possiamo dire che tutto quello che ci serve per vivere lo possiamo chiamare
CULTURA, una cultura che con le sue parole essa diventa una SECONDA NATURA, una natura
che noi acquisiamo, che diventa anche il modo in cui noi viviamo la prima natura.
Tutto quello che in natura è considerato una mancanza viene dall’uomo rovesciato in un punto di
forza. Non è da sempre l’uomo adattato ad un determinato ambiente e allora posso adattarmi a
qualsiasi ambiente. Il filtro con cui vivo immerso nella natura è sempre definibile nei termini di
CULTURA. L’uomo come problema biologico diventa l’uomo che grazia alla sua plasticità e
capacità culturale può considerarsi a buon diritto il dominatore di quella stessa natura.
Per Ghelen Cultura è “l’insieme delle condizioni naturali padroneggiate, modificate e utilizzate
dall’uomo con la sua attività, il suo lavoro, incluse le abilità e le arti più condizionate, esonerate,
che divengono possibili solo su questa base”
Possiamo dire dunque che per Ghelen la cultura è la natura modificata, ridotta a qualcosa di
padroneggiabile. Questo per Ghelen si dà a tutti gli stati dell’esistenza umana. (es. per fare
esperienza con i sensi abbiamo bisogno di un apparato che modifichi la natura)
Questo riguarda le attività basilari, ovvero quelle legate alla sopravvivenza, quanto più le attività
più elevate (es. le scienze, le tecniche, la tecnologia, la politica, la creazione di istituzioni, etc.),
dove queste attività (sia esse basilari o elevate) sono tutte possibili a patto che siano mediate
culturalmente.
Questa sua indeterminazione deve essere supportata da alcune scorciatoie, per cui dalla iniziale caos
dentro il quale siamo immersi, noi giungiamo a padroneggiare la natura.
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 25/10/21

Come conseguenza di tutto ciò che abbiamo detto sul pensiero di Ghelen possiamo però dire che
l’elemento cardine dell’antropologia filosofica Gheleniana, ovvero il tratto tipico dell’uomo in
Ghelen è sicuramente la sua capacità di AZIONE.
Proprio grazie al suo agire nell’ambiente l’uomo si può adattare, le nostre azioni dunque ci servono
per adattarci all’ambiente ma soprattutto per adattare l’ambiente a noi; dunque, trasformando
l’ambiente lo rendiamo adatto a noi e reciprocamente diventiamo adatti a esso.
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AGIRE significa anche programmare, progettare risposte flessibili di fronte agli stimoli.
Ciascuno di noi avrà nella sua vita elaborato risposte allo stimolo della fame diverse non univoche
ma certamente che si possono considerare come delle azioni. Se gli animali e tutti gli altri viventi
danno sempre la stessa risposta predeterminata, rigida e chiusa, noi al contrario rispondiamo in
modo aperto e flessibile, rispondiamo dunque progettando.
Alla voce animali possiamo mettere come parole: immediatezza, automatismo, immediatezza.
Alla voce “uomo che risponde all’ambiente” risponde agendo ma non immediatamente. L’azione
umana è sempre una azione mediata (pensata), finalizzata (va verso qualche parte, che ha senso),
consapevole (io non mi lascio vivere dall’istinto, non lascio rispondere l’istinto, ma sono io che
guido la risposta) e soprattutto elemento fondamentale dove l’essere umano è capace di
PROGETTARE LE SUE AZIONI NELLA NATURA per vedere quello che c’è per immaginare
altri possibili, ma non li immaginiamo in modo caotico e disorganizzato ma noi li possiamo
configurare, progettare.
Tutte le nostre azioni sono guidate da un progetto, un pensiero costruttivo che costituisce
sicuramente un punto di incontro con l’ambiente.
Bisogna ricordare che per Ghelen ambiente e mondo sono due cose differenti. Per Ghelen dunque:
- l’ambiente è quello incontaminato

- il mondo invece è quello trasformato da noi umani

Questo agire trasformativo e progettuale, noi lo mettiamo in campo a tutti i livelli, perché fa parte
del nostro modo di stare al mondo, fin dalle azioni più semplici, (es. interazioni con l’ambiente per
cibarci) noi abbiamo questa presa sul mondo attiva e trasformativa. L’uomo dunque è un
instancabile progettatore che vuole sistemare il caos perché in esso viviamo male.
Il passaggio che fa Ghelen successivamente è che noi non soltanto agiamo, producendo
cambiamento in modo consapevole e finalizzato nel mondo, ma sappiamo e sentiamo di agire, così
come sappiamo e sentiamo che quella nostra azione avrà un riscontro nell’oggetto verso cui
dirigiamo la nostra azione. In poche parole, possiamo dire che noi quando agiamo dunque sappiamo
che stiamo coinvolgendo qualcosa di esterno a noi, che questa cosa esterna in seguito alla nostra
azione non sarà più la stessa.
Potremmo dire che il nostro agire è un sistema che tiene insieme il soggetto dell’azione e l’oggetto
di quella stessa azione.
Non soltanto dirigiamo la nostra attenzione verso un oggetto, ma sentiamo quell’oggetto in quanto
tale ovvero c’è una corrispondenza tra il nostro progettare e la modifica che noi possiamo
riconoscere nell’oggetto dopo la nostra azione.
L’azione è il risultato di un mio progetto che però diventa qualcosa di visibile anche all’esterno; io
costruisco il mondo che sto sperimentando.
Agire e conoscere dunque non vanno mai disgiunte perché la mia azione mi serve per conoscere
l’oggetto. Agire dunque non significa solamente progettare, mette ordine, ma significa anche avere
anche fare con un oggetto che mi si presenta proprio grazie al fatto che io sto agendo su di lui.
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Per Ghelen dunque agire significa adattarsi al mondo dal punto di vista conoscitivo adattandolo a
me che lo osservo, facendolo entrare dentro un meccanismo di interazioni per cui quel mondo si dà
in quel modo per me e solamente così lo posso padroneggiare ed entrarci in relazione.
Per Ghelen ci dà una interazione costante fra la sfera della conoscenza e quella dell’azione. Questo
significa che per l’uomo neanche la conoscenza è immediata ma tutto quello che noi percepiamo
(l’oggetto) è anch’esso sempre frutto di una nostra attività. Allora, questo costituisce un motivo in
più per dire che non si può vivere nella natura senza mediazioni culturali, filtri simbolici, esoneri di
qualsiasi genere, ricordando sempre che l’esonero accompagna l’umano dal momento della
percezione a quella della costruzione di apparati più complessi. Neanche la conoscenza è sempre
prodotto di una nostra azione sull’ambiente.
Agire a mani nude per l’uomo è piuttosto difficile, senza aiuti esterni. Per essere davvero efficace la
nostra azione del mondo deve essere supportata, aiutata, da strumenti che sopperiscano alla nostra
mancanza di organi specializzati.
Noi siamo esseri che agiscono che trasformano l’ambiente rendendolo un mondo. Questa nostra
azione è efficace se ci avvaliamo di aiuti rispetto a degli organi che ci mancano o che abbiamo in
maniera carente. Visto che non abbiamo organi specializzati ci dobbiamo attrezzare creando
strumenti (che sono artificiali) che ci servono per agire e adattarci meglio nel mondo.
La produzione e la capacità di fabbricare strumenti o supporti artificiali si chiama TECNICA.
L’obiettivo per cui la tecnica nasce è proprio questa necessità di colmare dei vuoti, delle mancanze,
delle carenze, in fatto d’organi e in fatto d’istinto, motivo per cui la tecnica è assente nel regno degli
animali che hanno organi sviluppati, specializzati e l’istinto che funziona.
Questo è un ragionamento semplice perché noi dobbiamo agire per adattarci al mondo e per agire
dobbiamo servirci di un apparato strumentale che non avendolo naturalmente lo fabbrichiamo
artificialmente.
Il nostro agire dunque, va di pari passo in moltissime mansioni da quelle più semplice a quelle più
complicate attraverso il supporto degli strumenti
Tecnica dunque è l’insieme di abilità umane che serve per costruire questo tipo di oggetti.
La domanda che si fa Ghelen a proposito della tecnica è proprio quella che se la comparsa
dell’uomo è avvenuta con la comparsa degli strumenti?
La risposta che da Ghelen è netta dicendo che da quando l’uomo ha fatto la comparsa sulla terra
l’uomo (anche se in modo rudimentale) si è servito degli strumenti necessari per adattarsi e adattare
il mondo a sé stesso. Quindi, non dobbiamo pensare alla tecnica come a un prodotto di un
evoluzione, perché per Ghelen fin dai primi uomini si può parlare già di un ricorso agli strumenti,
proprio perché questo ricorso si può ricondurre al modo in cui l’uomo abita il mondo, dove senza di
questi strumenti l’uomo scomparirebbe.
L’uomo nasce con il bisogno di strumenti e lo colma creandoli fabbricandoli.
Gli strumenti che la tecnica crea secondo Ghelen sono riconducibili a queste tre funzioni:
★ SOSTITUZIONE: lo strumento sostituisce un organo che non c’è, che ci manca. (es. le armi
che ci servono per attaccare, non abbiamo organi specializzati per l’attacco e quindi creiamo
qualcosa che ci supporti in questo)

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★ POTENZIAMENTO: il caso in cui lo strumento supporta, intensifica, aumenta le
prestazioni di un organo che noi abbiamo perché funziona poco e male. (es. far fare agli
uomini noi umani non avremmo pensato, microscopio, telescopio etc.)
★ ALLEGGERIMENTO: che si intende tutti quegli strumenti che agevolano la nostra vita, il
nostro peso il nostro carico, il nostro lavoro. (es. dal lavoro della terra senza niente e
nessuno, all’aiuto che è venuto dalle bestie da soma e poi si è arrivati a sostituzione degli
animali da soma con i trattori proprio perché abbiamo delegato la nostra presenza mentale
[che all’inizio era indispensabile] a delle macchine [Intelligenza Artificiale, robotica, etc.] )

Nell’ultimo esempio fatto (quello del lavoro della terra) quello che è accaduto è la progressiva
sostituzione di un mezzo organico con quello inorganico, perché l’animale essendo vivente e
sottoposto a dei cicli che sono ingovernabili dall’uomo (es. stanchezza, fame, sonno, etc.).
L’animale, dunque, è plasmabile fino ad un certo punto. Il vantaggio che hanno gli strumenti
inorganici è quello della maggiore plasticità; quindi, la macchina trattrice non si stanca, ma deve le
deve solamente essere fatta la manutenzione.
Questa della sostituzione di materia organica di cui servirsi come strumenti a materia inorganica, lo
strumento inorganico funziona meglio dello strumento organico. Se noi pensiamo al materiale per
produrre (es. plastica) è comprensibile e condivisibile. Noi abbiamo avuto una maggiore capacità di
plasmare materiale inorganico rispetto ad un materiale che ha un suo ciclo di vita.
Abbiamo detto che è una postura che è sempre quella e che la tecnica corrisponde ad un essenza
umana, rientra proprio quella che noi chiamiamo essenza dell’uomo, questa capacità di fabbricare
strumenti finalizzata ad una maggiore efficacia del nostro agire. La tecnica, dunque è sempre
esistita ma questo non significa che essa non abbia avuto alcune importantissime modifiche.

Per Ghelen due sono state le svolte cruciali rispetto alla tecnica:
- La rivoluzione Scientifica: Che cosa è accaduto di particolare e di inedito nella rivoluzione
scientifica? Le scienze che noi definiamo puramente teoriche si sono incontrate con la
tecnica. Fino a quel momento esse avevano percorso due strade parallele, dove la scienza
pura aveva fatto il suo corso rimanendo puramente teorica mentre la tecnica invece era
considerata artigianato. La tecnica con questo incontro si nobilita, impara a guardare avanti
ovvero trae nella scienza quella fiducia nel progresso che è propria della scienza stessa.
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Possiamo anche dire che la scienza è uno stimolo per la tecnica. Al contrario la scienza dalla
tecnica ha molto da imparare perché quest’ultima (la tecnica) rappresenta il momento
operativo, dove questa stessa tecnica e i suoi strumenti permettono alla teoria scientifica di
essere verificata o falsificata. Oggi noi facciamo fatica a sganciare la scienza dalla tecnica e
viceversa (es. settore biotecnologico, neuroscienze, etc.) la sempre più stretta collaborazione
tra scienze e tecnica le ha rese quasi indistinguibili oggi. La tecnica ha imparato molto bene
la legge del progresso che procede in modo vertiginoso e illimitato, così come lo scienziato
ha capito che deve far tesoro degli strumenti ma anche di una attenzione al momento pratico
che non può restare puramente teorico. La scienza si è calata nella realtà e la tecnica ha
creduto in sé stessa e da questo momento in poi in tratti di entrambe sono cambiate in modo
definitivo per questo si tratta di una svolta secondo Ghelen.

- L’automazione dei processi produttivi: Sono funzioni che la mente è in grado di fare e che
possono essere trasferite in un apparato che non è più quello della persona. (es. l’uomo
prima usava la sua forza per coltivare, ora utilizza i trattori)

Ghelen da una parte l’estrema specializzazione a cui ha portato la tecnica è una iperspecializzazione
monotematica proprio perché non si è accompagnata una vera e propria crescita dell’umanità in
quanto tale. È come se avessimo sviluppato in modo esponenziale soltanto un organo, restando per
tutto il resto piccoli e indifesi. Questo sviluppo di un unico settore ha riguardato soltanto pochi
addetti ai lavori, dove la maggior parte dell’umanità fruisce, consuma, desidera in modo del tutto
ignaro rispetto a quanto pochi iperspecializzati sanno e possono vedere. I saperi si sono dunque
pluralizzati. Siamo passati dunque dal sapere ai saperi che si sono specializzati ad oltranza,
suddivisi in modo esponenziale, che difficilmente comunicano tra di loro e che raramente sono
capaci di divulgazione.
Questo accumulo di conoscenze e abilità pratiche che ha riguardato soltanto una piccolissima parte
dell’umanità e una piccola parte del sapere, ha lasciato la maggior parte di noi dentro un terreno
culturale fermo, esattamente lo stesso di prima. Lo sviluppo, dunque, non è stata una crescita
armoniosa di tutti i saperi. Alla specializzazione e perfezionamento della tecnica non è corrisposta
una profondità della cultura.
Tutti coloro che sono fuori da questo discorso tecnologico per iperspecializzati, si sono di
conseguenza, percependo questo non sapere in modo vago, si sono affidati a delle fonti informative
poco affidabili che portano con sé un pensiero semplificante che sfugge ogni complessità.
Riassumendo ci mancano molte informazioni, percepiamo vagamente che siamo in una situazione
di non totale chiarezza, oscurità e quello che facciamo è rispondere a questa mancanza di
informazioni accontentandoci delle prime informazioni che abbiamo sottomano dove complice è il
mezzo di informazione.
Questo non ci ha resi curiosi di approfondire, di conoscere le cose come stanno nella loro
complessità ci ha fatto arrendere di fronte al banale, al semplice. Tutto quello che è semplice, ci
gratifica perché è comprensibile e non ci fa fare sforzi, allora tendiamo a pensare che sia anche
vero.
Quello che è accaduto è una gigantesca standardizzazione sia del modo in cui noi ci informiamo sia
nel modo in cui noi consumiamo. In altre parole, sappiamo tutte le stesse poche cose e compriamo
tutti le stesse non poche cose.
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Questa è una standardizzazione che ci ha portati a non farci più domande, a coltivarci il nostro
piccolo circuito di interessi e bisogni e infine andando dietro senza troppe mediazioni al nostro
desiderio.
Più il sapere è chiuso, specializzato, al di fuori della portata di tutti più saremo noi tentati di
compensare questa mancanza di conoscenza accontentandoci dei surrogati del sapere che ci
condurranno poi ad un disorientamento perché ci manca la struttura, il conoscere che per noi è fonte
di azione e dunque saremmo portati a vivere un esistenza schiacciata sulla superficie delle cose.
Allora all’automazione fa seguito la standardizzazione del pensare prima ancora che del fare.
La semplificazione è probabilmente la fonte della nostra mancata libertà.
La riposta che per Ghelen si può dare rispetto a questa crisi è il fare un passo indietro che vuol dire
non dare adito a quella nostra volontà di conoscere e a quella nostra volontà esasperata di
consumare.
Se noi siamo dentro questo terreno culturale che ci chiede di conoscere per andare a prendere
informazioni banali e di consumare per adeguarci allo standard, la nostra libertà la possiamo
esercitare sottraendoci. Scheler qui sta avvisandoci che qui forse occorre rovesciare il sistema di
informazione procedendo per altri canali.
Ghelen è perfettamente consapevole che l’uomo può essere per sé stesso una vera e propria
minaccia, un vero e proprio pericolo nel senso che da soli e naturalmente riusciamo a controllarci
così bene. La minaccia non viene solo da una natura caotica che non riesco a controllare ma avviene
anche dalla mia interiorità, dalla mia coscienza, perché essa è abitata da tanti enti. Anche dentro di
me, dunque, non sono così padrone nel dominare me stesso.
Allora forse possiamo capire perché Ghelen scrivere queste parole:
“L’uomo è un essere che prende posizione verso sé stesso e perciò contro sé stesso. La riduzione
degli istinti nell’uomo comporta in pari tempo una profonda carenza di meccanismi inibitori
autenticamente istintivi”
Per questo sono necessari apparati contenitivi che proteggano l’uomo da sé stesso, che lo supportino
in compiti come la riproduzione, la difesa, la nutrizione organizzando forme di cooperazione
garantite da accordi. Tali apparati contenitivi, visibili e concreti anche all’esterno, per Ghelen
rispondono al nome di ISTITUZIONI.
Le istituzioni ci garantiscono rispetto al caos, servono per organizzare le nostre attività dove
l’istinto se prevalesse avrebbe vinto e distruggerebbe tutto, per questo noi organizziamo la
produzione in apparati, organizziamo il matrimonio, etc.
Tutto ciò che viene negli animali spontaneamente gestito dall’istinto per noi non è così facile e
quindi ci affidiamo a degli apparati. Noi creiamo istituzioni per regolamentare i nostri
comportamenti, in tutti quei casi in cui se prevalesse l’istinto ci faremmo male o rischieremmo di
non sopravvivere.
L’istituzione è un supporto esterno ed è per questo che noi viviamo sotto leggi che stabiliscono
ricompense e punizioni per i nostri comportamenti; per questo mandiamo i nostri figli a scuola; la
distruttività umana, dunque, va contenuta e regolamentata.
La vita delle istituzioni è soggetta a crisi periodiche, proprio perché essendo prodotto umano è
sottoposto al male, alla rovina, alla distruzione, quindi anche le stesse istituzioni possono entrare in
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crisi, possono deviare rispetto alla loro funzione originaria, possono accumulare potere più del
dovuto e quindi abusarne, possono diventare semplici strumenti di controllo e oppressione
soprattutto in tutti i casi in cui non viene fatta una periodica revisione degli strumenti, soprattutto
quando questi smettono di rispondere a dei bisogni ed esigenze reali e diventano soltanto la
rappresentazione di una sete di dominio e di potere.
Cosa accade quando le istituzioni entrano in crisi?
Quando le istituzioni entrano in crisi possiamo la politica cede il passo a qualcosa di più originario
che è LA MORALE.
Dire questo significa ammettere che la morale è qualcosa, almeno in parte, di naturale (che sta nella
nostra essenza) che ha le sue radici nella nostra costituzione biologica.
Dunque, quando le istituzioni entrano in crisi noi ci aggrappiamo a quel poco che sappiamo del
bene e del male. La morale per Ghelen ha delle basi biologiche anche quando non ci sono le
istituzioni la nostra piccola guida è la morale perché è della nostra specie e ne siamo dotati.
Che cosa accade quando le istituzioni entrano in crisi? Quando queste entrano in crisi le istituzioni
si devono attivare attraverso la dimensione morale dove si intende una serie di regole più o meno
esplicite dove gli uomini governano i propri comportamenti.
L’umanità in questi momenti può fare solo appello ad una morale che ha le sue radici nella vita
naturale e biologica dell’essere umano. Secondo Ghelen ciascuno di noi, non solo in quanto
individuo, ma soprattutto in quanto specie può fare affidamento su un bagaglio ereditario di modi di
comportamento che sono tanto trasmessi di generazione in generazione da poter essere considerati
quasi naturali. Questo significa che c’è una dose di moralità con cui noi nasciamo che significa che i
fondamenti del nostro agire secondo Ghelen possono essere fatti risalire alla filogenesi della nostra
specie che è esattamente nella vita delle generazioni umane nel corso del tempo. La nostra specie,
dunque, si porta dietro dei fondamenti molto rudimentali, della morale che indicano comportamenti
più o meno corretti, più o meno buoni in modo quasi istintivo, innato.
Per Ghelen è possibile volgersi verso la morale proprio perché nell’umanità in quanto specie è
contenuto il germe del comportamento morale. Per Ghelen andare a rintracciare all’interno della
biologia alcune pratiche su cui noi ci possiamo basare, significa offrire un minimo di garanzia
necessaria per sopravvivere.

Quali sono le quattro radici biologiche della morale secondo Ghelen?


Esse sono:
1. La reciprocità: norma della reciprocità (es. lo scambio di doni, il saluto, etc.) La reciprocità
implica sempre ciò che l’altro vorrebbe da noi semplicemente immaginando che noi stessi a
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loro volta potremmo ricevere qualcosa da quel preciso atto (mi metto nei panni degli altri).
Orientamento della reciprocità è secondo Ghelen dunque un comportamento pro-sociale. La
reciprocità vive nel mezzo tra l’utile e il buono. Questa intersezione è il tratto tipico della
morale su basi biologiche, possibile solo se tiene insieme questi due aspetti (utile e buono)

2. Le virtù fisiologiche: Fisiologico è qualcosa di naturale. Le virtù fisiologiche per Ghelen


possono essere definite come un ampliamento di regolazioni originariamente prossime
all’istinto. Le virtù fisiologiche non sono altro, dunque, che un processo volto a rafforzare i
nostri comportamenti. (Es. Tutta quella serie di virtù che si occupa della cura dei fragili o
dei bambini). Tutta questa cosa che è vicina all’istinto può essere rafforzata e sottoscritta
consapevolmente dall’uomo e in questo senso diventa anche una modalità di comportamento
morale non essendo semplicemente naturale, diventando una virtù che se allenata può
favorire comportamenti positivi. Le virtù fisiologiche, dunque, costituiscono una
sottoscrizione volontaria, un rafforzamento di alcuni atteggiamenti vicino all’istinto che
però possono essere riconosciuti come fonti di una vita moralmente orientata. Se questa
virtù fisiologica non ci fosse non potremmo fare appello alla moralità di tipo fisiologico.
Anche in questa seconda radice notiamo la stessa vicinanza tra utile e buono. Anche nelle
virtù fisiologiche riconosciamo l’utilità della specie, del singolo, che si trasforma piano
piano in bene. L’utile e il buono anche nelle virtù fisiologiche camminano di pari passo.

3. L’umanitarismo o Ethos Familiare Allargato: L’umanitarismo si basa sulla precomprensione


per cui tutti possiamo essere considerati fratelli. Per Ghelen l’umanitarismo non è altro che
l’estensione di un etica della prossimità. Quella bontà che desideriamo alle persone alle
quali vogliamo bene deve essere estesa anche a quelle persone che non conosciamo.

4. L’etica delle Istituzioni: l’etica delle istituzioni non scompare con la crisi delle istituzioni.
Questo significa che anche dal punto di vista biologico l’umano sente il bisogno della
regolamentazione del proprio comportamento da parte delle istituzioni. Un etica delle
istituzioni produce il tentativo di autoregolare i propri comportamenti come se le istituzioni
esistessero cioè rendere esplicite tutte quelle dimensioni che nella biologia possono
soccorrere la morale. L’etica delle istituzioni è il desiderio delle istituzioni quando queste
non ci sono e sopperire con delle regole morali a questa mancanza.
Le basi biologiche della morale ovvero il fatto che la morale poggi su basi naturali, la rende
oggettiva in quanto naturale e in secondo luogo la morale non è il contrario del
comportamento utile secondo questo punto di vista. Utile / buono e Benessere / bene
camminano insieme, ma non questo non è affatto scontato, non è condiviso da tutti in etica.
L’umanitarismo che per noi è considerato come qualcosa di positivo per Ghelen sia qualcosa
di negativo, rischioso, dove c’è troppa responsabilità sul soggetto, una responsabilità che
dovrebbe essere assegnata alle istituzioni.

ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 03/11/21


L’IPERTROFIA MORALE

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Siamo sotto una grande crisi delle istituzioni e quello che accade è il rifugio dell’umanità nella sua
moralità biologica. Ghelen sottolinea anche alcune conseguenze negative mettendo in particolare
l’accento sulla morale ipertrofica.
Nel momento in cui noi umani non possiamo fare affidamento alle istituzioni ci sentiamo
sovraccaricati di una responsabilità per noi stessi e per gli altri, perché la regolamentazione dei
nostri comportamenti è completamente affidata a noi, non possiamo dunque delegare le istituzioni e
non possiamo sentirci esonerati, tutta la fatica del bene o male ricade tutto sulle nostre spalle.
Essendo tutto affidato a noi, diventiamo troppo attenti, siamo troppo carichi delle aspettative altrui
rispetto al bene. Non delegando più la regolarizzazione dei nostri comportamenti ad enti esterni, ce
ne dobbiamo fare interamente carico e questo diventa rapidamente un sovraccarico. Diventiamo o ci
percepiamo dunque come responsabili delle sofferenze di chiunque in qualsiasi parte del mondo.
Per Ghelen l’ipertrofia morale è il punto critico dove essa implica una responsabilizzazione
eccessiva dell’individuo rispetto a questioni che una volta erano competenza delle istituzioni.
C’è anche qualche altro elemento che occorre tenere presente riguardo alla deriva ipertrofica della
morale.
In primo luogo, il restringimento progressivo ma apparentemente inesorabile dei nostri orizzonti,
ovvero come entrano in crisi le istituzioni entrano anche in crisi altre fonti di senso (es. il panorama
metafisico che un tempo ci accompagnava, la garanzia che tutti eravamo dentro un ordine cosmico
stabilito da qualcun altro rispetto al quale noi avevamo il nostro posto prestabilito, alcuni eventi
storici traumatici abbiamo causato il progressivo ripiegamento dell’individuo nella sfera privata,
laddove la sfera pubblica è diventata avvelenata fonte di sicura sofferenza, l’individuo è portato a
rivolgere la propria energia emotiva, psichica e culturale all’interno del rassicurante domicilio.)
Questo non ci ha protetti in modo assoluto, ma ci ha fatto deviare verso un etica familiare allargata.
Mettiamoci nei panni di chi vive nelle istituzioni in crisi, il primo passo è ripiegare verso la sfera
privata, rafforzando i legami privati, abbandonando il pubblico. Il tipo di etica e legame che si
instaura, genera all’interno di questo ripiegamento è un etica familiare o della prossimità. Questa
etica progressivamente comincia a sopperire alle mancanze delle istituzioni pubbliche, diventa
dunque una risposta che noi non forniamo soltanto dentro le quattro mura della nostra vita familiare,
ma che ci spendiamo anche all’esterno e dunque si passa da un etica familiare ad un etica familiare
allargata, diventa etos umanitario ipertrofico perché si chiede troppo al soggetto, si chiede al
soggetto una responsabilità condivisa e appoggiata dalle istituzioni. La metafisica insieme con la
crisi delle istituzioni provoca questo cambio di attenzione dal pubblico al privato e viceversa
rendendoci così sovraccarichi di responsabilità, alimentando però un illusione ovvero quella
dell’onnipotenza. Noi investiti di una responsabilità così grande cominciamo progressivamente a
percepirci come coloro che sono non solo superiori alla natura ma anche invincibili. Noi siamo
quelli che possiamo con l’ethos dell’amore e l’ethos familiare allargato, farci carico di tutti i dolori
e desideri di tutta l’umanità.
Il messaggio che transita secondo Ghelen in questo nuovo panorama è un messaggio non solo
umanitario ma anche un messaggio di tipo eudemonistico. Se noi siamo responsabili del benessere
di tutta l’umanità, questo significa che il benessere dell’umanità è un ideale da perseguire, che si
trasforma in bene di consumo ovvero un qualcosa che deve essere prerogativa di tutti.
L’eudemonismo di massa è quest’idea per cui la felicità deve essere quel qualcosa che deve essere
abbordabile per tutti di cui noi tutti siamo tutti responsabili.

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Come facciamo a garantire un eudemonismo di massa?
Lo possiamo garantire elevando a norma morale, il perseguimento dell’interesse privato, ovvero
ciascuno deve essere libero di raggiungere il proprio interesse privato. Per poter sostenere questo
tipo di etica, accade una strana trasformazione, ovvero progressivamente quel bene (inteso come
benessere) diventa bene di consumo. Per essere felice mi basta essere un consumatore. La felicità
perde la sua aura e diventa qualcosa di quantitativamente calcolabile; i desideri diventano semplici;
le nostre idee di felicità tendono ad omologarsi, i desideri diventano beni di consumo. Per essere
felice mi basta essere un consumatore. La felicità perde la sua aura e diventa qualcosa di
quantitativamente calcolabile. I desideri diventano semplici, diventano beni di consumo. Dal
paradigma della qualità si passa a quello della quantità, dove questa può essere misurabile,
vendibile ovvero mercificabile.
L’eccesso di responsabilizzazione, la morale ipertrofica, conduce anche a quel modo di proteggersi
che è l’indifferenza, che Ghelen chiama l’indifferentismo. Questa cosa è molto simile al burnout
dove la nostra barriera protettiva ci impone di non reagire più a qualsiasi tipo di situazione abbiamo
davanti, non abbiamo più le energie per farlo perché c’è stato un sovraccarico di emozione.
Relativismo, Nichilismo e Indifferentismo sono risposte molto umane all’eccesso di morale,
all’ipertrofia della morale. La scappatoia per uscire da questa situazione di stallo etico rispetto a cui
o si consuma o si esce indifferenti oppure si relativizza di nuovo potrebbe essere quella di fare
appello alle virtù fisiologiche, alla reciprocità, all’etica umanitaria oppure all’etica delle istituzioni
(che Ghelen ha definito insoddisfacente)

PRIMO BRANO ANTOLOGICO DI ARNOLD GHELEN: LA LEGGE DELL’ESONERO

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Noi partiamo da una peculiare condizione biologica svantaggiata rispetto agli altri e non possiamo
vivere la nostra naturalità senza filtri, dobbiamo dunque sempre fare un passo indietro sciogliendo
tutti noi dalla situazione presente. L’esonero però è anche altro cioè questo organizzare il mondo e
renderlo fruibile per noi sia dal punto di vista conoscitivo che da quello pratico.
L’esonero prima ci fa fare un passo indietro sciogliendo dal semplice presente della condizione in
cui siamo e in secondo luogo attraverso l’organizzazione meditata, pensata e simbolica delle nostre
azioni ci risparmia rispetto alla possibilità di bruciare a contatto della realtà. Questo comporta una
certa fatica iniziale ma poi ci risparmia tante fatiche successive che noi sperimenteremo perché
saremo bombardati da stimoli che non riusciamo a gestire. Questo implica che noi rendiamo
disponibile a noi un modo che di per sé non sarebbe affatto disponibile. Il dispendio di energie che
noi compiamo grazie all’esonero e minimo a quello che dovremmo compiere se l’esonero non ci
fosse e ci permette di dedicarci a prestazioni culturalmente mediate, libere dalla pressione del qui ed
ora. A quel punto noi possiamo riguadagnare la nostra naturalità in modo sempre mediato.
Non esiste un livello interiore e uno superiore, esiste un modo di funzionare nell’uomo che vale sia
per le attività considerate inferiori ovvero la nostra vita biologica sia per quelle considerate
superiori ovvero la nostra vita spirituale e culturale.
Per Ghelen questo si tratta di un funzionamento che coinvolge l’uomo nella sua interezza che non
conosce dualismo. L’esonero riguarda il modo umano di organizzarsi e questo modo di vivere
riguarda tutte le nostre dimensioni che ci preserva del nostro essere carenti sia dal punto di vista
dell’organo sia dal punto di vista dell’istinto.
Il modo in cui noi stiamo al mondo in tutto il nostro essere (corporeo, culturale, spirituale, etc.) noi
funzioniamo attraverso il lavoro che facciamo risparmiandoci la fatica della risposta agli stimoli
esterni attraverso la costruzione e la progettazione di apparati che filtrano la realtà per noi. Questo
progettare apparati che possono essere senso motorio, culturale, linguistici, simbolici, è proprio
l’esonero.
L’esonero permette di spezzare il cerchio dell’immediatezza ovvero noi non possiamo vivere
l’immediatezza e Ghelen con l’esonero ci fa capire come noi siamo esseri indiretti, siamo dunque
esseri il cui comportamento è sempre mediato, recuperato, riafferrato attraverso una serie di
espedienti.
Anche le funzioni biologiche dobbiamo gestirle attraverso degli apparati (es. la nostra fame la
gestiamo con i pasti)
Tutto per Ghelen è unitariamente connesso, non è che le funzioni elementari funzionano in un modo
e quelle alte in funzionano in un altro, Noi funzioniamo sempre alla stessa maniera sia che questo
riguardi le nostre strutture elementari sia che questo riguardi le nostre strutture più elevate.
Possiamo dire per concludere Ghelen due cose:
1. L’esonero è un’abitudine
2. Anche i nostri apparati sociali sono meccanismi esoneranti. (es. la famiglia è un apparato
esonerante controllando i nostri impulsi rendendoli meno caotici)

SECONDO BRANO ANTOLOGICO DI GHELEN: UOMO E AZIONE


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Per Ghelen l’umano non si contraddistingue per nessun tipo di essenza dagli animali né tantomeno
l’umano può essere inteso come l’ultimo e più sviluppato gradino dei viventi.
Ghelen non va d’accordo con Scheler per quanto riguarda:
- La sua prospettiva gradualista
- La sua prospettiva dualista
Non c’è nessuna contrapposizione tra spirito e vita, non c’è nessuna essenza che ci caratterizza, ci
sono invece una serie di azioni che possono essere riconducibili solo all’umano e che possono
essere ricondotte che se noi non agiamo non sopravviviamo. Potremmo dire che lo specifico
dell’uomo è questo essere mancante, carente compensato dalla plasticità, la sua adattabilità, la sua
flessibilità, la sua capacità di interagire con il mondo plasmandolo, manipolandolo e a sua volta
facendosi plasmare e manipolare. Questo può essere fatto derivare dalla sua apertura, dalla sua
indeterminazione, ovvero l’uomo è colui che si determina da solo, che non è determinato dalla
natura.
L’uomo compensa con la plasticità, con l’agire, il suo essere carente. Ogni volta però questo
modellare lo deve pensare, perché l’uomo si deve adattare sempre a nuove situazioni. Quindi in un
modo o nell’altro ci adattiamo.
È proprio in questo contesto che Ghelen fa riferimento a Portmann e alla sua idea che l’uomo viene
al mondo senza esserne pronto passando la sua infanzia a rendersi pronto per il mondo esterno, è
come se l’uomo continuasse a svilupparsi anche fuori dal grembo materno proprio perché nasce con
questa apertura, per cui si prevede un tempo di adattamento all’esterno del grembo materno. Questa
idea dell’incompiutezza, fa dire a Ghelen che noi siamo un soggetto particolare della natura, che
non abbiamo seguito una linea evolutiva che accomuna tutti gli altri ma ci siamo specializzati su un
settore e che per fare questo ci sono serviti gli organi rudimentali che abbiamo. Maggiore è il
mancato sviluppo di questi organi maggiore sarà lo sviluppo del cervello. Il cervello così plastico,
adattabile, si serve di organi poco sviluppati. Se dunque questi organi fossero molto sviluppati non
avremmo bisogno di questi organi mentali.
Il passaggio in questo testo è una accentuazione della componente legata all’azione ed una
sottolineatura che tutto quello che noi possiamo considerarlo naturale solo perché lo abbiamo
adattato a noi.
La definizione che Ghelen dà di cultura che è la natura trasformata dall’uomo. La cultura umana
serve a creare ordine nello stabilizzare facendo riferimento al caos e al cosmo che è del tutto
ingestibile per noi (ma non per l’animale) perché non siamo attrezzati naturalmente per gestirlo e
dunque per farlo dobbiamo ricorrere al nostro agire.

TERZO TESTO ANTOLOGICO DI GHELEN: TECNICA E ANTROPOLOGIA


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Sostenere che la tecnica è antica quanto l’uomo significa che l’uomo non arriva alla tecnica in
seguito ad un processo ma che in seguito della sua comparsa si è rivelato carente e inadatto
all’ambiente.
È per questo che sin dall’antichità si è fatto ricorso ad un apparato di strumenti che supportassero la
sua azione di adattamento. Dire dunque che la tecnica è antica quanto l’uomo significa sottintendere
che noi siamo carenti e che quindi fin dall’inizio ci siamo dovuti attrezzare ricorrendo a strumenti
che ci permettessero di modificare l’ambiente per adattarci a esso. Quindi la tecnica non compare
dopo una serie di stadi di sviluppo, non nasce con l’uomo. Questo significa che è la sua peculiarità,
è l’altra faccia della carenza essendo esattamente il corrispettivo di quella carenza essendo dunque
necessaria proprio per quello. Questo vantaggio, ha determinato la nostra superiorità a partire da un
originario tassello mancante, cioè gli organi poco sviluppati che noi abbiamo, dove essi hanno
portato noi ad essere dominatori della natura.
Quali sono le funzioni dello strumento? (posto che la tecnica nasce con noi)
Per Ghelen la tecnica ci ha reso possibile superare gli organi ma addirittura superare l’organico,
cioè inventarsi materia che non esiste in natura, artificiale. Tutto questo perché l’uomo è incapace di
vivere l’ambiente in modo grezzo, proprio perché lo deve sempre plasmare.
Possiamo dire che le mani e il cervello sono i nostri organi specializzati, dice Ghelen però
dobbiamo prendere delle precauzioni:
1. I nostri organi specializzati non sono predeterminati a svolgere proprio quelle funzioni e non
altre. L’organo specializzato dell’animale invece, fa quello che deve fare perché è
rigidamente predisposto ad affrontare quel problema, tenergli testa e vincere. L’umano
invece per vincere certamente facciamo ricordo alle mani e al cervello ma la risposta che
diamo con le mani e il cervello è sempre una risposta è sempre aperta, indeterminata perché
deve poter essere sempre capace di fronteggiare l’imprevedibile, l’illimitato. Ed è questo che
si stabilisce di volta in volta attraverso un progetto sempre nuovo. Tutto questo porta a dire a
Ghelen che l’uomo è un essere POLICENTRICO, che vuol dire che può dirigersi a tutta una
serie di punti di interesse, non avendo un solo cerchio come l’animale ma una vasta gamma
di opzioni davanti a sé, può impegnare le sue energie per una serie di attività la cui
gerarchizzazione non è affatto prestabilita, siamo noi a dover dare e distribuire le priorità.
Che l’uomo sia policentrico significa che è anche plurale nelle sue attività, non è
determinato e dunque si può determinare e se si può determinare può anche essere capace di
stabilire rispetto a questa pluralità di centri una certa gerarchizzazione. Siamo noi, dunque, a
dover stabilire il grado di importanza che hanno per esempio le attività in cui noi siamo
impegnati. Questo può essere disorientante, fonte di confusione e disordine e dunque la
risposta che diamo è il tentativo di dare ordine.

2. Perché la tecnica è così affasciante? (il passaggio successivo all’esperto) La tecnica è così
affascinante per varie ragioni dove la tecnica condivide con la magia l’idea che noi
possiamo esercitare un potere sul mondo esterno. (es. il mago) Nel passaggio dal mondo
magico al mondo scientifico la linea di continuità sta proprio in questo tentativo di controllo
della natura dove il mago lo fa con mezzi legati alla superstizione mentre lo scienziato lo fa
con i mezzi giusti. Però l’idea che c’è è quella del controllo. La tecnica questo controllo e
questo potere lo condivide anche essa con la scienza e la magia. Il mago sperimenta alcune
tecniche che gli servono per controllare. Al di là della magia mi resta una tecnica che
effettivamente mi permette di esercitare un potere sul mondo, dove a determinate azioni
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corrisponderanno dunque certi effetti. La tecnica, dunque, ci fa pensare che esercitiamo un
forte potere sul mondo e poi ci dà l’illusione dell’automatismo dove esso rassicura,
deresponsabilizza, fa scegliere al posto nostro esattamente come il mago, il quale pensa che
innescando un certo processo andrà incontro a reazioni automatiche perfettamente gestibili
così come chi ricorre alla tecnica costituisce progetti naturali e progetti automatici.
L’illusione del controllo è praticamente totale.
Se questi sono gli elementi positivi della tecnica è necessario tenere conto anche del disagio che la
tecnica può causare.
In primo luogo, dobbiamo citare l’iperspecializzazione che significa che la tecnica ci ha illusi che
noi potevamo coltivare un sapere settoriale, limitarci alla sua coltivazione e rendendolo
appannaggio di pochissimi costringendo dunque l’umanità (che si è adagiata su questa ignoranza)
ad una sorta di non sapere. Tutta l’umanità o quasi si trova dentro questa ignoranza generalizzata e
dove il sapere solo quello tecnico diventa appannaggio di pochi o pochissimi e che questo porta
dunque le sue sfortune.
Qui l’attenzione di Ghelen si focalizza non solo sul problema dell’iperspecializzazione ma anche
sulla competenza etica che tutto questo comporta, non soltanto sulla sfera del sapere ma anche su
quella del comportamento umano.
Ghelen dice che siamo portati a pensare al mondo come un grandissimo apparato interconnesso che
condivide i sistemi di produzioni, leggi di mercato attraverso la diffusione di sistemi meccanizzati
di produzione. A questa globalizzazione della tecnica ci aspetteremo che corrisponda una
globalizzazione dell’etica cioè una sviluppata attenzione alla solidarietà e anche l’idea che ci debba
essere un governo mondiale di questo fenomeno invece pare che la globalizzazione abbia riguardato
soltanto alcuni aspetti tecnici della vita umana lasciando indietro quelle etiche e politiche di chi
governa la globalizzazione.
Da una parte dunque c’è un eccessivo sviluppo della tecnica che non è supportato da un altrettanto
sviluppo dei principi condivisi da tutti ovvero principi seri, profondi, che implicano anche una
responsabilizzazione delle istituzioni che devono governare questi processi che sono esclusivamente
tecnici ed economici.
L’ultima annotazione che Ghelen fa in questo testo riguarda la dinamica dell’accelerazione costante
dei processi tecnici che ci fa vivere proiettati nel futuro facendoci vivere a scapito del futuro,
vivendo proiettati dentro una dimensione temporale che ancora non ci appartiene. Vivere proiettati
nel futuro è in parte conseguenza di una accelerazione spasmodica della tecnica, è proprio essa che
ci fa vivere in un mondo dove mettiamo tutte le nostre aspettative ed energie. Questo ha fatto tanto
male perché è diventato il nostro modo di vivere quotidiano. (es. Quanto è vero che noi viviamo di
attesa? Quanto è vero che noi viviamo aspettando il momento migliore?)
Per sintetizzare possiamo dire che da una parte ci stiamo dentro nel futuro dandoci energia per
sostenere il presente ma dall’altra parte non abbiamo proprio idea di che cosa sia il futuro.

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TERZO AUTORE: HELMUT PLESSNER
(N. 1892 – M. 1985)
Nasce a Wiesbaden e frequenta la facoltà di medicina, poi a Heidelberg i corsi di zoologia e
filosofia. Segue Husserl a Gottinga nel 1914.
Si laurea nel 1916.
Nel 1928 scrisse la sua opera fondamentale I gradi dell’organico e l’uomo.
Si allontana dalla Germania nel 1932. Prima va in Turchia, poi nei Paesi Bassi. Fa ritorno a
Gottinga solo nel 1951, dove insegna sociologia.
Come per Gehlen e a differenza di Scheler, ciò che distingue l’umano non è un principio né
un’essenza che caratterizza l’umano in quanto tale, ma si è certi che una differenza ci sia. Per
Plesner la differenza tra l’uomo e gli altri viventi consiste nel suo modo di posizionarsi
nell’ambiente, cioè nel suo strutturarsi in rapporto con l’ambiente, nel suo interagire con l’ambiente.
In Plesner bisogna considerare due elementi:
★ A differenza degli animali che coincidono con il loro essere corpo e non possiamo dire che
quell’animale è un corpo l’uomo ha un corpo ed è un corpo (avere il nostro corpo significa
uscire da esso e poterlo oggettivare cioè trattarlo, osservarlo come un oggetto). Avere un
corpo ed essere un corpo è una prerogativa dell’essere umano. Per Plesner esistono due
termini per indicare questa dualità: Kurter che è il corpo che si ha, che controlliamo mentre
il Leib è il corpo vivente ovvero il corpo che siamo. Questa è una cosa soltanto dell’uomo.

★ L’uomo ha una posizionalità eccentrica, ovvero è capace di trascendere il suo centro


biologico, Il fatto che l’uomo abbia una posizionalità eccentrica significa che l’uomo
rispetto al suo centro biologico, al suo vivere dentro la realtà naturale, può sempre assumere
una certa distanza, può sempre uscire da quel centro ed è in questo senso è eccentrico.

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ANTROPOLOGIA FILOSOFICA 05/11/21
L’essere centrico è l’essere biologico, vivente, animale, la centricità è la nostra vita organica, da
quel centro gli animali non si possono staccare vivono immersi nel loro circolo biologico, sono
preda della loro vita organica, centro vivente di impulsi e reazioni istintive agli stimoli.
Noi umani, al contrario degli animali, possiamo invece distaccarci dalla nostra vita centrica (dove
per essa si intende vita organica e biologica) ed assumere una posizione oggettivante rispetto alla
sua vita biologica. Per comprendere l’idea della posizionalità eccentrica dobbiamo pensare al gesto
oggettivante che noi facciamo nel momento in cui guardiamo osserviamo, ammettendo
implicitamente che ci stiamo distaccando da ciò che vediamo considerandolo qualcosa che sta fuori
di noi. Dire che noi possiamo osservare il nostro centro vivente, significa dire che noi ce ne
possiamo distaccare, lo possiamo mettere a quella distanza critica giusta che ci permette di
guardarlo. La posizionalità eccentrica riguarda questa postura che l’uomo compie rispetto alla sua
vita biologica, se ne distacca, recuperandola.
È evidente che la nostra vita centrica non è eliminabile ed evidente che noi siamo que corpi e questo
nostro essere quei corpi ce ne possiamo riappropriare attraverso la riflessione critica, la distanza
critica, riguadagnando la nostra vita biologica attraverso una mediazione riflessiva. Non siamo
perfettamente aderenti, appiattiti sulla nostra vita biologica ma ce ne possiamo distaccare per
riappropriarcene riflettendoci sopra.
Questo è il cuore dell’idea della posizionalità eccentrica dove dentro questa espressione ci possiamo
trovare:
★ L’idea fondamentale in Plesner per cui il vivente si contraddistingue per la sua posizione
rispetto al mondo e la posizione peculiare dell’umano è quella di fare un passo avanti e un
passo indietro cioè aderire alla vira e staccarci dalla vita in modo riflessivo.

★ Essendo capaci di questa distanza dal mondo biologico, noi siamo capaci di interporre tra
noi e il mondo un intervallo (spaziale e temporale), siamo capaci di prendere tempo,
interpongo dunque tra me e gli eventi, la possibilità di inquadrarli ad una certa distanza che
ci permette di vederli in tutt’altro modo.

Perdere il proprio centro, rende l’uomo capace di decentrarsi ovvero di considerarsi non l’unico,
non il solo che esiste e attorno al quale ruotano gli eventi, se faccio un passo indietro e mi guardo
vivere, scoprirò che come me vivono tanti altri. Decentrarsi dunque significa anche relativizzarmi,
non sono più l’assoluto centro a cui giungono gli impulsi e da cui partono le reazioni, ma sono
oggetto tra gli oggetti, perdo quel centro per guadagnare quella prospettiva policentrica
decentralizzata nel mondo.
La discrepanza che si dà tra me e il mio centro biologico mi rende per certi versi schiavo di una
frattura, di una non coincidenza. L’uomo è colui che non coincide con sé stesso ed è condannato a
vivere e a vedersi vivere, ad abitare questa frattura. Io mi percepisco sempre questa dualità, sono in
qualche modo lo spettatore di questa dualità. Questa frattura è quello che caratterizza l’uomo
secondo Plesner proprio alla luce della sua posizionalità eccentrica.
L’unificazione di sé è un compito, non un dato di partenza. Piuttosto, il dato di partenza è la
frattura, la sosta nella mediazione, la soglia fra interiore ed esteriore, abitiamo in una zona di mezzo
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che ci fa scegliere se immergersi in quel centro nella nostra centricità oppure se abitare fuori da quel
centro dunque eccentrici. Proprio questo stare in questa posizione di mezzo che in qualche modo
riflette una non coincidenza con noi stessi che possiamo definire con il termine dell’inquietudine
che incarna la cifra più propria dell’umano.
Quando noi facciamo riferimenti ai gradi dell’organico dobbiamo definire cosa esso sia. L’organico
è il vivente. Perché Plesner si ,mette in testa di sviluppare una gradazione dei viventi?
Perché come gli altri colleghi (Scheler, Ghelen) è convinto della peculiarità dell’uomo, della
necessità di fornire una definizione dell’umano ma a partire da una analisi dei dati che la biologia
fornisce.
Il suo obiettivo è di studiare le forme viventi per capire che cosa differenzia l’umano e non si tratta
di un essenza ma di una postura, di una modalità di stare in relazione con il mondo. È proprio
attraverso la messa a punto di una modalità di stare al mondo che caratterizza l’umano che Plesner
rintraccerà alcuni modi dell’umano di rapportarsi con l’ambiente esterno.
L’idea di una postura dell’uomo rispetto al mondo esterno per Plesner è centrale perché riconosce
che il non vivente non è capace di rapportarsi all’ambiente esterno. Il non vivente ha una precisa
collocazione che non è una interazione. (Il non vivente non agisce ma sta [es. minerali, pietre, etc.] )
Interagire dunque significa assumere una certa posizione nei confronti del mondo.
La posizionalità è ciò che va indagato per comprendere come i diversi gradi del vivente
interagiscono con il mondo esterno. Se questo è quello che contraddistingue il vivente in quanto
tale, il passo successivo è determinare in che modo ciascun grado del vivente conduce questa
interazione.
La posizionalità è comune a tutti i viventi ed il tipo di posizionalità distingue un regno dall’altro.
Plesner, dunque, suddivide i gradi dell’organico in tre gruppi che sono:
- Vegetale
- Naturale
- Umano

IL GRADO VEGETALE
Per Plesner il grado vegetale è contraddistinto da una forma aperta. Qui dobbiamo cercare di capire
i concetti di apertura e chiusura hanno un senso opposto da ciò detto fin ora. Apertura e chiusura
fino ad adesso significava definire l’uomo in quanto tale mentre in Plesner queta apertura e chiusura
significano la possibilità o meno di avere una coscienza, di essere individui racchiusi in sé. I
vegetali aderiscono perfettamente all’ambiente nel quale stanno. Non emergono in quanto individui,
ma esistono in costante comunicazione e interazione al mondo a cui appartengono. Sono
completamente aperti all’ambiente di cui fanno parte.
Qualsiasi vegetale è completamente dipendente nel suo ciclo vitale nell’ambiente in cui è inserito,
non vive al di fuori di esso, la sua vita coincide completamente con l’ambiente, dall’ambiente
dipende totalmente, è forma aperta.
Nessun vegetale può non solo essere autocosciente ma neanche cosciente e basta, non c’è
distinzione tra interiore ed esteriore, non c’è neanche comportamento c’è solo una tendenza alla
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crescita dello sviluppo, ma non c’è nient’altro che non sia dipendenza per la propria sopravvivenza.
Siccome non c’è interiorità non c’è neanche chiusura che lo renderebbe individuo, non c’è
raccoglimento, dispersione, non c’è niente oltre quello che osservo.
Plesner scrive: “È aperta quella forma che inserisce l’organismo, in ogni sua esternazione vitale,
immediatamente nell’ambiente e lo rende una parte non indipendente del ciclo vitale a lui
corrispondente”
Dire questo significa dire che c’è una interazione reciproca che rende il vegetale parte integrante di
quell’ambiente, il vegetale dunque vive di quell’ambiente ma è quell’ambiente che vive delle sue
componenti vegetali. Questa reciproca interazione si può definire come aperta.
Il posizionamento del grado vegetale presuppone che non si dia alcuno spazio tra lo stimolo e la
reazione, dove stimolo e reazione coincidono perfettamente. L’animale reagisce con il mondo
esterno decodifica e sa quello che rispondere attraverso l’istinto. Nella pianta questo distacco non
avviene perché non c’è interruzione alcuna tra stimolo e risposta perché il nutrimento accade da sé
perché non c’è spazio tra l’esigenza di nutrimento e l’atto del nutrimento stesso, è la stessa identica
cosa.
L’espressione che Plesner utilizza in questo contesto è proprio quella del DIVIDUO ovvero il
contrario dell’individuo. L’individuo è colui che si può chiudere dentro una coscienza che si può
distaccare e che è uno mentre la pianta questo tipo di unificazione non ce l’ha. Il regno vegetale è
una serie di pluralità di funzioni la stessa che si trova nell’ambiente, restando plurale, non si unisce
mai e cambia al cambiare delle condizioni esterne (es. ciclo vitale del regno vegetale).

IL GRADO ANIMALE
Plesner definisce questo grado come un grado dotato di forma chiusa che vuol dire che l’animale è
dotato di un centro biologico, vive nella sua organicità biologica che lo fa interagire con l’ambiente,
esso è dotato di un centro di decodifica di ciò che riceve dall’esterno e di predisposizione della
risposta o dell’azione adeguata. Il fatto che l’animale possa essere percepito come questo centro,
destinatario di stimoli e risposte, questo centro qui ci fa percepire che esso è dotato di una certa
chiusura, di un certo essere uno, unico. L’animale è evidentemente un corpo, si distingue
dall’ambiente e si posiziona interagendoci. L’animale non è ambiente ma sta nell’ambiente.
Possiamo anche dire che questo significa che l’animale è dotato di una certa coscienza per
organizzare i rapporti con l’ambiente anche se non ne è consapevole ma possiamo riconoscere una
embrionale coscienza che guida e gestisce i rapporti con l’ambiente che sono del tutto inconsapevoli
ma sempre uno e unico.
Plesner, dunque, l’animale è per eccellenza l’essere centrico, pensiamo all’animale che occupa uno
spazio e quello stesso spazio che occupa ci fa dire che li esiste quell’animale con il suo centro.
L’animale è capace di:
★ Percepire il mondo esterno
★ Elabora delle risposte
★ L’animale nonostante coincida con questo centro biologico non sarà mai consapevole della
propria vita organica, è vita organica ma non è certo consapevole di esserlo. Infatti, Plesner
dice che esso non si vive come centro.

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Plesner nella sua trattazione spiega la differenza tra mondo vegetale e mondo animale in questi
termini: nel mondo vegetale la cosa non è posta, non c’è questa distanza tra la pianta e il mondo
mentre nell’animale l’oggetto, il mondo è posto.
Se l’animale è in grado di coltivare questa interazione ma nel mondo del tutto inconsapevole, se il
mondo gli si pone come qualcosa di esterno a sé , tutto ciò accade senza che lui ne sia minimamente
cosciente, allora questo spazio di presa di coscienza per Plesner è quello che caratterizzerà l’umano
in quanto tale.
L’animale vive in un mondo che gli è dato senza sapere che gli è dato, vive come se lo sapesse,
interagisce con l’ambiente come se sapesse che gli è dato dove questa consapevolezza è tipicamente
umana.

GRADO UMANO
Il grado umano esattamente come il grado animale è una forma chiusa che è capace di raccoglierci
in una unità. Oltre ad essere questo raccoglimento in una unità, l’umano è anche quello che lo può
trascendere; dunque, quando mi riconosco come centro la distanza è già ammessa. L’uomo è capace
di distanza, di decentramento, di consapevolezza e di autocoscienza. Quel centro che noi
riconosciamo come vita organica e biologica a cui apparteniamo e che ci appartiene noi possiamo
persino negarlo, cancellarlo. Questa libertà dal centro è anche una libertà che ci fa prendere le
distanze dal determinismo, che contraddistingue l’animale e il grado animale nel suo complesso.
Liberarci dalla pressione dell’organico significherà anche l’essere liberi da qualcosa che ci
determina e che non siamo noi a determinare. La libertà dall’impulso e la libertà dall’istinto diventa
anche la capacità di autodeterminarci. Mettersi a distanza significherà percepirsi come uno tra i
molti, distanziarsi dal nostro centro riconoscendo che anche altri ruotano attorno a un centro che a
loro volta possono negare.
Per Plesner è essenziale tenere insieme l’aspetto centrico con quello eccentrico. Noi non possiamo
uscire da questa condizione di radicamento, noi siamo quel centro; eppure, siamo anche coloro che
sono capaci di superarlo, negarlo mettendo tra noi e gli eventi una pausa.
La forma chiusa che è peculiare dell’umano diventa anche la consapevolezza di esserlo, la
consapevolezza di essere corpo che per l’animale non fa problema mentre per l’uomo si. Per
l’essere umano questo è sempre oggetto di problematizzazione. Se non avessimo la capacità di
distanziarci da questo essere corpo noi non vivremmo nella frattura ma nell’unità già data e dunque
il nostro compito è quello di abitare questo intervallo rendendo sensato anche quello che appare
meno sensato.

La forma vivente umana può essere analizzata sotto 3 punti di vista:


- È corpo: coincide con esso e non possiamo negarlo

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- Nel corpo: che significa dare adito ad una linea di pensiero che immagina la vita umana
come la vita dell’anima. La nostra anima sta dentro al corpo dove esso è il suo strato che le
permette di sussistere ed individuarsi. Anche in questo caso l’anima non ne può fare a meno.
- Noi siamo fuori da quel corpo: cioè possiamo assumere una postura descrittiva rispetto alla
vita del nostro corpo e della nostra anima.

Metterci a distanza da tutto questo significa studiare il nostro essere corpo e il nostro essere anima,
osservandolo facendo il famoso passo indietro diventando da centrici a eccentrici. Ed è questo il
punto di vista che dà senso al nostro percepirci come corpi e al nostro percepire il corpo come ciò
che contiene la nostra vita interiore, e solo questo è coincidente con la autocoscienza.
Tutto questo si può fare risalire ad una unità che è la persona, che tiene le redini di questa costante
frattura fra i piani. La persona è colei che sa che è consapevole del suo vivere, ma anche delle sue
percezioni, dei suoi stati emotivi, delle sue azioni.
Ma perché Plesner ci dice che siamo posti nel nulla?
Chiunque di noi può attraverso l’immaginazione stare completamente da un'altra parte lasciando
vagare la sua immaginazione stando da un’altra parte. Il fatto che noi, dunque, possiamo uscire dal
centro ci pone dentro una dimensione che non è localizzabile è in nessun luogo, non sta da nessuna
parte. Tutto quello che noi sperimentiamo essendo persone, noi lo possiamo fare nel nulla senza
stare dentro a un mondo, anzi interrompendo tutti quei legami con il mondo. L’essere eccentrici,
guardarsi alle spalle, riflettere stando a distanza, per Plesner significa essere collocati nel vuoto,
senza spazio e tempo. Così facendo si raggiunge in questo modo l’eterno.
Essere capace di percepirsi come uno che ha il corpo non ha bisogno di un luogo, sta nel nulla ed è
distaccato rispetto alla realtà. Fuori dal luogo significa fuori dal mondo.
Si passa dunque da dividui a individui, da individui a persone, capaci di rapportarsi a sé stessi
oggettivando sia il corpo sia la mente. La sua unità è la consapevolezza della frattura, che si
concretizza nella ricerca della mediazione.

LE TRE LEGGI ANTROPOLOGICHE FONDAMENTALI


Come l’uomo vive in questa frattura fra eccentricità e vitalità?
Si possono rintracciare costanti nel suo modo di abitarla?
Secondo Plessner, l’uomo vive nella frattura mediante una triplice postura, che permette di
individuare tre leggi antropologiche fondamentali, ed esse sono:
1. ARTIFICALITA’ NATURALE: è che l’uomo è quell’essere che guadagna la sua natura
attraverso l’artificio, la tecnica. L’uomo non vive il mondo esterno in modo semplice
naturale, spontaneo ma lo abita attraverso l’artificio delle cose, della cultura e dei simboli. È
proprio attraverso l’artificio che l’uomo può correre ai ripari rispetto alla sua grande
precarietà, alla sua indeterminazione. L’uomo dunque perde la sua naturalezza per
riguadagnarla in modo artificiale. L’uomo riguadagna dunque la sua naturalità attraverso
l’artificio. Questo per tutto quello che riguarda la vita sia nelle sue manifestazioni più
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semplici, sia in quelle più complesse (es. come il linguaggio, la letteratura, la cultura, l’arte,
la ricerca e la necessità di sfamarsi, l’istinto della riproduzione che è mediato attraverso la
tecnica)

2. IMMEDIATEZZA MEDIATA: Da una parte l’uomo essendo centrico può vivere


nell’immediatezza ma d’altra parte però l’uomo è anche in quanto essere eccentrico colui
che vive di mediazioni, di filtri culturali, quelle stesse mediazioni che gli servono per vivere
la spontaneità e l’immediatezza. Possiamo dire che la sua immediatezza è sempre
guadagnata attraverso un atto di mediazione, noi mediamo la nostra immediatezza, ne
siamo consapevoli. L’immediata disponibilità del mondo esterno, noi la rendiamo sempre
mediata perché la progettiamo, interveniamo, ideiamo, inventiamo nel mondo. Il nostro
vivere le relazioni con il mondo, noi ce la complichiamo attraverso la progettazione, la
mediazione, l’azione. Se quello che sentiamo è immediato, siamo capaci anche di rispondere
in modo riflesso, mediato. Siamo capaci di sentire in modo immediato ma siamo anche
capaci di rispondere in modo mediato.

3. IL LUOGO UTOPICO: Possiamo dire che l’uomo si colloca sempre oltre il luogo in cui sta.
L’uomo non ha un luogo predefinito, non occupa il posto che gli è stato assegnato. Quindi il
luogo si deve prendere sia come luogo fisico, che come qualcosa di metaforico ovvero il
posto che abbiamo nel mondo ce lo costruiamo noi. Possiamo scegliere dove stare, chi
essere e dunque possiamo abitare ovunque pur essendo di nessun luogo. Negare dunque il
luogo in cui siamo, ci rende da una parte protagonisti delle nostre scelte, dall’altra parte
invece ci fa sentire il peso, la fatica insostenibile di questa non ,localizzazione. Non abbiamo
una posizione ma ce la creiamo, non siamo in nessun luogo ma possiamo essere dappertutto,
derealizziamo i luoghi e ne immaginiamo tanti altri dove pensiamo e sentiamo di stare,
eppure questa mancanza sia metaforica che letterale crea dentro l’uomo l’apertura verso
l’assoluto. Questo non essere localizzati, è fonte di apertura rispetto alla necessità di trovare
certezze assolute.

ANTROPOLOGIA DFLLA MUSICA


Per Plesner la musica è qualcosa che ci interroga profondamente perché essa entra dentro di noi
come una sensazione attraverso l’udito ma noi non la possiamo mai veramente oggettivare,
considerarla come qualcosa che vediamo. Percepiamo attraverso la musica un senso che passa
attraverso la sensibilità
Quello che ci disorienta rispetto a tutte le altre tipologie di sensazione e di arte, è che la musica
arriva nel nostro essere corpo ma nel frattempo non la possiamo oggettivare, eppure è testimonianza
di quella eccentricità che noi siamo essendo uno dei rarissimi momenti dove tutto sembra unirsi in
questo strano luogo che non è nessun luogo.
La musica scavalca l’ostacolo della rappresentazione pur restando nell’ostacolo del sensibile. Si
tratta anche di un evento di senso. La peculiarità della musica è tenere da una parte l’essere
sensibile mentre dall’altra trasmettere un significato che a differenza di tutti gli altri significati non
ha bisogno di essere concettualizzato ovvero di passare per l’astrazione che è implicita in ogni atto
di oggettivazione

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Per chi la musica la produce siamo dentro ad un fenomeno che da un lato consiste una esternazione,
in una azione che scaturisce da noi ed ha il suo esito fuori di noi, eppure perché la musica sia
effettivamente prodotta in quanto tale, è necessario che ciò che produciamo deve essere risentito da
noi come qualcosa che proviene dall’esterno. Per capire se una melodia suona giusta dentro di noi la
dobbiamo performare e mentre la performiamo noi ascoltiamo i suoni configurati dentro una
composizione come se fossero esteriori; eppure, riflettono la nostra interiorità.
Da qualunque versante noi prendiamo l’esperienza musicale sia che ne siamo i produttori o i fruitori
andiamo incontro ad un circolo virtuoso che interrompe la necessità della oggettivazione possiamo
anche dire che esso interrompe il dualismo tra l’interno e l’esterno e ci restituisce nella sua pienezza
una unità possibile con il nostro corpo e il nostro sentire, che non si arresta alla semplice estetica,
ma diventa veicolo di un profondità inedita senza che il corpo sia considerato quell’elemento
estraneo rispetto al significato senza che il corpo sia considerato come quell’elemento che procede
attraverso i suoi automatismi della sua natura.
Il mondo musicale, come pochi altri fenomeni e modi di espressione, è qualcosa che ci rende capaci
di vivere all’interno di una dimensione unifica che non scinde per forza il senso e la sensibilità, il
significato e il determinismo.
Per Plesner un ulteriore indizio sulla tenuta della frattura dentro cui abitiamo, è proprio il legame
che si crea, in modo quasi naturale, tra la musica e la danza, dove il nostro corpo diventa la cassa di
risonanza con la musica attraverso i gesti della danza. Se la nostra peculiarità per Plesner consiste
nell’abitare quella frattura, siamo anche qui viventi capaci anche se in modo precario, provvisorio,
di conciliarci per poi ripiombare all’interno della frattura però di riconciliarci con la nostra
corporeità, con quel guardarsi a distanza che ci permette di riconoscere un senso non soltanto nel
linguaggio astratto ma anche nel nostro viverci nella dimensione corporea.

Il regno della musica è un regno capaci di connessioni inedite che non passano per il solito canale
che lega la razionalità e l’azione.
Come si legano insieme razionalità e azione?
L’agire umano è sempre un agire pensato, progettato. Si tratta dunque di esperire una connessione
tra il nostro pensare e il nostro stare nel mondo comportandoci in un certo modo implicando in
Plesner quella capacità di messa a distanza in cui io mi astengo prima di averci riflettuto sopra.
Questa è una tipica connessione che però richiede la nostra capacità di oggettivare. Prendere
distanza, dunque, significa sempre anche oggettivare il mondo, vederlo da un'altra prospettiva
possibilmente da lontano, non farsi prendere dalla catena degli eventi e poi agire.
La musica invece prende un'altra strada e Plesner ce lo dice: “Una connessione tra corpo e spirito
che obbedisce a regole del gioco diverse da queste […]” dunque, non si confronta con
l’oggettivazione, ma si tratta di un sentire che genera anche senso. Se in tutti gli altri casi il senso si
genera osservando nella musica il senso si genera producendo e ascoltando. Tutto questo si può far
risalire ad un tipo di mediazione differente che è quella dell’udito.
L’udito nasconde un accordo tra l’intenzione espressiva (tra il mio modo di comunicare attraverso
la musica) e l’atteggiamento espressivo di chi quella musica la riceve. E possibilmente muove
anche il suo corpo seguendo quel ritmo. Questo genera una intima connessione tra motivazione che
si vuole trasmettere e movimento che si vuole far vivere.
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Il riferimento alla fine, quando noi pensiamo a qualche oggetto artistico, lo pensiamo come un
oggetto che ha una fine. Il racconto è sensato quando abbiamo potuto trarre le conclusioni e da quel
finale ricostruiamo tutta la storia dentro alla quale ciascun episodio assume il suo particolare
significato perché legato ad altri, perché ha un posto nell’economia della narrazione. La musica in
quanto oggetto artistico è pensata dal compositore come dotata di una fine. L’idea di Plesner in
questo caso dice che il finale (qualsiasi sia l’oggetto d’arte) è ciò che ricomprende insieme una serie
di eventi, elementi, altrimenti disorganizzata.
La configurazione è un altro modo per dire la composizione delle parti dentro a un tutto dove quelle
parti (ciascun singolo suono) significheranno non tanto di per sé, piuttosto perché stanno dentro a
una successione che non è soltanto cronologica ma anche di senso.
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 08/11/2021
Plesner si interroga sulle esperienze dove cosa esse ci dicono dell’umano. La prima parte è
puramente filosofica mentre la seconda è una parte legata all’esperienza, dove il suo intento non è
puramente classificatorio ma arriva ad una conclusione, dove per arrivarci Plesner analizza prima
l’esperienza per trovarci dentro lo specifico dell’umano.
Nella musica Plesner ci ha detto che c’è qualcosa che solo noi umani possiamo fare, ma prima l’ha
descritta, facendoci capire come funziona il mondo dei suoni e delle armonie della musica. La
stessa cosa Plesner la fa a proposito di tutto quello che noi possiamo classificare come espressività
umana cioè questa volontà di farsi capire dagli altri al di là delle incomprensioni che accadono.
È per questa ragione che Plesner esamina le seguenti esperienze:
- Espressione o capacità espressiva: la comunicazione o espressività umana non può essere
semplicemente legato alla sopravvivenza. La capacità espressiva, dunque, indica qualcosa
che possiamo definire come una eccedenza, non si tratta soltanto di sopravvivere, ma più
propriamente si tratta di comunicarci per comprenderci per renderci più possibile trasparente
agli altri. Questa esigenza di comprensione umana passa anche per il corpo, che possiamo
essere e possiamo avere e dunque utilizzare per fini comunicativi. L’espressività umana che
noi possiamo cogliere attraverso la visione diventa un dire di più su ciò che noi vediamo.
Il primo modo di collocarci rispetto ad altri è la volontà di intenderlo, di decifrare le sue
espressioni e questa eccedenza del significare non può ridursi alla pura sopravvivenza,
certamente sarà anche traccia di quello, perché noi non possiamo passare la naturalità al
quale esistiamo però sarà anche di più, cioè farà riferimento ad un aspetto del nostro vivere
che oltrepassa la mera biologia e questo desiderio di intenderci passa per tutto quello che noi
possiamo definire come espressività umana. Tutta questa situazione denota un dire di più
che però ci comporta sempre una fatica.

- Linguaggio: Il linguaggio è lo strumento per eccellenza che permette di rievocare ciò che è
assente senza che per forza quell’oggetto o quella persona sia visibile tra noi. La parola che
esprime una idea o un concetto è capace di rendere vivo, presente nella nostra mente ciò che
in quel momento è assente. Questo il linguaggio può farlo solo perché la nostra mente è
capace di astrazione dalla realtà ed è capace di astrazione rispetto ai singoli individui,
ovvero è capace di concetto. Astraggo dal reale ed astraggo anche da tutti gli individui per
poi formarmi un concetto. Il linguaggio come capacità tipicamente umana grazie
all’astrazione di vivifica qualcosa che non è presente tra noi.

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- Gestualità: Plesner per parlare di gestualità parte dalla mimica facciale. La mimica facciale
è impersonale ovvero chiunque faccia significa esattamente quello. Questa impersonalità per
Plesner viene meno quando noi incarniamo nel nostro sentire un gesto, che per quanto possa
essere riconoscibile negli altri, indica quel nostro unico particolare, stato emotivo, vissuto
interiore. Questo gesto è più personale della stessa mimica e utilizza quella stessa mimica in
modo più consapevole. Il gesto si appropria della mimica e lo fa suo. Plesner prende in
esame alcune particolari forme di vita umana arrivando sempre a concludere che è solo
l’umano che è proprio dell’umano e solo dell’umano esprimersi e manifestare sé stesso
attraverso queste esperienze legate anche al quotidiano. Parte dall’esperienza per arrivare
all’essenza, a chi è l’uomo, a come si identifica e come lo possiamo riconoscere.

- Riso e pianto: Il riso e il pianto sono due modalità diverse per rispondere agli eventi del
mondo, un po’ diverse dalla capacità espressiva, dal linguaggio e dalla gestualità. Noi entro
certi limiti per quanto riguarda la nostra capacità espressiva, il linguaggio e la gestualità
siamo padroni del messaggio che vogliamo veicolare, il corpo c’è sempre nella sua funzione
di strumento. In tutti questi casi quella relazione tra razionalità e azione è comunque
mantenuta. Il riso e il pianto sono fenomeni nel quale salta completamente questo passaggio
più o meno consapevole, tra l’interiore e l’esteriore o viceversa. Per Plesner il riso e il
pianto si tratta di situazioni limite dove il corpo si carica di una risposta perché noi in quanto
coscienza non sappiamo come rispondere, non abbiamo gli strumenti per farlo. Il nostro
corpo risponde al nostro corpo perché noi scopriamo qualcosa che non può essere detto,
spiegato e che non può essere concettualizzato o razionalizzato. Questo è ciò che accomuna
i fenomeni del riso e del pianto:
1. Situazioni Limite
2. Resa consapevole di noi al corpo
3. Abbandono al corpo dinanzi all’indicibile
4. Annullamento di quella distanza senza che questo ci faccia male, ci
distrugga, senza che il corpo prenda comando e agisca contro di noi.

Quali sono dunque gli elementi che distinguono il riso e il piano?

Per quanto riguarda il riso esso si accompagna sempre ad un certo distacco, risolve una situazione
attraverso la scappatoia del distacco, dell’impersonalità. È una reazione che accade perché la
situazione che genera il comico è vissuta con quella certa distanza, con quel distacco che
preannuncia uno scioglimento, che ci fa prefigurare un modo di uscire senza soffrirne. Questo
corrisponde al termine Ironia. Perché si ride dunque? Si ride perché c’è uno sfasamento dei
registri(linguistici, comportamentali, espressivi etc.) e di punti di vista che ci appaiono
inconciliabili. Quando una situazione non può essere gestita razionalmente, scoppiamo a ridere.
Se il riso è questo distacco e dunque il riso fa fare al corpo quello che noi non possiamo fare, il
pianto per Plesner è il massimo coinvolgimento è manifestazione di un interiorità così sofferente
che si trasforma immediatamente nelle lacrime. È un dolore vissuto dal quale non possiamo
prendere distanza è un dolore che ci abita e ci investe. È un dolore che ci appare come una cosa
irrisolvibile, perché è troppo doloroso. Se il ridere è il massimo distacco, il piangere è il massimo
coinvolgimento.
Abbandonarsi al piano oltre che essere inevitabile, in certi momenti della nostra vita è quel perdere
tempo che ci premette di non reagire subito, ma è anche quella capacità che consiste nell’abitare il
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dolore, nel non evitarlo, nel capire che in quel momento sta facendo parte della nostra vita e che non
possiamo fare a meno di provarlo.

IL RISO E IL PIANTO IN PLESNER


L’uomo si arrende come un entità che controlla il corpo, ma non abbandona il canto quanto persona,
non perde la testa e grazia a questo suo essere eccentrico, che è privo di un luogo, di una
localizzazione, può rassegnarsi e consegnarsi alla risposta del corpo sapendo esattamente che quella
resa non farà vittime ma sarà l’uomo a esercitare un dominio su di se anche quando non può
esercitarlo sul proprio corpo abbandonandosi consapevolmente a reazioni che dicono di una
difficoltà ma che in realtà non costituiscono nessuna minaccia per lui. Il riso e il pianto sono
risposte davanti a situazioni limite che però non sono minacciose.
L’alleanza che si genera tra noi e il corpo è questo delegare la risposta al corpo dove noi non
possiamo più intervenire, comandare al corpo una risposta nei termini delle azioni progettate.

RIEPILOGO ATTRAVERSO I TESTI DI PLESNER


LA POSIZIONALITA’ DELL’ESISTENZA VIVENTE: PIANTA, ANIMALE, UOMO

Il grado vegetale è forma aperta, dissolve sé stesso nel circuito funzionale della vita della specie, si
caratterizza per la sua fissità, e, anche nei casi in cui si osservano movimenti, essi si verificano nella
pianta, non procedono «dalla» pianta
Il grado animale è forma chiusa, centrale e frontale, ma non sa di esserlo. È unità in quanto
identificabile qui e ora: l’animale avverte e agisce; il proprio e l’estraneo gli sono dati come
chiaramente distinti in zone. La caratteristica di essere nel qui e ora all’animale non è data, non gli
è presente. Possiamo dire che sceglie, decide tra due opzioni, anche se non lo sa. Possiamo anche
dire che ha una posizione frontale, cioè è posto di fronte rispetto alle datità estranee. Si tratta
propriamente della situazione determinata dalla presenza di una coscienza, in cui il vivente agisce a
partire da un centro pulsionale e persiste avendo un centro di visione e di avvertimento
Il grado umano toglie la sua centricità e conservazione della centricità. L’umano resta connesso al
qui e ora e, al contempo, la sua posizionalità è in grado di distanziarsi da sé stessa, di spalancare un
abisso tra sé e le proprie esperienze vissute. Allora si trova al di qua e al di là dell’abisso, vincolata
al corpo, vincolata all’anima, e insieme in nessun posto, priva di luogo, al di fuori di ogni legame
con lo spazio e il tempo: perciò è essere umano.

LA POSIZIONE ECCENTRICA
Il riso e il pianto sono reazioni corporee emancipate dalla persona, eppure in nessuna altra forma di
manifestazione come in essi si rivela immediatamente la segreta composizione della natura umana
Nel riso e nel pianto, al contrario, benché la persona perda il proprio controllo, rimane persona,
poiché il corpo in certo modo si incarica in sua vece della risposta. In ciò si rivela la possibilità di
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una cooperazione tra la persona e il suo corpo, che normalmente resta nascosta perché non
sollecitata. I miei pensieri e i miei desideri, nascosti agli altri, appartengono a una profondità
aspaziale.
Questa situazione interiore, di me nel mio corpo, è intrecciata nel modo più ovvio con il mio essere
immediatamente inserito nello spazio delle cose Quanto a questo l’uomo è inferiore all’animale,
giacché l’animale non avverte la propria chiusura di fronte all’esistenza fisica, non si vive come
interiorità, come io, e di conseguenza, non deve superare alcuna frattura tra sé e sé, tra sé e la
propria esistenza fisica. Il suo essere corpo non si separa dal suo avere corpo.
Costretto a trovare compromessi sempre nuovi tra il corpo che egli è, in qualche modo, e la
corporeità da lui abitata e controllata, egli scopre il carattere mediato, il carattere strumentale della
propria esistenza fisica

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ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 12/11/21

IL GIOCO
Tutti coloro che si sono occupati del gioco in filosofia lo hanno fatto parlando di ciò che gioco non
è. (es. l’uomo).
La prima grande contrapposizione che noi incontriamo nella storia della filosofia è quella fra il
gioco, ovvero il momento giocoso e il lavoro ovvero il momento serio.
Il gioco è il momento improduttivo per eccellenza mentre il lavoro è il momento della produttività
per eccellenza.
La prima contrapposizione che riconoscono i filosofi è quella fra il gioco come momento non serio,
di svago e il lavoro come momento di impegno, di produttività e serietà.
Dovendo ricostruire una filosofia del gioco dobbiamo menzionare questi autori:
- Schiller
- Kant
- Huizinga

SCHILLER
Le facoltà che per Schiller costituiscono l’umano sono da un lato il sentire, dall’altro l’impulso alla
forma ovvero quell’impulso di mettere ordine. Tutti questi due impulsi che costituiscono insieme la
totalità dell’esperienza umana sono entrambi frantumati sotto il peso del lavoro, dove esso schiaccia
da un lato l’impulso creativo, l’iniziativa, l’originalità mentre dall’altro lato impone una forma
esteriore che non viene da noi ma dall’esterno.
Il gioco che è il contrario del lavoro, il gioco ha la capacità di riunificare ciò che il lavoro
frammenta e frantuma. L’impulso del gioco tiene insieme da un lato lo slancio creativo e dall’altro
il bisogno di configurare l’esistente dunque di dare forma. Il gioco è sempre una pratica regolata,
ma di una regolazione che viene da noi, siamo noi a scegliere di entrarci, siamo noi a normare
questa pratica di vita.
Il gioco, dunque, è quell’impulso che soccorre l’umano dinanzi alla frattura, dinanzi disintegrazione
dell’esperienza.
In un mondo che si stava affacciando alla prima rivoluzione industriale e che di lì a poco avrebbe
riconosciuto la serializzazione della produzione, Schiller rivendica la fondamentalità del gioco
come pratica che tiene insieme, il genio e l’ordine; la libertà e la regola.

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Il gioco dice della possibilità umana e del desiderio umano di realizzarsi, fiorire, nella propria
creatività, unicità. Il gioco, dunque, è l’espressione dell’umano che non è caotica ma è la forma
vivente della bellezza. La bellezza è un dono.
Il riferimento di Schiller non è tanto ai giochi dei bambini o a quelli di società ma è il riferimento al
gioco come pratica culturale che è essenzialmente improduttiva. La cultura è gioco in quanto
disinteressata, in quanto portatrice di bellezza, in quanto rappresentante della parte più elevata
dell’umano in quanto tale.
Il gioco è un modo di stare al mondo disinteressato, la fruizione dell’opera d’arte è essa stessa un
gioco perché è gratuita, libera.
L’antropologia filosofica, dunque, è interessata al gioco perché questo rappresenta un tratto
peculiare dell’umano che dice del desiderio di esprimersi fine a sé stesso, senza scopo, libero.
Il gioco assume una profondità e un tratto non banale che dice la volontà di esprimere sé stesso
nella creatività, che esprime la nostra forma vivente più elevata.

KANT
Kant non fa precisa menzione del gioco ma nell’opera “La critica del Giudizio”, Kant riflette sul
bello, notando come esso sia disinteressato, come la produzione artistica che ha a che fare con il
bello anch’essa sia disinteressata.
Sono due i tratti che Kant mette in evidenza:
- L’esperienza estetica
- L’esperienza Ludica: il gioco è libero dallo scopo; che non è finalizzato a niente.

HUIZINGA
Huizinga e il suo libro “Homo Ludens” ci porta a fare una ulteriore riflessione. Se fino ad ora
abbiamo visto che il gioco è qualcosa di disinteressato, libero dallo scopo.
Primo elemento in continuità con Schiller: il gioco e la cultura parlano la stessa lingua, si tratta di
dimensione elevate dell’espressività umana fine a sé stesse, improduttive, dunque dire gioco
significa dire cultura, cultura elevate che rappresenta la parte migliore dell’uomo. È attraverso il
gioco che nasce la cultura; è attraverso quello spazio che noi abbiamo di libertà dal vincolo del
bisogno, dalle urgenze materiali, che noi possiamo adoperarci per produrre qualcosa che non è
direttamente collegato alla nostra vita biologica e materiale.
I tratti che Huizinga sottolinea del gioco come pratica essenzialmente umana sono quei tratti che
possiamo riconoscere in tutta l’antropologia filosofica rispetto sempre agli autori che abbiamo
precedentemente incontrato dove l’uomo è colui che:
★ È capace di distanza
★ È capace di fare un passo indietro
★ Si serve di mediazioni culturali
★ Esprime sé stesso per il puro desiderio di esprimersi

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In questo senso possiamo dire che il gioco è irrazionale, perché non segue una legge legata
all’istinto, non segue neanche quella razionalità, quel calcolo che noi facciamo sempre mentre
viviamo. Irrazionalità del gioco sta proprio in questo in quel sottrarsi rispetto a quella ratio
dominante a quella che ci vuole obbligati alla legge della natura dell’istinto e a quella che ci vuole
obbligati allo scopo, ovvero tutto quello che facciamo deve essere utile a qualcosa invece il gioco
rompe questo schema, può essere anche inutile ciò che facciamo, può non farci guadagnare nulla,
può semplicemente farci stare bene e farci essere autenticamente umani.
Nel gioco quello che viene riabilitato è l’espressività dove l ’esprimersi che è un tutt’uno con la
funzione culturale con la cultura che si sgancia dunque dalla biologia. Non ci sono vantaggi, infatti,
il gioco è improduttivo e dunque non ci sono interessi materiali connessi a questa pratica.
Noi ci stiamo focalizzando sull’essenza del gioco, che poi ci siano giochi che effettivamente
rappresentano una fonte di reddito enorme per poche persone, questo è un effetto secondario mentre
l’essenza del gioco è un latra storia. Il filosofi direbbero il gioco in cui c’è tutto quell’interesse
economico non è più gioco.
Per Huizinga in totale continuità con Schiller e Kant il gioco è:
★ Improduttivo, non produce vantaggi
★ Collegato con la cultura
★ Serve per esprimere sé stessi

IL GIOCO SECONDO PLESNER


Plessner dedica al gioco alcune pagine del suo studio Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del
comportamento umano.
L’indagine di Plessner muove dalla domanda intorno ai motivi del riso nei contesti ludici: perché il
gioco fa ridere? Perché diverte?
La prima distinzione che fa Plesner per farci capire che cosa lo interessa è “non tratterò il gioco di
società o abilità” ma il gioco che lui interessa è il gioco di rapporto della relazione tra l’uomo e
l’ambiente.
Secondo Plesner i tratti fondamentali del gioco sono:
- L’immaginifico ovvero la finzione che è connessa all’immaginazione che crea
- La capacità di coinvolgimento, cioè è qualcosa di finto che ci invita anche a fare questo
esercizio di immaginazione che allo stesso tempo è capace di coinvolgere, di farci stare in
quella situazione che ci siamo creati ma che comunque ha le sue regole.
- Il gioco è nello stesso tempo una sfera di libertà e creatività (es. sono libero di creare mondi
che non esistono, sono libero di definirle e plasmarle a mio piacimento, etc.) ma dall’altra
parte il gioco è un vincolo. Una volta che siamo dentro al gioco quell’esperienza non è
un’esperienza di totale, compiuta e assoluta libertà, è un esperienza che ha i suoi vincoli
addirittura che induce determinate risposte. Le situazioni che si creano nel gioco non sono
totalmente controllate da noi, dove ogni giocatore svolge il suo ruolo e noi dobbiamo
rispondere alle situazioni che si creano nel gioco in questo senso il gioco vincola in primis
perché ci sono delle regole e in secondo luogo perché non siamo totalmente padroni della
situazione che abbiamo contribuito a creare.

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Nella partita di calcio, per quanto tu sappia quali sono le regole, incontri l’imprevisto e ti devi
riorganizzare essendo vincolato da quel gioco che tu stesso hai contribuito a creare. Se invece lo
guardiamo attraverso uno sguardo filosofico ci vengono in mente due cose:
1. La libertà umana è una libertà situata anche quando è creatrice di finzione; quindi, non è
libertà sciolta completamente dai vincoli.
2. Il vincolo non è limite negativo ma è piuttosto una condizione di possibilità del nostro
esistere; noi esistiamo a partire da questo limite; non possiamo pensare che questo limite
annulli e azzeri la nostra libertà anzi concorre a viverla al meglio.
Il gioco è l’emblema di una libertà vincolata che ci porta a dire che siamo e non siamo i padroni di
quella situazione. Siamo e non siamo nella realtà, possiamo entrare liberamente nel gioco e tuttavia
contemporaneamente siamo vincolati a quella stessa pratica, non solo noi, ma anche chi sta
giocando con noi; ci poniamo reciprocamente un vincolo. All’interno di questa prospettiva per
Plesner è piuttosto facile riconoscere quali sono i motivi che fanno scaturire la risata nei contesti
ludici. Abbiamo detto che ridere accade dinanzi a una moltiplicazione di prospettive, di punti vista,
davanti ad una sensazione di non venirne a capo che impone a chi la sta sperimentando una resa di
fronte alla non univocità delle situazioni. Se il gioco è questo essere e non essere padroni, se è
questo essere liberi o essere vincolati, le prospettive in gioco all’interno di queste, dunque, sono
pratiche duplici dalle quali è difficile venirne a capo. Questa pluralità ingestibile dal punto di vista
concettuale, fa sì che certi tipi di gioco possano essere ricondotti a quelle esperienze che suscitano il
riso.
Il riso diventa la risposta difronte a questa non univocità dei ruoli delle prospettive, dello
sperimentarsi, non completamente liberi, non completamente vincolati, dentro un mondo di
finzione, dentro un mondo che comunque ci preme e sentiamo come reale.

IL GIOCO SECONDO ROGER CAILLOIS


In questa unità spazio-temporale che è il gioco abbandoniamo il mondo della realtà con le sue leggi
strane talvolta incomprensibili e ci cimentiamo nella costruzione delle leggi che sono arbitrarie,
convenzionali, che sono però precise. Sviluppiamo dunque una modalità di stare in relazione, più
ordinata che esiste fuori dal gioco, con delle regole precise, rassicuranti e soprattutto condivise da
tutti quelli che decidono di prendere parte al gioco.
Per entrare nel gioco noi dobbiamo dunque accettare quelle regole e che una volta accettate
diventano per noi vincolanti. Nonostante questo vincolo dobbiamo ancora ribadire che si gioca solo
se si vuole, quando si vuole, per il tempo che si vuole, In questo senso il gioco è un attività libera.
Le regole che noi istituiamo per convenzione, regole arbitrarie, poche ma chiare, che dobbiamo
sottoscrivere, che poi una volta entrati nel gioco ci vincolano eppure il gioco resta sempre un
contesto di libertà perché possiamo decidere quando entrarci, quando uscirne, fino a che punto
prenderlo sul serio.
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Le caratteristiche del gioco secondo Caillois sono sei. Il gioco dunque è:
1. Un attività libera
2. Separata: che è una sfera
3. Incerta: perché è sempre imprevedibile, aperta agli imprevisti
4. Improduttiva: Non funzionale, gratuita, inutile
5. Regolata: attraverso le regole
6. Fittizia : che non è vera

LA CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI SECONDO CAILLOIS


La classificazione dei giochi secondo Caillois sono quattro:

1. AGON: il tipo di gioco che possiamo ricondurre all’Agon è la competizione. Tutti questi
giochi di competizione richiedono dedizione e allenamento. L’elemento più interessante di
questa visione, è che se deve esserci un vincitore ci deve essere anche uno sconfitto. Il mio
successo implica il tuo insuccesso. Ma vale anche l’altra dimensione il tuo insuccesso è il
mio successo. L’uomo è quello che pur di vincere dissemina il terreno di ostacoli affinché
l’altro perda. L’Agon per Caillois è interessante perché in realtà crea una situazione
artificiale in cui noi siamo tutti uguali in partenza. A differenza di quello che accade nella
realtà in cui si compete in situazioni di disparità in partenza, nel gioco chiamato Agon quello
che accade e che noi certamente vogliamo vincere, ma creiamo artificialmente delle
condizioni che sono di assoluta parità e uguaglianza.

2. ALEA: è la parola latina che indica il gioco dei dadi. Sono tutti quei giochi dove L’Alea in
questo caso riguarda tutti i giochi che si fondano, contrariamente all’Agon, su una decisione
che non dipende dal giocatore e sulla quale egli non può minimamente far presa; giochi nei
quali si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino. (es. tutti i giochi
d’azzardo). Il punto in comune tra questi due elementi di gioco (Alea + Agon) è quello che
di base siamo tutti uguali, sia se dobbiamo competere, sia se siamo di fronte al destino.
Questo significa che in entrambi i modi di giocare alteriamo la fisionomia della realtà.

3. MIMICRY: Attivazione, immaginazione e interpretazione sono i punti cardine di questo


gioco. Il gioco mimetico comporta, di credere in un illusione di una fantasia, per
convenzione (non ci si crede fino in fondo) e addirittura possiamo anche decidere di creare il
personaggio che vogliamo essere. Possiamo dunque creare un personaggio a cui attenerci
che non esiste nella realtà e dunque a comportarci di conseguenza.

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4. ILINX: La ricerca della vertigine serve per prenderci una pausa rispetto alla realtà.
Favoriscono lo smarrimento ma sempre consapevole e guidato.

Per ciascuna di queste quattro forme contempla dentro di sé una gradazione dal meno strutturato
(Paidia) al più strutturato (Ludus)
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA – 19/11/21
EUGENE FINK – OASI DEL GIOCO
Fink ha due grandi maestri alle sue spalle:
1. Husserl
2. Heidegger
“Tutti i fenomeni essenziali e fondamentali dell’esistenza umana sono sfaccettati e risplendono di
un’ambigua enigmaticità […]. L’uomo si rapporta alla sua propria esistenza nella
comprensione.”
Possiamo dire che c’è un tratto dentro il quale tratto tutti ci possiamo riconoscere, ovvero quello
della comprensione. Noi esistiamo chiedendo a noi stessi e agli altri ragione di quello che facciamo.
Questo significa anche che noi coincidiamo con noi stessi, non basta guardarci allo specchio e
ritagliare la nostra sagoma per capire chi siamo, esiste una sporgenza tra ciò che sentiamo e ciò che
pensiamo, tra ciò sperimentiamo e ciò che desideriamo, che è esattamente quella frattura con noi
stessi, che anche gli antropologi filosofici hanno fatto menzione più volte.
Questa frattura è quello che Fink indica con la parola COMPRENZIONE, l’essere umano dunque
esiste comprendendosi, è la nostra avventura nel mondo e non ne possiamo fare a meno perché fa
parte del nostro modo di stare al mondo.
Complessità, Enigmaticità, Opacità sono per Fink i tratti dell’esperienza umana, umanità che esiste
destinata al tentativo di comprendersi.
“Il gioco implica una presa di distanza dal flusso unitario della vita”
Al di là di tutte le constanti antropologiche il gioco è quella pratica che permette all’umano di
interrompere la corsa verso il futuro, di bloccare il flusso costante della vita. Questo implica una
presa di distanza rispetto alla realtà. Sono capace, dunque, di fare il passo indietro, di entrare dentro
a un luogo utopico e tutto questo grazie a quella pratica fondamentale che si chiama gioco.
Fink nel suo libro “Oasi del Gioco” divide esso in tre parti:
1. Il fenomeno del gioco: Il fenomeno del gioco dunque il che cos’è, che cosa
contraddistingue il gioco in quanto tale.
2. La struttura del gioco: Come funziona il gioco, quale sono le sue parti, che cosa
contraddistingue il gioco in quanto tale e come si organizza all’interno il gioco.
3. Il rapporto tra gioco ed essere: che cosa il gioco dice dell’essere (e non solo dell’essere
umano)
Prima di definire queste tre parti in maniera approfondita dobbiamo dire che Fink nel suo libro fa
una premessa e afferma che oggi (parliamo del 1957) le occasioni e i luoghi del gioco inteso come
svago si siano moltiplicate. Ma non solo sostiene Fink che intorno a essi si sono moltiplicati gli
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studi sul gioco. Eppure, sostiene Fink nessuno degli studi fatti è stato costruito per domandarsi e
rispondersi che cosa sia effettivamente il gioco in quanto tale.
La parola Ontologia in filosofia è la scienza dell’essere in quanto tale. Se io mi chiedo quale sia
l’ontologia contenuta nel gioco mi sto chiedendo che tipo di realtà è il gioco. Il gioco, dunque, è una
realtà che sta dentro un'altra dimensione della realtà.
La questione che preme indagare a Fink è capire il gioco dal punto di vista filosofico rispetto agli
studi che sono stati fatti sul tema.
Come ai primi del ‘900 le immagini dell’uomo si erano moltiplicate e si erano moltiplicate le
discipline che studiavano l’uomo da tanti punti di vista, gli antropologi - filosofi avevano l’esigenza
di unificare e di comprendere l’essenza dell’uomo.
Alla stessa maniera di fronte al moltiplicarsi degli studi sul gioco, Fink avverte l’esigenza di
cogliere l’essenza filosofica del gioco tentando una unificazione degli studi che erano stati fino fatti
fino a quel tempo.
Il filosofo è destinato a trovare il concetto, il che cos’è a partire da una molteplicità.

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IL FENOMENO DEL GIOCO
Anche Fink ribadisce che il gioco è un attività peculiare per l’umano. Esso non è solo qualcosa
peculiare dell’uomo ma è anche ciò che caratterizza la nostra esperienza umana. Noi pensiamo al
gioco per la sua capacità di farci stare tra mondi, interpretazioni, sensi differenti.
I fenomeni umani sono sfaccettati, non sono univoci, e questo dipende dal fatto che l’uomo è allo
stesso tempo libero e vincolato, abbandonato e protetto, non è tutto naturale, non sta dentro
l’economia, le leggi della natura ma le eccede, vive nella comprensione cioè riflette, vive chiedendo
conto, senso. L’uomo vive questa frattura tra dimensioni che è costretto ad abitare e anche a
sintetizzare. Non può essere pienamente libero neanche pienamente vincolato
La nostra prospettiva si estende ulteriormente perché di fatto possiamo riconosce nel fenomeno del
gioco, tutti quei tratti che noi abbiamo sottolineato distintivi, peculiari dell’umano in quanto tale.
Per Fink il fenomeno del gioco ha a che fare con il modo in cui l’uomo vive il tempo e sottolinea
che esso ci sottrae dal tempo, si prende una pausa e che si illude di governarlo.
Il fenomeno del gioco dunque il che cos’è, che cosa contraddistingue il gioco in quanto tale.
Fink riguardo al fenomeno del gioco, in primo luogo, osserva che noi viviamo nel gioco. Questa
affermazione sta a significare che noi non solo lo vediamo come un evento esterno quando
vediamo gli altri giocare, ma ben più profondamente siamo noi i soggetti di quel gioco, siamo noi i
protagonisti, ci viviamo dentro. Si tratta dunque di capire, analizzare un fenomeno nel quale noi ci
troviamo ad esistere. Noi siamo dunque quei soggetti che vivendo all’interno del gioco si
interrogano rispetto a quell’esperienza in una maniera auto – implicativa ovvero noi siamo allo
stesso tempo quelli che si domandano e coloro rispetto ai quali ci si domanda qualcosa, siamo i
protagonisti del gioco e siamo la questione stessa del gioco.
Come per tutti i fenomeni umani noi siamo contemporaneamente i soggetti e gli oggetti
dell’indagine perché non esiste totale coincidenza ma al contrario esiste una discrepanza che ci
permette di comprenderci.
Per Fink la differenza tra il gioco umano e degli altri esseri viventi. Il gioco degli animali (gli altri
esseri viventi) accade semplicemente e generalmente come un processo vegetativo. Questo
significa che dobbiamo interpretare questo passaggio nel senso del famoso istinto e della famosa
immediatezza che contraddistingue l’animale.
L’animale, dunque, gioca per istinto. Gioca ma non ha scelto di giocare, gioca perché qualcuno gli
ha detto che in quel momento deve giocare. Di certo l’animale non ti interroga sul senso del gioco,
gioca e basta, gioca nella sua spontaneità, immediatezza. Al contrario Fink definisce che per gli
umani questo è un accadere illuminato dal senso, una pratica vissuta.

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Un accadere illuminato da senso ovvero un evento che è evidentemente anche azione perché è
dotato di senso per noi, dentro cui entriamo perché ne comprendiamo il senso, perché siamo noi a
dargli il significato al gioco. L’animale invece se lo trova già il significato di quel gioco.
Il gioco poi è una pratica vissuta ovvero la messa in pratica delle azioni che prima sono state
pensate, che prima erano nella nostra mente, coscienza.
Se da un lato l’animale semplicemente gioca, senza chiedersi il senso del gioco, l’umano invece è
quella persona che entra nel gioco sapendo di dovergli dare un senso sapendo di costruire un
esperienza pieno di significato.
A differenza di quanto accade dal mondo animale, l’uomo vivrà sempre il gioco con la lucidità della
razionalità, come un modo di stare dentro le relazioni a cui siamo chiamati a rispondere in modo
sensato. Dentro al gioco noi non perdiamo completamente la testa.
Tutto questo discorso serve per arrivare all’analisi di ciò che il gioco non è. Fink in questo testo
muove una critica, la quale secondo lui il gioco tende ad essere considerato come un fenomeno del
tutto marginale, secondario, inessenziale. Il suo carattere sarebbe proprio di una interruzione, di una
pausa, che però è necessario nel mondo completamente organizzato nel mondo in cui tutti siamo
immersi.
Qui quello che la cultura dominante sottolinea è proprio che il gioco sia del tutto complementare,
compensativo rispetto alle fatiche quotidiane. Noi siamo dunque quegli esseri che per la cultura
dominante si devono dividere tra la fatica del lavorare e la pausa programmata da quella fatica che
ci permette di rigenerarci per poi farci ritornare a lavorare meglio e con più produttività.
Il gioco, dunque, per Fink è stato relegato ad una posizione marginale, secondaria che non significa
nulla di per sé, ma significa solo il rapporto al momento alla serietà, della vita e del lavoro. È come
quando ti dicono che ti devi ricaricare per essere efficiente. Per Fink il gioco non è solo questo e
dunque occorre ripensare la sua complessità antropologica.
A che cosa serve il gioco come svago in questi contesti?
Fink a questo proposito scrive che la funzione del gioco consiste nello “sciogliere un crampo
nell’anima in cui l’uomo odierno è bloccato con la sua organizzazione totalizzante della vita”
Il gioco è questa via di fuga rispetto all’organizzazione totalizzante della vita che è pure
perfettamente organizzata e orchestrata. Il gioco fornisce dunque illusione della libertà, del riposo,
del fantasticare, eppure si rivela del tutto complementare e funzionale per il sistema della vita
completamente organizzato.
Il problema di questa lettura contemporanea a Fink che l’autore nota consiste nel vedere nel gioco
come qualcosa di complementare ma comunque fondamentale rispetto al mondo del lavoro per Fink
impedisce di cogliere l’essenza profonda del gioco stesso proprio perché il gioco:
★ Viene relegato ad una posizione marginale
★ Viene vissuto come una valvola di sfogo volta a compensare le fatiche del lavoro perché
quella è la vita vera, perché la vita è quella seria e non quella giocosa.
★ In questo sistema in cui noi siamo autorizzati quando ci viene imposto dall’esterno, il
momento della pausa del gioco sono totalmente funzionali alla organizzazione totalizzante
delle nostre vite.

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Leggere il gioco come opposto rispetto alla serietà del lavoro conduce ad una mancata
comprensione rispetto a questo fenomeno generando dunque una totale incomprensione rispetto a
questo fenomeno.

Se il gioco non è tutto quello che abbiamo detto in precedenza possiamo dunque affermare che il
fenomeno non è affatto marginale, non è un fenomeno riconducibile solo all’infanzia, non è
occasionale ovvero non consiste in quella piccola pausa che ci prendiamo rispetto al mondo della
serietà e tantomeno sarà contingente che è il contrario esatto di essenziale dove esso dice della
nostra essenza.
Al contrario di chi lo ritiene contingente per Fink il gioco è essenziale e fondamentale ovvero ci
dice qualcosa della nostra essenza, ci dice come siamo e come ci rapportiamo al mondo e non
deriva da nessuna contrapposizione con il mondo della serietà, non è un fenomeno derivato ma è un
fenomeno originario.
Quali sono per Fink i fenomeni fondamentali dell’esistenza umana tra i quali rientra anche il gioco?
Fink, dunque, stila una classifica dove elenca questi fenomeni senza dare troppe spiegazioni.
Essi sono:
★ La morte: dire che la morte è un fondamentale dell’umano in quanto tale non significa solo
dire che si muore ma significa anche che esiste la consapevolezza della morte, dove essa
segnerà noi e le persone che vogliamo bene. Non è che la morte sia una esperienza
imputabile solo all’umano, piuttosto la morte come problema è tipicamente umana. Che la
morte accada e che noi ci interroghiamo su di essa riguarda esclusivamente l’umano.

★ Il lavoro: L’uomo esiste ed abita l’ambiente trasformandolo e manipolandolo, questo


significa lavoro. Il lavoro significa trasformazione dell’ambiente nel mondo. (Ghelen dice
questa cosa) Dire che l’uomo che è per natura colui che lavora significa che l’uomo è
quell’essere che esiste manipolando e trasformando l’ambiente circostante.

★ Il dominio: Che vuol dire che l’uomo esiste nella modalità del dominio? L’uomo non è
soltanto colui che ama ma è anche quello che confligge. Il nostro essere sociali non implica
solamente le esperienze di relazione pacificate, piuttosto indica anche le esperienze dove
c’è la sopraffazione, la dominazione, il potere utilizzato per scopi che esulano
dall’organizzazione pacifica della società. L’uomo esiste anche nella modalità della lotta,
nella modalità di essere riconosciuti come superiori (es. i giochi competitivi di Caillois).
L’idea quindi che l’uomo sia anche non solo ma anche un essere che sta in relazione
tentando di sopraffare l’altro, entrando con l’altro in competizione è per Fink anche questo
un fondamentale antropologico.

★ L’amore: L’amore è un esempio di relazione felice all’insegna della cooperazione. È come


se non si decidesse tra la conflittualità e la pacificità dei rapporti umani. Entrambe le
modalità fanno parte del nostro esistere.

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★ Il gioco: Anche il gioco è una modalità essenziale dell’esistenza umana. Tutti coloro che
Fink critica perché leggono il gioco come subordinato al lavoro qui sono smentiti
clamorosamente perché il gioco non è subordinato al lavoro ma è dello stesso peso come
fenomeno esistenziale del lavoro ed è del tutto indipendente da esso. Non si deve dunque
comprendere come qualcosa di interno al lavoro ma merita una trattazione a sé.

Fink definisce questi fenomeni ugualmente importanti e che sono tipicamente umani.

L’uomo è al tempo stesso determinato ed eccede sé stesso, determinato perché se pensiamo alla
morte sappiamo che non vivremo in eterno; eppure, siamo anche eccedenti perché ne siamo
consapevoli, ce ne rendiamo conto e la morte per noi rappresenta un problema o meglio un mistero.
Oltre a questo, noi semplicemente non ci facciamo determinare esclusivamente da ciò che accade
intorno a noi, ma siamo sempre capaci di problematizzarlo. Viviamo e riflettiamo insieme.

Mettere l’accento sull’azione spontanea, di un fare attivo, di un esistenza che si sperimenta da sé


stessa in quanto tale ci fa venire in mente ad un esperienza che riesce ad unificare il nostro esistere
naturale, il nostro essere corpi, con la libertà tipica di una azione che noi creiamo spontaneamente.
Nel gioco noi siamo creatori e liberi di fantasticare di una serie di attività che hanno il pregio di
lasciarci andare, di farci sperimentare una naturalità non opprimente e anche non
deterministicamente vincolata. Siamo insieme liberi di nuovo e in qualche modo naturalmente
abitanti di quella pratica, di quell’esperienza. L’idea dell’impulso vitale fa venire in mente una
naturalità di tipo animale. Nel caso del gioco invece sperimentiamo una libertà come
creatività che coinvolge tutto il nostro essere, persino il nostro essere corpi, senza che però quella
dimensione sia vissuta come la vivono gli altri viventi cioè in modo deterministico. È
l’abbandonarsi consapevole ad una esperienza di creatività che ci coinvolge interamente e che però
non significa rassegnazione e resa alla nostra naturalità.
Il gioco è libertà creativa, ovvero un esperienza antropologica che ci unisce con ciò che la natura ha
diviso. (es. spaccatura mente – corpo ; essere o avere un corpo).
Nel gioco esiste la possibilità di vivere spontaneità dell’agire all’insegna della creatività e della
libertà senza dover necessariamente dover rinnegare la nostra naturalità, ma vivendola con la
consapevolezza di chi è capace di distanza, di chi si riconosce capace di immaginazione creativa.
Gioco come libero fare, libero creare, in cui ci riavviciniamo al nostro essere naturali senza che però
questo si traduca nel determinismo tipico del regno animale o degli altri viventi.
La prima parola a cui dobbiamo associare il termine gioco per Fink è LIBERA CREATIVITA’
Ogni altra attività umana per Fink è finalizzata al raggiungimento di altro ed infine la felicità mentre
il gioco al contrario non è finalizzato ad altro oltre sé stesso, ha il suo fine in sé. Tutte le attività
umane sono orientate ed inquadrate in un sistema di fini o scopi che non hanno solo tanto senso per
sé stessi ma piuttosto perché conducono ad altro (es. vado a scuola perché poi posso andare
all’università; vado all’università per avere un lavoro, etc.) fino a quando la nostra idea è di
raggiungere una forma di vita fissa e non troppo mutevole che si chiama FELICITA’

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Tutto questo ci porta a dire che noi viviamo come se fossimo legati ad un futuro, di cui ci sentiamo
in parte i responsabili e gli artefici, è facendo cose che noi raggiungiamo dei traguardi. Il gioco
interrompe questo flusso, dunque noi non giochiamo in vista di altro, giochiamo per giocare.
Interrompiamo la catena dei fini che si subordinano nella nostra vita al fine ultimo che è la felicità.
Nel gioco quel tipo di schiavitù rispetto al futuro, si interrompe, è da questo che noi prendiamo una
pausa. È l’interruzione di un tempo che altrimenti ci condurrebbe a vivere ogni pratica come
subordinata a quella successiva. La pratica del gioco acquista senso nel gioco stesso e non sta fuori
dal gioco.
Non è condannabile totalmente che l’uomo vive in vista di altro perché vivere in vista di altro serve
a dare senso alla nostra esistenza mettendo in cantiere, progettando.
Mettere in cantiere, progettare significa dunque individuare uno scopo e compiere tutte le azioni per
raggiungere quello scopo stesso, il quale a sua volta sarà il punto di partenza per ulteriori passi
avanti.
Fink riconosce in questo atteggiamento il collegamento con il nostro voler dare senso dove nel
gioco questo dare senso non accade, perché esso:
★ È una pratica che ha senso in sé stessa
★ Che non guarda oltre
★ Che non si fa in vista di altro ma si fa in vista di sé

Quello che interrompe il gioco non è il lavoro ma è molto di più, è il flusso del divenire e delle
aspettative che si concatenano nella nostra vita ai fini del raggiungimento di uno scopo finale. Il
gioco è capace di interrompe questa dinamica proprio perché la felicità è impegnativa, non è troppo
facile raggiungerla, e soprattutto ci lega il nostro tentativo di essere in tutti modi felici, il
raggiungimento di questo scopo finale è qualcosa che ci impegna per tutta una vita, a cui
sacrifichiamo il momento, addirittura ci mettiamo tanto tempo solo a capire che cosa significa per
noi cosa significhi essere felici, a interpretare cosa possa essere per noi la felicità.
A differenza di tutte le altre esperienze il gioco dice Fink non ci fa vivere proiettati in avanti, ci cala
nel presente, ci fa stare nel momento e non vincola il proprio senso a un senso ulteriore, il senso del
gioco è lì non è da un'altra parte, non sta fuori dal gioco, il suo senso dunque è autonomo.
Cominciamo a capire che oltre all’idea di una creatività e una libertà insite nel gioco che ci fanno
ricongiungere con il nostro essere naturali, esiste pure nel gioco un tratto fondamentale che è quello
di farci stare nel momento presente abbandonando la schiavitù rispetto all’idea del progetto, all’idea
del futuro, all’idea della felicità come fine ultimo. Il nostro scopo mentre giochiamo si risolve tutto
nella situazione e non è vincolato ad azioni o attività future.
Detto che il gioco è qualcosa di libero, spontaneo, creativo dobbiamo riconoscere anche l’altro
versante ovvero che il gioco è capace di rapirci ovvero noi dobbiamo scegliere di crederci, e quando
abbiamo scelto di crederci possiamo abbandonarci alle sue regole, pratiche. Dire che ci
abbandoniamo alle sue regole già ci fa capire che il gioco è una pratica regolata, che ha le sue
norme da rispettare.
Questa distanza che noi mettiamo nel gioco è una distanza che sta anche nel nostro sguardo.
Quando entriamo nel gioco, quando usciamo dalla realtà per entrare in quella del gioco, vediamo il
flusso dell’esistenza scorrere come se fosse qualcosa di estraneo rispetto a noi, gli altri vivono, gli
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scopi continuano ad essere organizzativamente architettati ma noi stiamo da un'altra parte, ce ne
chiamiamo fuori, nei limiti del possibile.
Allora questo estraniarsi rispetto al flusso unitario della vita, è esattamente quel mettere a distanza
tutto quello che della vita ci fa male o ci fa bene.
Guardiamo ai fenomeni fondamentali della vita da un'altra prospettiva, li guardiamo dunque da
dentro ad una bolla che sta fuori e dentro al mondo.
Allora è grazie al gioco che noi mettiamo distanza, è grazie a questo proiettarci dentro mondi
immaginari che tutto il resto dell’esistere ci passa davanti e noi lo possiamo osservare. Allora forse
davvero tra vita e gioco c’è un legame molto più che fenomenico, accidentale, perché è esattamente
questa capacità di mettere a distanza che è tipica dell’uomo e che si ritrova pure nel gioco.
Il fenomeno del gioco si riconduce alla capacità umana di vivere un esperienza, una pratica
finalizzata a sé stesso e non ad altro e quindi interrompe la catena dei fili della nostra coscienza
anticipatrice.
Il gioco va esaminato sulla base della sua struttura, dunque una volta che abbiamo colto la sua
essenza, vediamo come si sviluppa, come si struttura, quali sono gli elementi portanti di questa
pratica.
Si può intanto dire che:
1. Il gioco è orientato alla piacevolezza in tutte le sue sfumature fino ad arrivare alla gioia,
trova l’essenza più profonda, in fondo noi giochiamo per il piacere di giocare. Il piacere che
noi troviamo rispetto al gioco è un piacere doppio cioè è un piacere nel gioco e per il gioco
finalizzato all’entrata del gioco stesso.

2. Il gioco secondo Fink è sensato, non si tratta di un esperienza di uscita dal senso, si tratta
piuttosto di un esperienza che ha un senso che sta dentro il gioco, e accanto a questo senso
esiste anche un senso esterno che è quello di chi vede giocare e decide di unirsi a quel gioco.
Allora il gioco è sensato sia per chi ci sta dentro sia per chi lo guarda da fuori ed è
intenzionato a parteciparvi e quindi non è mai un esperienza priva di senso.

3. Il gioco è un esperienza sociale e comunitaria, è una forma intima di comunità. Nel gioco ci
possiamo prendere in giro ed essa non è offensiva, proprio perché in gioco non c’è nulla.

4. Il gioco presuppone regole e vincoli, che però non sono vissute in modo negativo, ma
invitiamo proprio al rispetto delle regole mentre stiamo giocando e siamo contrariati a chi
non rispetta le regole. Nel mondo del gioco la regola e il vincolo non sono concepiti in modo
negativo, semplicemente perché noi siamo disposti a trascorrere un tempo piacevole. Nel
gioco, dunque, si ha la possibilità dio negoziare le regole e si ha una sottoscrizione molto più
esplicita di quanto accade con le regole della nostra vita sociale, politica etc. Le regole del
gioco sono qualcosa che noi sentiamo molto più presente rispetto alle altre e questo ci
permette anche di negarne la validità in modo diretto. Questo elemento ci fa sospettare che
noi siamo più predisposti a seguire tutte quelle regole che abbiamo contribuito a creare noi
in prima persona. Le regole esistono nel gioco sono parte integrante della sua struttura.

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5. Il gioco implica il giocattolo, significa che giocare implica sempre anche un rapporto con gli
oggetti. Attraverso il gioco entriamo dentro un altro ordine simbolico. (es. le pentoline per
fare i pattini)
Tutti questi aspetti ci fanno arrivare a dire che il gioco consiste nella produzione consapevole di un
mondo immaginario, concreto, tangibile con i suoi significati e con la sua rete di simboli.
Dopo questa affermazione abbiamo dunque la prova che il gioco è un fenomeno ambiguo,
enigmatico, dunque è al limite tra la realtà e la finzione, e questa finzione dunque è anche
profondamente reale.
Guai a rompere questo incantesimo perché si uscirebbe dal gioco ma guai anche a prenderlo troppo
sul serio perché si rischierebbe di confonderlo con la vita vera. Bisogna dunque stare in questa
discrepanza, in questo limbo.
Questa ambivalenza del gioco, si capisce benissimo quando ragioniamo intorno allo spazio e tempo
del gioco.
Non possiamo dire che sia totalmente finto, perché quella finzione si concretizza, è visibile, (es. se
vedo bambini che giocano agli indiani non posso dire che non esistono) eppure modifica le relazioni
di coloro che sono coinvolti.

In questo modo chi deve osservare, riesce a cogliere tante cose, che stando ciascuno nei propri
panni non riuscirebbe a cogliere. Interpretare dei ruoli non consoni a noi stessi, ci potrebbe far
scoprire lati di noi stessi che non conoscevamo. Questo perché lo spazio-tempo che si crea
all’interno del gioco è uno spazio di libertà, dove sono io a vincolarmi e a mettermi alla prova
rispetto a quel vincolo, a sperimentarmi.
Chi sono io nel gioco delle parti che mi è stato affidato in quello che voglio e in quello non voglio?
Qual’ è la mia modalità di stare in relazione con l’altro se esco dal ruolo canonico che mi è stato
assegnato?
Che rapporto ho con gli oggetti se ne posso modificare l’uso, se ne posso modificare il significato?
Questa ambiguità (che non si deve risolvere) fra il mondo della finzione e il mondo reale è tipica del
gioco, se abitarla è tipico dell’umano.
Possiamo dire che il mondo creato dal gioco non è solo soggettivo, ovvero non è solo affare nostro
e basta, proprio perché nel nostro gioco sono coinvolte altre persone, le quali altre persone insieme
a noi decidono il significato delle relazione, dei gesti, delle cose. Allo stesso tempo però il mondo
creato dal gioco è anche oggettivo perché esiste veramente fuori di noi, lo possiamo vedere. (es.
possiamo vedere bambini che si rincorrono, persone che danno calci o manate a delle palle, etc.)
insomma c’è qualcosa che accade e che è sicuramente più di quello che si può vedere, ma che parte
dunque da ciò che si può vedere ed insieme soggettivo.
L’immaginario che viene chiamato in causa dal gioco si può ricondurre alla libertà e alla creatività,
eppure il gioco non è soltanto libertà e creatività.
Si chiede Fink, egli ha scritto che il gioco è una manifestazione della libertà e della creatività
umana, ma siamo sicuri che sia tutto qui oppure c’è qualcos’altro? A questo proposito possiamo
forse ipotizzare che da un lato il gioco rientra dentro all’idea della libertà e della creatività umana,

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ma esistono forme di gioco che sono altamente più coinvolgenti e che riflettono anche la nostra
propensione a lasciarci trascinare al flusso dell’esistere senza scopo. Qui scompare anche la
possibilità di identificare il se in quanto tale.
Se il gioco sta nel mezzo, come lo classifichiamo il gioco come essere o apparire, come reale o
finto?
Per i filosofi il problema del gioco diventa un problema ontologico, quale realtà rappresenta?, quale
realtà mette in atto? (es. qual è la consistenza ontologica del personaggio odisseo?)
Il rapporto che c’è tra gioco ed essere secondo Fink apre due indagini:
1. Il gioco esiste, che vuol dire come esiste, qual è il suo rapporto con lo spazio e con il
tempo

2. Se possiamo capire qual è il ruolo di tutto l’essere a partire dal gioco. Questo significa
chiedersi se il gioco può essere pensato e inteso metafisicamente come il senso del
mondo, cioè il criterio del mondo è proprio il gioco. Fink ci sta dunque dicendo che
quando studiamo il rapporto tra il gioco e l’essere non dobbiamo chiederci che tipo di
ente è il gioco, ma dobbiamo pure chiedere se il gioco possa essere il senso del mondo
cioè se tutto ciò che esiste possa essere compreso come gioco. Questa capacità di creare
qualcosa che non esiste, di fantasticare, di spendere tempo improduttivo e soprattutto di
non cercare un fine al di là di sé stesso. Dire che il gioco è il senso del mondo
significherebbe dire che il senso ultimo il mondo non ce l’ha. Il senso del mondo sarebbe
quello che il gioco ci dice, del tutto tangibile.

Se noi interpretiamo il mondo come un gioco stiamo dicendo che il mondo non ha un senso che va
al di là del gioco perché il gioco ha il senso in sé stesso. Portare dunque fino alla fine il rapporto tra
gioco e l’essere dice Fink significherebbe ipotizzare che il mondo può essere inteso come un gioco
e come tale non rinviare a uno scopo finale.
Fink in questo ultimo passaggio si esercita con il pensiero, libero da pregiudizi.

IL SIGNIFICATO DEL GIOCO COME MONDO


Questo scritto è intitolato “Il significato del gioco come mondo”, questo discorso tenuto per via
radiofonica consiste in una critica ad una idea di gioco come momento di svago rispetto alla serietà
del lavoro e della vita. In questo scritto Fink diventa più esplicito, dove afferma che questa
concezione di gioco è esasperata, portata all’estremo da una industria globale dell’intrattenimento.
Si è trovato il modo di commercializzare anche uno spazio che noi ingenuamente pensiamo come
uno spazio di libera e creativa espressione di sé. Dunque, anche lo svago, il gioco messo in questi
termini ha tutti i caratteri di uno spazio completamente organizzato da altri.
In questo testo Fink scrive che l’intrattenimento programmato è un prodotto del mondo industriale.
La critica che muove Fink prima di analizzare che cosa sia il gioco è quella dove:
- Il gioco comunemente è inteso come contrapposto alla serietà del lavoro, non ha vita propria
ma è subordinato al lavoro
- È visto come complementare ad esso

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- Il momento dello svago programmato è organizzato e gestito dalle agenzie
dell’intrattenimento.
Questa critica che Fink fa può essere anche messa in un altro modo ovvero il gioco da bene
relazionale è diventato un bene di consumo.
Una volta effettuato questa premessa bisogna analizzare lo statuto del gioco. Ad una prima lettura
dice Fink, giocare e pensare sembrano escludersi a vicenda; eppure, Fink sostiene che il giocare e il
pensare non sono poi così lontani né tantomeno contrapposti. Per Fink il giocare è un altro modo di
riflettere, non necessariamente concettuale ma allo stesso modo, capace di dirci qualcosa di
fondamentale rispetto all’umano.
Fink sostiene dunque che il gioco è capace di illuminare quel nostro tratto tipico di esseri capaci di
vivere ed insieme vedersi vivere. Anche il gioco, dunque, è una forma di comprensione di sé
attraverso la quale noi umani ci interpretiamo come capaci insieme di vita, riflessione,
immediatezza, mediazione, realtà e finzione. Se tutto questo è vero il gioco allora anche se non nei
termini di una razionalità calcolante, può essere avvicinato e accostato senza troppa difficolta al
pensiero e alla filosofia. Anche esso è capace di distanza, di creazione di mondi, di significazione. Il
gioco è quella sfera dove noi costruiamo, rintracciamo il senso, capendo che esso deve molto alle
nostre relazioni.
Tutti questi caratteri avvicinano il gioco all’esperienza filosofica, nonostante molti autori l’abbiano
allontanato dalla riflessione filosofica perché diverso dall’accezione filosofica stessa.
Il passaggio successivo consiste nel riconoscimento da parte di Fink riguarda l’uomo immerso nelle
relazioni. Il mondo vivente è un mondo fatto di interconnessioni.
Ciò che caratterizza l’umano, non è tanto la relazione in sé, ma piuttosto il fatto che noi ci
comprendiamo come esseri in relazione, progettiamo i nostri mondi, le nostre istituzioni, le nostre
vite a patto che noi ci percepiamo come esseri in relazione. Percepirsi come esseri in relazione
significa dire che presumiamo che anche gli altri si percepiscano in relazione e che l’incontro con
l’altro è precisamente l’incontro tra prospettive diverse ma pur sempre in relazione.
L’incontro con l’altro è l’incontro con l’ altro in relazione.
Questa riflessione sulla relazione significa rispetto al gioco, che noi quando vi entriamo ci
rapportiamo non tanto ad individui senza un passato, quanto piuttosto a esseri che brillano rispetto
alla loro unicità proprio grazie alla trama delle relazioni che portano con sé. Significare, negoziare il
senso dentro il gioco significherà riconoscere a esso una tessitura relazionale. Chiedere chi sei tu,
chi vuoi interpretare, significherà anche nel gioco, chiedere dentro quale rete di relazioni tu ti
collochi, quale significato attribuisci a esse, quali regole siamo disposti insieme a sottoscrivere.
L’uomo non è solo in relazione con l’altro, ma esso è anche in relazione con e nel mondo. Nel suo
rapportarsi al mondo, esso lo modifica, lavora e lavorando plasma e modifica l’ambiente. L’uomo
esiste pienamente addirittura nella felicità luminosa del gioco, sta in relazione.
Qui si possono riconoscere quella serie di fondamentali antropologici che Fink aveva evidenziato
nello scritto del 57’ (a parte la morte):
Il lavoro come modalità fondamentale dell’esistere umano (non inteso come stipendio) ma inteso
come attitudine trasformatrice nei confronti dell’ambiente. Questo è un elemento che ci consente di
collocare Fink dentro l’antropologia filosofica ovvero la ricerca di ciò che è comune a tutti gli
uomini e le donne.

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L’uomo è l’essere che gioca, che abita mondi immaginati, che è capace di sperimentare una libertà
regolata, di distanziarsi dal presente e persino dai propri progetti, di entrare dentro una realtà nella
quale è capace di risignificare, generando, producendo, costruendo, un senso con l’altro.
Tutte queste esperienze sono tutte di carattere relazionale.
Fink andando avanti ribadisce che il gioco in relazione con il tempo specie con quello futuro è ciò
che lo caratterizza in quanto tale. L’uomo è colui che vive proiettato, che anticipa che cerca un
significato che sta in un fine. L’orizzonte finale di questa ricerca è la felicità dove per Fink questo
non è un elemento critico ma egli riconosce che l’umano è questo, che la sua ricerca di futuro
costituisce un suo tratto fondamentale. È all’interno di questa sua consapevolezza però che
l’esperienza del gioco assume tutta la sua peculiarità, se l’uomo è questo ente proiettato nel futuro,
che desidera la felicità, l’uomo è però anche colui che può fare un passo indietro rispetto a questa
affannosa ricerca della felicità; l’uomo è colui che può interrompere questo flusso temporale che lo
proietta nel futuro ed è colui che può vivere il presente in quanto tale, senza subordinare il momento
presente ad un futuro avvenire.
Ma anche l’animale vive completamente nel presente, non progetta. In questo caso la differenza sta
nel fatto che l’uomo può consapevolmente di abitare un tempo presente fine a sé stesso, senza
proiettare il significato di quel momento dentro un futuro che precisamente gli darà senso.
Il presente nel suo senso del gioco non è subordinato ad un senso ulteriore; esso ha senso di per sé
per questo interrompe il flusso del tempo che cammina, corre verso il futuro.
Noi siamo abituati a vivere costruendo e progettando (questo è un nostro tratto tipico) e dunque
siamo abituati a subordinare ogni nostra azione ad un azione successiva, siamo coloro che legano il
tempo. Questo è il nostro modo di vivere. Il gioco è dunque il creare situazioni di cui siamo
consapevoli, coscienti, situazioni che viviamo lucidamente, dotate di un senso presente che si
esaurisce in sé stesso, che non è subordinato ad altro.
Scrive Fink: “ Il presente nel gioco non è un mezzo per fare altro”
Il gioco si disinteressa nel fine ultimo perché trova il fine in sé.
Il gioco si differenzia dalle altre modalità dell’esistenza e si differenzia per esempio dal dominio,
dall’amore, dalla morte, dal lavoro, ha una sua peculiarità. racconta dunque dell’uomo qualcosa di
diverso, che non cancella le altre posture, semplicemente le arricchisce, le complessifica.
“Il gioco non è una lotta reale contro le resistenze che la natura offre, non è l’agire servile
dell’uomo contro l’elemento selvaggio, non è una lotta per la vita, la morte, il potere e il dominio,
non è un sacrificarsi per l’amato e non è un lutto per qualcosa di irrimediabilmente perduto. Il
gioco non è sogno immanente all’anima del singolo.”
Il gioco, dunque, è un esperienza fondamentale, ha un tratto profondamente relazionale e apre un
orizzonte antropologico che tutti gli altri fondamentali antropologici non colgono. Il gioco non è
irreale, non è un esercizio individualistico ma è una palestra per le nostre relazione, un allenamento
al mondo che vorremmo. Il gioco è un oasi di felicità dove essa non è il fine ultimo ma essa sta
dentro all’esperienza stessa. Il gioco ha dunque quest’oasi di distanziamento, apertura, di socialità
positiva.
Nell’ultima parte di questo scritto Fink distingue tra diversi tipi di giochi:
- Intrattenimento
- D’infanzia: non esauriscono il gioco in sé, il gioco non è solamente infantile.

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- Di competizione
- Di rappresentazione: dove si rappresenta la vita, cercando di coglierne il senso.
- Distensivi: la terapia dell’anima.

Ciò che accomuna tutte le tipologie di gioco secondo Fink consiste in questa mescolanza di realtà e
finzione. Il gioco sospende i classici criteri con il quale attraverso cui noi distinguiamo tra realtà e
apparenza. Questo gioco ci costringe ad abitare tra la realtà e la finzione.
In conclusione, del suo scritto Fink afferma che il gioco ha la sua dignità in sé. Dunque,
agganciando il gioco al tempo produttivo e lavorativo significa non cogliere ciò che esso ha da dirci
rispetto all’umano. Oltretutto, intendere il gioco come aggiunta al momento serio lo rende
totalmente obbligato a quelle logiche produttive e di consumo rispetto alle quali esiste già un
industria dell’intrattenimento. L’ultima riflessione che Fink fa riguarda il tema della corporeità. Il
mistero del nostro corpo come ciò di cui siamo padroni ma ciò che allo stesso tempo ci sfugge
completamente, quel siamo e abbiamo il corpo. Nel gioco può essere riepilogato come la nostra
fisicità sostiene Fink si ritrova dentro il gioco. Dunque, se pensiamo che questo discorso fu fatto
alla celebrazione delle olimpiadi, possiamo ricavare alcune indicazioni significative:
1. Il gioco si esprime attraverso il corpo, il gioco invita a tenere presente che le manifestazioni
del nostro essere umani passano tutte attraverso il corpo compreso il gioco.

2. La stessa celebrazione delle olimpiadi può essere vista come un riconoscimento della
centralità del corpo nell’esistenza umana, che non è dunque soltanto un corpo votato alla
competizione, agonismo, vittoria, ma è un corpo che nel gioco si armonizza con la persona e
diventa capace dell’espressione di sé.

Lo scritto si conclude con questo riferimento al tema della corporeità e con la sottolineatura che nel
gioco come in altre occasioni della nostra vita. Nell’occasione del gioco (o persino del gioco
olimpico) noi siamo messi al corrente della nostra possibilità che è quella del ritrovamento
dell’armonia con il nostro corpo e siamo messi anche al corrente del fatto che il nostro corpo può
essere la via del senso, la via della nostra espressività. Riconoscendo questo possiamo anche
riconosce che il gioco è l’accadere della nostra espressività, libera e vincolata insieme , dentro spazi
che sono protetti dalla nostra distruttività.

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E. FINK – PER GIOCO – SAGGI DI ANTROPOLOGIA FILOSOFICA
In questo testo analizzeremo 5 saggi:
1.Gioco e festività (articolo pubblicato postumo nel 1975)
2.Il gioco infantile (1958)
3.Gioco e filosofia (1966)
4.Il significato mondano del gioco (1973 e coincide con il discorso pronunciato nel 1972)
5.Il gioco e il culto (datazione incerta, tra 1972 e 1973)

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1. GIOCO E FESTIVITA’

In questo scritto Fink afferma che sono aumentati a dismisura le occasioni e gli spazi del gioco così
come le discipline che se ne occupano; tuttavia, questa moltiplicazione di opzioni non corrisponde
un approfondimento qualitativo di che cosa sia gioco. Siamo sempre lì è il filosofo che cerca
l’essenza che non si accontenta della pluralità perché vuole ricondurre il fenomeno alla sua struttura
fondamentale. Fink, dunque, sta dicendo nonostante del gioco si siano occupati sociologi, psicologi,
pedagogisti, nonostante il gioco sia diventato una forma di intrattenimento diffusa e popolare questo
non significa che noi abbiamo capito ciò che il gioco sia e che cosa effettivamente il gioco ci dice
dell’umano.
Il secondo punto che dobbiamo citare è quello dove Fink afferma che il gioco è una realtà che rinvia
all’immediatezza; la spontaneità, la creatività, la libera gestione del corpo, nonostante questa sua
immediatezza come tratto che ci colpisce, non si può dire che il gioco sia pura animalità. (l’animale
è guidato da altro e non sente)
Al contrario di quanto detto prima il gioco consiste in una modalità di comprensione di sé, del
mondo, che ha certamente un proprio linguaggio, che parla una lingua diversa da quella a cui siamo
abituati; una realtà, dunque, che ha delle regole specifiche, le regole che normano il nostro stare

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insieme mentre giochiamo. Il gioco, dunque, non è soltanto imitazione della vita, ma è più
profondamente è riflessione sulle nuove possibilità della stessa vita.
Secondo Fink in epoca contemporanea il giudizio intorno al giocare oscilla tra:
- Chi lo ammira in modo entusiastico: perché il gioco è capace di restituirci l’umanità nella
sua interezza; perché è capace di darci un immagine dell’uomo unificata, armonica.

- Tra chi lo discredita relegandolo a ozio, tempo perso, trastullo, passatempo, riempitivo

Purtroppo, chi considera il gioco come un breve spazio di libertà rispetto al tempo del lavoro, in
realtà lo ha già consegnato all’industria dell’intrattenimento rendendolo non libero. Chi considera il
gioco come passatempo ne ha già negato il carattere di libertà, quella libertà che è puramente
illusoria. Dando il via ad una manipolazione completa che la faccia da padrone proprio lì dove i
singoli individui si sentono liberi e godono del loro libero arbitrio. L’industria del passatempo ci
colpisce laddove siamo più fragili, ci percepiamo liberi quando invece quello spazio di libertà è
tutto il contrario della libertà, è un tempo amministrato di un mondo totalmente organizzato. Il
gioco come passatempo è l’illusione della libertà.
Finché noi restiamo inchiodati a quest’idea del gioco come passatempo riempitivo noi lo
consideriamo un fenomeno marginale e invece non capiamo che esso è un fenomeno essenziale
dell’esistenza umana. Così come noi siamo giocatori, siamo anche dominatori, amanti, lavoratori e
mortali.
Fink di nuovo elenca i cinque fondamentali antropologici che caratterizzano la nostra esperienza del
mondo.

Perché è così importante mettere al centro il gioco?


È così importante perché il gioco ci sa dire qualcosa dell’umano che gli altri fondamentali
antropologici non ci dicono (o ci dicono) in modo diverso.
Il fascino del gioco consiste non solo come un momento di spensieratezza ma piuttosto è traccia di
una modalità di stare al mondo che ci accompagna fin dalla nostra prima comparsa sulla terra.
Il gioco nasce con l’uomo e ci caratterizza da sempre, da quando siamo comparsi sulla terra. Il
gioco è dunque uno strumento essenziale per la comprensione di noi stessi e per questo ci
accompagna fin dalla nostra nascita al mondo ed è anche uno strumento essenziale per capire in che
rapporto stiamo con il mondo e con l’ambiente.
Fink, dunque, fa un passo indietro, ovvero se il gioco è un fenomeno originario, che sta con noi fin
dall’inizio, dobbiamo prendere in considerazione il gioco che ha a che fare con il divino (il gioco
cultuale, che ha a che fare con il culto) anche perché tracce del gioco cultuale si possono
rintracciare ancora oggi nel gioco festivo, il gioco della festa. La festa è quello spazio-tempo in cui
ci facciamo illuminare da una luce nuova ulteriore.
Come per l’uomo primitivo il gioco culturale è lo spazio di interlocuzione con la trascendenza, così
per noi oggi il gioco festivo reca la traccia di quell’esigenza, di quello spazio di contaminazione con
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l’ulteriorità, la cui luce illumina di un senso nuovo la nostra esperienza mondana.
Il gioco è così importante, dunque, non solo perché è traccia di spensieratezza, ma anche perché
proprio essendo quella pausa, momento di riflessione ci permette di trovare nella vita la traccia di
scoprire che non ci bastiamo, di scoprire che il nostro senso è in cammino e incompiuto. Per Fink,
dunque, il gioco festivo è ciò che ci resta del gioco cultuale.
Ma che cos’è il gioco culturale?
Il gioco cultuale è rapimento, estasi, una messa in scena, una rappresentazione, uno spettacolo che
rende visibile l’invisibile; è una soglia che permette di comprendere l’invisibile alla luce
dell’invisibile. Nel gioco cultuale (es. i riti) è il momento di questa comunicazione con l’ulteriore
percepita come esigenza dove l’uomo prende atto e confessa esponendosi il suo bisogno di
ulteriorità per simboleggiare e significare il presente che sta vivendo.
È la ricerca di una forma di senso che è possibile solamente quando siamo capaci di creare questi
spazi, questi momenti, di allontanamento della realtà. L’uomo, dunque, ammettendo il proprio
limite della significazione della realtà non fa altro che esporsi, farsi leggere dentro dagli altri e dal
divino per poi ritornare nel flusso del tempo presente essendo capace di leggerci nuovi significati.
Per Fink il gioco che indica il culto, il gioco della festa, sono momenti in cui noi prendendo tempo
rispetto al flusso dell’evoluzione, cerchiamo di comunicare e di farci comunicare insieme agli altri
in quanto comunità un significato ulteriore, dandoci la possibilità di comprendere i significati
attraverso una nuova luce.

Il passaggio successivo che fa Fink è il prendere atto, del rinnovato rapporto dell’uomo con il
proprio corpo.
Nel gioco così come nell’amore, nella lotta, nel lavoro, l’uomo sperimenta se stesso come anche
corpo e questo sperimentarsi come corpo smentisce l’idea che il corpo sia la prigione dell’anima, il
corpo è veicolo della nostra espressività, della nostra relazione con il mondo, non è un corpo che
segue il mero istinto, possiamo dire che possediamo un corpo ma sappiamo che esso è solido, che
attraverso di esso sentiamo, esprimiamo emozioni, esprimiamo le emozioni attraverso i gesti, e
tutto questo dentro il gioco sembra trovare la sua dimensione.
Che cosa celebra dunque la festa dell’olimpiade?
La festa dell’olimpiade, dunque, celebra l’attenzione rispetto al corpo, che non è un corpo che sia ha
ma è anche un corpo che si è. Il corpo ci riconcilia con noi stessi e il gioco viceversa noi ci
riconciliamo con il nostro corpo.
Attraverso la tecnica, sostiene Fink, che originariamente era nata per supportare il nostro corpo, noi
abbiamo progressivamente perso il nostro contatto con esso. Attraverso la tecnica abbiamo messo
un filtro tra noi e il nostro corpo e moltissime attività di oggi non passano attraverso il nostro corpo.
La tecnica ha progressivamente assottigliato la centralità del nostro corpo fino a farci percepire
come esseri quasi smaterializzati, come se il corpo non contasse più, come se si potesse vivere
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senza corpo.
Oggi (anni 70’) il corpo rivendica la sua centralità e lo fa attraverso lo sport, che mette l’accento
sulla purezza del corpo, su questo suo riconquistarsi la scena, unendo l’espressione della persona
essendo pure capace di esprimere e comunicare.
Fink conclude poi dicendo che la celebrazione della centralità del corpo che dice sé stesso e più di
sé stesso, che esprime e comunica nella forma alta dello sport non è mortificazione di sé, ma
piuttosto valorizzazione di una componente inaggirabile delle nostre esistenze che dice di una
nostra esistenza inevitabilmente incarnata, che va celebrata e che ha il suo significato dentro un
orizzonte più ampio.
La nostra esistenza sensibile non è un'altra cosa dall’esistenza spirituale, è il punto di congiunzione
con la nostra esistenza spirituale; il gioco dunque risignifica.

2. IL GIOCO INFANTILE
Per quanto riguarda il gioco infantile Fink definisce due tipi di gioco:
1. Il gioco di movimento: ( es. ci rincorriamo, ci facciamo il solletico, da dove possiamo
saltare, quanto possiamo saltare, etc.) – rodaggio rispetto alle possibilità del proprio corpo.

2. Il gioco di senso: è quel gioco dove il bambino rappresenta il che cosa possa significare il
mondo con le sue relazioni. Facciamo finta che, l’inventarsi una situazione futura, è
fondamentale per il bambino perché implica che il bambino si interroghi rispetto a sé stesso,
alle sue possibilità presenti e future e si comprenda. Anche il gioco di senso affina le nostre
abilità, crea contesti protetti dove il bambino capisce cosa lo fa sentire a proprio agio e cosa
lo infastidisce, dentro quale esistenza si troverebbe comodo e dentro quale altra esistenza si
troverebbe a disagio. Il bambino sperimenta il senso del mondo dentro a un contesto di
gioco protetto, regolato ma insieme libero, e impara ad associare i significati alle relazioni e
viceversa. Il bambino dunque rendere reale ciò che è fittizio.

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Nonostante noi siamo abituati a pensare che il gioco sia imitazione, ogni nuovo giocare è un giocare
che apre nuove possibilità, nuovi orizzonti. Ogni nuova generazione porta una ventata di novità,
sperimentando il nuovo. Lo stesso bambino del modo non del tutto consapevole mentre gioca mette
in atto delle possibilità, dove queste possibilità (soprattutto nel gioco di senso) che gli fanno fare le
prove generali della vita. Il gioco è la prova generale di ciò che io voglio essere non soltanto nei
termini di futuro lavorativo ma piuttosto di futuro delle relazioni, alla ricerca della felicità.
È fondamentale riconoscere all’interno del gioco una libertà ben regolata, perché quel vincolo non è
oppressivo ma è questo vincolo che rende possibile il gioco stesso.

3. GIOCO E FILOSOFIA
Nel saggio Gioco e Filosofia il punto di partenza la apparente diversità di questi due mondi, da un
lato il gioco con la sua immediatezza, con la sua adesione immediata alla vita, al corpo stesso
dall0altro la filosofia come regno della intermediazione riflessiva. Questa contrapposizione è una
falsa contrapposizione, perché lo stesso gioco è un modo di comprendere sé stessi (es. già il
bambino quando gioca si vede vivere, ragiona su sé stesso anche se non in forma calcolante).
A differenza della filosofia, sostiene Fink, il gioco vive dentro questa ambiguità tra essere ed
apparire. Dentro questa duplicità, tra essere ed apparire fiorisce il fenomeno del gioco dove il
filosofo non può stare dentro questa duplicità perché o si tratta di essere o si tratta di apparire.
Giocare e pensare sono due modalità diverse; eppure, entrambe mirano alla comprensione
dell’umano ciascuno con la propria cassetta degli attrezzi ma tutti e due si occupano di comprendere
l’umano.
Da un lato il gioco comprende dunque l’umano stando nella non risoluzione di questa non
ambiguità, il gioco l’abbraccia questa ambiguità, ci sta dentro, mentre la filosofia arriva alla

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comprensione dell’umano passando attraverso il rifiuto dell’accidentale perché il filosofo si occupa
dell’essenza, del che cos’è, cerca la struttura, cerca il concetto che è l’uno che sta per i molti.
Nonostante questa diversa modalità di approcciarsi all’uomo entrambi i mondi sono mondi che
cercano di comprendere l’umano in quanto tale.
Se abbiamo detto che il gioco è una cosa e la filosofia un altra ma concorrono tutte alla stessa cosa
proviamo a fare secondo ciò che ci dice Fink una filosofia del gioco, dove per farla occorre:
★ Considerare il gioco un fenomeno fondamentale dell’umano, che sta alla pari, che si affianca
al fenomeno del lavoro, della morte, dell’amore e del dominio.

★ Evitare di rilegarlo a fenomeno marginale in contrapposizione con la serietà del lavoro,


sempre perché così facendo lo si relegherebbe a pausa, riempitivo, momento di svago
fintamente libero, che promette una libertà che è illusoria.

L’ultimo passaggio di questo scritto riprende un idea che per Fink sta nello scritto di Platone
intitolato Le leggi (Nomoi) dove Fink dice che la massima aspirazione per l’umano sia dal punto di
vista della politica che dal punto di vista dell’educazione ciascuna comunità e ciascuno di noi,
dovrebbero puntare alla realizzazione di un armonia perfetta, compiuta, proprio tra quel gioco e
quella filosofia che inizialmente sembravano scomposti, scoordinati.
Il compito delle leggi e di riflesso dell’educazione di quella stessa comunità, dunque, consiste nel
far convivere l’immediatezza del gioco con la mediazione del pensiero, in una parola, il sentimento
e la ragione, il piacere e la saggezza.
Un tentativo di ricucire ciò che è slegato è la missione di noi esseri umani. Non esiste un gioco
senza pensiero, non esiste un pensiero senza gioco.
Questo significa fare una filosofia del gioco.

4. IL SIGNIFICATO MONDANO DEL GIOCO


Nel testo di Fink possiamo trovare i seguenti punti:
★ Una critica all’industria del gioco e dell’intrattenimento, dove il gioco viene inteso come
terapia dell’anima.

★ Giocare e pensare sembrano escludersi a vicenda ma sappiamo benissimo che tutte e due
cercano di comprendere l’umano.

★ Il gioco non è marginale, ma fenomeno fondamentale dell’esistenza.

★ Il gioco istituisce e si dà in un presente puro e felice che non ha bisogno di ulteriori eventi
per comprendersi

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★ Il gioco non è puramente fantastico, non è sogno ad occhi aperti perché ha un riscontro nella
vita reale.

★ Il gioco è in origine una rappresentazione simbolica del mondo, (significazione,


risignificazione, l’aprirsi), il gioco in origine è un modo di dare senso alla luce
dell’ulteriorità.

★ Il gioco pone un problema ontologico (essere-apparire), ovvero che tipo di ente è il gioco
stesso?

★ Il gioco ripropone la questione del corpo, “Il problema filosofico dell’incarnazione non è
rappresentato dal dato di fatto biologico di essere un esemplare di una specie animale
superiore, bensì dalla situazione esistenziale di essere un punto intermedio, sensibile e
portatore di senso, mobile e costante del mondo - ambiente che appare” dunque è sempre
preso l’uomo tra questa dialettica fra mobilità e fissità, cerca la fissità ma è preso dalla
mobilità.

5. IL GIOCO E IL CULTO
Nel gioco e il culto si riprende ciò che è stato già detto nel paragrafo sul gioco e la festività.
Qui si sottolinea invece come il gioco sia questo spazio dove noi trasfiguriamo quello che vediamo,
alla luce di un contatto con la trascendenza. Questo significa abbandonare le nostre certezze,
quando entriamo nel gioco non sappiamo cosa accadrà.
“Abbandoniamo ogni sicurezza – non sappiamo più chi siamo, chi sia l’uomo, che cosa siano le
consuetudini e la giustizia, la cosa e il mondo. Per questa trasformazione dell’umanità non c’è
metafora più perfetta che il destino dello sventurato figlio di Laio”
Perché Fink fa riferimento alla storia di Edipo?

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Fink fa riferimento alla storia di Edipo perché istituisce un parallelo con quello che accade nel
gioco, (soprattutto in quello cultuale), sostenendo che quello che accade, è esattamente la presa di
coscienza che non si è chi si chiede di essere. Quando Edipo comincia a dubitare di sé, mette a
distanza la sua esistenza, mette in crisi la sua identità che gli viene svelata da altri, dunque edipo
passa da una situazione di certezza (sa di essere re, marito) ad una condizione di radicale incertezza,
distanziamento dalla sua esistenza, di svelamento della sua effettiva identità da parte di altri e
completa risignificazione del quadro delle sue relazioni nel caso di Edipo tragica.
Fink nota come il momento di massima consapevolezza in Edipo coincida con il gesto
dell’accecamento, questa presa di distanza dalla realtà dal come appare è possibile grazie ad un
collegamento con il mondo ulteriore che è il detentore della verità.
Esattamente come la tragedia di Edipo mostra per Fink nel gioco si compie per via radicale questa
messa in discussione delle nostre relazioni per come si mostrano attraverso una loro
riconfigurazione diventando altro. Il nostro modo di stare al mondo subisce una riconfigurazione a
partire da una messa a distanza del mondo come appare. Questo riferimento che differisce dal gioco
per la sua tragicità, il gioco non è sempre oggetto di svelamento di eventi tragici ma è comunque
rifigurazione della nostra esistenza e dei nostri legami, ci permette di cogliere in via conclusiva un
aspetto che grazie a Fink abbiamo potuto cogliere come fondamentale del gioco, ovvero in tutte le
sue forme il gioco è la capacità di andare oltre, di mettere in discussione il presente, il vicino, il
quotidiano, mettendolo a distanza dando a esso un nuovo significato, rileggendolo all’interno di una
cornice differente.
Il gioco non è fenomeno marginale, non sta dentro ad uno spazio limitato ma forse è capace di dirci
qualcosa della nostra essenza più profonda che consiste in questo riflettere guardando da lontano,
incontrando l’altro che siamo noi e che possiamo diventare.
Questa capacità di risignificazione sia l’elemento più spendibile nei contesti educativi, formativi e
di marginalità.

RIASSUMENDO RIGUARDO AL GIOCO DI FINK


Riassumendo Il gioco per Fink sta nel concetto di risignificazione ed a partire da questo ci
dobbiamo includere la domanda che cos’è il gioco? Dove Fink risponde che esso è un fondamentale
dell’esistenza umana che consiste nella sua capacità di interrompere il flusso del tempo, che
significa anche che il gioco non avviene in vista di altro, ma che trova la sua modalità di
sperimentare il senso dentro la sfera in cui si colloca. Dire che questo significa anche dire che
dentro quella sfera noi ci sentiamo liberi anche se vincolati, possiamo esprimere la nostra creatività,
sperimentando noi stessi, abitando un mondo che non è falso, che non è neanche totalmente vero e
che si trova a metà tra la realtà e la finzione. Dire che il gioco interrompe il flusso del tempo
significa dire che è uno spazio di sperimentazione.
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Il secondo elemento che possiamo ricordare consiste nella struttura del gioco dove Fink elenca 5
elementi:
1. Il gioco è piacevole dove si tratta di un piacere del e nel gioco.
2. Il gioco è sensato, dove troviamo un legame forte tra gioco e filosofia. Chi gioca non perde
la testa.
3. Il gioco è un esperienza sociale e comunitaria, che ha a che fare con gli altri, non si fa da
sola
4. Il gioco è dotato di regole e vincoli che noi però sottoscriviamo volentieri.
5. Il gioco implica sempre un giocattolo. Questa affermazione significa che dietro c’è sempre
una relazione di noi con il mondo, con gli oggetti del mondo, con le cose, con l’ambiente.

La cornice, dunque, è quella della rifigurazione, riconfigurazione che rende il gioco molto vicino al
racconto e alla narrazione, dentro a questo dobbiamo specificare che il gioco è un fondamentale
antropologico e la sua caratteristica specifica è l’interruzione della temporalità, intesa come flusso
continuo secondo la sua struttura implica le cinque caratteristiche che abbiamo prima elencato.

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