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Il Mediterraneo del XV e XVI secolo e l’incontro con l’Altro (12)

1) Il Mediterraneo nel Quattrocento e Cinquecento


Il Quattrocento fu un secolo di profonde trasformazioni negli equilibri
mondiali: cadono antiche civiltà, sorgono nuovi imperi, entrano in contatto
popolazioni che non si erano mai conosciute. Uno degli eventi più importanti fu
la caduta dell'Impero bizantino.
Nel trecento e Quattrocento assistiamo ad un rafforzamento della corona d’Aragona
nel Mediterraneo. Genova ridimensiona molto il suo commercio con l’Oriente ma
compensa con un aumento degli scambi verso il Mediterraneo occidentale. Venezia
mantiene il predominio del commercio con l’Oriente, ma <<a partire dalla seconda
metà del XV secolo, l’affermazione nel Mediterraneo della potenza ottomana
[…] rappresentò per Venezia un duro colpo che ridimensionò per sempre le sue
ambizioni di potenza mediterranea>>1.
Ora vediamo l’Impero ottomano. Nasce nel Duecento dall’emirato di Bitinia (uno
tra gli emirati turchi) che avvia da subito un processo di unificazione dell’Anatolia
(attuale Turchia). Durante tutto il Trecento conquista alcuni territori bizantini e una
vasta zona dei Balcani (Bulgaria, Serbia, Macedonia). Ormai puntava a
Costantinopoli (vecchia Bisanzio, che in seguito sarà rinominata Istanbul) ed a
bloccarli non fu l’Occidente, ma Tamerlano: <<capo di una tribù mongola
turchizzata di Samarcanda [attuale Uzbekistan] che guidò il suo popolo alla
conquista di un enorme impero, che si estendeva fino all’India, al Mediterraneo, al
Mar Nero. Lo scontro decisivo tra le armate di Tamerlano e quelle ottomane
avvenne ad Ankara nel 1402: gli ottomani subirono una vera e propria disfatta e il
loro dominio si disgregò rapidamente. Gli imperi nati troppo in fretta sono insieme
potenti e fragili: potenti per l’entusiasmo che trascina i vincitori a sempre nuove
imprese, fragili per la mancanza di organizzazione. Tamerlano, che era un guerriero
valente e coraggioso, non aveva tuttavia la tempra dell’uomo di governo. Così alla
sua morte, avvenuta nel 1405, l’impero da lui edificato si sfasciò>>2. Ne
approfittano gli ottomani, che dopo quella sconfitta rovinosa si riorganizzano.
Agli inizi del Quattrocento Costantinopoli era come un cuore (rimasto in vita
miracolosamente) di un corpo enorme (l’Impero bizantino) da molto tempo
cadavere. Il monopolio della seta, con l'acclimatazione del baco da seta in Italia,
viene tolto a Costantinopoli. Su questa città indebolita si abbatte un nemico forte: i
turchi ottomani. L’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo (1425-48) è
talmente consapevole della minaccia che, nonostante l’avversione dei suoi cittadini,
chiede l’aiuto dei cristiani d’Occidente offrendo in cambio la sottomissione della sua
Chiesa al papa. Nel 1439 il concilio di Firenze accetta l’offerta e proclama l’unione
tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma. Ma anche questo non bastò (anche
perché l’appoggio dei cristiani d’Occidente fu più proclamato che reale): nel 1453
Costantinopoli viene conquistata dagli ottomani e ribattezzata Istanbul.
<<Scomparve così l’Impero bizantino, diretto erede dell’Impero romano
d’Occidente, e scomparve con esso una delle più grandi civiltà della storia, mentre si

1 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3 Dal feudalesimo alla guerra dei trent’anni,
Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 255 (il neretto è mio).
2 Ivi, p. 256 (nel testo Ankara è in neretto; la sottolineatura è mia).

1
consolidava l’Impero ottomano, destinato anch’esso a lunga vita (cessò di esistere
solo nel 1922, dopo la prima guerra mondiale).
Le città italiane non furono più in grado di muoversi in quel settore del
Mediterraneo con la stessa libertà di prima e questo segna l'inizio del loro
declino. Venezia cerca di adattarsi ed ottiene dai turchi alcuni vantaggi commerciali,
ma non avendo più la libertà di prima il suo declino sarà inevitabile. L’Impero
ottomano intanto continua ad espandersi conquistando anche la Grecia e l’Albania,
arrivando a minacciare l’Ungheria, l’Austria e la stessa Venezia. Nel 1480 i turchi
sbarcano in Puglia ed occupano la città di Otranto. Solo con la morte di Maometto II
nel 1481 si allenta la pressione turca sull'Italia.
Ma come erano questi dominatori? <<La società ottomana era una società
relativamente aperta e tollerante. […] L’accesso ai gradi più elevati del potere
militare e amministrativo era consentito anche a uomini di umili origini, purché
ambiziosi e di talento. I turchi avevano un atteggiamento tollerante nei confronti
dei sudditi seguaci di altre religioni. La maggioranza delle popolazioni
sottomesse era di fede cristiana ortodossa: in cambio del pagamento della
tradizionale tassa che in tutti i paesi musulmani gravava sugli “infedeli”, i
cristiani erano liberi di praticare il loro culto. L’unica interferenza turca in campo
religioso fu la richiesta di revoca dell’unione tra la Chiesa ortodossa e quella di
Roma sancita dal concilio di Firenze del 1439 […]. I capi religiosi ortodossi
accolsero prontamente la richiesta e l’unione venne sciolta nel 1472. La tolleranza
degli ottomani, inoltre, favorì l’afflusso nei territori dell’Impero sia degli ebrei
spagnoli espulsi dai Regni iberici nel 1492 […], sia dalle frange più radicali del
movimento protestante [che vedremo in seguito]>>3.
Con la conquista di Costantinopoli (avvenuta nel 1453, ricordiamo ancora una
volta la data per la sua importanza) <<l’Impero ottomano si era dotato di una
capitale mediterranea che fungeva da vero trampolino di lancio per
l’espansione verso Occidente>>4. Così, se sotto la guida di Selim I (1512-20)
conquista l’Egitto, la Siria e l’Arabia, sarà con Solimano I il Magnifico (1520-
66) che penetra nei Balcani arrivando a conquistare l’Ungheria nel 1541 ed a
minacciare (pochi anni dopo) la stessa Vienna. <<Durante il regno di Solimano il
Magnifico l’Impero ottomano raggiunse il suo apogeo: la sua potenza non aveva
nulla da invidiare a quella dell’Impero asburgico. I sudditi di Solimano erano circa
14 milioni, mentre la Spagna aveva solo 5 milioni di abitanti. La capitale Istanbul,
con i suoi 400.000 abitanti, era una delle città più grandi del mondo e lo splendore
dei suoi edifici pubblici, delle moschee, delle abitazioni private stupiva e incantava i
viaggiatori>>5. Nel frattempo nelle coste dell’Africa occidentale si formano degli
Stati satelliti sotto l’influenza di pirati e corsari che rendono la navigazione nella
zona molto insicura. Ormai <<tutto il litorale mediterraneo dall’Albania fino
quasi allo stretto di Gibilterra si poté dire ottomano, e lo Stato ottomano
divenne – anche per proprie necessità di comunicazione interna – una grande
potenza navale>>6. La sua flotta navale aveva raggiunto un tale predominio da aver

3 Ivi, p. 260 (il neretto è mio).


4 Knapton M., Apogeo e declino del Mediterraneo, in Storia moderna, Donzelli, Roma, 1998, pp. 155-182, p. 160 (il
neretto è mio).
5 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 260.

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trasformato il Mediterraneo in una sorta di “lago turco”. A questo punto è chiaro il
motivo per cui <<la spinta espansiva ottomana creò un contesto di perenne
tensione militare, e perciò la politica degli Stati cristiani dell’Europa
mediterranea fu condizionata a fondo dal “pericolo turco”>>7. Venezia era lo
Stato che più di tutti opponeva una resistenza armata agli ottomani. Ma, decisamente
più debole, perde Cipro nel 1570. L’unico modo per fermare i turchi era quello di
unire le forze cristiane, anche se in genere, in queste alleanze <<fu scarsa la sintonia
fra gli alleati cristiani, a causa della diversità degli interessi perseguiti da
ciascuno>>8. In quel periodo, comunque, possiamo individuare <<una specie di
frontiera religiosa e culturale, ancor prima che fisica, tra l’area cristiana
cattolica del Mediterraneo e quella islamica, nonostante i molteplici rapporti
economici che l’attraversavano. La sua presenza, pur con qualche ambiguità,
riflette il profondo nesso tra fede e valori sociali e culturali, nonché fra il senso
di identità e di appartenenza a una comunità e la percezione negativa
dell’”altro”. […] La prevenzione fondata sulla misconoscenza informò
l’atteggiamento collettivo dei cristiani verso tutto ciò che era turco: essi temevano e
odiavano un nemico che minacciava la loro vita e sicurezza, e che sembrava
incarnare la negazione della loro religione, del loro sistema politico, della loro
struttura sociale e della loro cultura. […] Nella psicologia collettiva spagnola, in
sintonia con la politica perseguita dai sovrani e attuata anzitutto dall’Inquisizione,
aveva molto peso un’idea di comunanza forgiata nella “reconquista” contro gli arabi.
Quest’ultimo processo, sebbene concluso nei territori della penisola nel 1492, ebbe
seguito sia […] in tentativi di conquistare territori nordafricani, sia sotto forma di
diffidenza persecutoria, strisciante ma progressiva, verso i moriscos (musulmani
convertiti al cristianesimo) rimasti in Spagna>>9. Il papa Pio V spinse molto per la
formazione di una alleanza di ispirazione crociata a difesa del cristianesimo. Così lo
Stato pontificio, Venezia e la Spagna formano una Lega santa e sconfiggono gli
ottomani a Lepanto nel 1571. Questa <<fu una vittoria storica perché infranse
quello che era diventato ormai il vero e proprio mito dell’invincibilità
ottomana. La vittoria suscitò in tutto il mondo cristiano un’enorme eco. Ai Te Deum
di ringraziamento celebrati in tutte le chiese cattoliche d’Europa seguì la diffusione
del culto della Madonna del rosario, alla cui protezione si attribuiva il successo>>10.
Per finire, <<rimane da chiedersi quali effetti ebbero sui commerci mediterranei e
sui loro protagonisti tradizionali […] l’enorme espansione dei territori ottomani, il
ridimensionamento della potenza navale veneziana, la relativa debolezza politica di
tutti i mercanti degli Stati cristiani, e in generale lo stato di guerra. La risposta, che
di primo acchitto forse può sorprendere, è che non vi furono gravi sconvolgimenti o
danni ai traffici dovuti a queste cause (essi avvennero semmai per altri motivi
[…])>>11.
2) Le scoperte geografiche
Per capire bene questo paragrafo conviene avere sottomano una mappa geografica.
6 Knapton M., Apogeo e declino del Mediterraneo, in Storia moderna, cit., pp. 155-182, p. 160 (il neretto è mio).
7 Ibidem (il neretto è mio).
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 162 (il neretto e la sottolineatura sono miei).
10 Ivi, p. 161 (il neretto è mio).
11 Ibidem.

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Nel Mediterraneo orientale, come abbiamo visto, si fronteggiano il mondo cristiano
e quello turco. L'Impero ottomano, conquistando Costantinopoli nel 1453,
creava uno sbarramento ai traffici commerciali tra Oriente ed Occidente. Si fa
strada l'idea di circumnavigare l'Africa e raggiungere l'Oriente via mare, senza
passare per il Mediterraneo. E' il re del Portogallo Enrico il Navigatore (1394-
1460) quello che più di tutti investe denaro ed energie in questa impresa, già
prima della presa di Costantinopoli. La svolta avvenne nel 1486, quando
Bartolomeo Diaz arriva nella punta più a sud dell'Africa che viene chiamata
“Capo di Buona Speranza” aprendo così la via dell'oceano all'Oriente.
Come è ampiamente risaputo, la nave protagonista di queste grandi imprese di
navigazione è la “caravella” portoghese, che fece la sua prima apparizione nel 1430.
E' interessante notare che la sua velocità di regata fu superata solamente
nell'Ottocento. La conquista dell'alto mare è alla base dell'espansione mondiale
europea. Ma perché l'Europa e non altre civiltà? Da un punto di vista tecnico
anche le imbarcazioni cinesi o arabe erano ben attrezzate ed inoltre erano
anche complessivamente più ricche dell'Europa. Secondo molti storici l'origine di
questo primato europeo va ricercato nelle peculiari condizioni sociali e politiche del
tempo. Come abbiamo ampiamente visto insieme, nel Quattrocento si formano le
grandi monarchie che avevano un enorme bisogno di risorse finanziarie (si
pensi sopratutto alle ricorrenti guerre). Il normale prelievo fiscale era
insufficiente: solo una politica di potenza e di conquista avrebbe assicurato alla
nazione le rotte commerciali da sfruttare in esclusiva e/o avrebbe consentito di
portare in patria oro ed argento. Da questo punto di vista è emblematico
confrontare un grande viaggio di fine Quattrocento con uno precedente di due
secoli. Il viaggio di Marco Polo (1254-1342) è, in sostanza, il frutto di una
iniziativa individuale e non aveva alle spalle un apparato statale in grado di
utilizzare quelle esperienze per una politica di espansione su scala mondiale.
Cristoforo Colombo (1451-1506), genovese di nascita, si stabilisce nel 1477 in
Portogallo ed è qui che elabora l'idea di raggiungere l'Oriente navigando verso
Occidente. Si scontrava, ovviamente, con le teorie che all'epoca andavano per la
maggiore e cioè che la terra fosse piatta (in contrario, si diceva, gli abitanti dell'altra
parte del globo avrebbero camminato con la testa in basso ed i piedi in alto).
Colombo, pur avendo (ovviamente) ragione circa la sfericità del nostro pianeta,
si era molto sbagliato circa le distanze. Egli credeva che le coste occidentali della
penisola iberica distavano 5000 km dalle coste orientali dell'Asia. In realtà distano
20000 km, cioè 4 volte tanto. Il progetto di Colombo fu respinto dal re del
Portogallo Giovanni II (1481-95) per due motivi: da una parte perché il Portogallo
era più impegnato in una politica di espansione verso le coste africane e non aveva
energie da impiegare in altre direzioni e dall'altra parte (nel merito del progetto)
riteneva l'idea di colombo poco fondata. Così Colombo decide di trasferirsi in
Spagna, dove, dopo estenuanti trattative, riceve l'approvazione di Isabella di
Castiglia (1474-1504). A questo punto Colombo ha alle spalle uno Stato e non
parte, come Marco Polo, in maniera autonoma. Infatti ottiene il titolo di
ammiraglio, viceré e governatore delle terre eventualmente scoperte. Lo scopo
della famosissima spedizione (che, come sappiamo tutti era composta dalle 3
caravelle Nina, Pinta, Santa Maria) era esclusivamente di tipo commerciale e
4
mirava ai ricchi mercati della Cina e del Giappone di cui aveva parlato Marco
Polo. Il 12 ottobre 1492 Colombo avvista la terra. Non si trattava né del Catai
(come veniva chiamata la Cina) né del Cipango (come veniva chiamato il
Giappone) ma di un'isola delle Bahamas (che fa parte delle Antille: le isole
dell'America centrale di cui fanno parte Cuba e Porto Rico, per citare le più
famose). Colombo, al ritorno, fu accolto con grandi onori. Dopo pochi mesi riparte
al comando di una spedizione enorme. Stavolta si reca nella zona sud delle Antille.
A dimostrazione dell'interesse solo economico e commerciale delle imprese è la
delusione della regina Isabella quando vede tornare Colombo con, soltanto, un
carico di schiavi. Al ritorno dal terzo viaggio trova grandi quantità di oro e
perle e così sembra avverarsi il suo sogno di trasformare l'impresa in una
gigantesca operazione commerciale ed economica. Intanto però nell'isola di Santo
Domingo la situazione era degenerata e in Spagna arrivavano notizie di disordini e
violenze dovute alla pessima gestione di Colombo.
Come abbiamo già visto, poco dopo il rientro del primo viaggio di Colombo,
Spagna e Portogallo firmano il trattato di Tordesillas (1494) che regolava le
sfere di espansione: alla Spagna spettava la zona ad occidente rispetto al
meridiano di riferimento (in pratica l’America centrale e meridionale); al
Portogallo quelle ad oriente (in pratica Africa, Asia, Brasile dell’est).
Colombo credeva di aver raggiunto le estreme propaggini orientali dell'Asia. Intanto
si susseguono i viaggi e le “scoperte”. Nel 1497-8 il portoghese Vasco de Gama
arriva al Capo di Buona Speranza (avevamo già detto che il Portogallo non
investe sull'impresa di Colombo perché impegnato nella circumnavigazione
dell'Africa) per poi proseguire fino all'India. Questo viaggio apre le porte alla
colonizzazione portoghese dell'Africa, dell'India, della Cina. Nel 1500 un altro
navigatore portoghese: Pedro Alvarez Cabral stava circumnavigando l'Africa
quando una tempesta lo spinse verso occidente. In questo modo, casualmente, arriva
in Brasile, scoprendolo. Nel 1502 il fiorentino Amerigo Vespucci esplora le coste
meridionali del Nuovo mondo, che da lui prende il nome di America: da quel
momento è chiaro che Colombo non aveva scoperto la via più breve per le Indie
ma un nuovo e gigantesco continente. Gli inglesi, ignorando il trattato di
Tordesillas, iniziano a dedicare le loro energia all'America del Nord che
diventerà zona privilegiata della loro espansione coloniale. Infine il portoghese
Ferdinando Magellano tra il 1519 ed il 1520 raggiunge la punta più a sud
dell'America meridionale e poi continua arrivando fino alle Filippine. Si tratta,
in pratica, del primo viaggio dell'uomo intorno al mondo. Questa esperienza è
raccontata dal vicentino Antonio Pigafetta che fu uno dei pochi superstiti della
spedizione.

3) Le civiltà precolombiane
Quando gli europei raggiunsero l’America, l’America centrale e meridionale
contava circa 80 milioni di individui. Vivevano divisi in molte civiltà (definite
“precolombiane” perché vi abitavano già prima dell’arrivo di Colombo,
simbolo degli europei) che avevano uno sviluppo molto diseguale: alcune
presentavano una vita politica ed economica evoluta e talvolta una cultura
raffinata. Venivano chiamati “indios”.
5
Gli Aztechi provenivano dal Nord America e si stanziarono nell’altopiano del
Messico. La capitale era Tenochtitlán: una delle città più grandi della terra con i suoi
150-300 mila abitanti. Veniva spesso paragonata a Venezia perché sorgeva in
un’isola del lago Texcoco che col tempo venne allargata attraverso la costruzione di
isolotti artificiali. Era una città ordinata, curata e piena di monumenti. Posta sotto
assedio da Cortés, gli abitanti furono sterminati e la città in gran parte distrutta. Oggi
al suo posto c’è la megalopoli di Città del Messico. Quando arrivano gli spagnoli nel
1519, gli aztechi erano divisi in una sorta di confederazione ma con un potere
centrale molto forte. <<L’economia si reggeva sui tributi versati dai popoli vinti e su
una agricoltura molto avanzata>>12. <<La concezione azteca del mondo era
dominata da una autentica ossessione della precarietà cosmica. […] Per ritardare
l’avvento della quinta catastrofe non restava altro che nutrire di sangue umano il
sole, signore della Terra, celebrando periodicamente sacrifici umani. Questa
angosciosa concezione del mondo si univa alla convinzione che la vita di ogni uomo
fosse rigorosamente predestinata, giorno dopo giorno, in ogni particolare>>13.
I maya rappresentano una delle civiltà più antiche del “Nuovo Mondo” (ovviamente
l’espressione è legata al Vecchio Mondo che scopre il Nuovo Mondo…). Erano
stanziati tra gli attuali Messico ed il Guatemala. Anche loro avevano una visione
pessimistica della storia cosmica: la generazione attuale (ovviamente nel senso
dell’inizio del Cinquecento) sarebbe stata distrutta da un terribile diluvio. Anche
loro politeisti, avevano come gli aztechi un dio solare come divinità suprema. Il
sacerdote aveva anche i poteri politici e giudiziari. L’agricoltura era primitiva:
veniva bruciata una parte della foresta vergine, che diventava terreno fertile da
coltivare. Questo veniva coltivato per alcuni anni e poi, quando la resa diminuiva,
abbandonato. <<I maya sopravvissero alla conquista coloniale e continuarono ad
abitare il territorio originale, con una popolazione stimata, alla fine del Novecento,
in cinque-sei milioni di individui>>14.
Infine vediamo gli incas. Era <<uno degli imperi più vasti dell’epoca
precolombiana, che si estendeva per oltre 4000 km dall’Ecuador settentrionale al
Perù, alla Bolivia occidentale, al Cile settentrionale>>15. Dotati di un apparato
burocratico molto efficiente, avevano una economia che alcuni storici definiscono
“comunistica”: <<la proprietà individuale non esisteva e la terra era divisa in tre
categorie: terra del sovrano, che serviva a mantenere i nobili, i funzionari, gli
inabili al lavoro; terra dei sacerdoti, che serviva a mantenere il clero; terra della
comunità, destinata al sostentamento dei contadini. Questi ultimi erano tenuti
inoltre a prestazioni di lavoro per la costruzione e per la manutenzione delle strade e
dei sistemi di irrigazione>>16. Così <<si è talora detto, ora con ammirazione ora
con critica, ma sempre sbagliando, che questo sistema incaico rappresentava una
forma di anticipazione e di realizzazione del comunismo. In realtà, era un sistema di
potere dispotico che aveva istituito forme di reciprocità con le comunità indigene,
assimilandole>>17. Vediamo quindi questa società fortemente gerarchizzata. Il capo

12 Del Roio J. L., Aztechi, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano, 1993, p. 130.
13 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 277.
14 Del Roio J. L., Maya, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano, 1993, p. 807.
15 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 278.
16 Ivi, p. 279.

6
supremo era l’imperatore, chiamato Sapa Inca, figura semidivina che aveva i poteri
religiosi, politici e militari, <<quindi la casta sacerdotale, la nobiltà, gli artigiani e
una vasta rete di comunità rurali. Nei confronti delle comunità, lo stato si poneva in
una duplice funzione: da un lato esigeva un contributo per il suo mantenimento,
dall’altro agiva da redistributore di una parte della produzione collettiva>>18.
<<Dall’incrocio tra questi due circuiti, quello locale e quello imperiale, scaturiva
l’elemento caratteristico del sistema incaico, che un sociologo del XX secolo,
Max Weber, ha definito “un organismo basato per eccellenza sul lavoro coatto”.
Ecco perché agli spagnoli fu possibile valersi delle strutture di dominio
imperiale e integrarle nel proprio sistema, ma stravolgendole e privandole di
tutti i fortissimi elementi di protezione e rispetto delle tradizioni delle
popolazioni>>19. <<La religione, basata sul culto della divinità solare Inti, agiva da
elemento di coesione sociale. L’Inca, il figlio del sole, costituiva la mediazione tra il
divino e il terreno. Con la morte di Huayna Capac [1527] iniziò la fase discendente
dell’impero. […] La morte dell’ultimo Inca Tupac-Amaru (1572), giustiziato dagli
spagnoli, segnò la fine del regno. Le ordinanze del viceré Francisco de Toledo
(1569-1580) diedero al Perù una nuova struttura sociale e politica>>20.

4) La civiltà tra singolare e plurale


Normalmente <<il termine “civiltà” e i suoi derivati (“civilizzazione”,
“civilizzare”, “inciviltà”) hanno sempre tendenzialmente comportato un
giudizio di valore e una contrapposizione rispetto a qualcosa che veniva
ritenuto negativo (come, nell’antichità, la “barbarie”). Nella prima età moderna, la
scoperta del Nuovo Mondo e l’incontro con culture fino ad allora ignote,
stimolarono la riflessione dell’uomo europeo su se stesso, sulla sua unicità, sulle sue
conquiste e sulle conoscenze acquisite. A contatto con un mondo assolutamente
sconosciuto, gli europei si identificarono con il concetto di civiltà, videro cioè se
stessi, i propri costumi e il proprio stile di vita come unico modello di vivere
civile>>21. Così <<nel XVI secolo la distinzione tra civilizzati e selvaggi divenne
uno strumento di classificazione: come i bambini, anche i selvaggi dovevano
apprendere gli usi e i costumi degli adulti europei, dovevano essere civilizzati.
[…] Nel XVIII secolo si cercò anche di spiegare il motivo della loro diversità
con la teoria dello sviluppo dell’umanità attraverso tre stadi: dalla condizione
selvaggia alla barbarie e infine alla civiltà (rappresentata ovviamente dall’uomo
europeo). […] Gli studiosi contemporanei definiscono questo fenomeno con il
termine “etnocentrismo”, che indica la tendenza a considerare la propria
cultura come il centro di ogni cosa e l’esempio in base al quale classificare tutte
le altre. L’etnocentrismo, la teoria dei tre stadi e il concetto stesso di “selvaggio”
sono serviti a giustificare, nel corso dei secoli, le grandi ingiustizie perpetrate
nei confronti delle popolazioni indigene d’America – gli indios prima, i

17 Imbruglia G, Alla conquista del mondo: la scoperta dell’America e l’espansione europea, in Storia moderna,
Donzelli, Roma, 1998, pp. 23-48, p. 31.
18 Vita P., Inca, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano, 1993, p. 643.
19 Imbruglia G, Alla conquista del mondo: la scoperta dell’America e l’espansione europea, in Storia moderna, cit.,
pp. 31-32 (il neretto è mio).
20 Vita P., Inca, in Dizionario di storia, cit., p. 643.
21 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 281 (il neretto è mio).

7
pellerossa in un secondo momento – e dei neri, e più in generale verso coloro
che apparivano diversi, lontani dal modello di civiltà europeo e occidentale.
Queste teorie mostrano come l’atteggiamento etnocentrico si risolvesse non in
una analisi scientifica dei fatti storici e delle caratteristiche culturali ma in una
semplice valutazione, nell’espressione di un giudizio su altre popolazioni che
venivano sistematicamente considerate inferiori>>22. Nonostante fosse questo
l’atteggiamento della stragrande maggioranza degli europei, <<il confronto con gli
americani condusse dunque al sorgere di una nuova scienza – l’antropologia – che,
come si vede, trasformò interamente il precedente impianto del sapere e produsse
nuovi atteggiamenti. In questa maniera, i valori non erano più radicati in realtà
intemporali, come la parola divina o la ragione naturale. Non più deposito
naturale, anche i valori ideali della coscienza nascono, come tutte le credenze, le
più bizzarre che siano, dall’abitudine, dalle forme di vita, dalle passioni; e
queste strutture ne vengono poi consolidate o criticate. Questo aspetto fu
meditato con grande profondità dal francese Michel de Montaigne, nei suoi Saggi
(1580-88). In lui la riflessione scettica sulla molteplicità dei valori si slargò a
indagine sulla loro genesi e a riflessione sulla loro conseguenza. Era impossibile la
riduzione delle culture all’unità, all’affermazione di una universalità. Per questa via
si aprì nella coscienza europea la prospettiva della tolleranza, del
riconoscimento della complessità di ogni sistema sociale e delle relazioni che
esistono tra più culture. Anche per questo aspetto, e non soltanto per quello
della sopraffazione, l’eredità della conquista è ancora per noi un problema
vivo>>23. Mi sembra interessante un brano di una lettera che una comunità di
indiani scrive nel 1927 al sindaco di Chicago: <<I bianchi chiamano i pellirosse
“selvaggi”. Ma che cos’è la civiltà? I suoi segni di riconoscimento sono una nobile
filosofia e religione, delle arti originali, una musica esaltante e un ricco patrimonio
di storie e leggende. Noi avevamo tutte queste cose>>24. Già dall’incontro con
l’America, quindi, si affaccia lentamente e timidamente l’idea di una civiltà come
qualcosa di “plurale”. Ma è con la seconda metà del Novecento, dopo un conflitto
mondiale scaturito in larga parte dall’aggressività di una <<civiltà>> che si
autodefiniva popolo e razza superiore… che <<ha iniziato lentamente a farsi strada
un modo di pensare differente, che tende a includere tutte le culture umane e a
dare loro pari dignità. Oggi una larga parte della comunità internazionale
crede che ogni cultura abbia il diritto di trasformarsi secondo modalità e tempi
propri, non imposti dall’esterno in base alla pretesa superiorità di una cultura
sulle altre. Secondo la teoria del relativismo culturale non vi sarebbe più una
sola civiltà, bensì le civiltà al plurale, poiché la civiltà non appartiene solo a una
cultura, ma è propria di tutte le diverse comunità umane>>25.

5) La colonizzazione
Queste civiltà, dopo aver conosciuto gli esploratori, si devono confrontare con i

22 Ivi, pp. 281-282 (il neretto e la sottolineatura sono miei).


23 Imbruglia G, Alla conquista del mondo: la scoperta dell’America e l’espansione europea, in Storia moderna, cit.,
p. 47 (il neretto e la sottolineatura sono miei).
24 Citato in Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 282.
25 Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3, cit., p. 282 (parte del neretto è mia; la
sottolineatura è mia).

8
“conquistatori”. Fernando Cortés nel 1519 sbarca in Messico. Qui rafforza il
suo esercito con alcuni guerrieri delle popolazioni sottomesse dagli Aztechi.
Conquista la capitale Tenochtitlan (attuale Città del Messico), cattura e poi fa
uccidere l’imperatore azteco Montezuma. Si fa nominare dal re spagnolo Carlo
V imperatore dei territori conquistati. L’uso della violenza fu davvero enorme.
Gli spagnoli Diego de Al magro e Francisco Pizzarro (partiti nel 1522)
conquistano vasti territori incas attraverso stragi, devastazioni e violenze
diffuse ed atroci. Fatto prigioniero l’imperatore incas Atahualpa, chiedono per
il suo rilascio una gigantesca quantità di oro, ottenuto il quale decidono lo
stesso di giustiziarlo. La popolazione che si salvava era ridotta in schiavitù.
I portoghesi colonizzarono principalmente il Brasile (che gli spettava in base al
trattato di Tordesillas del 1494). In questo periodo il Portogallo era più
interessato alle ricche colonie africane ed asiatiche, per questo in Brasile si
limitano ad occupare la zona del nord-est (dove fondano San Paolo e Bahia); le
zone meridionali verranno colonizzate molto tempo dopo.
Gli storici si sono chiesti come fosse stato possibile che poche decine o centinaia di
europei fossero riusciti a conquistare in poco tempo territori così immensi, popolati
da un gran numero di uomini. Non basta far riferimento ad un miglior armamento
degli europei (armi da fuoco leggere e pesanti, spade d’acciaio, balestre, cavalli, cani
addestrati alla lotta). Molto ha influito la divisione delle popolazioni locali: quasi
sempre le popolazioni che erano state sottomesse dagli atzechi e dai maya si
schierano dalla parte degli europei. Questo spiega la resistenza molto più forte
ed efficace di zone quali il Cile centro-meridionale, Argentina e Messico
settentrionale, dove la popolazione era compatta e gli ultimi focolai di
resistenza furono sconfitti solo all’inizio del Novecento. Le conquiste furono
mantenute con massacri particolarmente feroci. Gli indios morivano per le
malattie portate dagli europei (che li trovava privi di difese immunitarie) quali
vaiolo e morbillo, ma anche le banali influenze. I conquistatori trattavano gli
indios come delle “cose” da sfruttare: li facevano lavorare in modo disumano e
li trasferivano da zone fredde a zone calde (o viceversa) senza nessun riguardo.
Molti di loro, quindi, morivano per malattie portate dagli europei, altri per
lavori estenuanti, altri si suicidavano (veniva totalmente sconvolta la loro
cultura, la loro organizzazione sociale…). Tutto questo è la causa di un crollo
demografico senza precedenti nella storia dell’umanità: si stima che tra il 1492
ed il 1620 gli abitanti del Messico scesero da circa 25 milioni a circa 2 milioni.
Come è abbastanza intuibile, gli europei, una volta conquistata l’America,
portano la propria organizzazione politica e sociale, che all’epoca era ancora il
sistema feudale. Nel 1533 il re del Portogallo divide i territori brasiliani in 12
capitanie affidate ai “donatarios”.
La Spagna aveva diviso il territorio in “encomienda” che era strutturata sul
sistema feudale, ma esasperato, nel senso che l’encomendero poteva richiedere
agli indigeni una quantità di prestazione di lavoro illimitata. I conquistadores
assumevano un potere e dei privilegi enormi, ma questi non erano
<<trasferibili>> nella madrepatria sia perché in Spagna erano visti con sospetto
quei personaggi che avevano fatto la scalata sociale lontano, a contatto con gli
indios, sia perché nel Nuovo mondo non si era creato un sistema monetario come
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nella madrepatria e quindi tutta la ricchezza non era monetizzabile. Insomma il
potere e la ricchezza dei conquistatori erano legati alle terre di conquista e non erano
spendibili in madrepatria, il che richiedeva la loro presenza in loco. L’attività
economica maggiormente integrata a quella europea era l’estrazione dei metalli
preziosi, ottenuta grazie allo sfruttamento disumano della manodopera del
luogo. In cambio dei metalli preziosi arrivano in America beni di lusso per i
dominatori locali. Questo tipo di economia, evidentemente, era una forma di
sfruttamento dell’America cui non corrispondeva nessun tipo di investimento
delle ricchezze in loco. Le unità produttive delle colonie spagnole dedite
all’agricoltura ed all’allevamento erano le “haciendas”. Spesso si abbandonano le
culture tradizionali per quelle importate dall’Europa (banane, caffè, canna da
zucchero) perché più facilmente vendibili in Europa ma con costi della
manodopera praticamente nulli. Dall’altra parte molti prodotti tipicamente
americani vengono esportati e coltivati in Europa: si tratta delle patate,
pomodoro, mais, peperoni, fagioli, ananas, cacao, manioca ed altri. In questo
modo <<i contatti tra Vecchio e Nuovo Mondo incisero profondamente sui
rispettivi paesaggi agrari>>26.
<<In tutte le attività produttive fin qui elencate, alla richiesta di manodopera,
resa sempre più impellente dal tracollo demografico delle popolazioni indigene,
si rispose con una capillare organizzazione della tratta degli schiavi neri dalle
coste atlantiche dell’Africa al Nuovo Mondo. In questo commercio si distinsero
in particolare i portoghesi, i quali, in cambio di armi e manufatti di poco
valore, acquistavano lungo le coste dell’Africa occidentale schiavi neri, che
venivano poi condotti e venduti nel Nuovo Mondo. Con il ricavato, i portoghesi
acquistavano zucchero e melassa da trasportare e rivendere sui mercati
europei. Questo commercio, detto triangolare perché coinvolgeva tre continenti
– Africa, America, Europa -, era destinato a divenire il fondamento del sistema
mercantile atlantico dei secoli XVI-XIX>>27.
Schematicamente si può dire che la Spagna concentra le proprie energie
soprattutto in America, mentre il Portogallo soprattutto in oriente.
Quest’ultimo più che annettersi interi territori costruisce un sistema di fortezze
e basi navali sulla via commerciale Lisbona-Giappone, passando attraverso
l’Africa, l’India, Ceylon, Canton, Macao. Penetrando nell’Oceano Indiano i
portoghesi entrano in contrasto con gli arabi dell’Egitto che da tempo
dominavano i traffici di quei mari. All’inizio del Cinquecento la guerra che ne
scaturisce viene vinta dai portoghesi. Sia il Portogallo che la Spagna applicano
il principio del monopolio e del controllo diretto dello Stato sullo sfruttamento
delle colonie.
Un po’ in tutti i popoli, prima o poi, si afferma la tendenza a ritenere inferiori i
popoli considerati <<diversi>>. Succedeva nell’antica Grecia, dove il barbaro era
colui che non parlava il greco, e nell’antica Roma sebbene mitigato dalla creazione
di un Impero così vasto e sovranazionale. Nel medioevo, però, il confronto che gli
europei avevano con la civiltà araba non poteva non presentare elementi di

26 Ivi, p. 288 (il neretto è mio).


27 Ibidem, (il neretto e la sottolineatura sono miei).

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somiglianza tra le due culture. Sono gli americani i “veri” diversi. Questi
<<selvaggi>> (a parte poche zone dell’Africa e le isole del Pacifico meridionale
nessun’altro popolo poteva essere considerato selvaggio) vennero, in genere,
visti da subito con repulsione. Una loro valutazione pessima portava
automaticamente a giustificare le violenze, i genocidi e gli sfruttamenti inumani
cui erano sottoposti.
Esistevano, però, anche voci fuori dal coro. La più autorevole fu quella di
Bartolomeo de Las Casas: figlio di un compagno di viaggio di Cristoforo
Colombo, va nei Caraibi agli inizi del Cinquecento per prendere possesso delle
piantagioni lasciategli dal padre. Quando vede con i propri occhi le atrocità
della dominazione spagnola decide di farsi frate e di dedicare la sua vita alla
difesa degli indios, che descrive come persone pacifiche, prive di crudeltà, senza
cupidigia, deboli di costituzione fisica. La differenza di atteggiamento tra i
conquistadores e Bartolomeo de Las Casas si inserisce all’interno di una
differente valutazione tra i dominatori locali che miravano ad uno sfruttamento
immediato ed indiscriminato e la corona spagnola che preferiva uno
sfruttamento più razionale e di lungo periodo e per questo considerava
irrazionale la decimazione degli indios. Fu sostanzialmente per questo motivo, e
non tanto per motivi <<umanitari>> che il pensiero di Bartolomeo de Las
Casas fu apprezzato dalla corona spagnola.
Dal proprio canto, la Chiesa cattolica cercava di <<recuperare>> (il termine a
mio avviso lascia molto a desiderare, ma è quello che viene normalmente usato)
gli indios e di convertirli al cattolicesimo. In linea di massima si possono
distinguere due fasi nell’opera di evangelizzazione: nella prima, dominata dagli
ordini domenicano e francescano, si cercava di unire conversione e tutela delle
loro condizioni materiali; nella seconda fase, dominata dal clero regolare, la
crudeltà e l’avidità con le quali erano condotte le operazioni di <<recupero>>
non avevano niente da invidiare a quella dei conquistatori.

6) Le “conversioni”
<<La conversione, in ambito religioso, è un profondo cambiamento spirituale
che porta a credere in una religione diversa da quella fino a quel momento
professata, oppure passare dall’ateismo ad una determinata fede. Il
cambiamento può essere spontaneo e rappresentare il culmine di un lungo
processo interiore, oppure può essere indotto da pressioni psicologiche esterne
o da minacce fisiche>>28. In età moderna la più grande conversione forzata è
proprio quella subita dagli indios ad opera degli spagnoli. In questo modo gli
indigeni vengono a perdere una componente importante della loro identità.
Nel mondo contemporaneo, invece, un esempio è dato dagli inglesi in India ed
Africa. <<Numerose società missionarie britanniche si stanziarono in Africa e in
India con il dichiarato scopo di liberare quei luoghi dalle “tenebre morali” e dalle
“più abominevoli e degradanti superstizioni” – come si esprimevano i sostenitori
delle società missionarie britanniche>>29. In India le popolazioni opposero una

28 Ivi, p. 294 (il neretto è mio).


29 Ibidem.

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resistenza tenace percependo l’azione dei missionari come una intollerabile
intromissione nella loro cultura. Col tempo quindi il progetto venne di fatto
abbandonato. La conversione non ebbe quindi luogo ed ancora oggi in India i
cristiani sono il 2% della popolazione contro l’80% induista ed il 13% di islamici.
Diverso il corso delle conversioni in Africa: divisa tra Gran Bretagna, Francia,
Belgio, Germania Portogallo ed Italia, gli indigeni non riuscirono a ribellarsi ed
infatti ancora oggi la religione cristiana è molto presente in Africa. Finalmente
<<dopo la seconda guerra mondiale la situazione cambiò, poiché molti paesi
riconobbero il diritto alla libertà religiosa e abbandonarono l’uso della forza
come mezzo per indurre alla conversione. Nel 1948 la Dichiarazione universale
dei diritti umani ha proclamato la libertà di religione in tutti i suoi aspetti,
compreso il diritto alla scelta di un nuovo culto: “Ogni individuo ha il diritto
alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà
di cambiare religione o credo […]” (art. 18). Anche la Costituzione italiana
garantisce esplicitamente la libertà di culto “Tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma […]” (art. 19). Di
grande importanza storica è stata la dichiarazione del Concilio Vaticano II,
Dignitas Humanae (1965), con la quale la Chiesa cattolica ha preso apertamente
posizione sulla questione della conversione forzata. Al secondo punto della
dichiarazione si legge infatti: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la
persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà
è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei
singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in
materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza>>30.

BIBLIOGRAFIA
Del Roio J. L., Aztechi, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano,
1993, p. 130.
Del Roio J. L., Maya, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano,
1993, p. 807.
Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., Il mosaico e gli specchi, vol 3 Dal
feudalesimo alla guerra dei trent’anni, Laterza, Roma-Bari, 2012.
Imbruglia G, Alla conquista del mondo: la scoperta dell’America e l’espansione
europea, in Storia moderna, Donzelli, Roma, 1998, pp. 23-48.
Knapton M., Apogeo e declino del Mediterraneo, in Storia moderna, Donzelli,
Roma, 1998, pp. 155-182.
Vita P., Inca, in Dizionario di storia, Il Saggiatore-Mondadori, Milano, 1993, p.
643.

30 Ivi, p. 295 (parte del neretto è mia).

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