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Facoltà di Teologia di Lugano

Anno accademico 2015-2016

Tesi di Licenza in Storia della Teologia

IL TRAMONTO DEL MONDO


TRA SANT'AGOSTINO
E CARL SCHMITT.
PER UNA LETTURA TEOLOGICA
DELLA STORIA
Ch.mo Prof. Studente

Costante Marabelli Massimiliano Bianchi


2
Il tramonto del mondo tra sant'Agostino e Carl Schmitt:
per una lettura teologica della storia

0. Presentazione della Tesi

0.1 Il contesto storico di Agostino

Il periodo della Tarda Antichità (III-VI secolo) vide la prodigiosa ascesa del
cristianesimo, che assimilò una grande parte dei valori civili, etici e culturali del mondo
romano e della civiltà classica. La Chiesa assunse così un ruolo da protagonista che
avrebbe conservato per tutto il Medioevo e per buona parte dell'età moderna; nel
costituirsi e nell’amalgamarsi di questo pensiero occidentale, che affonda le sue radici
sia nel Vangelo che nella cultura greco-romana, la figura che svetta maggiormente è
quella del Vescovo di Ippona, Agostino.

Egli nacque e visse all’interno dell’Impero Romano, la cui influenza allora si estendeva
ancora dall’Atlantico fino al εar ἑaspio e dal εare del σord fino alle coste dell’Africa
Settentrionale, circondato da popoli che lo ammiravano e lo temevano. Tagaste (una
piccola città della Numidia proconsolare) gli diede i natali il 13 novembre 354, in una
famiglia di etnia punica ma di cultura profondamente ellenistico-romana. Lì trascorse la
sua infanzia e la sua adolescenza, finché nel 370 il padre Patrizio lo mandò a
perfezionare i propri studi a Cartagine (per lungo tempo seconda città nella parte
occidentale dell'Impero e comunque la città principale della Provincia romana d'Africa).
σel γκγ si spostò in Italia, prima a Roma e poi a εilano (in quell’epoca capitale e
residenza dell’Imperatore). Nella 387 Agostino prese posto fra i competentes per essere
battezzato da Ambrogio nella Veglia pasquale; fu a questo punto che Agostino (con i
suoi compagni Alipio ed Evodio) decise di ritornare in Africa per ritirarsi nella
solitudine. Contrariamente alle sue previsioni nel 391 venne ordinato sacerdote e nel
395 vescovo: aveva quarantadue anni di età ed avrebbe occupato la sede di Ippona per i
successivi trentaquattro, fino alla sua morte.

Durante la sua età matura egli poté assistere in prima persona al succedersi degli
imperatori della casata dei Valentiniani e di Teodosio (369-395), nonché alla divisione

3
definitiva dell’Impero in due parti alla morte di quest’ultimo 1. La sua Africa romana
venne infine afflitta dalla ribellione del comes Bonifacio e dalla conseguente invasione
dei Vandali, con l’assedio sua sede di Ippona negli ultimi mesi della propria vita.

I segni di un declino economico-politico della civiltà romana e la presenza di


popolazioni barbariche all’interno dei confini nel trascorrere dei decenni della vita di
Agostino si intensificarono sempre più.

Il primo evento che mettiamo in evidenza avvenne nell’anno γικ, che segnò uno
spartiacque per l’Impero: dopo la sconfitta di Adrianopoli si passò da una infiltrazione
pacifica e concordata di singoli e di gruppi organizzati all’interno della civiltà imperiale,
ad una penetrazione armata prima dai confini orientali e poi da settentrione. Il 31
dicembre dell’anno 4ίθ, le particolari condizioni climatiche permisero ad un gruppo
misto2 di Vandali, Alani e Suebi di attraversare il fiume Reno ghiacciato presso
Magonza3, irrompendo nell’Impero da uno dei limes considerati più sicuri; la prima città
devastata fu Treviri (dal 293 al 395 una delle sedi dell'Imperatore romano d'occidente),
a circa venti leghe dal Reno. Salviano annotò che i membri del Senato di Treviri «erano
intenti a banchettare, nel momento in cui i barbari penetravano nella città, e non seppero
decidersi a interrompere il festino»4. Questa scena rappresenta in maniera significativa
il livello di decadenza morale in cui viveva allora l’τccidente.

1
I contemporanei non sentirono di vivere un evento epocale: percepivano di essere ancora parte di un
unico mondo, di un'unica romanità, anche se amministrata separatamente come era già accaduto più volte
in passato. Per di più il punto di vista del Vescovo Agostino partiva dalla peculiare situazione dell’Africa
romana che, ancorché unita alla parte occidentale dell’Impero (più provata economicamente,
politicamente, militarmente, socialmente e demograficamente per via delle continue lotte dei secoli
precedenti e per la pressione delle popolazioni barbariche ai confini), visse ancora per un certo periodo in
una relativa prosperità e sicurezza.
2
Sul limes premevano popolazioni barbare germaniche, ma non solo: gli Alani erano un popolo nomade
di etnia iranica compreso nel gruppo dei Sarmati. Da notare che furono i Franchi (allora federati
dell’Impero) a opporsi tenacemente al passaggio degli invasoriν infine, preso atto delle mutate condizioni,
anche loro imitarono i propri ex nemici.
3
ἑosì viene ipotizzato da Prospero d’Aquitania nelle sue Cronache: «Nel sesto consolato di Arcadio e
Probo, Vandali ed Alani entrarono in Gallia, avendo attraversato il Reno, il giorno prima delle calende di
gennaio (Arcadio VI et Probo, Wandali et Halani Gallias trajecto Rheno ingressi II k. Ian)»; citato da
Michael Kulikowski, Barbarians in Gaul, Usurpers in Britain, Britannia 31, 2000.
4
Così afferma Salviano nel De Gubernatione Dei (Il governo di Dio, Città nuova, Roma 1994). Invece
Girolamo nella sua Lettera 123, scritta da Betlemme, cita Magonza come prima delle città colpite
dall’invasione e cita una lunga lista di tribù coinvolte (Michael Kulikowski, Barbarians in Gaul,
Usurpers in Britain, Britannia 31, 2000, pag. 325-345. La pagina 326 la definisce una «lista lunga e
fantasiosa» e «sicuramente non più di uno sfoggio di virtuosismo etnografico»). Gerolamo comunque
rivolgendosi nella sua lettera alla patrizia Geruchia si espresse così: «Non indugerò sulle calamità del
momentoέ Essere nell’esiguo numero dei superstiti non è merito nostro, bensì misericordia del Signoreέ
Popoli ferocissimi e innumerevoli occuparono ogni angolo della Gallia. I Quadi, i Vandali, i Sarmati, gli
Alani, i Gepidi, gli Eruli, i Sassoni, i Burgundi, gli Alemanni, i nemici di Pannonia possiedono quanto si
trova fra le Alpi e i Pirenei, fra il Reno e l’Oceano, tutto devastando in un impero su cui non resta che

4
Tutto ciò portò in un tempo relativamente breve le tribù vandaliche fino alla Gallia e
alla penisola iberica (per terminare le loro scorribande fino in Africa), mentre i Visigoti
di Alarico attraversarono la penisola italiana fino a giungere nel novembre del 408 alle
porte della Città Eterna: il 24 agosto del 410 attraverso la Porta Salaria i barbari
invasero Roma, inviolata da ottocento anni, e la saccheggiarono per tre giorni.

δa notizia del sacco del cuore dell’Impero ebbe vasta risonanza in tutto il mondo
romano e anche oltre: Gerolamo ne parlò in molte suo opere anche con toni drammatici
ed apocalittici, mentre Agostino si mise a comporre (per circa tredici anni: dal 413 al
426) la sua opera De civitate Dei per ribattere alla polemica dei pagani secondo i quali il
declino dell’Impero era dovuto al fatto che Roma avrebbe perso la protezione delle
divinità pagane, abbandonandone il culto.

Nel 428 Genserico arrivò infine con i suoi Vandali (80.000 persone, di cui 20.000
guerrieri) ad attraversare lo stretto di Gibilterra e ad occupare il suolo della provincia
romana dell’Africaμ il comes Africae Bonifacio si asserragliò nella città di Ippona che
venne circondata e assediata per diciotto lunghi mesi e fu durante tale assedio che
avvenne la morte del vescovo Agostino (il 28 agosto 430).

Furono decenni di avvenimenti convulsi e in una certa misura inauditi o impensabili; i


contemporanei cercarono di interpretare ciò che stava succedendo con un ampio
ventaglio di reazioni e di diagnosi. Sulla caduta di Roma (che non era più da tempo la
capitale dell’Impero, ma ne costituiva pur sempre il cuore) riportiamo anzitutto i toni
con cui Gerolamo raccoglie le testimonianze dei profughi giunti fino a lui:

«εentre così vanno le cose a ύerusalemme, dall’τccidente ci giunge la terribile notizia che
Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo
queste estorsioni riprende l’assedioμ a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere
anche la vita.

piangere. […] Taccio il resto perché non si abbia a credere che disperi della clemenza di Dio. Quanto va
dal Ponto alle Alpi ύiulie, ora sotto il dominio dell’impero, un tempo non era nostroν ma, rotto il confine
del Danubio, si è combattuto per trent’anni nel cuore dell’impero romanoέ δa lunga prova ha inaridito le
nostre lacrime. Tolti pochi vecchi, tutti gli altri sono nati nella servitù e nella costrizione, senza nemmeno
poter desiderare una libertà che non hanno conosciuto. […] Ora nella più favorevole delle ipotesi, noi
non riprenderemmo ai nemici, vincendoli, se non quanto ci hanno rapinato. Il poeta, esaltandosi nel
descrivere la potenza di Roma, cantòμ “Se Roma è poco, che cosa vi sarà di bastanteς”έ Sentenza che noi
siamo costretti a sostituire con quest’altraμ se Roma perisce, che altro mai si salveràς».

5
Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato
tutto il mondo è conquistataμ anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi,
tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì
che ci si getti su cibi nefandiμ gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non
risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. Moab fu
presa, di notte sono state devastate le sue mura.

O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno
ridotto Gerusalemme in rovine. […]

Come ridire la strage, i lutti di quella notte?

Chi può la rovina adeguare col pianto?

Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo:

Un gran numero di cadaveri erano sparsi per le strade e anche nelle caseέ Era l’immagine
moltiplicata della morte»5.

Il confronto con il resoconto di uno storico posteriore di appena una generazione


(Sozomene, V secolo, visse anch’egli in Palestina) ne fa subito balzare all’occhio la
ben marcata differenza:

«εentre l’impero d’τriente, liberato contro ogni speranza dal timore dei nemici si trovava in
una felice prosperità, quello d’τccidente era esposto all’ambizione e all’ira dei tiranniέ
Alarico, che aveva mandato a chiedere all’imperatore τnorio condizioni di pace dopo la
morte di Stilicone, non avendola potuta ottenere, pose l’assedio davanti a Roma con una
moltitudine di barbari e si rese talmente padrone delle due sponde del Tevere da rendere
impossibile portare viveri da Porto alla città (così, in effetti, si chiama il porto di Roma).
Dopo che l’assedio fu durato a lungo e la città di Roma era estremamente provata dalla
carestia e dalla peste, tutti i barbari che erano all’interno della medesima uscirono fuori e si
arresero ad Alarico. Coloro fra i senatori che erano ancora legati alle superstizioni
ellenizzanti, proposero invece di offrire agli dei sacrifici sul Campidoglio e negli altri
templi»6.

5
Girolamo, Ep. 6, 127.
6
Sozomène, Historia ecclesiastica , IX, 6. Sozomène (400-450 circa, dalla Palestina scrisse una storia
della Chiesa in lingua greca che va dal 324 al 415) in questo passo ci mostra una Roma dove convivono
ormai Romani e barbari.

6
Come spesso capita, punti di vista differenti recensirono in modo ben diverso lo stesso
fatto storico. Quale sia stato il punto di vista e il contributo significativo di Agostino,
sarà sviluppato nella prima metà di questa Tesi.

0.2 Il contesto storico di Carl Schmitt

Se sant’Agostino meditò sul tramonto dell’Impero romano, ἑarl Schmitt si rivolse al


tramonto della Civiltà europea. Se a riguardo del contesto storico di Agostino abbiamo
in particolare segnalato le due date significative del passaggio del Reno e del Sacco di
Roma, a riguardo di Schmitt vanno sicuramente indicati gli anni 1914 (scoppio della
Prima Guerra Mondiale, ancora una volta a causa delle tensioni e rivalità tra coloro che
si fronteggiavano nei pressi delle sponde del fiume Reno) e 1945 (con la capitolazione
del Reich tedesco, osservata da Schmitt dal peculiare punto di vista della Capitale
assalita e conquistata dalle truppe in gran parte asiatiche dell'Armata Rossa).

Mentre i contemporanei di Agostino deploravano che Roma – «luce fulgidissima di


tutte le terre»7 – fosse perita a causa dei barbari, il periodo storico in cui si colloca la
vita e la riflessione di Carl Schmitt vide l’eclissarsi del secolare ed indiscusso
predominio intellettuale, scientifico, politico e militare del continente europeo a favore
di America e URSS. Egli fu prima giovane testimone della mobilitazione di 65 milioni
di soldati, della fine di quattro Imperi, della morte di 20 milioni tra civili e militari e di
21 milioni di feriti (durante la Grande Guerra) e fu poi osservatore maturo dell’ascesa,
del successo e del crollo del Terzo Reich nel suo tentativo di piegare la Russia Sovietica
e le Potenze Occidentali, avendone come esito soltanto la riduzione della gran parte
dell’Europa a un cumulo di macerie8.

Schmitt nacque a Plettenberg (nella Vestfalia prussiana e protestante) nel 1888 da una
numerosa e modesta famiglia cattolica. Laureatosi nel 1910, ottenne nel 1915 il
dottorato in diritto all'Università di Strasburgo (allora parte della Impero Tedesco) e nel
1916 la libera docenza. All'inizio degli anni '30 aderì alla corrente politico-culturale

7
Girolamo, Ep. 127.
8
Si veda K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Laterza,
Bari, 2013. Schmitt sperimentò sulla sua pelle il quadro terrificante di un continente nel vuoto assoluto
della legge, sprofondato nel caos e in una violenza senza limiti: quello stesso continente solo tre decenni
addietro poteva ancora considerarsi sia il cuore che la mente dell’intero planisferoέ

7
denominata Rivoluzione conservatrice (Konservative Revolution)9. Dopo aver insegnato
in varie università tedesche, divenne professore all'Università Humboldt di Berlino nel
1933, incarico che infine sarebbe stato costretto ad abbandonare nel 1945, al termine
della Seconda Guerra Mondiale10. Mentre i sovietici non reputarono utile arrestarlo,
viceversa venne catturato dalle truppe americane11 nel settembre del 1945 per poi
rilasciarlo il 10 ottobre 1946; dopo qualche mese di libertà fu nuovamente arrestato,
interrogato e infine definitivamente scarcerato il 29 aprile del 1947 per tornare infine a
vivere nella cittadina natale, dove continuò a lavorare privatamente e a pubblicare nel
settore del diritto internazionale12.

Il ι aprile 1λκη (era la domenica di Pasqua) Schmitt morì nell’ospedale di Plettenberg .


Sulla sua pietra tombale, nel cimitero cattolico, si fece incidere la scritta «Kai nómon
egno. Er kannte den Nomos».

Durante la sua vita Schmitt vide succedersi i tre imperatori della casata degli
Hohenzollern (1871-1918), la Repubblica di Weimar (1919-1933) e il Reich
nazionalsocialista (1933-1945), finché assistette alla divisione della Germania in due
parti al termine dell’ultimo conflitto mondialeέ La sua infanzia e la sua giovinezza si

9
«Dopochè Pawla Dorotic [una oscura ex ballerina], prima moglie di Schmitt (si erano sposati nel
febbraio 1915), era scomparsa portando con sé gli oggetti di arredamento e parte della biblioteca, il 18
febbraio 1924 il tribunale di Bonn annullò per frode il loro matrimonio. Schmitt tentò di ottenere anche
l’annullamento del matrimonio religioso, ma né il tribunale arcivescovile di ἑolonia (1κέθέ1λβη) né
quello vescovile di Münster (9.7.1926) riconobbero la presenza dei presupposti contemplati da can. 1083,
1092, 4 CIC. Non è confermato in via ufficiale che Schmitt si fosse appellato in ultima istanza alla Sacra
Rota Romana, ma è certo che egli comunque non portò a termine il procedimento» (C. Schmitt,
Glossario, 236, nota 151). Nel 1929 anche il filosofo Maritain provò ad intercedere presso il Nunzio di
Parigi. Nel 1931 nacque sua figlia Anita Schmitt, dal suo secondo matrimonio con la serba Duscka
Todorowic, una sua studentessaέ δ’impossibilità di ottenere la dichiarazione di nullità del suo precedente
matrimonio religioso segnò in maniera significativa i rapporti vicendevoli tra Schmitt e la gerarchia
cattolica.
10
Schmitt aderì al partito nazionalsocialista il 1º maggio 1933 (la sua tessera era la n. 2.098.860), e a
novembre dello stesso anno divenne presidente della Vereinigung der nationalsozialistischen Juristen
(Unione dei giuristi nazionalsocialisti); nel giugno 1934 d direttore della Deutsche Juristen-Zeitung
(Rivista dei giuristi tedeschi). Nel dicembre 1936 fu tuttavia accusato di opportunismo sulla rivista delle
SS Das Schwarze Korps e questo lo relegò nell’ombra (il ministro del Reich Hans όrank lo esonerò da
tutti gli incarichi all’interno dell’Accademia del diritto tedesco, cancellandolo anche dalla lista degli
esaminatori per l’Esame di stato). Infine nel 1937 con un rapporto riservato l’σSDAP contestò la sua
dottrina, troppo intrisa di «romanità» e criticò i suoi rapporti con la Chiesa cattolica, guardando con
sospetto al suo presidenzialismo. Il 29 dicembre 1945 Schmitt venne licenziato, perdendo così la cattedra
presso la facoltà di legge dell’università di ἐerlino dove aveva insegnato a partire dal semestre invernale
1933.
11
Il 26 settembre 1945 venne arrestato per la denuncia ad personam presentata da Karl Loewenstein, suo
ex collega, emigrato nel 1933 e a quel tempo legal adviser del governo militare americano.
12
Schmitt nel dopoguerra fu comunque indicato come un «classico del pensiero politico» (Herfried
Münkler), non ultimo per l'influenza esercitata sul diritto pubblico e sulla scienza del diritto nella prima
Repubblica Federale Tedesca (per esempio riguardo al «voto di sfiducia costruttivo» e ai solidi vincoli
posti in caso di modifica costituzionale).

8
svolsero nella Westfalia (approssimativamente la regione compresa tra i fiumi Reno e
Weser, collocata a cavallo delle due sponde del fiume Ruhr), nota soprattutto per la
pace siglata nel 1648 che pose fine alla guerra dei trent'anni13: uno snodo epocale per la
storia e il diritto dell’Europa, a cui Schmitt fece molto riferimento nella sua riflessione.

Se, secondo Salviano, i membri del Senato di Treviri «erano intenti a banchettare, nel
momento in cui i barbari penetravano nella città, e non seppero decidersi a interrompere
il festino», allo stesso modo lo storico Christopher Clark ha significativamente intitolato
il suo saggio su come l’Europa arrivò alla ύrande ύuerra «I sonnambuli»14. Questo
sonno si tramutò poi in un terribile incubo quando si arrivò alla seconda parte di questa
guerra civile europea, secondo l’espressione dello storico Eέ σolte15. Il Vecchio
ἑontinente si ritrovò prostrato nell’economia e nell’animaμ l’τccidente (dal latino
occĭdo, -is, occĭdi, occāsum, -ĕre, “cadere”, riferentesi al Sole che cade, cioè tramonta)
era in bilico tra l’immergersi in una atmosfera crepuscolare e il risorgere in una febbrile
attività di ricostruzione materiale e spirituale.

Nell’immediato dopoguerra ne diede una rilettura significativa il seguente scritto del


filosofo Benedetto Croce:

«Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente
inquietudine dì una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della
civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della
civiltà europea. Qualche accenno ce ne fu già, dopo la prima guerra, nelle elucubrazioni, in
verità poco persuasive, di apocalittici scrittori tedeschi, fabbricatori di paradossi, le quali per
altro non si convertirono in un sentimento largamente diffuso, come accade ora.

13
Con la stipulazione di due trattati a Münster e Osnabrück.
14
C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Bari, 2013. Così rileva
nell’Introduzioneμ «Quando alla fine degli anni Venti lo storico americano Bernadotte Everly Schmitt,
dell’Università di ἑhicago, giunse in Europa munito di lettere di presentazione per intervistare le
personalità politiche che avevano avuto un ruolo negli eventi, rimase colpito dal fatto che i suoi
interlocutori fossero apparentemente del tutto immuni da dubbi sul proprio operato» (C. Clark, I
sonnambuli, XIII). E ancora (commentando lo scambio di note tra Francesco Giuseppe e il Kaiser
Guglielmo II): «Quel che colpisce il lettore odierno, in queste comunicazioni, è l’atteggiamento di panico
che impedisce di inquadrare con lucidità la situazione, la preferenza per le metafore ridondanti a scapito
delle formulazioni chiare, il ricorso a mezzi espressivi istrionici per ottenere un effetto emotivo, la
contrapposizione di prospettive diverse in mancanza di una meta-narrazione unificante» (C. Clark, I
sonnambuli, 436).
15
Ernst Nolte, La guerra civile europea, 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, Rizzoli, Milano,
2004.

9
Ed è un sentimento, in questa forma e in questa estensione, nuovo nei secoli della storia
europea, nella quale lo stesso trapasso dal mondo grecoromano al medievale, nonostante le
devastazioni e distruzioni dei barbari invasori, serbò un senso di continuità, cosi per effetto
della persistente idea di Roma come per il cristianesimo che raccolse molte parti dell’eredità
del mondo anticoέ δa continuità fu reintegrata e più vivamente sentita agli inizi dell’età
moderna, intensi di opere e di fiducia, per la formazione dei grandi stati, per le scoperte e
conquiste di terre oltre l’oceano, per la cultura rapidamente crescente nei vari popoli
d’Europa, per gli arditi spiriti innovatori in religione, in filosofia e in scienzaν e, nel secolo
decimottavo, si foggiò il suo mito nella teoria del progresso irrefrenabile e nella potenza
della ragione riformatrice. […]

Prendo anch’io a ragionare di questo argomento, non per accrescere timori nè per apportare
sicurezze, e molto meno per conversare dilettantescamente intorno alle varie possibilità e
probabilità e intrattenere le immaginazioni eccitandole e interessandole, come usano gli
scrittori di giornali; ma unicamente nei riguardi della idea della storia, della quale giova ben
meditare in ogni sua parte la logica, e della idea della forza morale che nella storia ha la sua
realtà»16.

Quale sia stato il punto di vista e il contributo significativo di Schmitt (sia in accordo
che in differenziazione rispetto alla prospettiva agostiniana) sarà sviluppato nella
seconda metà di questa Tesi.

0.3 Svolgimento della Tesi

Mentre per i pagani si susseguono catastrofi, per i cristiani si giunge alla Rivelazione e
al suo pieno compimento: avendo la Storia anche un fine e non solo una fine (o un
eterno ritorno) ogni eventuale provvisorio tramonto in realtà è una tappa verso il giorno
eterno. Le polemiche pagane (o neopagane) nei confronti della fede e della speranza
evangelica hanno portato lungo i due millenni della Chiesa a chiarire, sistematizzare e
ribadire i contenuti cristiani necessari ad una corretta lettura della storia.

Nello svolgimento della nostra ricerca ci atterremo alla seguente scansione:

1) Anzitutto presenteremo l’obiezione pagana alla Chiesa: in un contesto di timore


per il tramonto del mondo e di paura per la crisi economica, civile e politica, gli

16
B. Croce, Quaderni della Critica, novembre 1946, numero 6.

10
esponenti della cultura pagana entrarono in aperta polemica nei confronti della
emergente élite cristiana.
2) Come risposta teologico-politica, entreremo soprattutto nel dettaglio del
pensiero di Agostino (particolarmente nel De civitate Dei). Seguendo il
peculiare punto di vista di questo Dottore della Chiesa a cavallo tra il IV e il V
secolo, ripercorreremo la sua lettura in chiave teologica delle vicende a lui
contemporanee e della passata storia dell’umanitàέ
3) Seguirà un breve ma necessario raccordo storico-teologico per collegare la
ripresa del problema passando dal V al XX secolo. Esamineremo
sommariamente come il pensiero agostiniano riguardo alla storia e alla politica
verrà ripreso, sviluppato, tradito o negato fino ad arrivare all’Europa dei primi
del Novecento. Mostreremo anche come la secolarizzazione della società e del
pensiero porterà ad allontanarsi e a polemizzare contro i capisaldi del pensiero
agostiniano e cristiano.
4) Contestualizzandolo nei fermenti culturali e teologici dell’epoca, illustreremo
l’esposizione (di matrice neopagana) di Oswald Spengler nel suo Tramonto
dell'Occidente, in una società europea che tocca il suo apogeo ed entra in un
drammatico declino dopo aver messo ai margini della sua riflessione e delle sue
élites la visione cristiana e la Chiesa cattolica.
5) In questo contesto di crisi, seguiremo la produzione intellettuale di Carl Schmitt
nella sua ricerca di un nuovo Nomos della terra e ne evidenzieremo i legami con
la riflessione agostiniana.
6) Infine trarremo alcune conclusioni riguardo alle due figure principalmente prese
in esame: Agostino e Schmitt. Ne delineeremo sia i parallelismi che le
dissomiglianze e mostreremo l’attualità dei loro punti fermi nella riflessione
contemporanea.

In ogni punto, una attenzione particolare sarà rivolta al mettere in luce quel retroterra di
eventi storici, di esperienze concrete e personali e di condizionamenti civili e politici
che plasmano in maniera marcata la Weltanschauung di ogni persona: inevitabilmente,
la particolare Teologia della Storia dei vari autori dipende sia dalla propria visione
teologica che dalla Storia concreta in cui si sente inserito.

11
1. L’obiezione pagana alla Chiesa: verso il tramonto
del mondo
Presentiamo anzitutto l’accusa anticristiana formulata dai pagani: in un contesto di
timore generale circa il tramonto del mondo e di paura17 per la crisi economica, civile e
politica in corso, si entrò in aperta polemica nei confronti della Chiesa emergente. Se le
cause del declino e della scomparsa dell’Impero romano restano ancora oggi, a distanza
di secoli, un mistero troppo vasto e complesso per poter essere adeguatamente
compreso18, a maggior ragione risultavano scosse le diverse sensibilità degli storici (o
dei semplici cronisti) della Tarda Antichità.

Zosimo (storico pagano di inizio VI secolo che probabilmente utilizza come fonte lo
storico pagano del V secolo Olimpiodoro) narra come durante l'assedio di Roma del
408:

« Il prefetto urbano venne in contatto con alcuni [individui] giunti a Roma dalla Tuscia, i
quali asserivano che la città di Narni era stata liberata da un pericolo simile attraverso alcuni
riti sacrificali. [...] Dopo avere parlato con essi, dato che si era già imposta la religione
contraria, ritenne opportuno, per la massima sicurezza, dover informare di quella questione,
prima di iniziare alcunché, papa Innocenzo. A sua volta Innocenzo, anteponendo la salvezza
della città alla propria fede, permise che quelli attuassero di nascosto le pratiche di cui erano
esperti. Dunque queste persone provenienti dalla Tuscia replicarono che per la salvezza della
città non vi sarebbe stato alcun vantaggio se i sacrifici prescritti non fossero stati effettuati
pubblicamente, con il senato che ascendeva al Campidoglio e che sul Campidoglio e nelle
piazze celebrava i riti di circostanza. Ma nessuno ebbe il coraggio di partecipare a quei
sacrifici secondo il costume patrio: i Tusci vennero rispediti indietro e ripresero le trattative
con i barbari. [...] [Per pagare il riscatto chiesto da Alarico] decisero di ricorrere agli
ornamenti che rivestivano le statue: questo significava che le statue di culto, riccamente

17
Gli studi di Dodds diagnosticano una sorta di malattia endemica a tutta la cultura del periodo: una era
dell’angoscia che va da Marco Aurelio a Costantino e oltre. E. Dodds, Pagani e cristiani in un'epoca di
angoscia. Aspetti dell'esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, La Nuova Italia, 1993. Vedi
anche R.A. Markus, La fine della cristianità antica, Borla, Roma, 2010, 106.
18
La fine di Roma ha molte cause: almeno 210, secondo Alexander Demandt, che si è preso la briga di
ordinare (dalla A di Aberglaube alla Z di Zweifrontenkrieg) le motivazioni individuate in secoli di
storiografia. A. Demandt, Der Fall des Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der
Nachwelt, München, Beck, 1984, 695. Lo cita B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà,
trad. it. di M. Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 2010, 42.

12
ornate per aver mantenuto prospera la città, erano senza vita e inefficaci, perché le cerimonie
sacre erano andate scomparendo» 19.

Se la secolare protezione soprannaturale che aveva fino a quel momento garantito la


potenza di Roma20 era venuta a mancare davanti alla minaccia dei barbari, la colpa era
di chi aveva reso le statue del culto (ritenute per secoli segni visibili di una benedizione
tangibile) ormai «senza vita ed inefficaci». δ’alba (o piuttosto, ormai, il mattino) della
Chiesa di Cristo veniva a coincidere con il sanguigno tramonto di un mondo divenuto
consapevole della propria decrepitezza21.

1.1 La vecchiezza del mondo

Dopo che la cultura greco-romana ebbe esaurito il proprio periodo di nascita e di


consolidamento, venne finalmente messo a tema il concetto di tramonto o di vecchiezza
riferito alla propria civiltà.

«όin quasi all’inizio del primo secolo precedente la nostra era, i Romani ebbero la
convinzione intima di essere un popolo giovane, attivo, in espansione. La sensazione di una
crescita continua ed indefinita sembra in quel tempo avere dominato la loro visione della
storia, ed aver fornito la base ideologica alla politica delle conquiste. Nessuna idea di
decadenza aveva ancora influenzato il loro spirito, né tantomeno il loro comportamento, ma
l’epoca delle rivoluzioni e delle guerre civili li indusse a dubitare di se stessi, spingendoli a
cercare nel passato le origini lontane d’un declino dolorosamente avvertito»22.

19
Zosimo, Historia nova, V, 41.
20
I romani intendevano la pietas come una dipendenza dalla divinità e che consentiva di attendere in
contraccambio la benevolenza degli dèi. È in questo che si realizzava la pax deorum, un vero e proprio
patto tra uomo e divinità, che aveva garantito lo sviluppo e il dominio di Roma. Fu per questo che, in un
Impero diventato ormai cristiano, Valentiniano I, disse che il Cristianesimo non aveva rinnegato nulla
della cultura romana tranne il paganesimo: la «pax deorum» diventa la «pax Dei» o «pax Christi», la
lealtà verso la patria è assimilata alla lealtà verso la famiglia. Le virtù che hanno fatto grande Roma
(fides, fortitudo, disciplina) furono fatte proprie dalla nuova religione.
21
Anche Marta Sordi rileva che questo periodo venne caratterizzato da un disprezzo del mondo e della
condizione umana sulla terra, dall’importanza data all’elemento soprannaturale (divino o demoniaco), ai
sogni e alla profezie, comune sia ai Cristiani che ai pagani. Vedi M. Sordi, I cristiani e l’impero romano,
Jaca Book, 2004, 148.
22
E. Zocca, La "Senectus mundi". Significato, fonti e fortuna di un tema ciprianeo, in Studi sul
cristianesimo antico e moderno in onore di Maria Grazia Mara, a cura di M. Simonetti e Paolo
Siniscalco, in “Augustinianum” 35 (1995), 651. In particolare Zocca rimanda a M. Ruch, Le thème de la
croissance organique dans la pensée historique des Romains, de Caton à Florus, in Aufstieg und

13
Già tra il 200 e il 100 a.C. a Roma vennero a fondersi le influenze sia della disciplina
etrusca che della cultura greca.

Spesso non viene messa sufficientemente in evidenza l’influenza della tradizione


culturale dell’Etruriaμ fu lo stesso Augusto23 ad ordinare che gli antichi libri attribuiti
alla ninfa Vegoia fossero conservati sul Palatino ed è da lei che possiamo riascoltare la
coscienza del tramonto della nazione etrusca, che riteneva le fossero stati assegnati otto
secoli, quibus transactis, finem fore nominis etrusci24, terminati i quali sarebbe emersa
la stanchezza della terra (attribuita alle colpe degli uomini). Inevitabilmente, i singoli
uomini, le loro città e i grandi popoli avevano sia un dies natalis, sia una prestabilita,
necessaria e immutabile successione di stadi orientati verso una consumazione o una
palingenesi.

Sull’influenza della cultura greca possiamo invece dare voce al circolo degli Scipioniέ
Polibio, che di Scipione Africano fu amico e compagno nella spedizione punica, compie
una precisa diagnosi dei possibili futuri mali di Roma:

«Che tutto ciò che esiste debba soggiacere a rovina e a mutamento, è cosa che non abbisogna
di parole; e la stessa necessità di natura è sufficiente a confermare tale verità. E due sono i
modi secondo i quali avviene la naturale corruzione di ogni organismo politico: quello che
viene dall’esterno e quello che è ingenerato» 25.

Arrivando al I secolo avanti ἑristo, anche nell’ambito latino la visione generale


riguardo alla vecchiezza e al tramonto delle nazioni aveva ormai trovato una propria
organizzazione coerente e compiuta:

Niedergang der Römischen Welt, I,2, Berlin, 1972, 840-κ41έ ἑon l’avvicinarsi dell’epoca imperiale si
diffuse a Roma, sotta la spinta delle predizioni etrusche, per l’idea del ύrande Anno e per altri motivi
ancora, una concezione ciclica di origine greca, che si stagliava su uno sfondo di generale pessimismo.
23
Servio, Aen. 1. Il suo stesso nome resta però ancora incerto (Begoe, Vegoia, Cecunia, Vecui, Vecu?).
24
Censorino, De die nat., 17,6.
25
Polibio, Storie VI, 57,1-βέ Durante l’esito della guerra punica Polibio fu testimone oculare del pianto di
Scipione su Cartagine distrutta. Egli di fronte alla rovina definitiva della grande rivale, considerando la
sorte dei vinti, meditava con amarezza sul mutamento cui imperi, popoli ed individui sono soggetti,
temendo che una sorte uguale sarebbe potuta toccare un giorno a Roma. Così è riferito da Appiano,
Puniche, 132.

14
«Sallustio dunque con il suo Omnia orta occidunt ad aucta senescunt (letteralmente citato
nell’Ad Demetrianum di san ἑipiano), non è poi un grand’innovatoreέ Egli poteva aver letto
la sentenza in Tucidide, suo modello greco, e in Platone, avendo avuto, come si è visto,
Polibio quale fratello spirituale. Ciò che in lui è diverso, rispetto ai suoi predecessori, è il
legame profondo, non solo affettivo, ma diremmo quasi esistenziale, che si stabilisce fra lo
storico e la sua città; una città, Roma, che va assumendo valori simbolici tali da far sì che le
considerazioni del suo declino scavalchino il piano meramente politico per collocarsi in un
ordine superiore di ben diverso spessore etico»26.

La diffusa idea di decadenza si sviluppò su due prospettive parzialmente diverse e


distinte: secondo uno schema biologico (basato sull’aspetto politico e sull’interesse per
la storia di Roma, così in Cicerone27, Seneca28, Anneo Floro29 e altri) e secondo uno
schema cosmico (anzitutto Lucrezio30 e la sua senectus mundi che avvolge tutte le cose).
δa grande differenza sta nel porre l’uomo come protagonista delle vicende oppure come
comprimario assieme alla natura tutta, distinta nelle sue varie componenti.

Quando si entrò nell’era cristiana e l’organismo politico e militare di Roma perse il suo
vigore, gli antichi oracoli tramandati da secoli sembrava che indicassero all’Impero una
precisa, triste ed inevitabile diagnosi.

1.2 I cristiani visti come male dell’Impero

Roma toccò l’acme della propria potenza imperiale e si avviò verso il proprio declino in
contemporanea alla nascita e alla diffusione della Chiesa. Pur essendo generalmente
tollerante con la religione antica e spiccatamente nazionale degli Ebrei, l’Impero

26
E. Zocca, La “senectus mundi”, 654.
27
Tra il 51 e il 52 d.C. nel suo De republica II, riprendendo le Origines di Catone, fa rivivere la nascita,
l’adolescenza, l’età adulta e il pieno vigore del popolo romanoέ
28
Lattanzio, Div. Inst. VII,1η,14 ss conserva un brano di Seneca che indica la fine dell’adolescenza di
Roma con le guerre puniche e l’ingresso nella giovinezza con il conseguente accrescersi della sua
potenza.
29
Questo autore, che riprende comunque lo stesso schema in cinque età di Seneca, si distacca dagli altri
per una differenza significativa, cogliendo la positività del momento storico in cui si trovava a vivere. Se
il declino si era manifestato da Augusto in poi, con Traiano la vecchiaia dell’Impero aveva ceduto il posto
ad una nuova giovinezza. Anneo Floro, Epitome, proemio.
30
Lucrezio, De rerum natura II, 1105-1174.

15
romano venne rapidamente a guardare con sospetto alla religione cristiana, nuova ed
universale. Le accuse mosse loro furono prevalentemente di tre tipi31:

1) Anzitutto l’ateismo, a causa della loro astensione dai culti dello Stato32 e
dell’Imperatore33, con la loro fede in Dio pura e senza immagini. Il travisamento
della dottrina e del culto cristiano arrivava fino all’accusa di banchetto tiestico34
e di impudicizia edipoidea35 (incesto).
2) Dalla fine del II secolo e fino al IV e V secolo si diffuse l’accusa che le
calamità36 fossero causate dal disprezzo di questa nuova religione verso le
divinità tradizionali. «Il sacrilegio distrusse il raccolto!»37, fu la dolorosa
esclamazione del prefetto dell’Urbe di fronte alla siccità che seguì la
soppressione della tradizionale offerta delle primizie del raccolto agli dèi.
3) Infine vi era anche il rimprovero di essere una classe improduttiva: «infructuosi
negotiis»38. Il pagano Settimio li chiama «latebrosa et lucifuga natio»39, che
reclutava i suoi adepti nei bassifondi.

Nel II e III secolo40, se guardiamo l’atteggiamento dei funzionari imperiali possiamo


vedere come ad intensi momenti di persecuzione si alternarono periodi di una certa
tolleranza41, così come all’interno all’ancora composito e magmatico ambiente cristiano
convissero atteggiamenti diversi e opposti tra di loro nei confronti di Roma.

«La tolleranza di fatto che si era stabilita fin dagli ultimi anni di Marco Aurelio nei riguardi
dei Cristiani era collegata, come si è visto, con l’accettazione da parte degli stessi ἑristiani
delle regole della convivenza politica che si risolveva, soprattutto, con la loro partecipazione

31
K. Bihlmeyer-H.Tuechle, Storia della Chiesa, 1, Morcelliana, Brescia, 1967, 99.
32
Tertulliano, Apolog. 24: «crimen laese romanae religionis».
33
Ivi, 28: «crimen laese majestatis imperatorum».
34
Ivi, 7,1: «Sacramentum infanticidii et pabulum inde».
35
Giustino, Apolog. I, 26; Tertulliano, Apolog. 7-9.
36
In particolare: la peste, le inondazioni, le carestie e soprattutto le invasioni barbariche. Tertulliano,
Apolog. 40; Origene, In Matth. Comm. Ser. 39; Arnobio, Adv. Nat. I,13,26.
37
Simmaco, Relatio III, 16.
38
Tertulliano, Apolog. 42. 43. Il riferimento è ad Atti 19, 24.
39
Minucio Felice, Octav. 8,4.
40
È la «complessità di un’epoca in cui i cristiani non conobbero unicamente martirio e vita clandestina,
né tranquilla pace turbata solo qua e là da marginali episodi di persecuzione». M. Sordi, I cristiani e
l’impero romano, quarta di copertina.
41
Anche quando non veniva esercitata la violenza fisica rimaneva comunque incandescente una certa
polemica verbale. In diversi periodi la polemica anticristiana si ostinava a proclamare disumane le virtù
evangeliche, farà così Celso (nel Sermo verax), Porfirio (nel Contra Chr.) e l’imperatore ύiuliano (Ep. 84
e 89).

16
senza rifiuti pregiudiziali alla vita dell’imperoμ per questo la polemica che Tertulliano
conduce in questi anni contri i cattolici nel De corona, nel De idolatria, nel De fuga, non può
essere ridotta ad uno scontro tra rigoristi e lassisti, ma si rivela come la lotta che
l’intransigenza montanista, decisa a chiudere il ἑristianesimo in un isolamento settario,
conduceva contro l’inserimento dei ἑristiani nelle strutture dello stato e della società, contro
un inserimento che la Chiesa, adottando un atteggiamento conciliante là dove i principi non
erano i giuoco, perseguiva con prudente e responsabile realismo»42.

La svolta del IV secolo (durante il quale il Cristianesimo prima divenne religio licita43 e
poi addirittura culto di stato44) non spense affatto le voci critiche: seguendo
l’immemorabile consuetudine di cercare un’origine soprannaturale nei mali della
società, gli esponenti del paganesimo si rivolsero con rinnovato vigore contro la
religione cristiana e indicarono l’inizio della catastrofe civile e militare con l’apostasia
nazionale di Costantino, quando era stato inferto un colpo mortale al Mos maiorum45.

Non mancava chi mise pure in luce come la crescente avidità procedesse di pari passo
con il saccheggio dei templi e l’abbandono dell’antica religione 46. I pagani ritenevano
che i cristiani (e soprattutto i monaci47) stessero realizzando le parole profetiche di
Orazio:

42
M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, 125.
43
A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari, Laterza, 2002, 57. Prima ancora
dell’Editto di εilano da parte di ἑostantino, va segnalato l’Editto di Serdica da parte del Tetrarca
Galerio.
44
Con il decreto dell'8 novembre 392 Gentilicia constiterit superstitione (l’ultimo dei Decreti Teodosiani
che rappresentano l’attuazione pratica dell’Editto di Tessalonica) l’Imperatore proibì esplicitamente
anche i culti pagani privati.
45
Dal latino mōs maiōrum, letteralmente «costume degli antenati», rappresenta il nucleo della morale
tradizionale della civiltà romana. I termini mos e consuetudo vengono considerati sinonimi negli studi sul
diritto romano, ma per un altro verso bisogna precisare l’esistenzadi differenze, lievi ma non del tutto
trascurabili, ravvisabili nella presenza o meno di una componente religiosa e dell’intervento sacerdotale. I
mores, infatti, sono usi e costumi conseguiti per ottenere il bene dell'intera comunità, e caratterizzati
prima, da elementi magico-pagani, poi dall'intervento sacerdotale: i sacerdoti, con le rivelazioni dei
mores, conferirono a questi il classico carattere giuridico-religioso. Le consuetudines invece sono usi e
costumi che il popolo segue come abitudine, non segnate da un carattere “sacro”, né custodite o attuate
dall'ordine sacerdotale.
46
Zosimo, Historia nova II, 38, 1-5; Ammiano Marcellino, Res gestae XXII,4,3; Anonimo, De rebus
bellicis II,1-2.
47
Furono dei monaci ad aprire ad Alarico il passo delle Termopili nel 396 Eunapio di Sardi li definì
“empia gentaglia dalle vesti oscure”έ ἑitato in Rέ Teja, Tempo escatologico e tempo reale: la fine
dell’Impero Romano e la durata del regno dell’Anticristo; Tempo sacro e tempo profano. Visione laica e
visione cristiana del tempo e della storia, Rubettino, 2002, 26.

17
«Roma la distruggeremo noi, empia generazione di gente maledetta (impia perdemus devoti
sanguinis aetas) e le belve di nuovo occuperanno la terra e il barbaro vittorioso calpesterà le
nostre ceneri e il cavallo colpirà con la sua armatura risonante l’urbe caduta» .
48

1.3 Anno 382: una tappa significativa di uno scontro


inevitabile

ἑol trascorrere dei decenni e con il procedere degli eventi, l’accusa che le calamità
nell’Impero fossero causate dal disprezzo dei cristiani (passati dalla persecuzione
all’essere religio licita) verso le divinità tradizionali si fece sempre più diffusa ed
insistente, fino a collocarsi al primo posto nelle requisitorie pagane.

Se tale convinzione era alimentata dal succedersi di sinistri segni di declino e di


minaccia sia alle frontiere che all’interno delle provincie dell’Impero, va però
considerato che la storiografia successiva agli anni Quaranta del XX secolo ha superato
la visione di un progressivo ed ininterrotto sfacelo della compagine civile romana dal
200 d.C. in poi: anche se, ad esempio, il IV secolo non fu il II secolo, bisogna
comunque riconoscervi un proprio straordinario vigore a livello culturale, economico e
sociale.

In questo contesto di diffusione di un certo benessere (e di tensioni circa la ripartizione


della ricchezza proveniente dall’estremità dell’Impero verso la ἑapitale) rileggiamo
anche la diatriba tra il pagano praefectus urbis Simmaco e il Vescovo cattolico di
εilano, Ambrogioέ σel γκβ giunse la decisione dell’imperatore cristiano Graziano (o
comunque dei suoi burocrati, residenti in una città lontana da Roma) di applicare al
collegio pagano delle Vestali le stesse limitazioni alle esenzioni fiscali imposte al clero
cristiano (motivate dal fatto che i grandiosi privilegi concessi alla Chiesa da Costantino
e ἑostanzo II erano diventati insostenibili per l’Erario romano)έ Quando il praefectus
urbis scrisse la sua Relatio III49 per protestare contro ciò che veniva percepito come un
disonore verso un’antica istituzione pubblica (i privilegi riservati alle Vestali era
giustificata dalla loro preghiera a favore del bene pubblico, inoltre il grano della loro

48
Orazio, Epodo 16,9-12.
49
La Relatio tertia in repetenda ara Victoriae è così chiamata in quanto terzo scritto del praefectus ,
inviato come relazione ufficiale all’Imperatoreέ

18
quota dell’Annona si riteneva garantisse la fertilità delle province di provenienza), il
Vescovo di Milano si fece avanti in qualità di custode della coscienza del nuovo
Imperatore, Valentiniano II (fratellastro di Graziano, da poco eliminato da un
usurpatore).

La posizione di Simmaco fu cauta e allo stesso tempo acuta, studiandosi attentamente

«di riconquistare l’antico consenso tra i membri pagani e cristiani del Senatoέ Egli sosteneva
con grande forza la speranza che ogni persona responsabile e dotata di senso civico poteva
concordare sul fatto che, qualunque fosse la sua fede, i culti di Roma dovevano continuare
come avevano sempre fatto»50.

Secondo le parole poste sul basamento di una statua dedicata a una vergine Vestale del
III secolo: «Grazie alla sua disciplina morale e alla sua conoscenza dei riti, la
Respublica ha vissuto felice giorno dopo giorno grazie a lei». Per far sì che
continuassero questa cura e questa protezione invisibile sulla città, bisognava
ottemperare ad un culto scrupoloso: «Giacché la benevolenza di un potere superiore, se
non si conserva con il culto, va perduta»51.

In una società minacciata da impreviste ed improvvise carestie, la mentalità popolare


era molto guardinga riguardo tutto ciò che poteva sembrare un affronto agli dei. Oltre a
toccare le sensibili corde della paura, Simmaco ribadiva anche i vecchi argomenti
cosmici degli amator patriae:

«Ognuno ha propri costumi, propri riti. La mente divina ha assegnato alle diverse città come
protettori culti diversiέ ἑome gli uomini ricevono un’anima al momento della nascita, così i
popoli hanno in sorte un genio [lo spirito guardiano] che ne accompagna il destino. […] Per
questa ragione noi [del Senato] chiediamo la pace per gli dèi dei nostri padri, per gli dèi della
nostra terra natia. […] è anzi da presumere che sia l’identica realtà a venire adorata da tuttiέ
Noi contempliamo le stesse stelle, abbiamo un unico cielo, il medesimo universo ci

50
P. Brown, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-
550 d.C., Einaudi, Torino, 2014, 146.
51
Simmaco, Ep.I, 46, 2.

19
racchiude: che importa con quale metodo ciascuno cerchi il vero? Non per una sola via si
giunge ad un mistero così grande»52.

Non uno itinere. Non per una sola via. Il politeismo pagano e il monoteismo cristiano si
stavano affrontando da parecchio per superare quell’equilibrio dei rapporti di forza a cui
si era giunti (e che non poteva durare a tempo indefinito). Secondo la visione classica
greco-romana, la diversità confessionale era parte integrante del tessuto dell’universo 53;
anche in questa vicenda non si faceva appello ad una qualche forma di tolleranza, bensì
più che altro si portava avanti l’esperienza plurisecolare della complessità degli istituti
religiosi contro ogni capriccio di una singola fazione religiosa:

«A questo riguardo, Simmaco si era fatto un’opinione sbagliata dello stato d’animo degli
imperatori: il fatto non era che Graziano e Valentiniano II fossero dei cristiani bigotti, bensì,
e prima di tutto, degli autocratiέ δ’egotismo istituzionalizzato tipico del tardo sistema
imperiale romano lasciava poco spazio ai culti delegati in città lontane. Il vero problema era
chi poteva affermare di essere il più vicino al potere benefico della Vittoria: il Senato nella
lontana Roma o l’Imperatore nel suo palazzoς Da qui l’accorta decisione di Ambrogio di
presentare la sua battaglia con Simmaco come se al centro della questione vi fosse l’altare
della Vittoria in Senato (e non i privilegi delle Vestali). Fu Ambrogio, e non Simmaco, a fare
in modo che la polemica tra il vescovo e il praefectus urbis passasse alla storia sotto il
fuorviante nome di controversia sull’altare della Vittoria»54.

Il vero vincitore di questa controversia fu semplicemente Valentiniano II, che metteva


in chiaro di non aver necessità di dipendere da antichi rituali compiuti a Roma o dal suo
Senato: la Vittoria era da tempo ritenuta un comes – un particolare compagno divino –
dell’Imperatore, il suo angelo custode legato a lui da un particolare vincolo creato in

52
Simmaco, Relatio III, 8 e 9.
53
Anche il cristianesimo, nei primi secoli della sua diffusione, si era presentato aperto all’accettazione
della diversa fede da parte degli altri. Nel 197 Tertulliano (da poco convertito) scriveva: «Uno onori Dio,
un altro Giove; uno tenda le mani supplici verso il cielo, altri verso l'ara della Fede; uno, se crede, conti,
pregando, le nuvole, un altro le travi del soffitto; uno al proprio Dio voti l'anima propria, altri quella di un
caprone. Badate, infatti, che non concorra anche questo al delitto di irreligiosità: togliere la libertà di
religione e interdire la libertà di scelta della divinità, così che non mi sia permesso onorare chi voglio, ma
sia costretto a onorare chi non voglio. Nessuno vorrà essere onorato da chi non vuole farlo, nemmeno un
uomo». Tertulliano, Apologetico, 24.
54
P. Brown, Per la cruna di un ago, 148.

20
cielo. Ecco perché in realtà la seconda metà del IV secolo non vide né la soppressione
del paganesimo a Roma, né il costituirsi di un impero pienamente cristiano: solo tre anni
dopo la proclamata vittoria di Ambrogio, in Campania un rescritto imperiale consentiva
che l’anfiteatro di ἑapua fosse riempito di rose in concomitanza con la festa pagana dei
Rosalia, continuando la tradizione delle sacre abluzioni e della processione al tempio di
Diana55.

La vicenda ebbe ulteriori strascichi, sempre invischiando i pagani e i cristiani in un


intreccio di lotte per la conquista del potere: nel 392 il sostegno dei senatori pagani
permise a Roma l’elezione imperiale di Eugenio il quale (pur essendo cristiano) fece
ricollocare l'altare e la statua nella Curia, mentre il 6 settembre del 394 Eugenio fu
sconfitto da Teodosio56 che fece rimuovere definitivamente l'altare.

Ogni volta la disputa era più una prova di forza tra diversi gruppi politici e sociali, più
che una questione religiosa; ad ogni modo il secolo V si apriva con questa ferita ancora
aperta nell’opinione pubblica pagana, che vedevano definitivamente spezzati gli
ottocento anni di protezione divina57 nei confronti della Città Eterna. Con il sacco di
Roma del 410 i termini (o i pretesti) religiosi di questa polemica torneranno
nuovamente a galla.

1.4 Storia e mondo per i pagani e per i cristiani: una


inconciliabile differenza.

Pagani e cristiani (ormai giunti ad una situazione pressoché di stallo sia sotto il profilo
di consistenza numerica che di gestione del potere civile 58) non frequentavano

55
Ivi, 150.
56
Teodosio con un decreto del 24 febbraio 391 (Nemo se hostiis polluat, Codice teodosiano, xvi.10.10)
stabilì che le statue del Foro non si potessero nemmeno guardare.
57
L'Altare della Vittoria (insieme alla statua dedicata alla Vittoria) era stato posto al centro della nuova
Curia Iulia il 28 agosto 29 a.C. per celebrare la vittoria ottenuta nel 31 a.C. ad Azio da Ottaviano Augusto
su Marco Antonio e Cleopatra. Però, ad esempio, la statua dorata della dea alata coronata d’allora era
stata sottratta dai Romani ai Tarantini al tempo della vittoria conseguita su Pirro (272 a.C.). I confini della
città di Roma erano inviolati dal 390 a.C., con il Sacco di Brenno.
58
Si tenga particolarmente conto dell’analisi di Rέ Stark, Le città di Dio. Come il cristianesimo ha
conquistato l’impero romano, δindau, Torino, βί1ίέ All’alba del IV secolo la fede cristiana vacillava
sotto la persecuzione di Diocleziano, mentre sul finire dello stesso secolo sembrava che fossero gli dèi ad
essere ormai fuggiaschi di fronte alla nuova religione ufficiale. Il politeismo e la cultura pagana
mantennero comunque per lungo tempo una vitalità considerevole: Stark, sotto un profilo prettamente
statistico, dimostra che dopo Costantino ogni imperatore nominalmente cristiano nominava comunque un
gran numero di pagani alle cariche di prefetto o di consoleμ fu soltanto sotto l’impero di ύraziano (γιη-
383) che i cristiani ottennero almeno la metà delle nomine.

21
semplicemente luoghi di culto differenti gli uni dagli altri: era proprio la loro visione del
mondo59 e la loro concezione della storia60 ed essere inconciliabili. E tutto ciò spingeva
ciascuno a formulare facili accuse contro l’altro.

Osserva lo storico Marrou, facendo propria la prospettiva cristiana:

«La nostra fede ci condurrebbe forse a considerarci e comportarci come del tutto estranei alla
città terrena, cioè come spettatori passivi, rassegnati, indifferenti? Ci è stato rimproverato fin
dall’Antichitàμ si veda verso il 1ιι-180 Cornelio Celso, il più antico dei “maestri del
pensiero anticristiano”61; si veda tutta la cura che hanno gli Apologisti della generazione
seguente, Tertulliano e altri con lui, nel convincere i loro uditori che il fatto di considerarsi
già cittadini della Città Eterna non conduce necessariamente i cristiani a disertare il posto
che occupano, per volontà di Dio, in seno alla città umana (così il mio vecchio amico Auctor
ad Diognetum θ,λ)έ Anche nell’intimo della tradizione cristiana l’agostinianesimo si è visto
rivolgere lo stesso rimprovero come se, con la sua pratica dei fini ultimi e in particolare del
fine ultimo dell’attività e della storia umana, conducesse a trascurare, a disprezzare gli umili
compiti temporali»62

La lineare63 concezione cristiana si scontrava e pretendeva di sostituire la tradizionale


visione ciclica64 dello svolgersi degli eventi65. Tra i vari autori, è sicuramente Cullman

59
Êthos, seguendo Heidegger, è il modo di soggiornare nel mondo: il modo greco di soggiornare nel
mondo non è il modo cristiano-occidentale per il diverso significato che il termine mondo possiede nelle
due culture. Si veda la nota 66.
60
όu anzitutto Polibio che, avvertendo l’esigenza di una storiografia tendente all’universalità dei fatti, a
comporre una teoria dell’anaciclosi, o ἀ α ω , contenuta nel sesto dei suoi quaranta libri
pervenutoci tuttavia in parte mutilato. Per lui tempo è assimilabile alla figura di un cerchio, nel quale si
confondono l’inizio e la fine, annullandosi in un costante ripetersi di eventi.
61
Origene, Contra Celsum, VIII, 68.
62
H.I. Marrou, Teologia della storia, Jaka Book, Milano, 2008, 140.
63
Si veda O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo
primitivo, EDB, Bologna, 1980, 74: «Dalla nostra ricerca terminologica risulta che i primi cristiani non
concepiscono il tempo come una realtà opposta a Dio, ma come il mezzo di cui Dio si serve per rivelare
l’azione della sua graziaέ Il tempo quindi non è l’opposto dell’eternità di Dioν d’altra parte, esso viene
considerato come una linea retta e non come un circolo. Gli si attribuiscono infatti un inizio e una fine,
un’archè e un tèlos. Non appena inizio e fine vengono distinti, la rappresentazione più adeguata è data da
una linea retta».
64
Si veda σέ D’Anna, Il gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Rusconi, Milano, 1999, 64:
«δa concezione dell’eterno ritorno non era solo un costitutivo essenziale del pensiero ellenico […] ma
aveva le proprie ragioni in un modo di essere dell’uomo nell’universo, cosa che giustifica la sua presenza,
aggiungiamo noi, come mito che si invera in precisi rituali periodici, praticamente in tutte le culture
premoderne, tradizionali. Tutta la tradizione speculativa ellenica, a partire già da Talete e poi via via fino
a Platone, con l’eccezione forse del solo Anassagora, mostra di essere profondamente permeata da questa
concezione del tempo non lineare, di un suo scorrere ciclico che tende a ripristinare le condizioni
precedenti le conseguenze del suo stesso scorrereέ δ’immagine che se ne ricava è quella di un cerchio il

22
che ha fatto maggiore chiarezza sul contrasto radicale tra la Metafisica ellenistica e la
Rivelazione cristiana66. Robert A. Markus ha potuto parlare di una certa
«cristianizzazione del tempo», considerando «la coesistenza di cristiani e non cristiani
nel quadro civico, le pressioni alle quali tale coesistenza era esposta ed i vari modi nei
quali essa riuscì a sopravvivere o si frantumò. Alla fine, comunque, questa diversità
venne sfumata fino a trasformarsi in un’uniformità diffusa in tutta l’Europa occidentale
cristiana. […] La religione assorbiva il consenso della società civile, la cittadinanza si
confondeva con l’appartenenza alla comunità dei fedeli, e gli affari pubblici iniziavano
a venire dominati dalla Chiesa»67.

Tutto ciò comportava dei progressivi e significativi cambiamenti all’interno dell’etica,


della politica e della cultura popolare degli abitanti dell’Impero, nonché una
significativa scomparsa (soprattutto nei territori della parte occidentale) di ogni tipo di
zona neutra per il profano68, non soggetta alla potestà della Chiesa.

«Êthos significa soggiorno, luogo dell’abitareέ δa parola nomina la regione dove abita
l’uomoέ δ’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza
dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanzaέ Il soggiorno dell’uomo contiene
e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza (εέ Heidegger,

cui movimento, in sé identico in tutti i punti della circonferenza, non può essere in alcun modo
paragonato a quello di una linea retta, senza soluzione di continuità, che è il simbolo geometrico del
tempo ordinario, quantitativo»έ Si veda ad esempio come Platone fonde l’originalità del proprio pensiero
con le grandi linee della mentalità primitiva, descrivendo a modo suo il mito grandioso del ritorno ciclico:
«Questo nostro tutto ora è guidato nel suo cammino e nel suo volgersi dal dio stesso, ora dal dio è lasciato
andar solo, e quest’ultima cosa avviene quando i periodi di tempo fissati al suo andare ormai hanno avuto
compimento ed esso ritorna indietro in opposta direzione» (Politico, 269c).
65
Anche se questa rappresentazione ciclica non è né unanime né univoca. Va notato in particolare che
proprio i grandi storici come Erodoto, Tucidide e Polibio non espressero affatto la loro storia in termini
ciclici. Nella storiografia pagana classica si intrecciano piuttosto il carattere del libero giudizio sui molti
fini che i singoli uomini cercano di realizzare, con il tentativo (dallo scarso esito) di un’interpretazione
unitaria della storia. Su questo si veda P. Siniscalco, Il senso della storia: studi sulla storiografia
cristiana antica, Rubettino, 2003.
66
Cullman è in polemica sia con Bultmann (che pone una imminente attesa della fine del mondo
nell’ambito della «mitologia»), sia con Schweitzer (che identifica l’attesa cristiana con quella giudaica).
Andrebbe fatto un particolare riferimento per l’interpretazione dell’Apocalisse agli studi di Eugenio
ἑorsini (il quale ha il vantaggio di conoscere a fondo gli autori dell’antichità cristiana, cosa che in genere
purtroppo difetta ai biblisti): ciò permette di superare ogni millenarismo, che nell’ermeneutica della
Chiesa è molto posteriore. Questa prospettiva risulta molto utile per una corretta comprensione della
riflessione agostiniana e dei suoi sviluppi in Schmitt.
67
R.A. Markus, La fine della cristianità antica, 152.
68
όu soprattutto la ἑhiesa Romana ad affrettarsi a stabilire un’influenza totale sui ritmi della vita civile,
non lasciando più spazio per ciò che era sempre stato considerato “profano”, come ad esempio la
celebrazione dei Lupercalia o altre tradizioni della vita urbana di Roma. A Costantinopoli
l’atteggiamento, ancora nel decimo secolo, era totalmente differenteέ ἑosì analizza RέAέ εarkus, La fine
della cristianità antica, 162.

23
Lettera sull’ “umanismo”, 1946, p. 306).

Se êthos, come vuole Heidegger, significa “soggiorno (Aufenthalt)” il modo greco di


soggiornare nel mondo non è il modo occidentale per il diverso significato che il termine
“mondo” possiede nelle due culture» 69.

È significativo mettere in luce come venne percepita dai contemporanei e come andò a
declinare e a finire (col trascorrere del tempo) la polemica tra la Chiesa e il politeismo
pagano:

«Dobbiamo ricordare la portata che veniva attribuita al conflitto tra cristianesimo e


paganesimo nelle fonti cristiane del IV e V secolo: la lotta sembrava combattuta in cielo,
anziché sulla terra. La fine del paganesimo si verificò con la venuta di Cristo sulla terra.
Avvenne quando Egli fu posto in Croce sul Calvario – e non, come noi storici pedestri
tendiamo a pensare, sotto il regno di Teodosio I – che cielo e terra risuonarono del fracasso
del crollo dei templi70. […] Le cronache della fine del paganesimo – quali la drammatica
distruzione del Serapeo di Alessandria intorno al 392 – seguono un analogo, sbrigativo
ritmo. Era sufficiente vedere Serapide cacciato dal tempio, che aveva “posseduto” per così
tanti secoli, ad opera del potere di Cristo, reso tangibile attraverso la trionfante violenza dei
suoi servitoriέ Si ritenne che Alessandria fosse stata “risanata” mediante la scomparsa dei
suoi più importanti dei, e che pertanto potesse essere considerata una città cristiana.

E, cosa ancora più importante, tale versione ultraterrena permetteva persino ai devoti degli
antichi dei di accettare ciò che era spesso un brutale fait accompli. Gli adoratori di Serapide
dichiarano che, con un espediente caratteristico degli dei egizi, il loro dio si era
semplicemente ritirato in cielo, rattristato che una così grande eresia si verificasse nella sua
città preferita. La cessazione del sacrificio e la chiusura dei templi si limitavano a riflettere
sulla terra l’esito di un conflitto tra potenti esseri invisibiliέ I semplici mortali dovevano
accettare l’acclamato trionfo dell’uno e la signorile ritirata dell’altroέ σon era necessario
porsi ulteriori interrogativi e tutto poteva ritornare a essere come prima in una città
brulicante di vita. Addirittura ai perdenti era stato fornito un debole presupposto teorico per
adattarsi al nuovo regime, più o meno come il solenne, collettivo psychodrame della
damnatio memoriae degli usurpatori; entrambi proclamavano la teorica eterna vittoria del

69
U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano,
2015, 305. A questo punto della nostra scansione cronologica, ai fini del nostro discorso, per modo
occidentale possiamo intendere ed equiparare la prospettiva della rivelazione cristiana.
70
Giacobbe di Sarug, Sulla caduta degli idoli, 180.

24
legittimo imperatore e, si sperava, ponevano misericordiosamente fine alle lacerazioni
potenzialmente letali della lunga guerra civile»71.

1.5 La “senectus mundi” nella cristianità, soprattutto


dell’Africa romana

Come premessa alla risposta degli autori ecclesiastici verso accuse rivolte loro, è
opportuno mostrare come l’idea tipicamente pagana della “senectus mundi” abbia
progressivamente trovato un proprio posto all’interno della riflessione cristiana sul
cosmo e sulla storia.

Tertulliano è il primo a collegare lo schema biologico di infanzia, adolescenza,


giovinezze e maturità alle varie tappe della storia della salvezza 72, in lui però non c’è né
posto né accenno per la categoria della senectus73. È invece Cipriano il primo autore
cristiano74 ad esporre questa dottrina.

«σon si trova in bibliografia un’analisi della senectus mundi che prescinda dalla figura e
dall’opera di ἑiprianoέ In lui infatti, e più particolarmente nei capp. 3-4 dell’Ad
Demetrianum, il tema trova l’espressione più ampia e articolata, collegandosi ad altri di
origine diversa, e facendo il suo ingresso ufficiale nella letteratura cristiana»75.

Questo tema (presente nella letteratura pagana più che altro come un luogo comune di
carattere retorico o filosofico) riceve da Cipriano un interesse peculiare in cui

71
P. Brown, Il sacro e l’autorità. La cristianizzazione del mondo romano antico, Donzelli Editore, Roma,
1996, 5-6.
72
«Carl Schmitt, anche in accordo col dibattito fra gli studiosi dell’epoca, ha rilevato come Tertulliano sia
stato il primo Padre della ἑhiesa ad identificare l’Impero romano con la forza che trattiene e reprime la
venuta dell’Anticristo menzionata nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (2,6-8). Di fronte alle
persecuzioni subite dai cristiani, contro le quali nel 197 scrisse il suo Apologeticum, la sua difesa del
cristianesimo, Tertulliano ricordava ai persecutori che i cristiani pregano per l’imperatore non solo perché
egli è l’autorità imposta da Dio, ma anche per un altro motivo, legato alla storia della salvezza» [cioè per
differire le sofferenze alla fine del mondo]. D. Groh, Schöpfung im Widerspruch. Deutungen von der
Natur des Menschen von der Genesis bis zur Reformation, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, 106.
73
Tertulliano, Virg. Vel. 1,7ss.
74
Fu il primo e l’unico per un lungo periodo, fatta eccezione per l’autore del De laude martyrii, una
coeva operetta presudociprianea in cui le varie catastrofi naturali hanno l’intento di rendere più pressante
l’invito al martirioέ ἑosì nota εέ Spanneut, Le stoïcisme des Pères de l’èglise, Paris, 1957, p. 413. Vedi
anche Daniélou, Le origini del cristianesimo latino. Storia delle dottrine cristiane prima di Nicea,
Bologna, 1993, 245.
75
E. Zocca, La “senectus mundi”, 642.

25
confluiscono sia la prospettiva cristiana (il finis temporum che affonda le sue radici
nell’escatologia dell’apocalittica giudaica) che il retroterra pagano (sia l’idea sallustiana
del declino inevitabile di tutte le cose, sia gli schemi biologici legati alle età del mondo:
ἑipriano sembra dipendere molto dall’Octavius di Minucio Felice), in una articolata
tensione tra la storia civile di un mondo che decade verso il proprio inesorabile declino
e la storia della salvezza che si avvia verso l’eternità beataέ

Bisogna altresì precisare che la penetrazione del Millenarismo nel Montanismo


(particolarmente diffuso nell’ambiente nordafricano) rendeva inaccettabile alla
gerarchia cattolica di seguire tale dottrina fino alle sue estreme conseguenze, pur
condividendone il computo cronologico alla base76.

δ’elenco e la descrizione dei mali nel mondo presente e nella ἑhiesa dell’epoca ha
sempre lo scopo positivo di testimoniare la veridicità delle profezie presenti nella parola
di Dio e di facilitare – in conseguenza – il distacco dal secolo, avviato verso la rovina.
Tale convinzione si fa progressivamente più forte e più esplicitaμ nell’Epistola 58,1-2 il
discorso sull’occasus mundi, sul tempo dell’Anticristo e sul tema del martirio
divengono un appassionato invito a rinunciare ad un mondo morente per conquistare
l’immortalità donata da ἑristoέ

Nella sua opera De mortalitate (composta lo stesso anno della lettera precedentemente
citata, in occasione di una grave epidemia di peste) egli trae la seguente conclusione:
«Mundus ecce nutat et labitur et ruinam sui non iam senectute rerum sed fine testatur.
Il mondo vacilla e crolla non perché vecchio, ma perché giunto alla sua fine»77.

Anche in questo caso emerge come la peculiare teologia della storia di questo autore
immerga profondamente le sue radici nella storia concreta in cui si è trovato a vivere.

È in quegli anni che si tennero i festeggiamenti per il millennio della Capitale


dell’Impero (β1 aprile β4κ) e giunsero fino alla provincia africana le manifestazioni
straordinarie e solenni del culto religioso di Roma aeterna: in un clima del genere si
avvertiva una profonda irritazione verso la visione escatologica del cristianesimo, che
poneva un inappellabile limite alla durata del mondoέ È del βθλ l’opera di Porfirio
contro il libro di Daniele e la sua interpretazione cristianaν è di quei decenni l’accadere

76
δ’Ad Fortunatum di Cipriano con la sua convinzione di essere ormai giunti alla fine dei tempi parrebbe
condividere la sistemazione cronologica delle Cronache di Giulio Africano.
77
De mort. 25: ed. Simonetti (1976) CCL 3/A, 30.

26
di crisi, guerre, invasioni, catastrofi naturali e la già citata pestilenza.

Con il IV secolo la Roma aeterna diventò, in una certa misura, una Roma christiana78:
la gerarchia cattolica con il suo popolo ebbero sempre più la sensazione di condividere e
di essere corresponsabile della sorte di Roma79, sia nei suoi trionfi che nei suoi tracolli.
È della fine di questo secolo la prima basilica in Italia con l’abside decorato a mosaici
raffiguranti il Giudizio Universale: fu fatto edificare a Fondi da Paolino da Nola, per
mettere in guardia i cristiani della prossima fine del mondo80.

2. La risposta teologico-politica di Agostino


In diverse opere e con diversi argomenti81 Agostino contestò le accuse pagane di una
responsabilità della religione cristiana nei confronti dei problemi e delle sconfitte
dell’Impero82. In alcune argomentazioni prosegue nel solco già tracciato
dall’apologetica cristiana, ma soprattutto con il De civitate Dei costituisce una nuova e
decisiva pietra miliare nei confronti del pensiero cristiano e occidentale.

78
Si veda in particolare il cap. XV di P. Brown, Per la cruna di un agoμ “Propter magnificentiam urbis
Romae. I romani ricchi e il loro clero, da Costantino a Damaso, 321-384”έ
79
In proposito del sacco di Roma, si osserva: «Roma era, soprattutto, il simbolo di tutta una civiltà: era
come se a un esercito fosse stato permesso di saccheggiare l’Abbazia di Westminster o il δouvreέ A
Roma, la protezione dell’Impero da parte degli dèi era una realtà esplicitaέ Per i conservatori del secolo
precedente, Roma era stata una specie di Vaticano pagano, una città minuziosamente protetta da grandi
templi, dove la religione che aveva garantito la grandezza dell’Impero poteva sopravvivere ed essere vista
sopravvivere. I cristiani avevano persino fatto collusione con questo mito: come Roma aveva raccolto gli
dèi di tutte le nazioni perché fungessero da talismani, così i cristiani romani avevano finito per credere
che Pietro e Paolo erano venuti dall’τriente per deporre i loro santi corpi nella cittàέ Un talismano aveva
sostituito l’altroμ e, dopo il 41ί, Agostino dovette trattare tanto con i cristiani delusi che con i pagani
incolleriti». P. Brown, Agostino d’Ippona, Einaudi, Torino, 2011, 295.
80
Paolino da Nola, Ep. XXXII, 17.
81
Contro i pagani ricordò loro che Roma (patria dei culti della tradizione) fu saccheggiata così come la
sua città d’origineμ Troia (Serm. 81, 9: «ma perché Roma muore in mezzo ai riti cristiani? E perché allora
la madre di Roma, Troia, è bruciata in mezzo ai riti pagani?» Sed quare inter sacrificia Christianorum
perit Roma? Quare inter sacrificia paganorum arsit mater eius Troia?). Diversa sorte era toccata alla
città del cristiano Costantino: Costantinopoli (Serm. 105, 9, 12 «Costantinopoli, da quando è stata fondata
per diventare una grande città – giacché è stato un imperatore cristiano a fondarla – da allora ha lasciato
perdere questi dèi bugiardi: e tuttavia è cresciuta, cresce ancora e rimane salda. Rimane sinché Dio lo
vorrà» Constantinopolis ex quo condita est in magnam civitatem, quoniam a Christiano imperatore
condita est, olim deos ipsos falsos perdidit: et tamen et crevit, et crescit, et manet. quamdiu vult deus,
manet.) Si veda anche Serm. 296,9 e Exc. urb. 6, 7. Inoltre rimarcò che la vittoria è stata dalla parte del
cristiano (anche se eretico Ariano) Alarico, mentre nel 405, solo pochi anni prima, il pagano Radagaiso
era stato sconfitto (Serm. 105, 10, 13; De Civ. V, 23.).
82
«Agostino è il solo contemporaneo che vediamo reagire immediatamente a questo disastro: lunghe
prediche, a brevissimi intervalli, e una serie di lettere indirizzate a profughi illustri ci permettono di
cogliere la complessità del suo atteggiamento. In questi scritti possiamo vedere come un avvenimento, il
cui profilo e il cui significato tendono ad essere dati per acquisiti dagli storici, può essere rifratto
attraverso chi vi partecipò in uno spettro straordinariamente ricco». P. Brown. Agostino d’Ippona, 295.

27
2.1 Il solco già tracciato dell’apologetica cristiana

Si è già fatto cenno sull’opera apologetica svolta dagli autori cristiani, in particolare di
Cipriano (210-258), vescovo della ἑhiesa dell’Africa romana; con lui il tema della
senectus mundi (pur essendo di dichiarata origine pagana) entra a pieno titolo nella
letteratura cristiana, soprattutto in ambito apologetico e storiografico.

A livello apologetico, è anche Arnobio (255-327) a sviluppare due diverse serie di


argomentazioni: nella prima si dimostra che i mali di cui sono accusati i cristiani sono
sempre avvenuti (anzi, in taluni casi si sarebbero addirittura attutiti con l’espandersi
della Chiesa. così nel caso di sconvolgimenti nel corso degli astri, confusione delle
stagioni, decadenza nelle arti e nelle scienze, assenza di attività nel Foro), nella seconda
si dimostra l’estraneità di Dio all’ira vendicatrice83.

«Nelle calamità naturali che affliggono il mondo, pagani e cristiani leggono cose
apparentemente simili, ma in realtà profondamente diverse; quelle sventure, pur essendo per
entrambi il segno manifesto dell’occasus mundi, costituiranno per il primo la conferma
dell’inesorabile legge cui tutto ciò che nasce ed ha vita è necessariamente soggetto, per il
secondo l’annuncio, al di là della sofferenza, della Parusia e del compimento della speranza
cristiana»84.

Lattanzio (250-317), discepolo di Arnobio, chiamato dallo stesso Diocleziano


all’incarico di insegnante di Retorica presso la capitale orientale dell’Impero, pur
essendo testimone oculare dell’apogeo della solidità della Tetrarchia, unisce oracoli
pagani a richiami profetici per annunciare il declino della nazione romana 85.

Nei primi tre secoli della storia del cristianesimo, forse il più notevole intervento di

83
Arnobio, Adv. Nat. I,1,1.
84
E. Zocca, La “senectus mundi”, 647.
85
«Quanto lunga sarà la vecchiaia prima che sopraggiunga la morte? Che ciò accadrà presto lo
annunciano le parole dei profeti mediante circonlocuzioni affinché nessuno lo comprenda facilmente. Le
Sibille, senza dubbio dicono chiaramente che “Roma perirà e ciò avverrà per volontà di Dio perché lei
odierà il nome di Dio e, trasformandosi in nemica della giustizia, tormenterà il popolo nutrito nella
verità”έ Anche Istapse, un antichissimo re dei εedi, trasmise alla posterità uno strano sogno interpretato
da un bambinoμ “δ’impero e il nome di Roma saranno cancellati dal mondo”έ» (Lattanzio, Institut.
7,11,15). «Il nome di Roma che ora domina il mondo – fa paura dirlo, ma lo dirò perché questo accadrà –
sarà cancellato dalla terra, l’impero tornerà in Asia, di nuovo dominerà l’τriente e l’τccidente sarà
schiavo» (Lattanzio, Institut. 7,15,11).

28
carattere “antiromano” è quello dell’interpretazione della fine del mondo fatta da
Ippolito (170-235)86 durante la persecuzione sotto Settimio Severo87: riprendendo
elementi profetici ed apocalittici della letteratura tardo-giudaica (Salmi di Salomone, IV
libro di Esdra, Apocalisse siriaca di Baruch o addirittura gli Oracoli Sibillini, che
compone materiali pagani, giudaici e cristiani) rilegge il ruolo di Roma nella
profetizzata successione delle potenze destinate a scomparire per lasciar spazio
all’ultimo impero, messianico ed eternoέ Con il consolidarsi della ἑhiesa, all’estremo
opposto fa la sua comparsa la dottrina della Translatio imperii88, che piano piano
divenne preponderante fino a riuscire a fondere nella tradizione cristiana lo stesso
concetto dell’aeternitas di Roma89.

«La Chiesa antica mette in opera il metodo dell’interpretazione simbolica o meglio ancora
tipologica, già operante nella tradizione giudaica 90, ma ora reso più incisivo e onnipresente:
l’Antico Testamento – pur non perdendo il proprio valore di storia di avvenimenti realmente
accaduti – assume nella lettura fattane dai cristiani un senso tipologico appunto, di modo che
viene a preannunciare con una serie di fatti e di figure, tramite cui si segue il filo della storia
della salvezza, la venuta di Cristo e gli eventi ad essa collegati. […] εa un’altra realtà è da
sottolineare, per la comunità dei primi secoliμ il fatto centrale non è più situato nell’avvenire,
ma è divenuto una realtà storica, è un passato-presente, dopo la venuta di Gesù Cristo. Si

86
Ippolito, Commento a Daniele.
87
Nello stesso frangente, Tertulliano polemizza con coloro che definiscono i cristiani «nemici
dell’imperatore», in quanto in realtà essi sarebbero i suoi sudditi più fedeli. Così in Tertulliano, Apologia,
35. Il ruolo di Roma nell’economia della storia è agli occhi dei cristiani complesso e soprattutto cambia
col cambiare del quadro politico-religioso. Si veda F. Paschoud, Roma aeterna. Étude sur le patriotisme
romain dans l’occident latin à l’époque des grandes invasions, Rome, Institut Suisse de Rome, 1967
88
È ben differente la «fondazione ideologica» che venne compiuta nei confronti di Roma e della Nuova
Roma fondata da Costantino (una Polis basilissa, Urbs regia). Si confronti E. Zocca, Pietro e Paolo
“Nova sidera”. Costruzione della memoriae fondazione apostolica a Roma fra I e IV secolo; P. Blaudeu,
Constantinople (IVe-VIe s.) Vers l’affirmation d’une cité chrétienne totale?; e infine A.M. Orselli, I
processi di cristianizzazione della città tardoantica. Discussioni in corso, raccolti in Città pagana - città
cristiana, Tradizioni di fondazione, Studi e Materiali di Storia delle Religioni 1/2009, Morcelliana.
89
Si confronti il Commento a Daniele composto invece da san ύerolamo, di tutt’altro tenore rispetto ad
Ippolitoέ δ’idea della Translatio imperii si rifà ai versi di Virgilio (Aen I,384-385) dove Giove afferma
che non vi sarà fine all’Impero romanoέ
90
La grande differenza della comprensione della storia nel cristianesimo rispetto all’apocalittica giudaica
sta nel fatto che il futuro di Dio è già entrato negli eventi con Gesù in modo da orientarli tutti verso lui.
Come ha notato K. Löwith «per gli ebrei l’evento decisivo appartiene ancora al futuro, e l’attesa del
Messia divide tutto il tempo in un’epoca presente e in un’epoca futuraέ Per il cristiano la linea di divisione
della storia della salvezza non è un mero futurum, ma un perfectum praesens, cioè l’avvento già compiuto
dal Signore. In funzione di questo avvenimento centrale il tempo viene calcolato tanto in avanti quanto
indietro. Gli anni della storia avanti Cristo decrescono progressivamente, mentre quelli dopo Cristo
aumentano verso un termine ultimo» (K. Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici
della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1963, 209).

29
coglie perciò la consapevolezza che essa ha di continuare ogni giorno la storia divina della
salvezza, d’essere strumento del suo attuarsi» 91.

σell’intraprendere la sua opera apologetica (sia con il racconto della sua esperienza
personale nelle Confessioni, sia con la Città di Dio e la glorificazione del governo della
Provvidenza che dà il senso alla storia universale) Agostino non doveva fare altro che
sviluppare il solco già tracciato dagli autori cristiani a lui precedenti.

«δa visione cristiana della storia si fonda dunque su due trattiμ l’importanza di avvenimenti
singoli che vanno ricordati e la natura del legame che unisce tali avvenimenti tra loro, che va
sottolineataέ Per usare un’espressione cara ai Padri della ἑhiesa, si tratta di una storia santa
in cui si inseriscono ugualmente il singolo e i popoli, si tratta di una “economia” che trova il
suo punto iniziale nell’Antico Testamento, il suo punto culminante in Cristo e il suo sviluppo
ulteriore nel tempo della Chiesa, così come avrà il proprio momento finale nelle cose ultime
e nella venuta del Signore» 92.

2.2 La riflessione agostiniana sulle età del mondo


«In un mondo ormai convertito, o comunque per larga parte sottratto al paganesimo, in un
contesto culturale in cui un monaco poteva sentirsi accusare di essere più ciceroniano che
cristiano93, Agostino non avvertiva più l’esigenza, che era stata di Cipriano, di tenere
separate testimonianze scritturistiche ed autorità pagane, miti classici e profezie
apocalittiche; tutto egli unisce e fonde, miscelandolo in quel crogiuolo dal quale nascerà,
nuova ed antica, la sapienza medievale. […] In siffatta situazione una riproposizione della
tematica ciprianea, così come l’abbiamo vista negli esempi precedenti, non avrebbe forse più
senso e comunque il suo valore apologetico si troverebbe minato alle fondamenta quasi da
un vizio d’origineέ Agostino così si guarda bene dal presentarlo in quel monumento
dell’apologetica cristiana che è il De civitate Dei, opera della maturità, lungamente meditata.
Preparata con profonda cura e riflessione, densa di impegno speculativo; vi farà però
riferimento allorché, scosso dall’onda dei sentimenti, pronuncerà di fronte al popolo i suoi

91
P. Siniscalco, Il senso della storia, Rubbettino, 2003, 16-17.
92
Ivi, 19.
93
Ricordiamo il significativo “sogno” narrato da ύerolamo, in Ep. 22,30. “Ciceronianus es, non
Christianus; ubi thesaurus tuus, ibi cor tuum”.

30
sermoni, alcuni dei quali composti negli anni dolorosi che seguono il sacco di Roma.

Qui ritroviamo molti aspetti in comune con la problematica ciprianea, ma la prospettiva è ora
più ampia, e si allarga fino a comprendere elementi provenienti dalla riflessione agostiniana
sulle età del mondo, sulla storia della salvezza, sulla cristologia, sull’etica 94».

In Agostino95 «la riflessione cristiana sulle età del mondo raggiunge un punto di piena
consapevolezza e di chiara sintesi degli elementi elaborati nei secoli precedenti… σella
sua opera si trova la teoria delle età nelle due diverse formulazioni, l’idea di un disegno
progressivo che si compie nelle prime tre epoche fino alla soglia della quarta, il cenno
implicito allo schema biologico della storia, di cui i sei periodi sono un simbolo, e infine
la concezione di una età dell’oro, la quale anziché stare alle spalle dell’uomo è posta,
secondo la visione cristiana, dinanzi a lui»96.

Agostino investiga la storia della Redenzione, applicando il modello archetipo di


suddivisione temporale che rinviene nel dato rivelato. Nel libro della Genesi si espone
la creazione del mondo, suddividendo l’azione di Dio in sette giorni, o meglio, in sei
giorni di attività e uno, l’ultimo, di riposoέ Agostino, innestandosi sull’esegesi
precedente, interpreta a sua volta la vicenda della Redenzione proprio alla luce di quella
periodizzazione. Tale utilizzo, infatti, aveva un fine innanzi tutto ermeneutico: serviva
cioè a cogliere meglio e con sempre maggior profondità, lo svolgersi coerente ma vario
degli eventi della storia salvifica tramandati nell’Antico e nel σuovo Testamento, come
intervento straordinario di Dio a beneficio dell’umanità peccatriceέ

«Tutta la storia dell’umanità, anche quando il ἑreatore si serve delle cause seconde, ossia
della libera cooperazione dell’uomo, è opera sua, è cioè storia sacra guidata dalla
Provvidenza. Questa nota deve brillare, quindi, a maggior ragione in quella particolare
vicenda della storia, la Redenzione, in cui Dio, pur servendosi delle cause seconde, è
intervenuto in modo straordinario e con un fine eminentemente soprannaturale.

94
E. Zocca, La “senectus mundi”, 672-673.
95
δe quattro età dell’uomo e le sette età rapportate all’uomo vecchio e all’uomo nuovo si trovano in Ver.
rel. βθ,4κν βι,ηίέ δe sei età del mondo rapportate alla storia biblica, in cui la sesta è quella in cui l’anima
umana doveva essere rinnovata a immagine di Dio così come nel sesto giorno l’uomo era stato creato a
sua immagine si trovano in Cat. rud.22,39. Il ricorso di questo modulo storiografico ritorna più volte,
come in C. Adim. 7; Div. Quaest. 83, 58,2; Trin 4,4,7; En. Ps. 92,1; Ep. 199; Serm. 125,4; 259,2-3; 345,2.
96
P. Siniscalco, Mito e storia della salvezza, Giappichelli, Torino, 1971, 195. 196-197.

31
Il santo d’Ippona sviluppò la sua concezione della storia sacra, come sistema interpretativo
fondato sul parallelismo analogico tra giorni della creazione, epoche della storia salvifica ed
età dell’uomo (infanzia, adolescenza eccέ) soprattutto nell’opera giovanile De Genesi contra
Manichaeos».97

Ovviamente la stessa impostazione trova un suo spazio significativo anche nel De


civitate Dei98 (come vedremo in seguito).

Ciascuna epoca della Redenzione è paragonabile, dunque, ad una delle età dell’uomo,
essendo la storia del mondo nient’altro che la vicenda del genere umanoέ Già negli anni
immediatamente seguenti al suo battesimo (che è nell’aprile γκιν il De Genesi fu
composto prima del 390) Agostino compose in una sua particolare sintesi i tre elementi
dei giorni della creazione (secondo la scansione della Genesi), delle età del mondo
(dando a queste una nuova scansione) e delle età dell’uomo (assunte dal patrimonio
della cultura classica: infantia, pueritia, adulescentia, iuventus, senioris aetas,
senectus). Se la correlazione tra i giorni della creazione e le età del mondo era già ben
presente nella letteratura cristiana precedente, l’apporto originale di Agostino è
l’aggiunta di un rapporto con l’età dell’uomo99: la durata totale del creato (universum
tempus, sive seculum) viene considerata come la vita di un solo uomo100.

97
N. Cavedini, Teologia della restaurazione, in Traditio, 27, Novembre 2006, Verona.
98
De civitate, XVI,43,3.
99
Parzialmente nuova è anche la diversa scansione delle età del mondo, che gli autori precedenti
tendevano perlopiù ad identificare nei “patti” stretti da Dio con Adamo, σoè, Abramo e εosèέ «τgni
epoca della storia parla di Cristo almeno in via figurata e converge su Cristo. Così, per esempio, alla
separazione della luce dalle tenebre nel primo giorno della Creazione, corrisponde il primo annuncio del
Redentore ai Progenitoriέ σel sesto giorno, la creazione dell’uomo, è figura dell’Incarnazione nella sesta
epoca, mentre la creazione della Donna dalla costola d’Adamo preannuncia la nascita della ἑhiesaέ
S. Agostino, inoltre, caratterizza ogni epoca con una personalità eccezionale, che, nelle cinque età
anticotestamentarie, annuncia nelle opere il modello futuro, Gesù Cristo. Ecco allora Adamo, Noè,
Abramo, Mosé, Davide, Zorobabele fino a Cristo. Ogni epoca si chiude con un evento drammatico: la
prima con il Diluvio, la seconda con la torre di Babele, la terza con la caduta di Saul, la quarta con la
deportazione in Babilonia, la quinta con l’accecamento degli ebreiέ la sesta, quella della ἑhiesa, terminerà
con il Regno dell’Anticristo, cui subito seguirà la seconda venuta di ύesù (Parusia) per il ύiudizioέ τgni
epoca quindi s’incentra su una figura che ne è per così dire all’origine e che, eccettuata la sesta, è figura o
tipo cristologico. Gli eventi luttuosi e catastrofici, invece, che segnano il chiudersi di ciascun giorno-
epoca, sono tutte prefigurazioni del nemico terreno ed umano per eccellenza del Redentore Gesù e della
Sua Chiesa, il falso εessia e falso ἑristo che negli ultimi tempi, sebbene per poco, dominerà sull’intera
umanitàμ l’Anticristoέ
La sesta epoca è propriamente quella che riguarda la vicenda terrena della Chiesa militante e che durerà,
come la Chiesa, fino alla consummatio finale. È la vecchiaia del senescens saeculum, del mondo che
invecchia. dopo la venuta di Cristo, nella pienezza dei tempi: infatti, la storia sacra è entrata negli ultimi
tempiέ σon si attende più alcun’altra rivelazione pubblicaμ la ἑhiesa, istituita da Cristo e guidata dallo
Spirito santo, deve operare in attesa della fine.

32
Dai suoi primi scritti (come il De vera religione, composto fra il 388 e il 391, o il già
citato De genesi) fino alla maturità del suo pensiero, Agostino tiene i giorni della
creazione come paradigma e misura delle età del mondo, che si concludono con
l’attuale laborioso momento della reformatio nostra secondo l’immagine di Dio
creatore. La requies concessa ai santi nell’altro mondo costituirà la settima età,
corrispondente al settimo giorno genesiaco. Rompendo il diffuso schematismo dei mille
anni, sovrappone il settimo giorno (che nelle Confessioni definisce «senza tramonto,
santificato per farlo durare eternamente»101 e che sarà anche alla conclusione della lunga
esposizione sulla Città di Dio) al giorno del Signore, quasi l’ottavo dell’eternità,
facendo convergere in un’unica realtà l’economia del σuovo e dell’Antico Testamento.
Su un altro versante, da Adamo fino alla fine delle vicende di questo mondo, come in un
solo uomo si possono scorgere nella storia universale le frammiste vicende della
vecchia e nuova creatura102.

«Il concetto che sorregge il tema della senectus mundi in Agostino è ben lontano da quanto
visto negli autori precedenti, ed in particolar modo presso i pagani. Il tema si è totalmente
cristianizzato, anzi la sua trasformazione è tale che Cipriano stesso non saprebbe forse
riconoscerlo»103.

Il santo d’Ippona ha quindi modellato e perfezionato quelle categorie-chiave che diverranno patrimonio
comune della cultura teologica occidentale. Queste idee si possono riassumereμ nella liceità di un’esegesi
simbolica della Scrittura come storia sacra della ἑhiesa militante, con l’utilizzo di categorie d’ordine
rivelato (come la divisione in sette giorni dell’azione creatrice di Dio e la trinità delle persone divine)»
(N. Cavedini, Teologia della restaurazione, in Traditio, 27, Novembre 2006, Verona).
100
Anche De civitate, XV,1,1. Oppure De diversis quaestionibus LXXXIII, quaestio 58,2: cum totum
genus humanum tamquam unum hominem constitueris. Oppure De vera religione 27,50. Questa idea che
l’uomo altro non sia che un «microcosmo» o un «mondo minore» affonda le sue radici sia nella cultura
greco-romana che in autori cristiani come Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
In epoche posteriori la stessa idea è sviluppata da Isidoro di Siviglia o da Beda il Venerabile.
101
Confessiones 13,36,51.
102
«D’ascendenza agostiniana è inoltre l’idea che ciascun’epoca debba essere aperta e caratterizzata da
una personalità eccezionale cristologica (il Magnus Dux della tradizione profetica medioevale) e che la
fine del giorno-epoca coincida con un evento catastrofico. S. Agostino lasciò questo sistema di teologia
della storia in abbozzo. Egli non volle affrontare il tema della sesta epoca, quella non ancora conclusa,
della Chiesa militante, forse spaventato, come è stato autorevolmente sostenuto, dalle ardite elaborazioni
del suo contemporaneo donatista Ticonio, che, commentando l’Apocalisse, aveva per primo applicato alla
storia della Chiesa, cioè alla sesta epoca agostiniana, la suddivisione settenaria della Genesi, confortato
dalla ricorrenza di quel numero-simbolo nel testo di S. Giovanni, ed era giunto addirittura a fissare la
data, poi rivelatasi infondata, della fine del mondo. Il sistema di Ticonio, però, ricondotto in una cornice
ortodossa, influenzerà profondamente l’esegesi medioevale, soprattutto nell’approccio interpretativo
all’Apocalisse, inteso come narrazione simbolica della storia della Chiesa» (N. Cavedini, Teologia della
restaurazione, in Traditio, 27, Novembre 2006, Verona.
103
E. Zocca, La “senectus mundi”, 674.

33
σon più atto d’accusa, non più tema pagano, non più legato a contesti apologetici,
oramai esso diviene un messaggio di fede rivolto agli stessi cristiani: è il motivo per cui
Agostino ritiene grave non tanto che certe accuse provenissero dai pagani, quanto dai
«cattivi cristiani». Su questo basti vedere la presentazione della predizione delle
tribolazioni del mondo che invecchia (a cui immediatamente segue l’esposizione delle
accuse dei pagani ai cristiani per il sacco di Roma) nel Discorso 108:

«Ma perché ti turbi? Il tuo cuore si turba per le tribolazioni del mondo, come la barca dove
Cristo stava dormendo. Ecco il motivo per cui, o uomo assennato, il tuo cuore si turba: ecco
qual è il motivo. La barca in cui dorme Cristo è il cuore in cui dorme la fede. Che cosa infatti
ti viene detto di nuovo, o cristiano, che cosa di nuovo ti si dice? “Nell'epoca cristiana il
mondo è devastato, va in rovina”. Non ti ha detto il tuo Signore: “Il mondo sarà devastato”?
Non ti ha detto il tuo Signoreμ “Il mondo andrà in rovina”? Perché credevi ciò quando lo si
preannunciava e ti turbi quando si avvera? Ebbene, la tempesta infuria contro il tuo cuore;
cerca di evitare il naufragio, sveglia Cristo. [Chiedo a Dio] - dice l'Apostolo - che nei vostri
cuori dimori Cristo per mezzo della fede. Per mezzo della fede abita in te Cristo. Quando v'è
la fede, v'è Cristo; se la fede è sveglia, anche Cristo è sveglio; se la fede vien meno, Cristo
dorme. Svegliati, scuotiti, di': Signore, stiamo per affondare!. Ecco che cosa ci rinfacciano i
pagani e - quello ch'è più grave - i cattivi cristiani. Svegliati, o Signore, stiamo andando! La
tua fede si ridesti e Cristo comincerà a parlarti: “Perché ti turbi? Tutte queste cose te le ho
predette. Te le ho predette perché, quando fossero giunti i mali, tu sperassi i beni per non
perderti d'animo a causa dei mali. Ti meravigli che il mondo va in rovina? Meravigliati che il
mondo è invecchiato. È come un uomo: nasce, cresce, invecchia. Molti sono gli acciacchi
nella vecchiaia: tosse, catarro, cisposità, ansietà, stanchezza. L'uomo dunque è invecchiato, è
pieno d'acciacchi; è invecchiato il mondo, ch'è pieno di tribolazioni”. Ti ha forse Dio
concesso una piccola grazia, di mandarti cioè Cristo nella vecchiaia del mondo per rinnovare
te quando tutto va in sfacelo? Non sai che ciò era prefigurato nel discendente di Abramo? Il
discendente di Abramo - dice infatti l'Apostolo - ch'è Cristo. La Scrittura non dice: e ai suoi
discendenti, come se si trattasse di motti, ma come se si trattasse di uno solo, dicendo: e al
tuo discendente che è Cristo. Ad Abramo ormai vecchio nacque perciò un figlio perché
appunto Cristo doveva venire nella vecchiaia dello stesso mondo. Venne quando tutto stava
invecchiando e ti fece nuovo. La natura fatta, la natura creata, la natura destinata ad andare in
rovina, già volgeva al suo tramonto. Era inevitabile che fosse colpita da molte sofferenze;
Cristo non solo venne a consolare te tra le sofferenze, ma anche a prometterti il riposo per

34
l'eternità. Non desiderare di restare attaccato a un mondo decrepito e non rifiutare di
ringiovanire unito a Cristo, che ti dice: “Il mondo va in rovina, invecchia, si sfascia, respira
affannosamente per la vecchiaia”. Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella
dell'aquila»104.

2.3 De civitate Dei: la centralità di Cristo e del Regno di


Dio

Il De civitate Dei105 rappresenta l’opera che impegnò più a lungo Agostino (iniziandola
nel 413 e portandola a termine nel 426); nel 423 Agostino compose l’Enchiridion; ma
già nel De catechizandis rudibus, che pur risale al 399, espose un’identica dottrina106.
Di questa opera dal taglio prettamente apologetico, va anzitutto evidenziato il continuo
riferimento a Cristo e al Regno di Dio: sono questi due temi che non rendono affatto
crepuscolare sia l’esposizione del corso della storia dell’umanità (giunta ormai alla sua
ultima fase) sia il riferimento alle catastrofi che si susseguivano entro i confini
dell’Imperoέ

Questo santo Dottore non scrisse per il gusto di scrivere, né fu un esteta: fu un testimone
di Cristo. Scrisse dunque per δui o sotto l’urgenza della polemica, o in risposta a
problematiche aperte dai rapporti tra le singole chiese e la concretezza storica spirituale
e culturale dell’epoca, ma soprattutto per l’aperta professione della όede ἑattolica in
Cristo, l’Uomo-Dioέ δ’incarnazione del Verbo inaugurò il regno di Dio, che
sant’Agostino pressoché non distingue dal regno dei cieli: per lui si tratta di un unico
regno la cui presenza nel tempo, protesa verso l’eternità, si consumerà quando la ἑhiesa
sarà soltanto la sua realtà originaria.

Da giovane, cioè negli anni 389-400, Agostino aveva aderito in una certa misura al
millenarismo107, che poi invece ritrattò dando un’interpretazione allegorica di Ap 20,1-6
come risulta chiaramente dal De civitate Dei. Nella misura in cui si staccò dal
millenarismo, s’aprì alla identificazione cattolica del regno come realtà spirituale e

104
Serm. 81,8.
105
δa nascita e lo sviluppo dell’idea di civitas in Agostino è già stata esposta efficacemente da altri; qui
non c’è possibilità di dilungarsi, si rimanda quindi in particolare ad Agostino Trapè, Agostino – l’uomo, il
pastore, il mistico, Città Nuova, 2001, 276-278.
106
De catechizandis rudibus, XX, 36 PL 40, 336.
107
Serm. 259,2 PL 38,1197; Sermo Mai 94,3 in Miscellanea Agostiniana, vol. I, 335.

35
precisamente come compimento delle finalità salvifiche, operato dalla redenzione del
Verbo incarnato.

Come già accennato, egli compose quest’opera108 (per desiderio del tribuno
Marcellino109, a cui l’autore indirizzò i primi libri) dal 41γ al 4βθ, per rispondere alle
accuse dei pagani110, i quali a proposito delle invasioni barbariche davano
responsabilità delle sventure dell’Impero romano ai cristiani.

Il problema che si poneva era dunque quello della Provvidenza relativamente all’Impero
romano, ma sarebbe stato un disegno troppo angusto per il suo pensiero111. La
riflessione agostiniana si amplia enormemente per scandagliare il senso della storia
umana, la quale, per lui, esige che lo sguardo si posi non solo sul presente (ossia sul
bene e sul male, sulla virtù e sull’iniquità, sulla vita e sulla morte che vi dominano) ma
anche sul prima (vale a dire sulla condizione originale dell’umanità, secondo il racconto
della Bibbia) e sul dopo, cioè sull’eschaton metastorico.

I concetti che costituiscono i pilastri dell’opera sono dunque i seguentiμ

«Cristo è il fondatore della città di Dio in terra, ed è considerato nella figura di mediatore,
capace cioè di operare il ricongiungimento dell’uomo con Dio in quanto partecipe sia
dell’umanità che della divinitàν i due amori dell’uomo irrimediabilmente opposti tra loro,
quello di Dio e quello di sé stesso, hanno dato origine uno alla città di Dio e l’altro alla città

108
«Lo stile di Agostino narratore , o polemista o predicatore differisce toto coelo dallo stile di Agostino
teologo o esegeta. Le frasi quasi romantiche, vibranti e pittoresche, liriche ed affannose che danno il tono
alla prosa delle Confessiones non hanno nulla in comune con le frasi ponderate della Città di Dio, rette
quasi sempre dal movimento di un ritmo quasi classico. E non è, questa varietà stilistica, la minor delle
sorprese che la lettura delle opere agostiniane, riserva a chi le cerca con frigida mentalità di studioso». P.
Monceaux, Hist. Litt. Lat. Chrét., Parigi, 1905, 138.
109
«Agostino esitò prima di impegnarsi a scrivere un libro: aveva sperato che Marcellino avrebbe fatto
circolare nei salons le sue lettere aperteν ma εarcellino domandava qualcosa di più, una “splendida
soluzione”έ ἑosì, quando i primi tre libri della Città di Dio apparvero, nel 413, essi già contenevano la
promessa di un’opera monumentale». P. Brown, Agostino di Ippona, 309.
110
Agostino stesso fa riferimento (De civitate V,26) agli oppositori pagani che – mentre lui ancora
componeva il De Civitate – stavano già preparando le loro risposte, per vuoto orgoglio e con menzogne.
Tra i letterati nemici del cristianesimo vanno segnalati il praefectus Aurelio Simmaco, Claudio Claudiano
(P. Orosio, Hist.7,35,21) e Rutilio Namaziano (De red. Suo 1,440-448. 519-524).
111
«È evidente che Agostino aveva chiaro fin dal principio il piano dell’operaέ δ’inizio, il percorso, i fini
propri delle due città che ne costituiscono la trama – le due città che qui vivono mescolate e che saranno
separate nell’ultimo giudizio – ne sono anche l’argomento fondamentaleέ Se lo affronta solo nella seconda
parte è perché sente l’urgenza di rispondere alle obiezioni dei pagani – sta qui l’aspetto occasionale
dell’opera – per dimostrare contro di loro 1) che i mali dell’impero non erano cominciati con l’era
cristiana, β) che la prosperità dell’impero non era dovuta alla protezione degli dèi, ma alla provvidenza
dell’unico vero Dio che guida la storia sia dei singoli che dei regni, γ) che il culto degli dèi non è in grado
di risolvere la felicità ultraterrena degli uomini, tema primo e ultimo di ogni filosofia, come volevano i
filosofi platonici». Nota 31 in S. Agostino, La città di Dio, Città Nuova, Roma, 2010, 58-59.

36
terrena; la storia delle due città corre parallela nel dipanarsi del tempo, anzi con una continua
mescolanza tra l’una e l’altra, in quanto ogni giusto è cittadino della città celeste e ogni
cattivo cittadino della città terrena: in questo itinerario che procede lentamente verso la fine
del mondo, per altro conosciuta soltanto da Dio, nonostante qualche saltuariamente pacifica
convivenza, la città celeste deve sempre subire l’ostilità e anche la persecuzione della città
terrena: la sua vittoria ci sarà soltanto, ma sarà definitiva, alla fine del mondo e del
tempo»112.

La visione agostiniana della storia è essenzialmente tridimensionale, e perciò


essenzialmente (anche se non esclusivamente) teologica. Come già delineato, essa
comprende tre momenti: un prima, un adesso e un dopo. Il prima è la condizione
originale della umanità, nella quale si incontravano i beni della creazione e i doni della
grazia, cioè i doni della giustizia, e dell’immortalità che importavano per l’uomo il
possesso della pace, della libertà e della beatitudineν l’adesso abbraccia tutto il presente
storico che è conquista e attesa, fatica e invocazione, segnato dall’esercizio faticoso e
doloroso della virtù e dal contemporaneo dominio della morte e della iniquità; il dopo
indica la fase metastorica ove la triplice esigenza di ogni persona (essere, conoscere e
amare) troverà pieno e definitivo appagamento.

«Il dramma della storia, che si inserisce in queste tre dimensioni e ne riceve significato e
luce, si svolge, come la tragedia antica, in cinque atti, che prospettano cinque problemi e
propongono cinque soluzioni. Gli atti sono: la creazione, la caduta, la legge, la redenzione, la
sorte finale. […]

A ciascuno di questi risponde un grande problema: […] il problema delle origini; il problema
del male; il problema della lotta tra male e bene; il problema della vittoria del male sul bene;
il problema dei termini eterni.

A ciascuno di questi problemi l’opera agostiniana offre una soluzione, suggerita dalla fede,
chiarita e difesa dalla ragione. Cinque soluzioni, dunque, che in sintesi sono queste: Dio
creatore della natura e largitore della graziaν l’abuso della libertà da parte degli angeli ribelli
e degli uomini; i due amori, di sé e di Dio, che costituiscono le due città in cui angeli e
uomini sono divisi; la provvidenza divina che guida la storia e che la illumina con la
mediazione di Cristo, la fondazione della Chiesa e il dono della grazia; la separazione finale,

112
M. Simonetti, Letteratura cristiana antica, 3° volume, PIEMME, 2003, 341.

37
esteriore e definitiva, delle due città, dei giusti, che raggiungeranno la beatitudine piena e
inammissibile, e degli iniqui»113.

Quindi, Sant’Agostino non entra in media res nel suo argomento che dopo aver respinto
le accuse dei pagani contro la Chiesa, in una prima parte puramente difensiva (libri I-
IX) che dimostra come il paganesimo sia assolutamente incapace di assicurare la
prosperità sulla terra (I-V) 114 e a preparare la felicità nella vita futura (VI-X).

È nella seconda parte (libri XI-XXII) che espone la dottrina delle due città nella loro
origine (exortus: XI-XIV115), nel loro progresso (procursus: XV-XVIII) e nella loro fine
(fines debiti: XIX-XXII116).

2.4 Roma e la Storia nel De Civitate

Dopo aver messo in luce la centralità di Cristo e del Regno di Dio come chiave di
lettura del De civitate Dei, possiamo ora delineare in che modo Agostino presenta il
senso che egli ritrova nella storia antica e in quella contemporanea.

Già in precedenza (nel XI libro delle Confessioni) aveva riflettuto sul fatto che il tempo
è creatura. Così come lo è la storia, che delle creature si sostanzia: «sono tempi brutti,

113
Introduzione di Agostino Trapè a La città di Dio - Opere di sant’Agostino, Parte I: Libri – Opere
filosofico-dommatiche Volume V/1, Città nuova editrice, 1978.
114
Ibidem.
115
«I primi cinque libri del De civitate dei trattano della Roma precristianaέ δ’atteggiamento
che Agostino tiene nei confronti dell’impero romano è per molti versi ambivalenteέ δa sua estensione,
potenza e durata non sono dovuti agli dèi pagani, ma alla volontà divina i cui criteri di giudizio restano
per noi oscuri; nonostante ciò la condanna nei confronti della storia e dello stato romano è senza appello:
Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt nisi parua
regna? Manus et ipsa hominum est, imperio principis regitur, pacto societatis astringitur, placiti lege
praeda dividitur. Il fatto che, per volere divino, quello romano fosse diventato il più grande impero
dell’età antica certamente non lo giustifica moralmente, così come non fu per il breve impero di
Alessandro Magno: Nam cum idem rex hominem interrogaret, quid ei videretur, ut mare habere infestum,
ille libera contumacia: Quod tibi, inquit, ut orbem terrarum; sed quia id ego exiguo navigio facio, latro
vocor; quia tu magna classe, imperator». P. Battaglia, L'Impero e le due città. Storia universale, politica
ed escatologia nella Chronicadi Ottone di Frisinga, (Università di Padova, Corso di Laurea magistrale in
Scienze storiche, a.a. 2013-2014),73.
116
«δ’evoluzione del pensiero di Agostino fu lunga e travagliata e la posizione del De civitate Dei,
specialmente nella seconda parte dell’opera, è quella più matura e ostile verso l’impero anche se, come si
è visto per il libro XIX, c’è spazio per alcune “limature” che generarono non poche ambiguità». P.
Battaglia, L'Impero e le due città. Storia universale, politica ed escatologia nella Chronicadi Ottone di
Frisinga, (Università di Padova, Corso di Laurea magistrale in Scienze storiche, a.a. 2013-2014), 86.

38
tempi di sofferenza, dice la gente … Siamo noi i tempi, i tempi sono tali e quali a
noi»117.

Tutto questo è applicato sia alle vicende dei singoli individui, che dei regni e dei popoli
(quantunque sia limitata la capacità umana di penetrare questa guida divina sempre
presente nel corso delle vicende):

«Stando così le cose, dobbiamo attribuire il potere di concedere il dominio regio e imperiale
solo al vero Dio che dà la felicità nel regno dei cieli solamente ai fedeli e il regno terreno
tanto ai fedeli che agli infedeli, come piace a lui al quale non piace l’ingiustiziaέ Quantunque
abbia espresso qualche concetto che mi è sembrato chiaro, è tuttavia difficile per me e supera
di molto le mie capacità umane trattare argomenti inaccessibili alla ragione e valutare con
indagine scientifica le benemerenze degli imperi» 118.

ἑ’è una pedagogia divina, sia per ciascuna anima presa singolarmente che per l’umanità
intera:

«ἑome la retta educazione dell’individuo così anche quella del genere umano, per quanto
riguarda il popolo di Dio, progredì attraverso traguardi di tempi, in analogia allo sviluppo
delle età, affinchè si formasse dalle cose divenienti all’apprendimento delle cose eterne e
dalle visibili a quello delle invisibili»119.

In questo era seguita la tradizione platonica del graduale formarsi all’interno del corso
della storia umana di strutture e di conoscenze religiose, poetiche, giuridiche e tecniche.

Per Agostino la Provvidenza (l’ordinamento degli eventi verso il fine della storia) è il
presupposto filosofico di ogni interpretazione razionale degli avvenimenti; il Dio Eterno
si è servito anche di Roma e del suo Impero per far giungere la storia umana alla
stagione che Agostino e i suoi contemporanei vedevano in corso. Ecco perché Agostino
non ha remore nell’affermareμ

117
Serm. 80, 8: «mala tempora, laboriosa tempora: hoc dicunt homines … nos sumus tempora. quales
sumus, talia sunt tempora».
118
De civitate V,21.
119
De civitate. X,14.

39
«Il solo vero Dio che non cessa di giudicare e di aiutare la razza umana ha concesso, quando
ha voluto e nella misura in cui ha voluto, l’impero ai Romani»120.

Se questa affermazione avrebbe dato lustro a Cristo e alla sua Chiesa nei tempi di
prosperità, nel contesto del De civitate c’è piuttosto bisogno di giustificare come la
Provvidenza divina lasci accadere fatti tremendi e manifestamente ingiusti. Fin
dall’inizio dell’opera cerca di dare spiegazione anche di quei fatti che non costituivano
solo dei pretesti per la polemica pagana, ma erano di scandalo pure per la stessa
coscienza dei fedeli cristianiέ Tra tutti, si può prendere l’esempio della violazione di
alcune vergini consacrate capitata durante le tre convulse giornate del saccheggio della
Capitale:

«Non pensino che Dio trascuri queste cose perché permetto ciò che non si commette senza
colpa. Infatti certi pesi, per dir così, di malvage passioni sono lasciate cadere per un attuale
giudizio occulto divino e sono riservati a un giudizio ultimo palese»121.

Dio è provvidente e giusto giudice, solo che il giudizio attuale è occulto, a differenza
del giudizio finale che sarà manifesto122 a tutti; in questo modo si cerca di evitare i due
rischi estremi di una visione irrazionalistica e meccanicistica della storia 123.

Secondo la sua prospettiva prettamente cristiana124, non fu né il caso né il fato ma solo la


Provvidenza di Dio a determinare direttamente ruolo peculiare di Roma:

120
De civitate V,21.
121
De ciitate I,28,1.
122
Si badi che si può parlare di permixti ma non di confusio, dato che in Dio non esistono dubbi su chi
sarà salvato e chi sarà dannato.
123
È evidente il suo impegno a salvare l’ordine dei fini, indispensabile per una interpretazione razionale
della vicenda storica e compromesso tanto dall’assoluta contingenza o caso (la dea Tyche) come
dall’assoluto fato o necessità (la dea Ananke) perché eliminano non solo la dimensione provvidenziale e
finalistica del mondo storico ma rinunciano anche a spiegare l’umano incivilimentoέ È rilevante il fatto
che nel II secolo a.C. la stessa analisi di Tyche costituisce per Polibio (una delle fonti di Agostino)
l'impulso ad iniziare lo studio degli eventi «fortunati», che conducono Roma alla dominazione
dell’ecumene. Tyche rappresenta una forza elementare che è un modo di intendere il nesso di causalità, al
tempo stesso personifica una divinità capricciosa in natura e, infine, può essere vista come una dea che
dispensa castighi per le malefatte o la dissennatezza dei vari condottieri.
124
Su questo dovrà correggere il neoplatonismo della sua formazione: «Dove l'opposizione tra la
concezione agostiniana e quella platonica si rivela più stridente e dà occasione a più forti impennate da

40
«Mi rimane pertanto da esaminare la ragione per cui Dio, il quale può concedere pure i beni
che possono essere conseguiti anche dai non buoni e quindi anche non felici, ha voluto che
l’impero romano fosse di tanta grandezza e durataέ δa causa dunque della grandezza
dell’impero romano non è né casuale né fataleέ È la terminologia della teoria o sistema di
coloro i quali considerano casuali quegli eventi che non hanno alcuna causa e non
provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica
necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli
uomini. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina
provvidenza»125 .

La relazione diretta tra la Provvidenza divina e gli imperi terrestri non toglie comunque
la preminenza che la Città di Dio detiene su ogni tipo di consesso umano. È la Città di
Dio che dà il titolo all’opera e ne costituisce il cuore; è la Città di Dio che Agostino
trova nelle fonti della Rivelazione biblica e che si sforza di ritrovare nell’intreccio delle
vicende storiche:

«Considero Città di Dio quella di cui non è documento un libro che riporta eventuali teorie
del pensiero umano, ma un’opera scritta per ispirazione della sovrana provvidenzaέ È
un’opera che, segnalandosi con la divina autorità fra tutte le produzioni letterarie di tutti i
popoli, ha assoggettato a sé tutte le opere degli ingegni umani» 126.

parte di Agostino è nella concezione della storia. La dottrina platonica è nota e non occorre ripeterla:
preesistenza delle anime, caduta, imprigionamento nel corpo, purificazione o, quando questa sia mancata,
reincarnazione, beatitudine, e di nuovo colpa, pena, purificazione in una ciclicità senza fine. Agostino
ritiene apertamente questa concezione la più orribile tra tutte quelle che si possano immaginareέ “Che le
anime pecchino in una vita precedente da dove verrebbero precipitate nel carcere dei corpi, non lo credo,
non lo accetto, non sono d'accordo. Anzitutto perché ciò, come dicono costoro, avverrebbe per non so
quali giri, di modo che dopo non so quanti rivolgimenti di secoli si debba tornare di nuovo al peso di
questa carne corruttibile per scontare le pene. È questa una teoria di cui ignoro se si possa pensare
qualcosa di più orribile”. Altrove il nulla di più orribile diventa nulla di più stolto; altrove ancora “grandi
deliramenti di grandi dottori”: magna magnorum deliramenta doctorum. Parole, queste ultime, che si
trovano in un discorso al popolo, ma che non hanno affatto l'aria di una battuta oratoria. Agostino è
profondamente convinto che la concezione platonica, ciclica e metempsicotica, costituisca non solo un
grave errore, ma anche una grave iattura. Se, per assurdo, queste cose fossero vere, sarebbe meglio
ignorarle: doctius nescirentur. Esse infatti rendono inintelligibile la storia umana, particolarmente l'inizio
e il termine di essa; inizio e termine che l'autore della Città di Dio si è studiato di chiarire, approfondire e
difendere alla luce della fede cristiana e della ragione umana». A. Trapè, Escatologia e antiplatonismo di
sant'Agostino. Augustinianum 18 (1978), 237-244.
125
De civitate V,1.
126
De civitate XI,1.

41
Questa prospettiva non annulla il ruolo di Roma, piuttosto la colloca al suo giusto
posto127; Agostino ne tratta diffusamente in un confronto tra le due città (di Dio e degli
uomini) nell’evoluzione storica:

«È avvenuto, non senza la provvidenza di Dio da cui dipende che un popolo con la guerra sia
soggiogato e l’altro soggioghi, che alcuni furono insigniti di dominio e altri soggetti a
dominatori. Ma fra i numerosi imperi del mondo, nel quale fu distribuita la collettività
dell’utile o dilettevole terreno, che con termine generico definiamo la città di questo mondo,
possiamo notare che due imperi, molto più famosi degli altri, hanno avuto buon esito, prima
quello di Assiria e poi quello di Roma, ben collocati e distinti fra di sé nel tempo e nello
spazio. Infatti come quello si è segnalato prima e questo dopo, così quello in Oriente e
questo in τccidenteέ Inoltre alla fine del primo impero immediatamente si ebbe l’inizio del
secondo. Considererei gli altri imperi e sovrani come appendici di questi due» 128.

Il tema (già classico129) del definitivo passaggio della storia della civiltà dall’τriente
all’τccidente è l’occasione di delineare un parallelismo tra Roma e Babilonia: in
Oriente Babilonia fu quasi una prima Roma, così come in Occidente Roma è come una
seconda Babilonia130.

Agostino inoltre esamina la cronologia e l’evoluzione delle due città appaiandole e


confrontandole: così la promessa ad Abramo della benedizione di tutti i popoli è
parallela all’impero di Assiriaν mentre il preannuncio profetico della vocazione dei
popoli in Cristo e nella Chiesa comincia in contemporanea con l’egemonia di Romaμ

«Queste sorgenti, per così dire, della profezia sgorgarono insieme in quell’arco di tempo in

127
Si confronti Polibio, Storie, I, 1, 5-6 e III, 1-3. Già Polibio si sforzò di esaminare come e perché Roma,
nel breve volgere di nemmeno 53 anni divenne l'incontrastata dominatrice dell'ecumene, dell'intero
mondo abitato. Sia egli che Zosimo di Gaza (che riprende la sua opera) non potevano che darne
spiegazione tramite la sorte e il destino. Su questo il distacco del pensiero di Agostino è sensibile.
128
De civitate XVIII,2,1.
129
Polibio, Storie, 1,2-4.
130
De civitate XVIII,2,2. Il riferimento ad Ap 14,8, sulla caduta di Babilonia non doveva risultare troppo
gradito né agli interlocutori pagani né comunque ai cittadini romaniν va detto che comunque quest’ultima
parte del De civitate è rivolto più che altro ad un lettore cristiano. Agostino non sarà troppo in imbarazzo
ad ricordare come «Ho indicato precedentemente che per bestia si intende la società pagana» (De civitate
XX,14).

42
cui venne a mancare il regno assiro e iniziò quello di Roma. Quindi come nel primo periodo
dell'impero di Assiria visse Abramo, al quale furono rivolte le esplicite promesse della
benedizione di tutti i popoli nella sua discendenza, così all'inizio della Babilonia d'Occidente,
durante il cui impero sarebbe venuto il Cristo, nel quale si adempivano quelle promesse, i
discorsi dei Profeti, che non solo parlavano ma anche scrivevano, si dovevano svolgere
nell'attestazione di un così grande avvenimento. Sebbene non mancassero quasi mai Profeti
al popolo d'Israele da quando iniziò l'epoca dei re, essi furono tuttavia a suo vantaggio, non
di tutti i popoli. Quando invece si costituiva una scrittura più palesemente profetica, che
giovasse a tempo debito ai popoli, era opportuno che iniziasse quando si costituiva la città
che doveva esercitare l'impero su tutti i popoli»131.

Lo sbocco naturale della riflessione sulla Storia non può che essere su quei cieli nuovi e
terra nuova che costituiscono anche la conclusione della Rivelazione biblica, con il libro
dell’Apocalisseέ È l’occasione per Agostino di comporre la dottrina escatologica
cristiana con la conflagrazione degli stoici ( π ω ) 132.

«Questo mondo cesserà con una metamorfosi, non con una totale distruzioneέ (…) Per questo
l'Apostolo dice: Passa la conformazione di questo mondo, vorrei che voi foste senza
preoccupazione (1 Cor 7,31-32). Passa dunque la conformazione, non l'essenza»133.

Come il termine del Diluvio di Noè segnò la prima Alleanza e la prima benedizione
concessa da Dio nei confronti dell’umanità, passando dall’acqua al fuoco sarà con la
conflagrazione finale che avranno inizio il cielo e la terra nuovi:

«Dunque prima saranno giudicati coloro che non sono scritti nel libro della vita e gettati nel
fuoco eterno. Penso che nessun uomo sappia, se non colui al quale lo Spirito di Dio lo rivela
che razza di fuoco sia questo e in quale parte del mondo o della realtà brucerà. Allora la
conformazione di questo mondo cesserà col divampare simultaneo dei fuochi del mondo,
come avvenne il diluvio con l'inondazione delle acque del mondo. Con quel divampare
simultaneo del mondo, come ho detto, le proprietà degli elementi posti nel divenire, le quali

131
De civitate. XVIII,27.
132
Cicerone, De nat. Deor. 2,24,63; Diogene Laerzio 141.156; Plutarco, De Ei apud Delph. 10,389a.
133
De civitate, XX,14.

43
convenivano ai nostri corpi posti nel divenire, cesseranno del tutto nel fuoco. Lo stesso
essere sussistente avrà quelle proprietà che convengano, attraverso una meravigliosa
trasformazione, a corpi non posti nel divenire, in modo che il mondo, trasformato in meglio,
si adegui ad uomini trasformati in meglio anche nel loro essere fisico»134.

Se per Agostino la visione dell’Eternità e lo sguardo sugli avvenimenti contemporanei


sono temi complessi ma possibili da esaminare con una certa coerenza, è sugli ultimi
tempi che riconosce di trovare molta più difficoltàέ Prima di porre fine all’opera del De
civitate si sofferma comunque sui due temi dell’Anticristo135 e del katéchon136 (dal greco
antico ὸ α χο ciò che trattiene o colui che trattiene) che, pur essendo di difficile
interpretazione, si possono comunque con una certa sicurezza collegare a Roma e ai
falsi cristiani:

«Una riflessione sulla frase: E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione; sapete,
cioè, che cosa è in ritardo e qual è la causa della dilazione affinché avvenga a suo tempo.
Poiché ha detto che lo sapevano, non ha inteso dirlo apertamente. Perciò noi, che non
sappiamo quel che essi sapevano, desideriamo ma non siamo in grado di giungere, sia pure
con insistenza, a ciò che pensava l'Apostolo, soprattutto perché i concetti, che ha aggiunto,
rendono più astruso il significato. Infatti che significa: Già il mistero dell'iniquità è in atto.
Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga, finché sia tolto di mezzo, e allora sarà rivelato
l'empio (2Ts 2,6-7)? Io confesso che proprio non capisco quel che ha detto. Tuttavia non
passerò sotto silenzio le ipotesi di uomini che ho avuto possibilità di ascoltare o leggere.

Alcuni pensano che si è parlato dell'impero romano e che perciò l'apostolo Paolo non lo ha
voluto esprimere apertamente per non incorrere nell'ingiusta accusa che auspicasse a danno
dell'Impero di Roma, mentre ci si riprometteva che fosse perenne. Poteva sembrare che nella
frase: Il mistero dell'iniquità è già in atto (2Ts2,7) avesse voluto che vi si ravvisasse
Nerone, le cui azioni apparivano come quelle dell'Anticristo Perciò alcuni ipotizzano che
risorgerà e diverrà l'Anticristo. Altri invece pensano che non sia stato ucciso ma allontanato

134
De civitate, XX,14.
135
Anche Girolamo, De Antichristo 11,7-30 riporta le varie opinioni, compresa quella di Porfirio,
sull’identificazione dell’Anticristo con l’una o l’altra personalità storica, compresi Domiziano e Nerone. I
Cristiani non rinnegano il concetto di “Roma eterna” e interpretano l'Impero come l'unica forza capace di
trattenere l'Anticristo. Questa concezione rimarrà anche dopo il sacco di Roma del 410: sia un autore
cristiano, Orosio, che un autore pagano, Rutìlio Numanziano, esprimeranno lo stesso concetto, che Roma
risorgerà proprio perché potenza civilizzatrice e patria del diritto.
136
Su questa figura tornerà particolarmente C. Schmitt e la sua riflessione teologico-politica.

44
segretamente affinché fosse ritenuto ucciso e rimanesse nascosto vivo, nel vigore dell'età in
cui era quando fu creduto morto finché al momento opportuno riappaia e sia restituito al
regno. Ma a me sembra molto assurda l'incomparabile ubbìa dei sostenitori di tale ipotesi.
Tuttavia non assurdamente si ritiene che il pensiero, espresso dall'Apostolo con le parole:
Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga finché esca di mezzo, si riferisca all'Impero di
Roma, come se fosse detto: Frattanto chi ora comanda comandi finché esca di mezzo, cioè
sia tolto di mezzo»137.

Giungendo alla fine della sua opera monumentale, lo sguardo di Agostino si fissa alla
fine della stessa Storia: nella fiducia nella provvidenza divina e alla luce della speranza
cristiana diviene ormai chiaro (a lui e ai suoi lettori) che la fine non sarà affatto un
tramonto.

Sarà la requies concessa ai santi nell’altro mondo a costituire la settima età


(corrispondente al settimo giorno della creazione secondo l’Antico Testamento e
prolungandosi nell’ottavo giorno138 della redenzione secondo il Nuovo Testamento).
Tutto ciò che quaggiù in ombra si fa nell’osservanza del Sabato, si effettuerà in maniera
infinita lassù nel Cielo: ecco quel che si avrà senza fine alla fine.

«Sono dunque in tutto cinque epoche. La sesta è in atto, da non misurarsi con il numero delle
generazioni per quel che è stato detto: Non spetta a voi conoscere i tempi che il Padre ha
riservato al suo potere (At 1,7). Dopo questa epoca, quasi fosse al settimo giorno, Dio
riposerà quando farà riposare in se stesso, come Dio, il settimo giorno, che saremo noi.
Sarebbe lungo a questo punto discutere accuratamente di ciascuna di queste epoche; tuttavia
la settima sarà il nostro sabato, la cui fine non sarà un tramonto, ma il giorno del Signore,
quasi ottavo dell'eternità, che è stato reso sacro dalla risurrezione di Cristo perché è allegoria
profetica dell'eterno riposo non solo dello spirito ma anche del corpo. Lì riposeremo e
vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla
fine. Infatti quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine?» 139

137
De civitate, XX,19,2-3.
138
Il concetto di un sabatismo terminale è ricorrente. Clemente Romano, Ad Cor. II 5,5; Teofilo
Antiocheno, Ad Aut. 1,14; Tertulliano, Apolog. 48.
139
De civitate, XXII,30,5.

45
2.5 Storia ed eternità, Impero dei romani e regno di Dio

Quali sono le prime conclusioni che possiamo tratteggiare, in riferimento ad Agostino?


Come più volte accennato, la peculiare Teologia della Storia di ciascuno dipende sia
dalla propria visione teologica che dalla Storia in cui si è partecipi (i riferimenti alla vita
e al pensiero di Agostino si intrecciano in continuazione col suo contesto storico): così
Agostino, Santo e Vescovo di Ippona, sviluppò e maturò la sua riflessione in quanto
uomo di Chiesa, inserito con un ruolo preminente nelle vicende religiose e civili che si
svolsero a cavallo tra il IV e il V secolo.

δ’opera di Agostino indubbiamente coglie con acutezza gli aspetti politici e giuridici
che caratterizzano società umane, li considera e li analizza; in questo senso ne discerne
gli elementi essenziali e qualche volta li definisce. Tuttavia la sua attenzione si
concentra principalmente altrove: bada di più alla sorte finale dell’uomo ed esamina gli
stadi intermedi in quanto mezzi per raggiungere il fine; egli offre insomma un metodo e
una prospettiva per guardare alla politica, che ritiene sia però salvata da qualcosa che è
oltre di essa. La sua riflessione sulle sorti del mondo hanno senso solo collegate a quelle
sulla sorte della Chiesa140; il senso della Storia viene visto in collegamento con la
riflessione sull’Eternitàμ non provoca troppo timore un tramonto dell’Impero dei
romani141, quando si sta giungendo alla pienezza del Regno di Dio. Il declino di Roma e
la sua stessa caduta (più o meno imminente) non viene vista come particolarmente
140
La Chiesa è di natura essenzialmente escatologica, anche se non esclusivamente; com'è appunto la
giustificazione cristiana di cui è portatrice. Perciò Agostino la descrive spesso come la comunità dei giusti
o il popolo di Dio che percorre e scrive la storia della salvezzaέ Una dell’espressioni preferite dai teologi
moderni è che la Chiesa vive il tempo del «già e non ancora»έ δ’espressione ha valore anche per Agostino
a condizione di non dimenticare che, in ultima analisi si tratta non di due Chiesa, ma di due momenti di
vita ecclesiale, ambedue segnati d’eternitàμ utraque una, ex consortio eternitatis; ambedue intimamente
unificati nell’una civica sub uno rege et una quaedam provincia sub uno imperatore. Il momento nel
tempo porta in sé i segni della sua origine celeste ed è nostalgicamente percorsa da una forte tensione
verso l’eternoέ
Non è una Chiesa «bipartita», è una Chiesa «tesa». Soltanto il Capo del suo corpo annulla la tensione con
la forza del suo Spiritoέ δ’assenza del Signore non è dunque assenzaμ ecco la stupenda visione di una
Chiesa qui nel tempo che non resta separata dalla ἑhiesa nell’eternitàμ quello che sarà domani il regnum
coelorum lo è già oggi, sia pure nell’ovvietà dei suoi limiti, qui sulla terraέ Sì, proprio qui, su questa
nostra terra, perché qui l’incarnazione del Verbo inaugurò il regno di Dio, che Agostino non distingue dal
regno dei ἑieliέ Per lui si tratta di un unico regno la cui presenza nel tempo, protesa verso l’eternità, si
consumerà quando la Chiesa sarà soltanto la sua realtà originaria, Chiesa degli angeli e dei santi, regno
eterno del Dio Eterno.
Ecco come Agostino legge (in maniera profondamente cristiana) il fine e la fine delle vicende storiche.
141
Peraltro Sergio Cotta nel saggio La città politica di Sant’Agostino mette in evidenza come lo Stato non
sia collocabile in nessuna delle due città mistiche, ma è uno strumento che può permettere il
raggiungimento di una pace terrena instabile e precaria, la sola possibile nella storia, obiettivo comune di
tutti gli uomini. S. Cotta, La città politica di Sant’Agostino, Milano, Edizioni di Comunità, 1960.

46
significativa, in quanto la forma politica non è rilevante per la salvezza dell’uomo e su
questo rimane l’istituzione della ἑhiesa ad operare universalmenteέ

«In effetti, Agostino dava per scontata la sopravvivenza dell’Impero romanoέ Per lui si
trattava del “mondo”, del mundus, nel quale aveva vissuto per sessant’anniέ Egli era del tutto
preparato a considerare il sacco di Roma come un disastro senza precedenti, (…) egli poteva
accettare la caducità di ogni umana istituzione, ma tutta la sua prospettiva implicava una fede
nella forza di recupero dell’Impero nel suo insiemeέ Il trattamento punitivo manca al suo
scopo, se stermina chi lo subisce: Roma, nella sua visione matura, era stata “punita, ma non
sostituita” 142» 143.

Le vicende umane troveranno il loro senso compiuto solamente quando tutto sarà giunto
al suo termine; il rapporto tra storia ed eternità si può sintetizzare con la felice
espressione di Marrou144 di un «tempo musicale»145.

«A questo punto bisogna riferirci a ciò che io ho voluto chiamare concezione musicale del
tempo della storiaέ […] Sant’Agostino in effetti amava rappresentarsi la successione storica,
ordo saeculorum, come un canto meraviglioso, tamquam pulcherrimum carmen146. E questo
non semplicemente per esprimere con una immagine estetica il suo giudizio ottimista sul
mondo e il suo divenire, il suo paragone va oltreέ […] Il giudizio e il senso [di un’opera
musicale] non sono dati in partenza, se almeno l’opera ha qualche pregio e non si riduce a un
taratata di tromba la cui perfetta cadenza è prevedibile fin da principio. Questo senso, che è
il suo essere, non è acquisito definitivamente che una volta terminata l’ultima stretta, suonato
l’ultimo accordo, attaccata la cadenza finaleέ όino a quel punto l’opera o la melodia può
sempre rimbalzare, modularsi e aleggiare verso un’altra aria, ripartire e arricchirsi di nuovo –

142
De civitate IV,7,40.
143
P. Brown, Agostino di Ippona, 300.
144
«Marrou fu critico musicale di Esprit (la rivista di Emmanuel Mounier nata nel 1932, per cui aveva
subito collaborato) dal 1945 al 1968, e il suo curioso e confuso Traité de la musique selon l’esprit de
Saint Augustin […] si inserisce per molti tratti significativi nella cultura francese (musicale e non) degli
anni Trenta». «δ’autore si spinge fino a correggere Agostino stesso, soprattutto per quanto riguarda la
componente pitagorica della sua riflessione, per sottolineare invece una componente religiosa della
musica che non sembra così evidente nella riflessione agostiniana». F. Lazzaro, A proposito di Agostino,
Marrou e la musica, in www. riviste.unimi.it – (cons. 1/05/2016).
145
Agostino lo espone in due testi particolarmente importanti: nella Epistola 138, indirizzata al
commissario imperiale Marcellino (cui è dedicato il De civitate) e nella Epistola 166, indirizzata a san
Gerolamo e in cui tratta il tema straziante della morte di un bambino.
146
De civitate XI,8.

47
come quelle melodie gregoriane dal modo ambiguo che non si definisce se non nella
conclusione – in fine iudicabis insegnavano i vecchi maestri di canto!

Secondo questo modello bisogna immaginare lo svolgimento della storia: Dio creatore
dell’universo è anche colui che ordina e governa il trascorrere dei tempi, sicut creator ita
moderator, e la storia con una certa verosimiglianza può essere paragonata ad un immenso
concerto che la mano onnipotente dirige, velut magnum carmen cuiusdam ineffabilis
modulatoris. Egli solo sa dove vada, essa stessa non è ancora aquisita, anzi può sempre
assumere indirizzi diversi, rinnovarsi: non riceverà il suo senso compiuto se non quando sarà
giunta al termine. Colà in ultima analisi è serbata la spiegazione ultima di ciò che noi
abbiamo chiamato il mistero della storia. Non è terminata ma si sta ancora facendo e per
questa noi ci adoperiamo. Possiamo ben dire che essa ha un senso e intravedere il contenuto
globale del suo procedere in virtù della rivelazione – ingrossamento della Città dei santi,
crescita del Corpo di Cristo – ma non possiamo descriverla come una cosa o un oggetto che
abbiamo davantiέ Si misuri su quale insipidezza dell’idea di Dio si fondava la pietosa
tracotanza del filosofo della storia che credeva, proprio lui, di poter contemplare il quadro
storico universale e renderne ragione»147.

3. Dal V al XX secolo: un raccordo storico-


teologico

3.1 Da Agostino all’Agostinismo

Una volta ritiratosi l’esercito dei Visigoti, si avvertì da più parti la necessità di
esorcizzare la memoria degli eventi del 410. Sul fronte cristiano questa tendenza si
conciliava assai bene con il provvidenzialismo ottimistico del prete spagnolo Paolo
Orosio148, che tra il 416 ed il 417 su richiesta di Agostino andava componendo una

147
H.-I. Marrou, Teologia della storia, Jaka Book, milano, 2010, 106-107.
148
Agostino chiese al discepolo Orosio, fuggito dalla Spagna, come molti, in Africa, di stilare una storia
universale che sia una vera e propria rassegna di catastrofi: i regni terreni sono regna peritura, regni
destinati a finire, ed è questa lettura la teologia della storia contenuta nel De civitate dei. Orosio però
leggerà la storia come disegno provvidenziale di Dio che sceglie l’impero di Roma, e di Augusto in
particolare, come momento dell’incarnazione del ἑristoέ La differente prospettiva rispetto alla visione di
Agostino sta soprattutto nell’idea di una salvezza che si realizza nella storia, mentre tutto il De civitate dei
è dedicato a spiegare come essa si compia attraverso la storia, per mezzo della storia e però rigorosamente
al di là della storia. Da questo punto di vista Orosio non si distingueva molto dai chiliasti, i millenaristi
che attendevano la seconda parousia di Cristo, i famosi mille anni di regno terreno. era stato anche
l’errore del continuatore di Eusebio, Rufino di Aquileia, che trasforma l’impero nel regno di Dio nel
tempo e alla fine del IV secolo scrive (anch’egli sulla spinta delle ripetute invasioni barbariche che

48
storia universale – dal titolo Historiarum adversus paganos libri VII – volta a
dimostrare la felicità dei tempi cristiani. Così nella sua opera il saccheggio di Roma del
410 non solo risulta minimizzo nel suo sanguinoso svolgersi, ma è l’occasione per un
racconto edificante e l’intervento di Alarico viene a configurarsi come una punizione
voluta da Dio per i pagani149.

Il procedere successivo degli eventi finì però per contraddire l’ottimismo espresso da
Orosio nelle sue Historiae. Il Chronicon del vescovo Idazio Lemico (morto nelle
Asturie circa nell’anno 470) descrive tragicamente l’insediamento dei Visigoti nelle
ύallie, lo sbarco dei Vandali in Africa, ed il progredire dell’anarchia nella penisola
iberica150. σegli anni ’γί-’4ί del V secolo i Vandali occuparono gran parte dell’Africa
romana, come ci attesta nella sua Epitoma Chronicon, condotta fino all’anno 4ηη,
Prospero d’Aquitania151.

Proprio su quest’ultimo autore è interessante osservare che fu proprio dal suo spiccato
agostinismo a trarre le categorie per considerare lo stesso Impero romano come un
fenomeno del tutto secondario: il morente ordine romano si collocava a latere del
mondo della grazia, ma i due mondi non si toccavano in alcun modo 152. Prospero rende
la storia della Chiesa indipendente dalle vicende della Respublica ormai sotto assedio,
in quanto la grazia divina può realizzarsi in ogni momento ed in ogni luogo, e di

interessarono l’Italia dopo la morte di Teodosio) la sua storia come una galleria di signa virtutis, della
virtus Dei.
149
«È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante, ma dopo aver dato ordine
alle truppe, in primo luogo, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri,
specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e, in secondo luogo, di astenersi quanto
possibile, nella caccia alla preda, dal sangueέ E a provare che quella irruzione dell’Urbe era opera
piuttosto dell’indignazione divina che non della forza nemica, accadde che il beato Innocenzo, vescovo
della città di Roma, proprio come il giusto Loth sottratto a Sodoma, si trovasse allora per occulta
provvidenza di Dio a Ravenna e non vedesse l’eccidio del popolo peccatoreέ […] Il terzo giorno dal loro
ingresso dell’Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo
numero di case, ma neppur tante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua
fondazioneέ ἑhé, se considero l’incendio offerto come spettacolo dall’imperatore σerone, senza dubbio
non si può istituire alcun confronto tra l’incendio suscitato dal capriccio del principe e quello provocato
dall’ira del vincitoreέ σé in tal paragone dovrò ricordare i ύalli, che per quasi un anno calpestarono da
padroni le ceneri dell’Urbe abbattuta e incendiataέ E perché nessuno potesse dubitare che tanto scempio
era stato consentito ai nemici al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema, nello stesso
tempo furono abbattuti dai fulmini i luoghi più illustri dell’Urbe che i nemici non erano riusciti ad
incendiare. σell’anno 11θ4 dalla fondazione di Roma, la città fu dunque invasa da Alaricoμ ma, per
quanto il ricordo di quell’evento sia ancora recente, se qualcuno vede la grande moltitudine dei cittadini
romani e li ascolta parlare, penserà che – come essi stessi dichiarano – non sia accaduto nulla, a meno che
non siano ad istruirlo le poche rovine di quell’incendio tuttora esistenti»έ τrosio, Historiarum adversus
paganos, VII, 39-40.
150
Idazio, Cronaca, AA 11, 17-21. Il suo resoconto è un serrato procedere ed estendersi dell’inarrestabile
invasione barbarica nelle civilizzate e fertili terre dell’Imperoέ
151
Prospero d’Aquitania, Cronaca, AA 9, 472-479.
152
Prospero d’Aquitania, De vocatione omnium gentium, I, 9.

49
conseguenza il mondo della grazia non ha bisogno di una precisa organizzazione civile.
Quando nel 433 lasciò Marsiglia per mettersi al servizio del Vescovo di Roma,
riassunse la sua visione del mondo non in un trattato teologico, bensì in un trattato di
storia universale in cui Roma stessa non è più posta al centro dell’attenzioneέ In questo
suo Chronicum integrum il V secolo non era tanto visto come il periodo in cui le
invasioni barbariche sommergono l’Impero, quanto come il progredire delle Gesta Dei
per Ecclesiam153.

A questo punto è utile confrontarvi la visione (diametralmente opposta) di Saviano di


Marsiglia154. Il suo famoso trattato De gubernatione Dei, più che una requisitoria dei
vizi della società romana del suo secolo vuole essere una esplicitazione della presenza
del giudizio divino sui peccati umaniμ non a caso l’opera era nota ai suoi contemporanei
come De preasenti iudicio155.

«δ’insistenza di Salviano sul giudizio di Dio lo rese uno scrittore tanto potente quanto
peculiare. Nella sua lotta contro il destino della società in cui viveva erano molte le
possibilità che egli nemmeno si premurò di considerare, ovvero le altre opzioni che erano
state attentamente vagliate in ambito provenzale. Per Eucherio di Lione, per esempio, i mali
del presente dimostravano semplicemente in un mondo giunto ormai “a tarda età”156, quasi
fosse meglio pensare alla propria vecchiaia e alla morte che si avvicinava anziché mettere a
fuoco troppo concretamente i mali della società contemporanea che, come tutto il resto,
aveva un carattere transeunteέ (…) σon era così per Salviano, determinato fino in fondo a
concentrare la propria attenzione sui veri mali di un vero impero, al fine di convincere i
lettori che erano in presenza di un Dio che giudicava i peccati umani hic et nunc, e con
terrificante meticolositàέ (…) Questo terribile senso della trasparenza della giustizia di Dio
nel punire l’impero per le violazioni della legge divina commesse dai cristiani faceva del De
gubernatione Dei un testo molto diverso da qualsiasi altro scritto contemporaneoέ (…) σei
più profondi recessi della sua mente vi era la persistente convinzione che, in un modo o
nell’altro, l’impero romano rappresentava l’Israele dei tempi moderniέ ἑome l’antico Israele,

153
σell’anno 4γ1 annota che la ἐritannia (abbandonata dalle legioni romane) non è più pelagiana, e che
anche i terribili irlandesi (fuori dai più estesi confini dell’Impero) hanno abbracciato la fede cristianaέ Se
anche l’Impero fosse scomparso, tali eventi avrebbero continuato a verificarsi, «perché la gloria dei santi
è che il mondo intero venga ad essere sottoposto a Dio e alle sue leggi» (Omnium sanctorum gloria haec
est, ut totus mundus subjiciatur Deo et divinis legibus), Prospero d’Aquitania, Epitoma chronicon. 1307;
Id. , Psalmorum C ad CL Expositio CXLIX, 9.
154
Prospero d’Aquitania (390 circa – 463) e Salviano di Marsiglia (400– 451 o successivi) sono
praticamente contemporanei.
155
Gennadio, De viris illustribus, 68.
156
Eucherio di Lione, De contemptu mundi 614-25.

50
la Respublica era stata oggetto di particolare sollecitudine da parte di Dio, ed era questo a
conferire un senso di privilegio agli abitanti dei territori superstiti dell’impero 157. Al tempo
stesso, però, li caricava di una gravosa responsabilità» 158.

ἑome l’antico regno di Israele aveva sentito l’aspro rimprovero dei profeti «Voi non
siete popolo mio! 159», così anche il declinante Impero romano (quasi un Israele in scala
più grande) veniva punito con chiaro giudizio per aver abbandonato Dio e la sua legge. I
barbari (soprattutto Visigoti e Vandali160, popolazioni comunque di fede cristiana a
differenza di Sassoni, Unni e Franchi) costituivano una specie di corte d’assise
itinerante di Dio (quasi le orme di Dio che avanzava attraverso l’τccidente per
giudicare, qui e ora161): erano le popolazioni ariane (che in quanto eretiche avevano
conosciuto solo parzialmente la legge di Dio) ad eseguire il giudizio divino nei
confronti delle cattoliche popolazioni romane, le quali non potevano avanzare nessuna
scusa né attendersi alcuna misericordia162.

Se le vicende umane proseguivano nel loro corso, anche i concetti umani avevano un
loro proprio sviluppo. Questo vale anche per i concetti di Città di Dio e di Regno di Dio,
che Agostino prese dalla Bibbia e ai quali diede una caratterizzazione suo propria. Sul
Regno di Dio notiamo anzitutto che il suo germogliare evocò sempre la mistura indicata
nella parabola della zizzania: Volberone abate di San Pantaleo (morto nel 1167) giunge
a scrivere che la Chiesa contiene la città di Dio e la città del diavolo163, ma con errore,
dato che sant’Agostino insegna che è il mondo (non la Chiesa) a contenere le due città.

Lo sviluppo del pensiero agostiniano in un primo tempo mise sempre di più a tema –
anzitutto – che il regnum Dei è essenzialmente un regno: sarebbe quasi inutile la
precisazione, fermo restando che Agostino non fu e non volle essere un pensatore
politico. È però un dato di fatto che il suo pensiero fornì i fondamenti ad un modello che
prenderà le distanze tanto dall’escatologia potenzialmente rivoluzionaria di Origene

157
Salviano di Marsiglia, De gubernatione Dei, 14, 58 e 65.
158
P. Brown, Per la cruna di un ago, 610-611.
159
Osea 1,9.
160
σel 4γλ fu l’occupazione di ἑartagine da parte dei Vandali a strappare definitivamente all’Impero il
suo tradizionale granaio. Il loro spostarsi di provincia in provincia agli occhi di Salviano sembrava
eseguire un disegno intelligente, un particolare progetto divino, eseguendo per ciascun territorio la
sentenza che esso aveva meritato.
161
Salviano di Marsiglia, De gubernatione Dei VII, β, κ (sull’Aquitania) e VII, 1θ, θι-68 (su Cartagine).
162
Ivi, V, 2, 6 e V, 3, 10.
163
Citato in R. Amerio, Iota Unum – studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Lindau,
2009, 124.

51
(che tende a delegittimare gli ordinamenti e le leggi dello Stato poiché non conformi ai
dettami evangelici) quanto dalla teocrazia politica di Eusebio di Cesarea (che
identificando l’universalismo cristiano con quello romano, pone i fondamenti ideologici
su cui Bisanzio fonderà il suo impero cristiano164). Questo modello prende il nome di
agostiniano165, anche se si distacca significativamente da ciò che il Vescovo di Ippona
aveva effettivamente pensato e scritto.166

Ernst Troeltsch (1865-1923) mise particolarmente in luce come il De civitate Dei, pur
rispondendo ad un’istanza di natura apologetica, di fatto cerca di conciliare la morente
cultura antica con l’ethos, col mito, con l’autorità e l’organizzazione cattolica primitiva.

164
A distanza di secoli sembrano ripetersi gli stessi rischi e le stesse pretese. Si riveda il discorso di Pio
XII nel Natale 1951, quando, in un momento acuto della guerra fredda, il Papa ha riaffermato che non si
può identificare la Chiesa con la difesa della civiltà occidentale. Altrimenti si «lederebbe l’essenza stessa
della Chiesa» anche se ciò avvenisse «per fini e interessi in sé legittimi».
165
δ’agostinismo politico com’è noto è teorizzazione assai posteriore, medievale, giunta quindi a
maturazione svariati secoli dopo sant’Agostino, rispetto al quale pertanto si svolge in un contesto storico,
culturale ed istituzionale assai mutato. Si pensi alla diversa fisionomia del principale fenomeno empirico
di quei tempi, il romanum imperium, nei confronti del suo corrispettivo germanico, anche se in entrambi i
casi si riteneva che il suo potere venisse da Dio: omnis potestas a Deo. Gilson puntualizzò a riguardo:
«Sebbene egli non ne abbia mai formulato espressamente il principio, l’idea di un regime teocratico non è
inconciliabile con la sua dottrina, poiché se l’ideale della ἑittà di Dio non implica cotesta idea, tuttavia
nemmeno l’esclude». E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, Paris, 1949, 240.
166
È un fatto che Agostino non dedichi alla politica nessuno scritto specifico e neppure indichi quale
debba essere il sistema giuridico, l’organizzazione propria di una civitas terrena. Indubbiamente egli
coglie con acutezza gli aspetti politici e giuridici che caratterizzano società umane, li considera e li
analizza; in questo senso ne discerne gli elementi essenziali e qualche volta li definisce. Tuttavia la sua
attenzione si concentra principalmente altrove: bada di più alla sorte finale dell’uomo ed esamina gli stadi
intermedi in quanto mezzi per raggiungere il fine; egli offre insomma un metodo e una prospettiva per
guardare alla politica, che ritiene sia però salvata da qualcosa che è oltre di essa.
È chiara la tesi che il vescovo di Ippona vuol dimostrare (De civitate Dei, II,21) per respingere
l’affermazione pagana secondo cui il cristianesimo avrebbe provocato la fine delle virtù civiche e quindi
la rovina di Roma: stando alla definizione stessa di Cicerone la res publica romana fin dal tempo
precristiano non fu giusta, non fu res populi, come affermò proprio Cicerone e con lui Sallustio
(Cicerone, De republica I, 25, 39; III, 37, 50.). Se non fosse un termine eccessivamente anacronistico,
potrebbero essere definiti dei lineamenti di Teologia politica (il riferimento alla scuola di pensiero del
giurista e filosofo politico tedesco Carl Schmitt (1888-1985) non è casuale, stante le radici profondamente
agostiniane della sua riflessione che metteremo in evidenza nella seconda parte della nostra
presentazione) si noti poi l’itinerario secondo il quale il pensiero agostiniano si dipanaέ
È la comunanza delle cose amate, la rerum dilectarum communio che consente dunque al costituirsi e al
vivere di un popolo, nel senso politico del termine: la condizione necessaria e sufficiente è che esso abbia
per scopo quello di raggiungere determinati obiettivi, delle cose che ama: coetus multitudinis rationalis
rerum quas diligit concordi communione sociatus (De civitate Dei, XIX, 24.) Significativamente, questa
espressione sostituisce quelle pagane e classiche di iuris consensus e di utilitatis communio.
Qui interviene il criterio capace di individuare la vera giustizia, la iustitiae veritas di un corpo sociale.
Dice infatti Agostino che ciascun popolo è tanto migliore quanto migliori sono le cose in cui è concorde,
e tanto peggiore quanto queste sono peggiori (populus...tanto utique melior, quanto in melioribus,
tantoque deterior, quanto in deterioribus concors). Che cosa nella visione agostiniana rappresenta il
populus melior se non la civitas Dei? E che cosa parrebbe di conseguenza rappresentare il populus
deterior se non la civitas terrena? Segnaliamo tra i tanti contributi: J. Ratzinger, L’unità delle nazioni.
Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana; J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino,
Jaca Book, 2011.

52
Un passo ulteriore in Carl Schmitt e Eric Voegelin (1901-1λκη), ponendo l’accento
sull’istanza escatologica del regnum Dei167. Schmitt sottolinea come il De civitate Dei
sia un’opera permeata da una energica critica nei confronti di ogni divinizzazione della
città terrena e tuttavia non esclude che preveda un impegno della Chiesa nel mondo.
Poiché la comunità dei credenti è chiamata a divenire il segno concreto della presenza
di Dio nella storia dell’umanità, ciò comporta per essa una tensione perenne che troverà
la sua piena soddisfazione solo alla fine dei tempi, quando la comunione sarà perfetta e
l’invisibile diventerà visibileέ Egli ha elaborato una teologia della storia orientata ad
affermare l’irriducibilità della trascendenza divina al piano immanente della fattualità.

Il pensiero occidentale corse ancora più in avanti168 (o fuori strada?) quando, sempre
secondo l’analisi di Schmitt, la moderna scienza politica divenne non altro che teologia
secolarizzata169, non solo nel suo sviluppo storico ma anche nella sua struttura. Lo Stato
moderno è una Chiesa, e il legislatore è Dio, almeno da quando Thomas Hobbes (1588-
1679) fondò quello che Papa Leone XIII (1810-1903) chiamava il «diritto nuovo» sulla
base della massima auctoritas, non veritas, facit legem170.

167
δ’esatto contrario, se ben si considera, della corrente di pensiero medievale che si può condensare
nella figura di Gioacchino da Fiore. Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei
Santi, egli “segna comunque una svolta nella coscienza escatologica medievale, in quanto è il primo a
rompere il tabù agostiniano riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la
ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima
venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di ύog e εagogέ”έ Sulla stessa linea si pone Robert Eέ
Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante
legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque
tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali intellectu",
dimostrando così la sua un eccesso di originalità interpretativa delle Sacre Scritture. Si veda: Gioacchino
da Fiore, Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà),
Viella, 1996. Sulla diversità tra il modello agostiniano, che presuppone le due civitates, e quello
gioachimita, che porta all’unificazione di ἑhiesa e società in un’unica città, cfrέ εέ ἐorghesi, L’“età dello
Spirito” e la metamorfosi della città di Dio, in Il Nuovo Areopago, 13 (1994), 5-27 (tutto il numero è
dedicato al confronto tra Gioacchino da Fiore e Agostino).
168
J. Derrida (1930-2004) riprende il veritatem facere di sant’Agostino nella sua opera Force de loi; e
con lui E. Lévinas e molti altri (1905-1995). A tal proposito si trovano cenni in H. Meier, Carl Schmitt e
Leo Strauss, per una critica della Teologia politica, Cantagalli, Siena, 2011.
169
«Lo storico inglese John Neville Figgis, buon conoscitore della controversia tra papa e concilio
durante il secolo XV, ha osservato ad esempio che nel corso della lunga disputa intorno al
parlamentarismo moderno, che ebbe luogo durante tutto il secolo XIX tra governi e parlamenti, non è mai
comparso un solo argomento che non fosse già stato formulato nel secolo XV durante la controversia tra
il papa e il concilio». Schmitt, Nomos della terra, Adelphi, 1991, 125.
170
In effetti, si può parlare di una concezione sacrale della politica in due significati molto diversi tra
loro. Una buona politica che accetti di riconoscere la verità e il ruolo della religione – senza confusione,
ma anche senza separazione – deriverà da questo felice rapporto, come δeone XIII insegna nell’enciclica
Immortale Dei (1885), un certo carattere sacrale. Una cattiva politica che rifiuti qualunque dialogo con la
religione rischierà di diventare essa stessa una falsa religione, e d’imporre ai cittadini l’adorazione dello
Stato come contraffazione totalitaria di Dio. Per la scuola contro-rivoluzionaria l’orizzonte di uno Stato
ideale è «sacrale» nel primo sensoέ Per Schmitt e per chiunque s’interessi alle tesi della scuola contro-
rivoluzionaria, tuttavia secolarizzandole e separandole dal cattolicesimo, il rischio è che lo sia nel

53
A buon giudizio, per rispecchiare fedelmente il pensiero di Agostino andrebbe perciò
evitata sia un’interpretazione teocratica (città di Dio come modello da imporre alla
convivenza umana) ma pure un’interpretazione idealistica del De civitate Dei (città di
Dio come comunità ideale degli uomini religiosi o buoni): la civitas che questa attrattiva
genera, stupendo e attirando le persone che incontra, è semplicemente la Chiesa: dilecta
civitas, cum haec non sit nisi Christi Ecclesia171.

Arrivando però a considerare il periodo cronologicamente a noi più vicino, va


constatato come (nell’età moderna e contemporanea, per non dire postmoderna) una
società che pretende di fare a meno di Dio, può ritenere rinunciare tranquillamente
anche al contributo filosofico e teologico di Agostino. Ed è quanto ripercorre il
paragrafo seguente.

3.2 Dalla Cristianità all’Europa

δ’Impero di Roma sopravvisse di poco alla vicenda terrena di Agostinoμ con l’anno
476172 si indica convenzionalmente l’inizio del εedioevo 173.

secondo, come sembra confermare anche l’adesione del giurista tedesco al nazional-socialismo. Massimo
Introvigne, Erik Peterson, Teologo, in www.santiebeati.it – (cons. 15/02/2016).
171
De civitate Dei, XX,11.
172
«Gli eventi del V secolo non erano inevitabili, e non furono percepiti come tali da quanti li vivevano.
σessuno riteneva che in questo periodo l’impero occidentale stesse “cadendo”ν il primo autore a datare
precisamente la sua fine (al 476) è uno storico attivo a Costantinopoli, Marcellino comes, che scrive
attorno al η1κέ […] Il 4ιθ è la data tradizionale che segna la fine dell’impero occidentale, con la
deposizione in Italia dell’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, sebbene il 4κί rappresenti un’altra
possibile data simbolo, perché è in quell’anno che muore in Dalmazia il predecessore di romolo, ύiulio
Nepote» (C. Wickham, L’eredità di Roma – Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C., Laterza, Roma, 2014,
72. 80).
173
«E allora tanto più suggestiva diventa la fine di questo uomo che ha dettato ai posteri il senso della
fineέ tuttavia l’insistenza del biografo sulla preoccupazione di Agostino, negli ultimi giorni, di lasciare ai
posteri un’eredità fatta di libri e biblioteche e monasteri ci annuncia che il Medioevo è iniziato. Ma inizia
con il salvataggio della cultura classica, fatta dei segni per eccellenza, le parole, del complesso delle arti
liberali, transitive come tutte le cose e come tutta la Storia. E, come le cose e come la Storia, meritevoli di
essere trasmesse ad un futuro che non è eterno, ma che all’eterno senz’altro portaέ Il εedioevo comincia
allora con l’abbandono di ogni tentazione millenaristica, grazie a una lettura simbolica dell’Apocalisse, in
virtù della quale i segni diventano meta-segni, la Storia metastoria, la fine dei tempi una fine dei segni.
Perché il sentimento apocalittico torni a ‘impadronirsi’ della mente umana bisognerà attendere – così
insegna Huizinga – non il Medioevo, ma il suo autunno; perché compaia la prima opera dedicata alla
paura dell’anno 1ίίί bisognerà aspettare non la fine del X secolo, ma del XV (Delumeau, La paura in
Occidente, pέ γίθ, ci informa che la prima descrizione a noi nota del terrore dell’anno εille si deve a un
monaco benedettino, Trithemius, vissuto a cavallo fra XV e XVI secolo, e redattore degli annali del
convento di Hirschau.): «la folla di coloro che credono di avere udito la tromba dell’ultimo giorno non è
mai stata così gigantesca come fra il 1430 e il 1530» (Delumeau, La paura in Occidente, p. 307.)»
B.Pieri, In extremis, Virgilio, Agostino e la Fine dei tempi, in www.griseldaonline.it – cons. 1/05/2016)

54
Lo scorrere degli avvenimenti e dei secoli vide la Cristianità procedere nel suo cammino
verso il proprio telos in Cristo, e l’τccidente progredire in uno straordinario sviluppo
economico, scientifico e civile. Se per un lungo periodo l’esistenza di una Cristianità
Occidentale assommerà in sé stessa queste due categorie 174, col Rinascimento e con
l’Età moderna si assiste ad un progressivo scollamento tra l’identità cristiana e la
fisionomia politico-civile dei popoli abitanti il continente europeo.

Lentamente ma inesorabilmente al centro dell’attenzione non fu più il Regno di Dio,


bensì il potere dei Sovrani, non si avvertì più la tensione alla Città di Dio, bensì ci si
sforzò di consolidare la società degli uomini. Questo processo viene comunemente
indicato come secolarizzazione ed è già significativo ricordare la nascita di questo
termine.

Così la secolarizzazione è definita dall’enciclopedia Treccaniμ

«Termine entrato nel linguaggio giuridico durante le trattative per la pace di Vestfalia
(1648), allo scopo di indicare il passaggio di beni e territori dalla Chiesa a possessori civili, e
adottato in seguito dal diritto canonico per indicare il ritorno alla vita laica da parte di
membri del clero. Nel 19° sec. è passato a indicare il processo di progressiva
autonomizzazione delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal controllo e/o
dall’influenza della religione e della ἑhiesa. In questa accezione, che fa della s. uno dei tratti
salienti della modernità, il termine ha perso la sua originaria neutralità e si è caricato di
connotazioni valoriali di segno opposto, designando per alcuni un positivo processo di
emancipazione, per altri un processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al
nichilismo».

174
Anzi, nei secoli immediatamente seguenti all’epoca di Agostino si può verificare la scomparsa
pressoché totale di ogni tipo di “zona neutra” secolare, sottratta alle cure (o alle ingerenze) della gerarchia
ecclesiastica. «Perché l’universo mentale del tempo di ύregorio εagno è così diverso da quello di
Agostino? Quali sono i passaggi e i cambiamenti (shift, parola che ricorre molto spesso nel testo inglese)
che ne segnano la differenzaς εarkus ne individua l’elemento essenziale nella scomparsa del dominio del
‘secolare’ a vantaggio di una cultura biblica mediante l’operazione di una semplificazione dei complessi
rapporti tra religione, civiltà e cultura, ridotti al binomio di opposizione tra sacro e profano, con
l’emarginazione del secolareέ σel corso del quarto secolo, mediante la ‘secolarizzazione’ della politica,
era nata una comunità civile pluralistica e religiosamente neutraleέ Era l’ambiente di Agostino, che
riconosce un largo margine allo spazio neutrale del secolare nella comunità civile. Con il processo di
assorbimento del secolare nel sacro per opera della diffusione di norme ascetiche proprie dell’ambito
monastico, le quali pervadono ampi strati della società civile, cambiano le categorie mentali e i rapporti
sociali. A scatenare questo processo di evoluzione è stata la crisi di identità cristiana avvenuta dopo la
svolta di Costantino, che decise liberamente di favorire la chiesa cattolica a scapito della religione
ufficiale pagana e di altri gruppi cristiani […]. E il quarto secolo fu uno di quei momenti cruciali di
trasformazione e quindi di ripensamento dei propri valori civili, sociali e religiosi» (A. Di Bernardino,
Presentazione all’edizione italiana, in R.A. Markus, La fine della cristianità antica, 6).

55
δ’invenzione della stampa, le scoperte geografiche, le tensioni tra Riforma protestante e
Controriforma cattolica resero il pensiero e l’azione dell’uomo sempre più autonomo
rispetto alla Rivelazione cristiana e alla Sacra Scrittura; se per un verso venne
abbandonata la centralità e la definitività nei confronti dello scorrere delle varie vicende
dell’apparizione storica di Cristo, per un altro verso il processo redentivo fu visto
piuttosto nello stesso sviluppo storico con la certezza di un progresso illimitato della
ragione e della cultura umana capace di giungere a superare il male. È per questo che
Ludwing Feuerbach affermò: «Il punto di svolta della storia sarà costituito da quel
momento in cui l’uomo diverrà conscio che l’unico Dio dell’uomo è l’uomo stessoέ
“Homo homini deus”» 175.

δ’Europa (non più coincidente con la «Cristianità» anche se ad essa contigua e


conseguente, dato che il mondo moderno e occidentale può essere considerato con una
certa approssimazione la sedimentazione laica del cristianesimo 176) si emancipa dalla
tutela delle istituzioni ecclesiastiche e vive un periodo di ebrezza (o forse di ὕ ϱ ) per
giungere infine ad un profondo sentimento di incertezza e di smarrimento interiore.

«La cultura occidentale proprio nel momento in cui sembra in procinto di occidentalizzare il
mondo, avverte dentro di sé qualcosa che la erode, la corrompe, la consuma, fino a portarla
al suo esaurimento, alla sua fine. Ma che cosa propriamente finisce? Finisce lo sfondo
umanistico che ha costituito il tratto specifico della cultura occidentale e, nonostante i
progressi della scienza, finisce la fiducia che l’τccidente aveva riposto nel progressivo
dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali
della tecnica. Ma la tecnica non ha alcun fine da raggiungere né alcuno scopo da realizzare,
non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, la tecnica “funziona” secondo
quelle procedure che, pur nel loro rigore e nella loro efficacia, si rivelano incapaci di
promuovere un orizzonte di senso. E sulle ceneri della categoria del “senso”, che
dell’τccidente è sempre stata l’idea guida, si affacciano le figure del nichilismo, le quali, nel

175
Citato in P. Siniscalco, Il senso della storia, 23.
176
«Il mondo moderno è la sedimentazione laica del cristianesimo, quindi non vi è differenza fra le due
realtà se non quella che vi è tra la causa ed il suo inevitabile effetto Infatti, la credenza propugnata dai
galilei che tutti gli uomini siano creati dal nulla da Dio e che quindi, data la loro medesima origine
ontologica, sono da considerare uguali tra loro (su ciò cfr. J Maritain, Per una politica più umana, Brescia
1977, p 63-91) è la democrazia delle anime, il cui precipitato secolarizzato è la democrazia della ragione»
(G. Casalino, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003,
104).

56
proiettare le loro ombre sulla “terra della sera”, indicano, a ben guardare, la direzione del
tramontoέ Un tramonto già iscritto nell’alba di quel giorno in cui l’τccidente ha preso a
interpretare se stesso come cultura del dominio dell’uomo sulle cose»177.

4. L’obiezione neopagana di Spengler: il tramonto


dell'Occidente
Possiamo considerare l’Europa tra la fine dell’τttocento e l’inizio del σovecento come
il luogo e il tempo dell’incontro e dello scontro di due concezioni avverse e tra loro
opposteμ l’ottimista fiducia nel progresso e la pessimista visione nichilista.

Come simbolo della prima delle due concezioni si può indicare il Ballo Excelsior: un
famoso balletto178 basato sull'idea dominante del trionfo della scienza che, capace di
risolvere tutti i problemi, è foriera di pace179 e di benessere180. È il simbolo del
Progresso illimitato, generatosi da sé stesso ed autosussistente, prodotto interamene
dalle dinamiche umane e volto esclusivamente all’affermazione dei bisogni e dei valori
umani.

Come simbolo della seconda concezione si può invece guardare alla fondamentale opera
di F. Nietzche, Così parlò Zarathustra181, dove in una serie di metafore è raffigurato il
declino della civiltà e il nichilismoμ quest’ultimo porterebbe in sé decadenza e
spaesamento, tanto da condurre alla disgregazione del soggetto morale, alla
debilitazione della volontà e alla perdita del fine ultimo dell'esistenza (vista come la
malattia che affliggeva il mondo moderno).

177
U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, 11.
178
Un balletto mimico di Luigi Manzotti su musica di Romualdo Marenco, la cui prima avvenne al Teatro
alla Scala di Milano l'11 gennaio 1881, mentre la città ospita l’Esposizione industrialeέ In sei parti e
undici quadri, all'allegoria della vittoria di luce e Civiltà contro l’oscurantismo, seguono scene che
esaltano le grandi opere e invenzioni di quel periodo: il battello a vapore, la pila, la lampadina, il
telegrafo e il canale di Suez. Dopo Milano lo spettacolo girerà sui palcoscenici di tutto il mondo, fino allo
scoppio della prima guerra mondiale: nel 1889 venne rappresentato all'Esposizione Universale di Parigi.
179
Si riteneva che non esistessero più le condizioni affinché una guerra potesse ancora devastare il
mondo. In base a questo nel 1894 si tenne il primo congresso sui giochi olimpici, che stabilì che le
Olimpiadi si sarebbero svolte ogni 4 anni.
180
In una impressionante crescita della produzione industriale e del commercio mondiale, era stata
debellata la maggior parte delle epidemie e ridotta notevolmente la mortalità infantile. All’inizio del XX
secolo gli abitanti del pianeta toccavano ormai il miliardo e mezzo.
181
Tra il 1883 e il 1885 il filosofo tedesco compose in quattro parti la sua opera intitolata Così parlò
Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen),
sviluppando i temi dell'eterno ritorno, della morte di Dio e dell'avvento dell'oltreuomo.

57
δ’interpretazione della storia come continuo avanzamento (il Progresso, in una parola)
vale a dire come continuo miglioramento e perfezionamento delle possibilità del singolo
individuo e della intera umanità, va in crisi con il crollo del mito della belle époque182 e
l'esperienza della prima guerra mondiale; l’analisi di Oswald Spengler trova solo un
disperato scetticismo sulle sorti dell'umanità: la Zivilisation non garantiva un
automatico miglioramento dei valori culturali e spirituali di un popolo, la Kultur.

4.1 Spengler: dalla Belle èpoque alla crisi del Novecento

Oswald Spengler nacque (primo di quattro figli e unico maschio) a Blankenburg am


Harz183 il 29 maggio 1880, da una famiglia della piccola borghesia conservatrice.
Durante la sua infanzia era molto riservato e, crescendo, si appassionò alla lettura e ai
grandi personaggi della cultura. Di salute cagionevole per tutta la vita, soffrì di
emicranie e di disturbi d'ansia 184. Dal 1908 al 1911 fu insegnante di scienze, storia
tedesca e matematica in una scuola superiore di Amburgo quando, in seguito alla
scomparsa di sua madre, si trasferì a Monaco fino alla sua morte per attacco cardiaco
nel 1936.

Nei primi del Novecento Spengler, ispirato dal libro di O. Seeck185, Geschichte des
Untergangs der antiken Welt (Storia del tramonto del mondo antico), cominciò a
comporre uno scritto con l'intenzione iniziale di criticare la Germania bismarckiana,
salvo poi essere profondamente colpito dalla crisi di Agadir 186 nel 1911, allargando così
la visuale della sua riflessione. Il libro, dal titolo Der Untergang des Abendlandes (Il
tramonto dell'Occidente), fu completato già nel 1914 ma la pubblicazione fu rimandata

182
La Belle Époque (che si identifica anche l'età dell'Imperialismo) è un periodo storico, culturale ed
artistico europeo che va dalla fine dell'Ottocento fino all'inizio della Prima guerra mondiale, precisamente
dal 1871 al 1914. Considerando il punto di vista di Spengler e di Schmitt, bisogna evidenziare che non a
caso sono precisamente le date della formazione e della sconfitta del Reich germanico.
183
δ’Harz è la più settentrionale delle catene montuose tedesche. Il suo picco più alto (il Brocken o
Blocksberg, 1.142 metri) nelle leggende locali, ha una lunga storia di associazioni con le streghe e il
diavolo, ben prima che la montagna venisse menzionata nel Faust di Goethe come il centro della baldoria
delle streghe nella Notte di Walpurgis (30 aprile); due delle sue cime sono chiamate Teufelskanzel
(Pulpito del Diavolo) e Hexenaltar (Altare delle Streghe).
184
Diversi passaggi della sua intensa autobiografia incompiuta mostrano quanto radicate nella sua
esistenza fossero le sue intuizioni distopiche. O. Spengler, A me stesso, Adelphi, Milano, 1993.
185
Otto Karl Seeck (1850-1921) fu uno studioso tedesco della Tarda Antichità, che rilesse secondo il
criterio del darwinismo sociale diffuso nella sua epoca: la lotta per la vita e la morte è vista come regola
delle comunità umane.
186
σel 1λ11 l’opposizione tedesca al tentativo francese di instaurare un protettorato sul Marocco, portò al
definitivo avvicinamento tra Gran Bretagna e Francia (iniziato nel 1904 con l'Entente cordiale o «Intesa
amichevole» e saldatosi all'Accordo anglo-russo per l'Asia del 1907) e segnò la crisi definitiva
dell’atmosfera ottimista e pacifista della Belle Époque.

58
fino all’estate del 1λ1κ per l’avvenuto scoppio del conflitto mondiale. Nel 1922 ne
procedette alla revisione, aggiungendovi anche un secondo volume e una postilla al
titolo: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte (Lineamenti di una morfologia
della storia mondiale).

Nel solco della concezione hegeliana che si interessa all’umanità ma non agli uomini 187,
immerso in una società che si scopriva fragile ed avvertiva interiormente la propria
crisi, Spengler riesce a produrre una sintesi del pensiero di Nietzsche (con la sua fedeltà
alla terra e alla volontà di potenza188) e di Dilthey (col suo relativismo storicistico), di
Darwin (non credendo che alla necessità dell’evoluzione) e di Schopenhauer (non
trovando alcun significato nell’attaccamento alla vita stessa).

«τgni civiltà attraversa le stesse fasi dell’organismo umano. Ognuna ha la sua fanciullezza,
la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità». 189

Come già in Agostino, viene ripresa nuovamente la correlazione tra le età del mondo e
l’età dell’uomo, ma in una analisi impietosa in cui non si ha più posto né per Dio né
tantomeno per la sua Provvidenza.

4.2 L’analisi della storia di Spengler nel Tramonto


dell’Occidente

«Si osservino i fiori di sera, quando essi, nel sole che tramonta, chiudono l’uno dopo l’altro
le loro corolleέ Allora ci prende un’inquietudine, un sentimento misterioso d’angoscia alla
vista di questa esistenza cieca, trasognata, legata alla terra. La foresta muta, le praterie
silenziose, ogni cespuglio e ogni arbusto, in sé non si muovono. È solo il vento che giuoca

187
δ’esatto opposto del danese Kierkegaard, che trova il senso della storia universale solo dal punto di
vista del singolo soggetto, chiamato a una scelta personale e irrevocabile.
188
εa anche il presagio che l’eterno ritorno non fosse solo un concetto del pensiero, bensì un modo di
essere dell’uomo nell’universoέ σέ D’Anna, Il gioco cosmico, 64.
189
O. Spengler, Der Untergang, 174. Altrove viene utilizzato anche il simbolismo delle stagioni:
primavera, estate, autunno e infine inverno. È per questo che i rappresentanti della visione ottimistica
della storia universale come Bentham, Darwin, Marx e persino Schopenhauer sono da lui considerate
come figure invernali (W. Nolte, La rivoluzione conservatrice, 28).

59
con essi. Per contro, questo moscerino è libero: ancor nella luce del crepuscolo esso danza; si
muove, va dove vuole.

Una pianta, in sé, non è nulla. È una parte del paesaggio nel quale un caso le fece metter
radici. Il crepuscolo, la frescura e il chiudersi di ogni fiore: in ciò non si ha un rapporto di
causa e di effetto, di pericolo e di corrispondente decisione, ma si ha un fatto naturale
unitario che si realizza presso alla pianta, con la pianta e nella pianta. La pianta come
individuo non è libera di attendere, di volere, di scegliersi qualcosa.

Invece un animale può scegliere. Egli non è vincolato al resto del mondo. Questo sciame di
moscerini che danza ancora sul sentiero, l’uccello solitario che vola nella notte, la volpe che
si avvicina cauta al nido, sono dei piccoli mondi a sé, ricompresi in un più grande mondo.
δ’infusorio, che in una goccia d’acqua vive un’esistenza che, già invisibile per l’occhio
umano, dura un secondo e si svolge in un angolo microscopico di questa gocciolina – è
libero e indipendente di fronte a tutto l’universo. Non lo è, invece, la quercia gigantesca ad
una foglia della quale quella goccia sta sospesa.

Vincolo e libertà: questi tratti fondamentali, profondi, ultimi, distinguono la vita vegetale da
ogni vita animale. Però ciò che la pianta è, lo è completamente. Invece nella natura
dell’animale vi è come una scissioneέ Una pianta è soltanto pianta, un animale è pianta e,
insieme, qualcosa d’altroέ Il gregge che si stringe insieme dinanzi ad un pericolo, il bimbo
che piangendo si afferra alla madre, l’uomo che nella sua disperazione vorrebbe raggiungere
Dio, tutti costoro vorrebbero tornare dalla vita libera a quella vincolata, vegetale, dalla quale
sono stati dimessi per essere individui».190

Abbiamo riportato il paragrafo iniziale alla seconda parte del Der Untergang des
Abendlandes in quanto sintetizza l’idea di fondo del pensiero di Spenglerμ l’uomo non
può scegliere affatto il proprio destino perché esso è il frutto del caso o, meglio ancora,
della necessità naturale (è l’esatto opposto della Provvidenza o del sentirsi «nelle mani
di Dio»)έ Il singolo individuo viene totalmente assorbito dall’entità ben più significativa
che è la specie e può esprimersi solo nella realizzazione della natura organica e auto-
sufficiente delle civiltà.

δ’opera si divide in due partiμ la prima intitolata Forma e realtà, la seconda Prospettive
della storia mondiale. σell’incipit Spengler dichiara esplicitamente: «In questo libro
viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il

190
O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente), Milano, Longanesi, 1957,
653.

60
destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul
nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri».191

In questa sua ricerca di una logica nell’insieme dei singoli avvenimenti preciserà i
concetti chiave di cultura, di civiltà e di civilizzazione.

«Il tramonto dell’τccidente significa nulla di meno che il problema stesso della
civilizzazione. Qui si presenta una delle questioni fondamentali di ogni storia superiore. Che
cosa è la civilizzazione, intesa come una conseguenza logica ed organica, come compimento
e sbocco di una data civiltà?

Giacché ogni civiltà ha una sua civilizzazione. Qui, per la prima volta, queste due parole che
finora avevano designato una vaga distinzione d’ordine etico, vengono assunte in un senso
periodico a esprimere una successione organica192 rigorosa e necessaria. La civilizzazione è
l’inevitabile destino di una civiltàέ ἑon ciò si può raggiungere un’altezza dalla quale si può
scorgere la soluzione dei problemi ultimi e più ardui della morfologia storica. Le
civilizzazioni sono gli studi più esteriori e più artificiali di cui una specie umana superiore è
capace».193

Questo trapasso dallo stadio di civiltà alla civilizzazione 194 è quanto Spengler ritrova sia
nel IV secolo (per il mondo antico195) che nel XIX secolo (per il mondo moderno
occidentale, caratterizzate dall’identico passaggio di importanza dalle vaste provincie a

191
Ivi, 13.
192
Abbiamo già incontrato le mitologie arcaiche e il pensiero classico che presentavano una teoria ciclica
delle civiltà intese come organismi. Nel 1725 G.B. Vico con la sua Scienza Nuova (Principi di una
scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i principi di altro sistema del
diritto naturale delle genti) ne aveva dato una nuova esposizione, nelle tre epoche storiche fondamentali
degli dei, degli eroi e degli uomini. B. Croce in una spietata critica del 1920 evidenziò come nessuna delle
tesi de Il Tramonto dell'Occidente (presentate come innovative e rivoluzionarie) non sarebbe già
rintracciabile nella Scienza Nuova e rimarcò pure come il nome di Vico non comparisse mai nel
«famigerato operone».
193
O. Spengler, Der Untergang, 57.
194
Intesa come un «processo storico che consiste in una demolizione metodica di forme divenute
anorganiche e morte» (Ivi, 58).
195
«Se c’è qualcosa atto a mostrarci che la causalità nulla ha a che fare con la storia, questo è il ben noto
“tramonto del mondo antico” che cominciò assai prima dell’irruzione dei popoli germaniciέ Allora
l’Imperium godeva di una pace perfettaμ era ricco, possedeva un’alta cultura, era ben organizzatoέ […]
Prima l’Italia, poi l’Africa settentrionale e la ύallia, infine la Spagna, che sotto i primi imperatori aveva la
più densa popolazione dell’Impero, si vuotarono di uomini e diventarono sempre più squallideέ Il detto
famoso di Plinio, che ricorre significativamente nella moderna economia politica: latifundia perdidere
Italiam, iam vero et provincias, confonde il principio con la fine del processo: il latifondo non avrebbe
mai assunto una tale estensione se l’elemento contadino non fosse stato già assorbito dalle città e se esso,
almeno interiormente, non avesse già rinunciato alla campagna». Ivi, 802-803.

61
poche metropoli: dopo Siracusa, Atene e Alessandria venne Roma, così come dopo
Madrid, Parigi e Londra vengono Berlino e New York).

«Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di
tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre
via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazioneέ […]

Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno,
dell’esaurimento che attende ogni civiltà viventeέ Di tali tramonti, quello dai tratti più
distinti, il “tramonto del mondo antico”, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi
cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile
quanto a decorso e durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il
“tramonto dell’τccidente”»έ 196

Tutto viene guidato dall’idea un destino che appare come «il modo proprio di essere del
fenomeno primordiale»197, da non confondere con la sua caricatura che è la
teleologia198.

Spengler passa poi ad esaminare il mondo non per quello che esso è, ma per ciò che
significa per l’essere vivente che in esso si trova, in una ulteriore differenziazione tra
qui e là, tra ciò che si vive direttamente (come proprio) e ciò che si sperimenta (come
estraneo), tra anima e mondo come due poli diversi e opposti della realtà199: la sua
fisionomia della storia mondiale diventa una concezione simbolica che tutto abbraccia.

Sia nella vita della singola persona che dell’ umanità viene individuato il momento
decisivo (e specificamente umano) della percezione della propria solitudine
nell’universo e dell’angoscia cosmica che diviene l’angoscia prettamente umana di
fronte alla morte.

«Solo dalla preoccupazione sempre desta per la vita non ancora trascorsa nasce la
preoccupazione per il passato. Un animale ha soltanto un futuro, l’uomo conosce anche un

196
Ivi, 174.
197
Ivi, 191.
198
«δ’errore della teleologia, di questo assurdo di tutti gli assurdi nel dominio di una scienza pura, è il
tentativo di adeguarsi al contenuto vivente di ogni conoscenza naturale […] epperò alla stessa vita
mediante il principio meccanicistico di una causalità invertita». Ivi,190.
199
Ivi, 252.

62
passatoέ ἑon una nuova “visione del mondo”, cioè con un subito sguardo per la morte intesa
come mistero del mondo visibile, si desta dunque ogni nuova civiltà. Quando, verso il mille,
nell’τccidente si diffuse l’idea della fine del mondo, nacque in quel paesaggio l’anima
faustiana».200

Il tratto finale di tutto lo spettacolo della storia coincide in quel processo secolare di
terribile spopolamento che è l’ultimo stadio di ogni civilizzazione, caratterizzato dal
sorgere dell’ultimo uomo in un eccesso di intelligenza e di sterilità: tutta la piramide
della società si sgretola partendo dal suo vertice. Lo sbaglio della scienza moderna
starebbe nel volervi applicare le basi della fisiologia e le leggi della causalità di ogni
giorno, ignorando che si tratta piuttosto di un orientamento prettamente metafisico verso
la morte.

«δ’uomo ultimo delle metropoli non vuol più vivere: come tipo, come massa, non come
singolo; in questo essere collettivo la paura per la morte si spegneέ […] σon che oggi sia
venuta meno la possibilità di generare figli; se la prole manca è soprattutto perché
l’intelligenza, giunta ad un suo estremo potenziamento, non trova più una ragione per essa.
[…] La grande svolta si ha nel punto in cui il pensiero corrente di una popolazione altamente
civilizzata cerca delle “ragioni” per l’esistenza di una proleέ δa natura non conosce
“ragioni”έ […] Quando nelle questioni vitali si introducono delle “ragioni”, la vita è già
divenuta problematica».201

Spengler mette molta cura nel delineare i tratti caratteristici delle otto civiltà da lui
individuate nella storia mondiale (babilonese, egiziana, indiana, cinese, ellenico-
romana, araba, occidentale e centro-americana), soffermandosi in particolare su quella
antica202 (apollinea, piuttosto passiva, realizzandosi nel presente e privandosi dei
riferimenti passati e futuri) e su quella occidentale (faustiana, che tende senza quieta
alla modifica del mondo attraverso la sua continua trasformazione).

200
Ivi, 256-257.
201
Ivi, 799-801.
202
Ivi, 689.

63
«Lo spirito antico con i suoi oracoli e i suoi auspici volle solo apprendere il futuro, lo spirito
occidentale vuole crearloέ δ’ideale germanico è il Terzo Regno, una eterna primavera203.
[…] Qui, riprendendo cose già dette, ricorderò che ogni grande civiltà si è rappresentata la
storia mondiale in modo molto diversoμ l’uomo antico vide solo sé stesso e i suoi destini
concepiti in una vicinanza immobile, senza chiedersi donde veniva e dove andava. Per lui il
concetto di storia mondiale era impossibile. Questa è la concezione statica della storia.

δ’uomo magico vide la storia come un grandioso dramma cosmico svolgentesi fra la
creazione e la distribuzione, come una lotta tra anima e spirito, fra bene e male, fra Dio e il
diavolo, come un avvenimento rigorosamente delineato avente una peripezia irripetibile per
apiceμ l’apparire del Redentoreέ

δ’uomo faustiano vede nella storia uno sviluppo proteso verso un fine. La sequenza:
antichità-medioevo-era moderna è una immagine dinamicaέ […] Il socialismo in senso più
alto è il coronamento logico e pratico di tale rappresentazione»204.

δ’uomo occidentale crede nel progresso e con la sua volontà di dominio sulla natura205
è persuaso che nessuna potenza al mondo possa invalidare i propri calcoli. Con la nuova
geografia conseguente all’esplorazione delle Americhe e di nuove terre l’ipotesi della
sfericità della Terra divenne un sentimento reale: venne meno il limite dell’orizzonte
spaziale e anche quello dell’orizzonte temporale per via della doppia infinità degli anni
prima e dopo Cristo.

«Per tutte le altre civiltà gli aspetti della storia mondiale e quelli della storia umana
coincidono; il principio del mondo è anche il principio dell’umanitàν la fine dell’uomo è
anche la fine del mondoέ δa tendenza faustiana verso l’infinito separò per la prima volta
durante il ἐarocco i due concettiμ pur dando alla storia umana un’estensione mai prima
conosciuta, essa la ridusse ad un semplice episodio della storia del mondo e fece della terra,
di cui soltanto una porzione veniva considerata come “il mondo” dalle altre civiltà, un
modesto astro fra milioni di sistemi solari» 206.

203
Ricordiamo la polemica di Spengler con la Germania bismarckiana e guglielmina. D’altro lato anche
nei confronti dell’analisi di σietzche egli ne accetta la critica della decadenza ma ne rifiuta la dottrina del
superuomo.
204
Ivi, 546-547.
205
Ivi, 590. δ’uomo antico, viceversa, non era creatore della natura ma solo la sua misura.
206
Ivi, 689.

64
δ’estrema conseguenza diviene una feroce critica sia alla Teologia della storia
occidentale, sia al pensiero storico moderno (che di essa è la versione secolarizzata)
ritenuti ingenui e da superare in quanto, di fronte alle civiltà in sé stesse (che
costituiscono l’elemento primario della storia) e alle relazioni tra di esse (che ne sono
l’elemento secondario), essi giudicano esattamente al contrario207.

«Tutto ciò è puro secolo diciannovesimoέ […] δ’immagine che sta alla base è quella di una
storia dell’umanità unitaria e riempita di senso, quale già si presentò ai grandi spiriti del
goticoέ […]

In origine si pensò ad un piano che Dio voleva realizzare per mezzo del genere umano, e le
cose poterono continuare ad essere considerate in tal modo finchè lo schema antichità-
medioevo-era moderna conservò il suo fascino e si notò ciò che apparentemente permaneva e
non pure ciò che effettivamente mutava.

Nel frattempo il nostro sguardo si è fatto diverso, più freddo e più vasto, e le nostre
coscienze hanno da tempo superato i limiti propri a questo schema. Chi oggi continua a
vedere in quel modo si trova su di una falsa stradaέ σon si tratta di considerare un’azione che
parte da quanto già fu, bensì quel che di esso un principio creatore accetta. Si confonde
l’essere con l’essere desto, si confonde la vita con i mezzi di cui essa si serve per
esprimersi»208.

Sentendosi forte delle sue analisi, Spengler delinea una propria prognosi riguardo alla
storia e ai suoi prossimi stadi futuri che indica nel «passaggio ad un’epoca di lotte
gigantesche, epoca nella quale noi attualmente ci troviamo. È il passaggio dal
napoleonismo al cesarismo209, fase evolutiva universale della durata di almeno due
secoli che si può ritrovare in tutte le civiltà»210. La civiltà, che aveva unito tutte le forze
in una forma rigorosa, le lascia ora ritornare allo stato libero e vi prorompe la natura
(cioè l’elemento cosmico)ν un esempio lampante si trova nella guerra, con la sua
condotta, i suoi mezzi e le sue finalità, che si trasforma in una lotta senza regole fino

207
È un ritornello che ricorre continuamente in tutta l’analisi spengleriana, quella di condannare le analisi
precedente che avrebbero confuso il principio con la fine dei processi.
208
Ivi, 726.
209
«Chiamo cesarismo quel tipo di regime che, a parte ogni formulazione costituzionale, nella sua intima
essenza è tornato ad essere informe. […] È la regressione da un mondo perfetto nella sua forma nel
primitivismo, nell’elemento informe ed astoricoέ I periodi biologici tornano a sostituirsi alle epoche
storiche» Ivi, 1294.
210
Ivi, 1273.

65
all’annientamento del nemicoμ «Il gettar sui campi di battaglia la forza bruta di tutto un
popolo, come è avvenuto con l’introduzione della coscrizione universale, è un’idea che
mai si sarebbe presentata ai tempi di Federico il Grande»211 e che diviene la cifra
sintetica del periodo corrente (un secolo di giganteschi eserciti stabili e di coscrizione
universale).

δ’unico limite posto al desiderio di vittoria e di potenza è quello materiale, e la tappa


contemporanea fondamentale viene posta nella pace di Versailles, che «non rappresentò
una conclusione ma assicurò la possibilità di imporre sempre nuove condizioni ai vinti
ad ogni mutarsi della situazioneέ […] δ’imperialismo è un risultato così necessario di
ogni civilizzazione, che esso afferra un popolo e lo spinge a forza ad assumere la parte
del dominatore quando esso lo rifiutaέ δ’Impero romano non è stato conquistato. Fu lo
stesso orbis terrarum a raccogliersi in tale forma e a costringere i Romani a dar ad essi
il loro nome»212.

δ’esito obbligato è il prevalere della volontà di questi giganteschi eserciti su quella di


tutti coloro che desiderano la pace: «A queste guerre che si combatteranno per il
retaggio di tutto il mondo prenderanno parte interi continenti: l’India, la ἑina, l’Africa
del sud, la Russia e l’Islam verranno arruolati»213. La scelta finale (dato che in ultima
analisi non è più la storia a parlare, ma la biologia a decidere) non è più tra la pace e la
guerra, ma solo ed esclusivamente tra la vittoria e la disfatta.

Quasi come conclusione214 del suo Der Untergang des Abendlandes, al posto del
sabatismo finale che si prolunga nel giorno ottavo di sant’Agostino, Spengler lascia
intravvedere il miraggio di una sorta di riconciliazione universale, che si traduce in una
specie di stato di sonno:

«σell’epoca della pace mondiale le guerre sono guerre private 215, più terribili di ogni guerra
fra stati, perché informi. Infatti la pace mondiale – che è già spesso esistita – implica la

211
Ivi, 1278.
212
Ivi, 1280-1281έ δ’umiliazione delle ύermania guglielmina e la spartizione dell’Impero Austro-
ungarico e Ottomano veniva vista sulla falsariga dell’evoluzione riscontrabile anche nelle tre guerre
puniche, fino ad arrivare al crudo detto di Catone: Carthaginem esse delendam.
213
Ivi, 1291.
214
Propriamente la seconda e ultima parte dell’opera (prospettive della storia mondiale) termina col
capitolo quinto, dedicato al mondo delle forme della vita economica (il denaro e la macchina) e non con il
capitolo quarto che abbiamo citato, dedicato allo Stato e alla filosofia della politica.
215
σel procedere spengleriano la guerra è la normalità e la pace è sempre l’eccezione e comunque
apparente, essendo la dimensioni la conflittualità tra le dimensioni fondamentali e abissali del Wach-Sein,

66
rinuncia della grandissima maggioranza alla guerra ma con ciò stesso anche il suo implicito
consenso a fare da prede a coloro che invece non rinunciano. Tutto ciò comincia con il
desiderio, distruttivo per il principio dello Stato, di una riconciliazione universale e finisce
con l’attitudine di chi non muove un dito quando la sciagura colpisce soltanto il vicinoέ […]
Insieme allo Stato formato anche l’alta storia passa ad uno stato di sonnoέ δ’uomo torna ad
essere pianta: aderente alla zolla, ottuso e durevole. Il villaggio senza tempo, il contadino
“eterno” riaffiorano a generare figli e a seminare la εadre Terraέ […]

Mentre in alto vi è un perenne alternarsi di vittorie e di disfatte, in basso si prega, si prega


con quel fervore potente della seconda religiosità che ha ormai superato per sempre ogni
dubbio. Ora, ed ora soltanto, la pace mondiale è divenuta realtà nelle anime, la pace di Dio,
la beatitudine da vecchi monaci e da anacoreti. Essa ha suscitato quella profonda capacità di
rassegnazione che l’uomo storico non riesce ad apprendere in tutto il millennio
dell’evoluzione delle sue civiltàέ Solo con la fine della grande storia riappare l’essere desto
calmo e santo»216.

In Spengler il destino occupa il ruolo che era stato di Dio, non c’è più provvidenza bensì
necessità e invece della speranza l’unico atteggiamento adeguato è quello della
rassegnazione. Nel paragrafo finale della sua monumentale opera mette bene in
evidenza il famoso detto di Hegel, Weltgeschichte ist Weltgericht: «La storia mondiale
è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più
piena, più sicura di sé»217. La lezione fornita dal periodo imperiale cinese e dalla tarda
antichità romana ritorna inevitabilmente sul palcoscenico delle vicende umane che
fanno un tutt’uno con l’onda cosmica in perenne circolazioneέ Questa sua spietata e
fredda analisi termina evidenziando:

«A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altraέ σoi ci troviamo invece di
fronte all’alternativa di fare il necessario o di non poter fare nullaέ Un compito posto dalla
necessità storica sarà in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi.

dell'essere desto dell'uomo. «L'uomo è un animale da preda. Lo ripeterò sempre. Tutti i modelli di virtù e
i moralisti della socialità, che pretendono di essere (o presumono di arrivare) aldilà di questo fatto sono
semplicemente predatori con denti aguzzi: portano rancore agli altri predatori, a causa degli attacchi che
essi stessi (per prudenza) schivano […] Nel momento in cui definisco l'uomo animale da preda chi
offendo: l'uomo – o l'animale? I grandi animali da preda sono infatti creature nobili, di specie perfetta,
immuni dalla falsità di una morale umana frutto di debolezza […]. No, la lotta è il fatto originario della
vita, è la vita in sé». O. Spengler, Anni della Decisione, Edizioni di Ar, Salerno, 1994, 34-35.
216
O. Spengler, Der Untergang, 1300.
217
Ivi, 1397.

67
Ducunt fata volentem, nolentem trahunt»218.

4.3 La Rivoluzione Conservatrice

La Germania, mater dolorosa della Modernità219, è il luogo privilegiato per indagare sul
marchio rovente dello spirito faustiano occidentale220: le vicende convulse che
seguirono il crollo militare e civile dell’Impero del Kaiser (mutilandolo del 10% del
territorio e della popolazione rispetto a prima della guerra) fecero crollare la vecchia
cultura dominante prussiana, militarista e conformista221, lasciando il passo ad un nuovo
atteggiamento cosmopolita, liberale e illuministico, sentito come più adeguato allo
spirito del tempo (il filosofo e storico E. Bloch poteva addirittura parlare di una nuova
età di Pericle).

Nella neonata Repubblica di Weimar, sotto la categoria di Konservative Revolution222


vengono racchiusi tutti quegli intellettuali non di sinistra che si opposero ad ogni
corrente culturale e politica più o meno direttamente correlata al liberalismo (che
conduceva ad una incipiente globalizzazione) e al marxismo (all’epoca dichiaratamente
internazionalista). Il grande contributo di Spengler fu soprattutto l’abbandono di una
immagine della storia di tipo lineare e teleologico223, accusando la storiografia di

218
Ivi, 1398.
219
La definizione è di Stefano Zecchi: S. Zecchi, Introduzione a O. Spengler, Il Tramonto dell'Occidente,
a cura di Calabresi Conte, Cottone, Jesi, Guanda, 1995, IX.
220
«Il tedesco dispone del maggior numero di espressioni comprendenti la parola mondo di ogni altra
lingua europeaέ Un confronto fra il dizionario tedesco dei ύrimm e l’Oxford English Dictionary (1928)
conferma la passione tedesca per le idee e i neologismi connessi al lemma mondo. Nel Grimm, gli esempi
d’uso della parola Welt occupano 65 colonne e gli esempi dei vari composti di Welt β1λν nell’Oxford
English Dictionary le cifre corrispondenti sono, rispettivamente, 15 e 4. Anche se si tiene conto delle
differenze di dimensione (31 volumi contro 20) il contrasto rimane straordinario. Ciò è valido non solo
per la radice di base (Welt compare quattro volte più spesso di world), ma specialmente per i composti. In
tedesco la parola Welt compare insieme ad altre parole 44 volte più spesso di world. Un confronto con il
francese, o altre lingue romanze, non è possibile perché la parola monde compare grammaticalmente nella
forma aggettivale mondial come attributo separatoέ […] δ’uso tedesco della parola Welt era in qualche
modo ambivalente: da un lato faceva riferimento al mondo come si era rivelato nel Cinquecento, alla cui
conquista e divisione il vecchio impero tedesco non aveva partecipato in alcun modoν dall’altro
richiamava l’universalismo medioevale, che la ύermania sentiva di incarnare» (Wέ Schivelbusch, La
cultura dei vinti, Il Mulino, Bologna, 2006, 253).
221
Nel 1929, Erich Maria Remarque pubblicò Niente di nuovo sul fronte occidentale, un grandioso
monumento letterario dell'antimilitarismo: tradotto in cinquanta lingue vendette oltre venti milioni di
copie nel mondo diventando il testo più letto dopo la Bibbia.
222
Il movimento ebbe una sua sistemazione organica e bibliografica con il saggio del 1950 di Armin
Mohler, Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932.
223
«La critica serrata ad una temporalità di tipo lineare intesa come modalità peculiare alla vita e
all'organico, metodologia fondantesi sulla enfasi della dimensione dell'essere-presente in luogo di una
concezione estatico-orizzontale della temporalità, per dirla con Heidegger, compare già in tutta una serie
di pensatori otto-novecenteschi tra cui figurano, oltre a quello del già citato Heidegger, nomi del calibro

68
stampo positivista di mistificazione dei fatti, accondiscendendo alla pretesa del mito del
Progresso che il corso degli eventi (in realtà solo una lunga cronologia di catastrofi224)
sia un continuum in lineare direzione verso il Meglio ossia, a detta del Mondo Moderno,
verso se medesimo.

Oltre al rifiuto della concezione lineare della storia, le caratteristiche comuni a questo
universo frammentato sono l’esaltazione dell’idea di popolo e nazione, la critica alla
Zivilisation, il disprezzo verso l’τccidente e il timore per l’ingresso in un mondo
postnazionale nel quale l’idea fondamentale è che l’avvenimento più importante del
ventesimo secolo non sia stato l’esito vittorioso o tragico della ύrande ύuerra, quanto la
rivoluzione marxista avvenuta nello stato più grande del pianeta per estensione. 225

Stante la temperie in cui si trovavano a vivere e a pensare, in loro sentirsi occidentali


viene a coincidere con l’essere crepuscolari, in un atteggiamento oscillante tra il
pessimismo e la pauraμ pessimismo sul destino dell’uomo in generale, paura per il
destino di quella particolare umanità che è rappresentata dalla loro stessa civiltà (vista
come assoluta al proprio interno ma non eterna: racchiusa in una costellazione di altre
civiltà in cui ciascuna obbedisce al proprio sistema di valori, è retta da un determinismo
ferreo in cui però ciascun sistema è relativo rispetto agli altri e al tempo nel succedersi
dell’alba, dell’apogeo e dell’ineluttabile tramonto). La modalità escogitata per
affrontare lucidamente il particolare dramma che si stava consumando nella prima metà
del XX secolo è racchiusa in quell’ampio ventaglio che, raccogliendo le posizioni più
disparate, va dall’ecologia di δudwig Klages, alla mobilitazione totale di Ernst Jünger,
al diritto dei popoli giovani di Arthur Moeller van den Bruck al nazionalbolscevismo di
Ernst Niekisch.

di Nietzsche, Husserl, Dilthey e via dicendo. La necessità di concepire un'altra dimensione temporale per
arrivare ad afferrare il carattere multiforme del Lebenswelt, nel suo olismo irriducibile, procede in
parallelo alla crisi che investe i termini di Progresso, Occidente e Modernità – concetti, questi ultimi, è
bene rammentarlo, squisitamente temporali. Intento fondamentale di pensatori di tale rango fu il
palesare il legame indissolubile sussistente tra l'imago di una storia di tipo lineare – composta, anzi,
scomposta in momenti atomici di medesima valenza ontologica, scalzantisi l'un l'altro in un fatale
susseguirsi, secondo il meccanismo di un parricidio continuo – e la necessità di un orizzonte retrostante
conferente una dimensione di significazione a questa frammentazione tragico-edipica». A. Scarabelli,
Julius Evola e la recezione italiana di Oswald Spengler (1920-1930), 96-97, in www.academia.edu –
(cons. 15/05/2016).
224
Nella percezione immediata e concreta dei contemporanei alla Repubblica di Weimar pesava il fatto di
aver subito tre crisi economiche nel giro di appena dieci anni.
225
E. Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della repubblica di Weimar, Rubbettino, 2009.

69
Il fermento sociale e culturale della Repubblica di Weimar e la mobilitazione suoi
antagonisti è un nodo di Gordio che venne troncato nel 1933 con la presa di potere di
Hitler e del nazionalsocialismo.

«È possibile che la splendida cultura del tempo di Goethe abbia avuto come esito il nazismo?
Cosa è accaduto alla grande tradizione borghese europea per lasciarsi annientare dal
comando di Hitler? E questo processo di dissoluzione quando incomincia a corrodere la
cultura cristiana e umanistica che ha costruito la nostra civiltà europea? La Germania, madre
dolorosa della modernità, non dà pace ai suoi figli, li costringe continuamente ad interrogarsi
sulla grandezza e il declino dell’τccidenteέ

ἑ’è sempre un momento nella storia degli uomini in cui la difesa della propria tradizione
culturale vuol significare che tutto ciò che è accaduto non è stato vano, che il tormento, la
gioia, l’odio, l’amore folle e smisurato per affermare la realtà di una passione continuano a
vivere e ad avere un senso. Ma quando, guardando indietro, si pensa di appartenere ad una
tradizione non più recuperabile, che il destino non dà nessuna spiegazione e nemmeno
l’ombra di una motivazione s ciò che è stato, allora la ricostruzione di un’identità perduta e
dimenticata diventa impossibile e rimane soltanto l’angoscia dello sradicamento, la
226
desolazione e la solitudine vissute come incubo quotidiano» .

Non si può negare che passando in rassegna le cause e gli effetti del Secondo e del
Terzo Reich227, si vengono a esaminare inevitabilmente Weimar e gli esponenti della
Rivoluzione Conservatrice. Questi ultimi, rispetto al partito di massa nazionalsocialista,
possono essere considerati élite intellettuale di precursori, un’alternativa o
semplicemente delle vittime?

«Ritengo che non fossero nessuna delle tre coseέ τgni qualvolta l’umanità o singoli gruppi di
uomini sentono di trovarsi in una situazione del tutto inattesa, che si manifesta in una forma
fino a poco prima mai immaginata, deve esserci un’avanguardia che sviluppi delle
constatazioni conformi alla situazione, che sollevi questioni adeguate e formuli delle risposte
provvisorieέ Tenuto conto dell’imperfezione dell’esistenza umana le constatazioni possono

226
S. Zecchi, Sillabario del nuovo millennio, Mondadori, Milano, 1993, 52-56.
227
Dopo la sconfitta di Napoleone III, con la nascita della Germania riunificata si ha il Deutsches
Kaiserreich (Zweites Reich), dal 1871 al 1918. Con la caduta della monarchia il Deutsches Reich ha fino
al 1933 la Weimarer Republik, in seguito e fino al 1945 il Drittes Reich.

70
essere sbagliate, le questioni inadeguate e le risposte fuorvianti. Ma intanto, anche in questa
forma, restano indispensabili al lungo e complesso processo di comprensione, e devono tutte
istituire un “regno di libertà” che si deve sottrarre a ogni ingerenza non argomentativa e non
228
sottostare a un giudizio generale moralizzante» .

5. Alla ricerca di un nuovo “nomos della terra”: Schmitt


e la sua teologia politica
Se l’analisi della morfologia della storia da parte di Spengler appare simile ad una
teologia rovesciata (neopagana se non addirittura demoniaca)229 con il Destino messo al
posto di Dio e con il vitalismo, la brama e l’aggressione 230 al posto di un equilibrio
armonioso fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e i suoi simili e dell’uomo con se stesso,
esattamente all’opposto troviamo il contributo del pensiero di Carl Schmitt, che può
essere denominato come una Teologia Politica:

«Tra i rappresentanti più significativi della rivoluzione conservatrice Carl Schmitt è quello
che più di ogni altro, per origine e per le caratteristiche della “prima parte della sua

228
E. Nolte, La rivoluzione conservatrice, 73.
229
δa visione di fondo neopagana dell’opera spengleriana si evidenzia anche col fatto che il traduttore e
diffusore in Italia di Spengler e del suo Der Untergang è Julius Evola (1898-1974), il quale vedeva
nell’avvento del cristianesimo e soprattutto con la sua vittoria «la discesa, la decomposizione
antritradizionale dell’τccidente, […] l’asiatizzazione definitiva del mondo romano» (Jέ Evola, Rivolta
contro il mondo moderno, 363-γθ4) e quindi la perdita dell’elemento nordico, virile e solare della perfetta
civiltà della «romanità nordica», modello di un mondo «tradizionale» di uno Stato fondato sui principi
trascendenti della sovranità (imperium), dell’autorità (auctoritas) e della legittimità: mascolina,
aritocratica e guerriera (J. Evola, Gli uomini e le rovine, 123). «La morale è ciò che nel cristianesimo
conferma nel modo più deciso il suo carattere antinordico e antisolare. I principi di fratellanza, di amore,
di perdono, di non resistenza, di universalismo collettivistico e di comunismo mistico costituiscono la più
netta antitesi dello spirito romano e in genere ariano, manifestano la forza dell’altra tradizione, cioè
dell’antica tradizioneέ Per questo la vittoria del cristianesimo escluse le stesse possibilità di una
spiritualità ben altrimenti orientata verso i significati superiori e sacrali della virilità: il mitracismo. È così
che l’avvento del cristianesimo riportò il centro dal maschile al femminile, dal polo guerriero aristocratico
a quello mistico-plebeo, dall’intellettualità pura e dalla legge della potenza alla sentimentalità e alla
santità dell’umiltà e della rinuncia; dalla costituzione imperiale tradizionale alla comunità ginococratica
dei “fratelli”έ […] ἑol cristianesimo si operò la devirilizzazione dello spirito e si ebbe il più grande crollo
“umanistico” del mondo antico d’τccidente, principio di conseguenze irreparabili per la storia
successiva» (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, 370-372). In ambito tedesco, è invece notevole
lo studio di Eric Hermann Wilhelm Voegelin (1901-1985), in un primo tempo debitore di Schmitt per
alcune categorie di pensiero, il quale reinterpreta sia la storia della filosofia moderna che la storia
moderna, culminate nei totalitarismi del XX secolo, come storia dello gnosticismo in quanto antitesi del
Cristianesimo. Si veda E. Voegelin, La nuova scienza politica, Borla, 1968
230
δe stesse convinzioni e indicazioni propagandate in Italia all’inizio del XX secolo dal Manifesto del
futurismo, pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti il 5 febbraio 1909.

71
esistenza”, fino al 1λγγ, fu legato ad un potere spirituale consolidato, al cattolicesimo, tanto
da essere considerato per anni un pensatore cattolicoέ […]

Non fu tra coloro che volevano abbattere la Repubblica di Weimar, come Oswald Spengler e
Ernst Jünger, ma tentava di salvarla, seppure attraverso l’introduzione di una nuova forma di
governo, quella del sistema presidenziale, tutt’altro che antidemocratico e che da oltre due
secoli esercitava il proprio dominio nella più grande democrazia del mondo, gli Stati
Uniti» 231.

5.1 Il Nomos della terra

Carl Schmit (che lesse insieme Ernst Jünger una buona parte dell’immensa mole del
Der Untergang des Abendlandes) prendendo atto del Tramonto dell’Occidente giunse
alla conclusione che era ormai giunto il tempo di ridefinire il Mondo.

La sua riflessione (cominciata con le pubblicazioni a livello accademico già nel primo
dopoguerra232) arrivò all’esplicitazione più organica ed articolata solo nel secondo
dopoguerra233, con la pubblicazione nel 1950 del suo Der Nomos der Erde. Im
Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (Il Nomos della Terra, nel diritto
internazionale dello Jus Publicum Europaeum)234.

231
E. Nolte, La rivoluzione conservatrice, 45. 49.
232
«“Une image chrêtienne de l’histoire” ou l’impact politique du christianismeέ Si cette expression est
relativement tardive dans la pensée de Schmitt, elle n’est pas pour autant, comme nous l’avons souligné,
le fruit d’une problématisation subiteέ δ’affondrement du nazisme (et donc l’échec de l’engagement de
Schmitt) a été indubitablement determinant dans son “retour” réflexif sur les categories théologiques du
christianisme, et de leurs rapports spécifiques à l’histoireέ εais c’est un retour, double en réalité d’une
continuité sous-jacente, que l’examen de trois textes majeurs de la pensée de Schmitt est de nature à
clarifier: La Visibilité de l’Église (1917), Catholicisme romain et forme politique (1923), et Donoso
Cortés interprété à travers le prisme paneuropéen (1944)» (B. Bourdin., Carl Schmitt: Un contre-
messianisme théologico-politique? , in Revue des sciences philosophiques et théologiques 98/2, Avr.-Juin
2014, 246).
233
Come tutti i periodi di crisi e di transizione, si trattava di un momento di vivace riflessione civile,
morale e storiografica. È significativo che siano gli anni in cui André Piganiol termina il suo libro sul
tardo impero con la famosa frase: «La civiltà romana non è morta di morte naturale, è stata assassinata».
(A. Piganiol, L’Empire chrétien, Paris, 1947, 422).
234
«Del Nomos della terra si potrebbe dire che sta al diritto internazionale e alla filosofia politica del
nostro tempo come Essere e tempo di Heidegger sta alla metafisica: opere inevitabili, che faranno sempre
discutere e alle quali sempre si tornerà. Carl Schmitt pubblicò questo libro nel 1950, quando ancora si
trovava in una posizione di totale isolamento in ύermaniaέ εa proprio in quest’opera, che è un po’ la
summa del suo pensiero giuridico e politico, si sollevò nettamente al di sopra di ogni contingenza. E
questo gli permise di aprire la prospettiva su fatti che in quegli anni erano impensabili: per esempio il
terrorismo o la guerra civile globale come agenti decisivi del futuro. A questi risultati Schmitt giunge
attraverso una disamina minuziosa delle varie teorie che sono apparse nell’epoca aurea dello jus publicum
Europaeum, dimostrando una volta per tutte che, per sfuggire alla furia delle guerre di religione, il gesto
salutare è stato la rinuncia allo justum bellum. Di conseguenza, il delicato passaggio dalla justa causa
belli allo justus hostis ha reso possibile “il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non

72
«δ’ordinamento eurocentrico finora vigente nel diritto internazionale sta oggi tramontando.
Con esso affonda il vecchio nomos della terra. Questo era scaturito dalla favolosa e inattesa
scoperta di un nuovo mondo, da un vento storico irripetibileέ […] Il pensiero degli uomini
deve nuovamente rivolgersi agli ordinamenti elementari della loro esistenza terrestre. Noi
siamo alla ricerca del regno di senso della terraέ Questa è l’impresa rischiosa del presente
libro e questo l’imperativo che sta all’origine dl nostro lavoroέ

È agli spiriti pacifici che è promesso il regno della terraέ Anche l’idea di un nuovo nomos
della terra si dischiuderà solo a loro»235.

Una sintesi significativa dell’opera è riscontrabile nei suoi «cinque corollari


introduttivi». Il primo di essi è il diritto come unità di ordinamento e di
localizzazione236. La justissima tellus serba il diritto dentro di sé (come ricompensa del
lavoro), lo mostra in sé (come confine netto) e lo reca su di sé (come contrassegno
pubblico dell’ordinamento)έ «Secondo Vico la suddivisione e la delimitazione del suolo
[…] è, accanto alla religione, al matrimonio e al diritto d’asilo, uno dei quattro elementi
primordiali di ogni diritto umano e di ogni storia umana»237. Il primo nomos della terra
sorse nel XVI secolo quando, con la scoperta del Nuovo Mondo, la terra fu per la prima
volta compresa e misurata dalla coscienza globale dei popoli europei. Una nuova
comprensione e misurazione della terra avvenne con la Rivoluzione industriale, non a
caso partita da quell’Inghilterra che aveva portato a termine il passaggio da un’esistenza
terrestre ad una marittima. Il segreto di questo nuovo nomos è racchiuso nella citazione
di Hegel:

ha avuto luogo una guerra di annientamento”έ In quel breve intervallo lo jus publicum Europaeum si
combinava con l’avviarsi del funzionamento della machina machinarum, “prima macchina moderna e
insieme presupposto concreto di tutte le altre macchine tecniche”μ lo Stato modernoέ Allora la “guerre en
forme”, questo gioco crudele, salvato però dal rigore della sua regola, conferiva una nuova unità a un
certo ambito spaziale (una certa parte dell’Europa) e lo faceva coincidere con il luogo stesso della civiltàέ
Poi il gioco si frantuma dall’internoμ nell’agosto 1λ14 comincia una guerra che si presenta come tante
altre dispute dinastiche – e invece si rivela subito essere la prima guerra tecnica, che nega già nel suo
apparato ogni possibilità di “guerre en forme”έ ἑosì emerge anche la guerra rivoluzionaria, variante finale
della guerra di religione, sigillo delle guerre civili. La forma moderna della verità, la più efficace, la più
distruttiva, è tautologica: ciò che è rivoluzionario è giusto perché è rivoluzionario: con ciò si ripropone e
trova sbrigativa risposta la questione della justa causa belli». Presentazione in C. Schmitt, Il nomos della
terra, Adelphi, Milano, 1991.
235
C. Schmitt, Nomos, 15.
236
Il rapporto tra l’ordinamento umano (Ordnung) e una precisa localizzazione (Ortung) è fondamentale
all’interno della riflessione di Schmitt.
237
C. Schmitt, Nomos, 26. A differenza di Spengler, che omise ogni riferimento all’opera di Vico,
Schmitt lo cita esplicitamente, qui addirittura in italiano nel testo.

73
«Come per il principio della vita familiare è condizione la terra e la salda proprietà fondiaria,
così per l’industria è il mare l’elemento naturale che la vivifica e le dà l’impulso verso
l’esterno»238.

Il secondo corollario riguarda il Diritto internazionale preglobale, in quei millenni in


cui l’umanità aveva un’immagine mitica della terra nella sua totalità, ma nessuna
esperienza scientifica di essa. Ogni regno si considerava come il mondo, ogni polis una
kosmopolis, e in questo modo era difficoltoso distinguere nettamente tra il nemico
(justus) hostis e il criminale. Nonostante la solidità del diritto romano, lo jus gentium
era un diritto internazionale solo in senso incompleto e indeterminato.

Il terzo corollario sono dei cenni sul diritto internazionale del Medioevo cristiano che
«pur essendo un ordinamento spaziale preglobale, esso ha fornito, come vedremo più
avanti, l’unico titolo giuridico per il passaggio a un primo ordinamento globale del
diritto internazionale […] sorto dalla dissoluzione dell’ordine spaziale cristiano-
medievale, sorretto da impero e papato»239έ δe situazioni e le istituzioni di quell’epoca
appaiono al giorno d’oggi contemporaneamente sia come spauracchi dell’anarchia
feudale che come modelli dell’ordine modernoέ

«Onde dissipare la singolare confusione che grava su questa intera discussione, sarebbe
anzitutto necessario distinguere con chiarezza l’anarchia del Medioevo dal nichilismo del
XX secoloέ δ’ordine medioevale dell’Europa, se giudicato in base ai canoni di un moderno
apparato amministrativo ben funzionante, era […] sicuramente molto anarchico, ma
nonostante tutte le guerre e le faide non era nichilistico nella misura in cui esso non aveva
perduto la propria unità fondamentale di ordinamento e di localizzazione» 240.

Nella respublica christiana (o populs christianus) l’unità non era rotta dalle guerre
interne, dato che un unico ordinamento complessivo comprendeva e valutava in maniera
teologico-morale tutte le parti in causa. Nella concreta localizzazione spaziale in

238
Ivi, 29.
239
Ivi, 38.
240
Ivi, 39.

74
rapporto a Roma241 (sia nell’imperium che nel sacerdotium; anche la lotta tra Papato e
Impero, come tutte le altre, fu sempre per Roma e mai contro di essa) si comprende il
«carattere essenziale dell’impero cristiano […] di non essere un regno eterno, ma di
avere sempre presente la propria fine e la fine del presente eone, e malgrado ciò di
essere capace di esercitare potere storico. Il concetto decisivo e storicamente
importante, alla base della sua continuità, era quello di “forza frenante” [Aufhalter], di
kat-echonέ “Impero” significa qui il potere storico che riesce a trattenere l’avvento
dell’Anticristo e la fine dell’eone attualeμ una forza qui tenet»242. Più avanti torneremo
ancora su come sia sorto e come abbia sviluppato questo concetto fondamentale.

Il quarto corollario è sul significato del termine nomos, parola greca che designa la
prima misurazione, la prima occupazione della terra, la sua suddivisione e distribuzione
originaria. Il nomos (che i Greci legano allo spazio e che per Aristotele è sovrano, e
rende l’idea del processo fondamentale di unificazione di ordinamento e di
localizzazione) va evitato di tradurre con legge (o regola o norma o con qualsiasi altro
atto di posizione, provvedimento, statuizione e comando) che «nella situazione
mondiale odierna243 esprime ormai soltanto l’artificialità di quanto è posto e dovuto in
senso meramente positivistico, vale a dire la mera volontà di imporsi, ovvero – per
usare l’espressione sociologica di εax Weber – la volontà di realizzare una possibilità
di coercizione»244.

Infine, l’ultimo corollario riguarda la conquista territoriale come processo costitutivo


del diritto internazionale.

241
Nel pensiero di Schmitt (appartenente alla minoranza cattolica di un paese luterano appena reduce
dalla kulturkampf di Bismarck) il riferimento a Roma è molto marcato. Lo stesso R. Guardini – in
maniera critica – annota come spesso «alcune cose sembrano fortemente sovraccentuate e incorre
nell’errore di identificare “cattolico” e romano [romanisch]»έ «ύuardini non scrive “römisch”, come nel
titolo del Büchlein di Schmitt [il riferimento è a “Römischer Katholizismus” del 1λβγ], ma “romanisch”μ
che in linguistica e in filologia vale, più o meno, “romanzo” e in storia dell’arte “romanico”έ
“Romanisch”, cioè, designa in tedesco più precisamente di “römisch” l’antitesi, o il polo opposto, di
“gotisch” e di “germanisch”μ in ogni caso un “tipo” spirituale, una formazione culturale parziale» (ύέ
Magrì, Dal volto alla maschera. Rappresentazione politica e immagini dell’uomo nel dialogo tra
Guardini e Schmitt, Franco Angeli, Milano, 2013, 209).
242
C. Schmitt, Nomos, 43.
243
«Un’epoca decadente, che non sa più ricollegarsi alle proprie origini e che non distingue più il diritto
fondamentale, in quanto ordinamento e localizzazione, da tutti gli atti di posizione. […] La situazione
attuale è da decenni caratterizzata dall’abuso del concetto di legalità tipico dello Stato legislativo
centralistico, il cui unico correttivo, oggi divenuto piuttosto inefficace, è il concetto di legittimità». Ivi, 58
e 60-61.
244
Ivi, 59.

75
«Non ogni sottrazione di terra è un nomos, ma al contrario il nomos – inteso nel nostro senso
– contiene sempre in sé un ordinamento e una localizzazione che lo legano al territorio. Se
entra poi in gioco il mare, l’ordinamento spaziale del diritto internazionale risulta
determinato dal rapporto tra terra e mare»245.

A livello linguistico, Schmitt nota come nella lingua tedesca fosse da pochi decenni in
uso il termine Landnahme (conquista territoriale), dato che prima si parlava solo di
divisioni di terraέ δ’approfondimento di questo tema consente di capire in prospettiva
storica, filosofica e giuridica «l’avvenimento fondamentale nella storia del diritto
internazionale europeo esistito fino ad oggi: la conquista di un nuovo mondo»246.

Terminata l’esposizione di questi cinque corollari, Schmitt presenta in sequenza la


conquista territoriale di un nuovo mondo, lo Jus publicum europaeum e infine la
questione di un nuovo nomos della terra.

A riguardo del primo argomento viene presentata la nascita di un «pensiero per linee
globali» quale primo sforzo e tentativo di determinare i criteri di misura e le
delimitazioni valide per un ordinamento spaziale globale.

«Civiltà era sinonimo di civiltà europeaέ […] σel medioevo i principi e i popoli cristiani
d’Europa avevano considerato Roma o ύerusalemme come il centro della terra e se stessi
quali parte del vecchio mondo. La sensazione che il mondo fosse vecchio e il tramonto
prossimo compare di frequenteέ […] Quando nel 14λβ comparve realmente un “nuovo
mondo”, tutti i concetti tradizionali di centro e di età della terra dovettero mutare la propria
strutturaέ […] εa il fatto essenziale e decisivo per i secoli successivi fu che il nuovo mondo
emergente non si presentava come un nuovo nemico, bensì come uno spazio libero»247.

Col procedere delle vicende storiche (dal XVI al XX secolo) la nascita di zone di lotta
extraeuropee era giustificata dallo scopo di limitare la guerra in Europa (sgravandola dai
problemi delle guerre civili tra i ceti e le diverse confessioni religiose), anche se poi
«tutte le questioni importanti dell’ordinamento giuridico internazionale finiscono per
convergere sul concetto di guerra giustaέ Qui, dunque, il rischio di un’eterogenesi dei

245
Ivi, 72.
246
Ivi, 77.
247
Ivi, 82-83.

76
fini raggiunge il grado massimo di intensità»248. Le speculazioni giusnaturaliste persero
via via sempre più valore e importanza man mano che si affermava l’ovvietà di un
mercantilismo statale, cristallizzatosi nella forma spaziale in grado di reggere un nuovo
diritto internazionale: lo Jus publicum249 europaeum.

«Questo grande successo non può essere spiegato né con le formule della guerra giusta
tramandate dal Medioevo, né con i concetti di diritto romano. Esso si verificò solo perché si
realizzò un nuovo ordinamento spaziale concreto, un equilibrio tra gli Stati territoriali del
continente europeo in correlazione con l’impero marittimo britannico, avente sullo sfondo
immensi spazi liberi»250.

δ’effetto di questa razionalizzazione è la deteologizzazione della vita pubblica e la


neutralizzazione dei contrasti delle guerre di religione: entrambi gli avversari si
riconoscono come Stati (equiparati a persone reali e sovrane), consentendo di
distinguere tra nemico e criminale (aliud est hostis, aliud rebellis) e rendendo possibile
la neutralità degli Stati terzi.

«δ’ordinamento eurocentrico del mondo, sorto nel secolo XVI, risulta così suddiviso in due
diversi ordinamenti globali: della terra e del mare. Per la prima volta nella storia
dell’umanità la contrapposizione di terra e mare diventa il fondamento universale di un
diritto internazionale globaleέ […] δa grande risoluzione complessiva del diritto
internazionale dei secoli XVI e XVII culminò dunque nell’equilibrio tra terra e mare, nel
confronto tra due ordinamenti che solo nella loro coesistenza piena di tensioni
determinavano il nomos della terraέ δ’elemento di congiunzione tra i due diversi ordinamenti
della terra e del mare fu un’isola, l’Inghilterra»251.

Dal trattato di Utrecht in poi (1713), tra Settecento e Ottocento comincia la procedura
delle grandi conferenza di pace sotto la direzione delle grandi potenze, finché «l’antico

248
Ivi, 132.
249
«Questo ordinamento è “pubblico”, publici juris, non soltanto per il carattere pubblico di quelle
persone sovrane, ma soprattutto in quanto autentico ordinamento spaziale. Solo così esso poté fugare i
resti dell’unità medioevale di una respublica christiana riconducendoli in parte ad una sfera intrastatale,
in parte ad un sfera meramente privata». Ivi, 170.
250
Ivi, 164.
251
Ivi, 208.

77
ordinamento specificamente europeo si dissolse in un universalismo privo di
dimensione spaziale, senza che un nuovo ordinamento potesse subentrare al suo
posto»252.

δ’ultima parte dell’opera si interroga riguardo alla questione di un nuovo nomos della
terra. «Verso la fine del secolo XIX le potenze europee e i teorici del diritto
internazionale europeo avevano non solo cessato di essere consapevoli dei presupposti
spaziali del loro stesso diritto, ma avevano anche perduto ogni istinto politico, ogni
forza comune per arrivare a una propria struttura spaziale e alla limitazione della
guerra»253. Con la pace di Versailles e con la Lega della Nazioni di Ginevra si
abbandona completamente l’idea di un ordinamento spaziale eurocentrico della terra
cedendo il passo ad una serie di numerosi diritti internazionali, distinti per grandi spazi
(cominciando a occidente dalla fuga nordamericana, per proseguire a oriente con
l’emergere del ύiappone)μ

«δa destituzione dell’Europa da centro della terra, nel diritto internazionale, fu scambiata da
questa dottrina per un’elevazione dell’Europa a punto centrale della terraέ […] Ciò che
subentrava al suo posto non era un “sistema” di Stati, ma una compresenza confusa di
relazioni fattuali, priva di dimensione spaziale e di elementi sistematici, ovvero una
compresenza confusa, non ordinata, senza connessioni spaziali e spirituali, di oltre cinquanta
Stati eterogenei, che si presumevano equiparati tra loro ed egualmente sovrani,
congiuntamente ai loro sparsi possedimenti: un caos senza alcuna struttura, che non era più
capace di alcuna limitazione comune della guerra e per il quale, infine, nemmeno il concetto
di “civiltà” poteva valere più come sostanza di una certa omogeneitàέ […]

Alla concezione di allora, di un universalismo globale, senza dimensione spaziale,


corrispondeva però una precisa realtà nell’ambito dell’economia separata dallo Stato, vale a
dire quella di un commercio e di un mercato mondiali liberi, con libera circolazione dell’oro,
del capitale e del lavoro»254.

Nel 1918 fu per la prima volta il mondo (in primis gli USA) a decidere l’ordinamento
spaziale dell’Europa (sopprimendo addirittura Turchia e Austria-Ungheria, due colonne

252
Ivi, 236.
253
Ivi, 283.
254
Ivi, 296-298. Significativamente Schmitt dirà: cuius regio, ejus oeconomia, col suo rovesciamento
ancor più moderno cujus oeconomia, ejus regio (Ivi, 409).

78
dell’ordinamento spaziale fino ad allora vigente): il fallimento del tentativo di garantire
ordine e pace nei due decenni della Société des Nations255 fu evidente. Nel frattempo
l’esasperazione della dottrina Monroe fece nascere in America la concezione di un
nuovo mondo sano e isolato, non toccato dalla corruzione di quello vecchio:

«δa formula dell’emisfero occidentale era diretta proprio contro l’Europa, l’antico
Occidente. Non era diretta contro la vecchia Asia o l’Africa, ma contro il vecchio τvestέ Il
nuovo Ovest avanzava la pretesa di essere il vero Ovest, il vero Occidente, la vera Europa. Il
nuovo τvest, l’America, voleva sradicare l’Europa, che fino ad allora aveva rappresentato
l’τvest, dalla sua collocazione storico-spirituale, voleva rimuoverla dalla sua posizione di
centro del mondoέ […] Il centro della civiltà scivolava ad ovest, verso l’Americaέ δa vecchia
Europa, come pure la vecchia Asia e l’Africa, diventava passatoέ Vecchio e nuovo sono qui –
come non ci si deve stancare di sottolineare – parametri non solo di una condanna, ma anche
e soprattutto di una ripartizione, di un ordinamento, di una localizzazione» 256.

La riflessione di Schmitt non va oltre il 1939 e accenna solo allo sviluppo dei mezzi di
distruzione moderni e alla sempre più marcata criminalizzazione dell’avversario, che
egli stesso dovette sperimentare sulla propria pelle. Lo scritto termina invocando nuove
linee di amicizia, come quelle che l’Europa del XVI secolo seppe far sorgere dal fertile
retroterra del diritto della christianitas medievale: ma nel 1950 le macerie ancora
presenti sul suolo della sua Germania e le ferite ancora vive nella sua coscienza
appesantivano e amareggiavano questo suo anelito di speranza.

«[ύià nella seconda conferenza dell’Aja del 1λίι] il principio pacta sunt servanda
sventolava come vessillo giuridico sopra un’inflazione nichilista di innumerevoli patti tra
loro contradditori e completamente svuotati da riserve espresse o tacite. Non mancavano
problemi la cui leale soluzione avrebbe potuto significare l’inizio di una concreta
concettualizzazione [come il rapporto tra economia e politica o la dottrina Monroe e la linea
dell’emisfero occidentale] ma i teorici del diritto internazionale di allora ritenevano non
giuridica la discussione oggettiva di tali questioni, giungendo addirittura a dichiarare questa

255
Un grande limite nasceva dall’assenza delle due moderne potenze spazialiμ URSS e USA, quest’ultima
in una curiosa assenza ufficiale e presenza effettiva che rendeva impossibili stabilire un ordine preciso
nell’emisfero occidentale (Ivi, 313 e 323).
256
Ivi, 381.

79
loro abdicazione una manifestazione di positivismoέ […] Silete theologi in munere alieno!
Così, alla fine del secolo XVI, aveva intimato il giurista umanista ai teologi del proprio
tempo, per poter fondare una scienza giuridica autonoma dello jus gentium. Trecento anni
dopo, sul finire del XIX secolo, la scienza giuridica, in nome di quello che essa riteneva
positivismo giuridico, si impose da sé il silenzio su tutte le grandi questioni giuridiche del
proprio tempo. Sileamus in munere alieno. Con questa abdicazione del diritto internazionale
l’Europa entrò vacillando in una guerra mondiale che destituì il più antico continente dalla
posizione di centro della terra e annullò la limitazione della guerra fino ad allora riuscita»257.

5.2 Il precisarsi del concetto di Katéchon


«Dal punto di vista di una consapevole teologia della storia, se si producesse una totale
prevalenza dei processi dissolutivi in atto, saremmo prossimi all’apparire di una forza
anomica e nichilistica pre-potente e preponderante, che teologicamente sarebbe leggibile
come la manifestazione finale del “mistero dell’iniquità” (βTess β,ι, il quale non potrebbe
comunque determinare di per sé una corruzione totale del creato.

Viceversa v’è ancora la possibilità di sperimentare la presenza di elementi costruttivi,


ordinativi, di un bonum nella storia, ovvero di qualcosa che trattiene e che si oppone alla
dissoluzione, ossia ancora di un katéchonμ “il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è
necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene” (ho katéchon, 2Tess 2,7)» 258.

Il concetto di katéchon, già incontrato nell’analisi del Nomos der Erde a proposito
dell’autocomprensione dell’Impero cristiano circa il proprio ruolo svolto nell’Europa
premoderna, costituisce la vera e propria chiave di volta dell’analisi di ἑarl Schmittέ Il
kathécon (che ricorre in vari scritti e che di volta in volta è individuato nella Sovranità
statale, nella Chiesa Cattolica, nella scienza giuridica o in diverse figure storiche)
«rappresenta il compimento della teologia politica schmittiana e anzi, potrei dire, il
compimento teologico-politico dell’intera dottrina dell’ordine politico»259.

Termine greco neotestamentario, katéchon (in greco Κα χω , oppure Κα χο ) è


il participio presente del verbo α χω (trattenere, arrestare, impedire). Nella Seconda
lettera ai tessalonicesi260, scritta per correggere la convinzione dell’imminente πα ου α

257
Ivi, 304-305.
258
M. Maraviglia, La penultima Guerra, 171.
259
Ivi, 172.
260
Autenticamente scritta da san Paolo per alcuni critici, pseudoepigrafa secondo altri.

80
di Cristo (dovuta sia ad una erronea interpretazione della prima lettera inviatagli da san
Paolo sia agli inganni di alcuni in malafede), esso indica l’impedimento oppure colui
che ostacola la venuta dell’Anticristo e compare in βTs β,θ col pronome di genere
neutro , mentre nel versetto seguente nel genere maschile261.

Nella tradizione dei Padri e nella teologia medievale fiorirà una varia interpretazione su
chi o che cosa fosse il katéchon (abbiamo già esposto il riferimento fatto da Agostino
nel De civitate Dei, con l’ammissione: «io confesso che proprio non capisco quel che ha
detto»262) indicandolo soprattutto nell’Impero romano (o medievale), nella predicazione
del Vangelo, nella Chiesa cattolica o in qualche determinato personaggio storico. In
epoca più recente, è ancora John Henry Newman (cominciando nel 1835 a stendere il
suo The Patristical Idea of Antichrist) a riprendere la spunto di san Tommaso d’Aquino
circa una sopravvivenza spirituale dell’Impero romano nella ἑhiesa cattolica 263.

Nello stesso solco, anche Carl Schmitt si sforza di adattare al proprio tempo la
tradizione ermeneutica che si trova tra le mani. La prima pubblicazione264 che contiene il
termine katéchon è del 1942265 e vede nell’America post Pearl Harbour impegnata a
«trattenere il ritmo della storia», in una riflessione che si presenta a tratti incerta e non
ancora approfondita266.

Nello stesso anno compone un singolare racconto dedicato alla figlia, in cui la storia del
mondo viene riletta nella prospettiva di una opposizione fondamentale che dà il titolo al
saggio: Land und Meer (Terra e mare).

261
« αὶ ῦ ὸ α χο οἴ α , ἰ ὸ ἀπο α υφ ῆ α αὐ ὸ ῷ αυ οῦ α ῷ· ὸ ὰ υ ο ἤ
ῖα ῆ ἀ ο α· ο ὁ α χω ἄ ἕω ου α » (2Ts 2,6-7). Il neutro indicherebbe
il riferimento ad una cosa, mentre il maschile piuttosto ad una persona.
262
De civitate, XX,19,2.
263
«Sembrerebbe che la consegna alla ἑhiesa di una potestà spiritualizzata da parte dell’impero romano,
cosa che avrebbe fondato la continuità tra impero e Respublica Christiana nel Medioevo, sia in Schmitt
premessa storica di una sorta di restituzione, in epoca moderna, di categorie teologiche secolarizzate alla
dottrina del moderno Stato assoluto e in generale alla politica» (M. Maraviglia, La penultima guerra,
194).
264
σel suo diaro che contiene le annotazioni tra l’agosto 1λ4ι e il dicembre 1ληη e denominato
Glossario, il 11.1.1948 annoto ad un amico: «Vous connaisez ma théorie du α χω , elle date de 1932»
(C. Schmitt, Glossario, 113). Purtroppo però di tale periodo non sono pervenuti i diari.
265
È l’articolo «ἐeschleuniger wider Willen oderμ Problematik der westlichen Hemisphäre», pubblicato
in Das Reich, 19 Aprile 1942.
266
Presentare gli Usa come l’artefice di una inutile battaglia contro la storia e il nuovo che avanza è
senz’altro coerente con la visione di Schmitt, però la conseguente identificazione logica del Reich con il
Mistero dell’iniquità destinato a portare alla sconfitta i vari katéchontes, sicuramente non era affiorata alla
mente del giurista.

81
«La storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri
e delle potenze terrestri contro le potenze marittimeέ […] δ’opposizione elementare tra terra
e mare è stata rilevata fin dai tempi antichi, e ancor verso la fine del XIX secolo era
consuetudine raffigurare le tensioni in atto fra la Russia e l’Inghilterra come la lotta fra un
orso e una balena. La balena è qui il grande pesce mitico, il Leviatano – di cui sentiremo
ancora parlare –, mentre l’orso è uno dei molti animali simbolici della fauna terrestreέ
Secondo le interpretazioni medioevali dei cosiddetti cabbalisti, la storia del mondo è una
lotta fra la possente balena, il Leviatano, e un animale terrestre altrettanto forte, Behemot»267.

Il ruolo del katéchon è inizialmente concepito nella ristretta categoria della re-azione ed
è attribuito a Costantinopoli268 (che trattenne in Italia e rallentò per secoli nel
εediterraneo τrientale l’avanzata islamica) e al sacro romano Imperatore Rodolfo II269
(che in maniera «neutropassiva» impedì momentaneamente il dilaniarsi tra cattolici e
luterani in quel conflitto che aveva in realtà il suo motore nella guerra di conquista
d’oltremare condotta dal calvinismo270, la nuova religione guerriera).

« [Il katéchon] non giunge ad essere il soggetto di un’iniziativa storica autonoma, ma è in


grado solamente di opporsi ad azioni e progetti altruiέ Importante però è l’inversione
assiologica che si annuncia nei due luoghi in cui Schmitt lo fa intervenire. Da elemento il cui
ruolo negativo va oltrepassato e combattuto, il katéchon diviene provvidenziale freno di uno
sviluppo potenzialmente rovinoso. Ciò prepara la strada ad una serie di riflessioni che

267
C. Schmitt, Terra e mare, 18.
268
«Il bizantino Impero romano d’τriente, retto da ἑostantinopoli, era un impero costieroν disponeva
ancora di una potente flotta e possedeva un’arma segreta, il cosiddetto fuoco grecoέ σondimeno era ormai
costretto sulla difensiva. Fu comunque in grado di ottenere, in quanto potenza marittima, un risultato di
cui l’impero di ἑarlo εagno, potenza puramente terrestre, si dimostrò incapaceμ fu una vera “forza
frenante” – un kathecon, come si dice in greco – e, nonostante la sua debolezza, riuscì a “reggere” per
molti secoli contro l’Islam» (Ivi, 21).
269
«Rodolfo II non fu un eroe attivo, bensì un uomo incline all’indugio e alla procrastinazioneέ Egli aveva
qualcosa di un kathecon, un concetto che abbiamo già menzionato in altro contestoέ D’altronde, che cosa
mai poteva fare Rodolfo nella situazione della Germania di allora? Fu già moltissimo se comprese che gli
schieramenti esterni alla Germania non la riguardavano minimamente, e fu già un risultato se seppe
realmente frenare e ritardare di decenni lo scoppio della guerra dei Trent’anni» (Ivi, 82-83).
270
«La Germania diventò campo di battaglia di una guerra di conquista oltremare –ad essa profondamente
estranea – senza essere partecipe della conquista. Il calvinismo era la nuova religione guerrieraν l’impulso
elementare verso il mare lo catturò quale fede ad essa più consona. Divenne il credo degli ugonotti
francesi, degli eroi dell’indipendenza olandesi e dei puritani inglesiέ Era anche la convinzione religiosa
del potente principe del ἐrandeburgo, uno dei pochi principi tedeschi che capivano l’importanza della
potenza marittima e delle colonieέ δe comunità calviniste dell’interno, in Svizzera, Ungheria e altri paesi,
dal punto di vista della politica mondiale non avrebbero avuto alcuna importanza se non fossero state al
seguito di quelle energie marittime» (Ivi, 84-85).

82
coinvolgeranno problemi di politica, teologia, dottrina del diritto e filosofia della storia,
ricollegandosi in vari modi al complesso della produzione teorica schmittiana» 271.

Man mano che mutavano le sorti del conflitto e che la catastrofe militare, civile e umana
si abbatteva sull’Europa dell’Asse e fin nel cuore del Reich, la riflessione del giurista si
approfondisce sempre più nel suo versante storico ed escatologico: «se
l’argomentazione storica aveva fino a quel momento avuto un ruolo sistematico, ora il
nostro giurista veniva spinto a considerare il ruolo del suo “sistema” dal punto di vista
storico, e cioè a calare se stesso e la propria dottrina dentro il corso ormai accelerato
degli eventi e del loro precipitare»272. Nel già citato Glossario, in data 19.12.1947
Schmitt afferma:

«A proposito del α χω μ credo nel α χω , che per me rappresenta l’unica possibilità di


comprendere la storia da cristiano e di trovarla sensata. La dottrina segreta di San Paolo non
è più, bensì altrettanto segreta di ogni esistenza cristiana. Chi in concreto non sa nulla del
α χω non può interpretare il passoέ […] I teologi di oggi non lo sanno più e in fondo non
vogliono più nemmeno saperlo.

A dire il vero, da Lei [Gerhard Günter] volevo saperlo: chi è il Κα χω di oggiς σon si può
certo pensare che sia Churchill o John Foster Dulles. La domanda è più importante di quella
sul capo guardaboschi jüngeriano. Per ogni epoca degli ultimi 1948 anni si deve poter
nominare un α χω έ Il posto non fu mai vacante, altrimenti noi non esisteremmo più. Ogni
grande imperatore del Medioevo cristiano riteneva in piena fede e coscienza di essere il
α χω , e lo era veramenteέ È del tutto impossibile scrivere una storia del εedioevo senza
vedere e comprendere questo fatto centrale. Ci sono depositi temporanei, transitori e
frammentati di questo compito. Sono sicuro che non appena il concetto sarà sufficientemente
chiarito potremo addirittura metterci d’accordo su molti nomi concreti e fino ai nostri
giorni»273.

Questo brano può essere considerato una felice sintesi della categoria katechontica nelle
sette volte che compare all’interno della sua riflessione di quegli anniέ Il concetto di

271
M. Maraviglia, La penultima guerra, 211.
272
Ivi, 212.
273
C. Schmitt, Glossario, 91.

83
kathéchon ritorna ancora il 27.12.1947 riferito a Donoso Cortés274 e ai gesuiti275, il
11έ1έ1λ4κ è ricercato all’interno dell’agonia del presente eone cristiano276 , il 13.3.1948
applicato a Tomáš ύarrigue εasaryk 277, il 9.4.48 negato a Arnold Toynbee278, il
1θέθέ1λ4κ è alluso in contrasto con la centralizzazione e l’ordinamento nichilista 279 e il

274
«Povero Donoso, l’unico concetto teologico adeguato alla sua teoria politica sarebbe stato quello di
α χω ν invece si perde nel labirinto della dottrina del diritto naturale relativo e assoluto» (Ivi, 101). Su
questa stessa figura Schmitt dedica nel 1ληί l’opera omonima Donoso Cortés, che raccoglie quattro suoi
saggi scritti tra il 1922 e il 1944.
275
«όorse l’ordine dei gesuiti era il α χω . Ma dal 1814? Restaurazione del α χω ?» (C. Schmitt,
Glossario, 101). Già in Terra e mare i gesuiti erano visti come forza continentale e cattolica nel contrasto
con le potenze marinare calviniste. Qui viene aggiunta una nuova sfumatura nel loro ruolo contro il
progredire dell’ideologia giacobina e rivoluzionaria nata in όranciaέ
276
«Votre conversation avec moi n’est pas celle de ἐoethius avec le roi visigothe Théodericν elle me
paraît plutôt celle d’un sénateur en Aquitanie avec Saint-Séverin, le Saint du 8. Janvier, qui en 500 vivait
en Noricum. La parallèle historique est conforme avec la parallèle que vous construisez avec les temps de
Charlemagne. Les différences dont vous parlez ne sont que des semblantes. Abstraction faite de 200 ans
(1713-1λ14) l’Europe chrétienne a été toujours une chose pitoyable, envahie de tous les côtésν le temps
1713-1λ14 aussi n’était qu’un intervalle éphémèreέ σous sommes toujours – comme en 500 ou 800 –
dans le “aion” chrétien, toujours en agonie, et tout évènement essentiel n’est qu’une affaire du “Kat-
echon”, c’est-à-dire de “celui qui tient”, qui tenet nunc» (Ivi, 112). Dopo la tragedia che si è abbattuta
sulla ύermania, sull’Europa e sulla vita personale del giurista, nella riflessione di Schmitt entra la
componente della kenosi, dell’agonia, del dolore (si veda anche l’osservazione del βηέλέ1λ4λ)έ
277
«Le grandi localizzazioni e delocalizzazioni che hanno luogo a Praga. La fine del figlio di Masaryk mi
colpisce in modo profondo ed estremamente personale, proprio in quel punto del privato in cui si verifica
il contatto esistenziale fra il grande tutto e il singolo, messo a disposizione dello spirito del mondo. Con il
suicidio di εasaryk, in Europa tramonta l’epoca della possibilità di opzione fra Oriente e Occidente.
Masaryk padre fu un autentico katechon europeo; il katechon della liberaldemocrazia occidentale. Egli
operò con mirabile consapevolezza storica […] e fece una scelta molto oculata a favore dell’τccidenteέ
[…] Sposò un’americana, e tale matrimonio fu il simbolo personale della sua opzione per l’τccidenteέ Il
figlio nato da quest’unione, ora suicidatosi a Praga, era il garante della scelta a favore dell’τccidenteέ […]
Quest’epoca è finita quando Jan εasaryk è precipitato da una finestra del palazzo Czernin. Ciò ha un
significato più profondo delle defenestrazioni di Praga avvenute finora, quella dei consiglieri di Neustadt
nel 1419, e quella dei consiglieri imperiali nel maggio 1618; è il suicidio di un Ceco, che avviene dopo la
caduta dei Tedeschi e dopo molti suicidi dell’aprile 1λ4ηέ Quali guerre faranno seguito alla terza
defenestrazione di Praga?» (Ivi, 159-160). Schmitt, pur non amando la liberaldemocrazia, nel contesto
dell’epoca la vedeva comunque come un male minore rispetto all’apparato totalitario sovieticoν il suicidio
di εasaryk era la campana a morto dell’antica Mitteleuropa e della possibilità per la Germania stessa di
scegliere e di avere un ruolo in un’Europa non dilaniata nella contesa tra USA e URSSέ
278
«Toynbee […] vuole fare dell’Europa occidentale un terzo polo dotato di importanza propria, senza
consentire alla Germania di riprendere forza. Perché la Germania non si rafforzi nuovamente, anche
l’Europa non deve più cercare di rafforzarsiέ εeglio andare in rovina che consentire alla Germania di
risorgereέ […] Secondo Toynbee non le rimane che l’opzione a favore del comunismo russoέ Ecco lo
Spengler del secondo dopoguerra, così come Churchill divenne il Clémenceau della seconda guerra
mondiale; nessun α χω » (Ivi, 176). Si veda quanto detto nella nota precedente.
279
«Un’iniezione di energia grazie a Konrad Wei , Kreatur des Wortesμ la torre di ἐabele dell’unità
linguistica totalizzanteέ δa frase “oggi perfino la confusione linguistica è migliore dell’unità babelica”, va
intesa cosìμ il caso anarchico è meglio della centralizzazione e dell’ordinamento nichilistiέ Il kathéchon è
riconoscibile per il fatto che non aspira a questa unità del mondo, ma depone la corona imperiale.
δ’ingenua ereditarietà della corona imperiale, che diviene ereditaria in rapporto alla consuetudine del
potere dinasticoν ma una dinastia non può essere anch’essa un kathéchon?» (Ivi, 230). Wei , autore
dell’Epimeteo cristiano («colui che riflette in ritardo») più volte citato da Schmitt, viene qui ripreso in
polemica contro le nefaste conseguenze di ogni moralizzazione della politica condotte dall’τσU (e prima
ancora dalla Società delle Nazioni): la democratizzazione internazionale portava inevitabilmente
all’indebolimento dei principi di sovranità e di non ingerenzaέ Si allude poi all’episodio della deposizione
sul ύolgota della corona da parte dell’ultimo imperatore romano (prima della sua sconfitta e dell’apparire
dell’Anticristo) per affidare a Dio l’impero cristiano, così come viene tramandata dal De ortu et tempore

84
4.7.1949 ritrovato nell’istituzionalizzazione del cristianesimo all’interno della ἑhiesa
cattolica280. Riportiamo il penultimo riferimento (del 25.9.1949):

«Ora sta a noi badare che la giurisprudenza non muoia di una morte comune insieme al mito
del legislateur.

Il α χω è privazione, fame, bisogno e impotenza. Tutto ciò sono coloro che non
governano, è popolo. Ogni altra cosa è massa e oggetto di pianificazione. Ogni altra cosa è
massa e oggetto di pianificazione. La forza meravigliosa della negazione non oppositiva, lo
Stato sociale di diritto, la storiografia.

Se chi detiene il potere ti colpisce sulla guancia sinistra porgigli anche la destra; non è però
necessario che tu gli lecchi anche gli stivali, nonostante tutto» 281.

Qui il suo sguardo si allarga mettendo insieme la scienza giuridica (a cui ha dedicato
tutta la propria vita e tutti i propri sforzi) con il popolo, prostrato e affamato in
conseguenza della catastrofe bellica. Un conto sono la scienza giuridica, la storiografia,
lo Stato sociale di diritto e il popolo sano moralmente e religiosamente: benché prostrati
e agonizzanti, essi sono katéchon. Un altro conto sono le élites vincitrici e le loro masse
globalizzate e pianificate (nell’ultimo riferimento al kathécon nel Glossario, il
1.10.1949, evidenzia per contrasto la debolezza di Francia e Inghilterra282, presunti

Antichristi di Adso di Montier-en-Der (910/915 – 992) che a sua volta riprende la Saga della fine
dell’impero nelle Revelationes dello Pseudo-Metodio (VII secolo).
280
«ἑhe cosa significa giuridificazione, istituzionalizzazione del cristianesimo all’interno della ἑhiesa
romanaς Significa solo “realizzazione”ν infattiμ che cos’è il dirittoς Hegel risponde: il diritto è spirito che
si fa reale. La natura è ciò che è. Il diritto è presenza del libero volere, è libertà in quanto idea, è spirito
stesso, non solo come individuo; nella misura in cui rifiutano la realizzazione (le opere) restano puri.
δ’azione stessa è già delitto, mala azioneέ Di qui scaturisce la tragicitàέ Konrad Wei direbbeμ il piano di
Dio che si inserisce angolarmente nel tempo intorno ad un centro inattingibile dell’immagine idealeέ δa
Chiesa romana è realtà storica; dal punto di vista idealistico è eo ipso mala azione. Essa è α χω , che è
senz’altro il peggiore dei criminaliέ Dal punto di vista idealistico ogni azione storica è mala azioneν in
termini idealistici: diritto = torto = posizione = arbitrio. Ecco che cosa chiamano tragicità. La tesi di Sohm
non è valida solo per il diritto canonico» (Ivi, 351-γηβ)έ δ’affermazione di Sohm è quella per cui l’essere
del Diritto ecclesiale sarebbe in contraddizione con l’essere della ἑhiesaμ per la teologia liberale
l’evidente carattere giuridico della ἑhiesa cattolica era anche l’evidente sconfessione del suo carattere
spirituale: «Das Kirchenrecht steht mit dem Wesen der Kirche im Widerspruch» (R. Sohm, Kirchenrecht,
I. Band, Die geschichtlichen Grundlagen, Duncker & Humbolt, Leipzig, 1892, 1). Qui Schmitt critica la
visione idealistica tipicamente protestante della purezza che finisce per troncare il legame tra Dio e il
mondo proprio nel punto centrale, cioè l’uomo visibile (come anche nella sua opera La visibilità della
Chiesa) e vi oppone l’agire storico e incarnato della Chiesa romana, rifacendosi secondo la propria
teologia politica ai concetti di incarnazione e di rappresentazione.
281
C. Schmitt, Glossario, 378.
282
«Importante per Hobbes e per l’epoca di ἑromwellμ la rinuncia consapevole alla tradizione del
α χω dell’impero romano (anche in Vitoria non ve n’è più traccia!)έ nessuna terza Roma (come a

85
vincitori del conflitto mondiale che loro stessi intrapresero fin dal settembre 1939): è in
loro che il nichilismo e la dissoluzione tramontano verso l’«unità babelica» di
ordinamento arbitrario e slegato da ogni sana localizzazione.

«La situazione di sofferenza di Schmitt viene, in un certo modo, proiettata sul suo pensiero.
È significativo che egli, sfiduciato dalle istituzioni politiche, ora completamente devote alla
logica della pianificazione nichilista, riproponga le sue speranze nel “popolo”, inteso, così
come aveva fatto in alcuni passi della Dottrina della costituzione, come “coloro che non
governano”έ Dalla sofferenza che Schmitt in parte condivide con il suo popolo, sottoposto
alle tribolazioni della guerra e dell’immediato dopoguerra, ed ora ad un nuovo potere che
non si dimostra a prima vista all’altezza delle sfide storiche, verrà la capacità di opporsi ai
nuovi tiranni della centralizzazione e della democratizzazione.

Dal punto di vista teologico, ciò potrebbe essere visto come il passaggio da una teologia
della gloria ad una teologia della croceέ Tenendo presente che l’identità di funzioni che vi
trattiene il katéchon, ciò suggerisce che non vi sia un aut aut tra le due, ma che la seconda sia
l’altra faccia della prima. Se si interpreta il katéchon come soggetto storico, e se questi ha
una dimensione politica, esso sarà portatore di una vis rappresentativa, cioè dovrà istituire un
ponte tra se stesso e una dimensione metafisica di pienezza e di splendore, dovrà collegarsi
al “centro dell’immagine ideale” che però le rimarrà “inattingibile”έ Rimanendo storico,
infatti, il soggetto politico non potrà mai di per sé redimere la sofferenza, anzi vi sarà sempre
sottoposto come colui che alla fine dovrà soccombere. La forma politica, lo si è già potuto
notare, è sempre percorsa dal negativo, nasce e si sviluppa “dal popolo” in una lotta contro il
negativo, ma ad esso dovrà finalmente arrendersi, perché altri, e non il potere e i loro
detentori, hanno sconfitto la morte.

Riassumendo, si può allora dire che il katéchon, nella sua qualità di forza che trattiene il
disordine nichilista che avanza, è passibile di identificazione con la forma politica ordinata.
Ciò contiene un elemento glorioso, che tuttavia non può eliminare la tragicità del dolore e
della sconfitta che incombono sulla forma politica stessa»283.

Mosca)! Nessuna succession: sì, in Francia, fino a Napoleone I. Impero, cesarismo. In ogni caso, pe
Hobbes la ἑhiesa romana è il fantasma che sta appollaiato sulla tomba dell’imperium romanumέ […] Se
qualcuno subisce una sconfitta non si scorge fino in fondo la sua debolezza, bensì la forza dell’avversarioέ
Ma se qualcuno vince e poi crolla svenuto, si riconosce sia la sua debolezza, e le relative cause, sia la
forza dell’avversario che, prendendosi gioco di lui, gli fa credere che sta vincendo, mentre sta riducendosi
a mal partito, tanto quanto nessuna sconfitta avrebbe potuto ridurlo» (Ivi, 380-381). Il riferimento alla
Francia e al suo cesarismo, alla luce di Spengler, è chiaramente negativo e decadente.
283
M. Maraviglia, La penultima guerra, 226-227.

86
Questo sofferto itinerario conduce nel 1950 all’ordinata sistematizzazione della propria
riflessione nella sua opera principale, il già presentato Nomos der Erde284. Nello stesso
anno viene pubblicato anche quello che considera «un libro chiave» (ma che per sua
volontà non fa più ristampare): Ex Captivitate Salus. Quest’opera, composta fra il 1λ4η
e il 1λ4ι «nelle desolate vastità di un’angusta cella» 285 rappresenta per Schmitt una
amara e realistica resa dei conti con sé stesso e con la propria epoca e presenta il
katéchon come elemento necessario a comprendere sé stessi e la storia in cui si è
inseriti: questa dottrina mancava ad A. De Toquelville286, Epimeteo mancato (e,
implicitamente, si ricorda che proprio ciò costituisce l’architrave del pensiero del
giurista, vero e proprio Epimeteo287). È nelle situazioni che parrebbero disperate che i
cristiani devono ridestare la speranza: per essi «dalla situazione di difficoltà è sempre
possibile elevarsi alla misura teologica della storia della salvezza in cui il negativo,
apparentemente insuperabile, è concepito o come “trattenuto” storicamente, o come
insuperato escatologicamente»288.

Sempre nel 1950 Schmitt pubblica una recensione all’opera di Karl δöwith Meaning in
history (Significato e fine della storia): opponendosi al dominante pensiero moderno
della pianificazione, riafferma la specificità cristiana289 della provvidenza divina. Egli

284
τltre alla già presentata relazione con l’ecumene medievale, il katéchon compare solo un’altra volta in
relazione alla pretesa dell’Inghilterra del XIX secolo di «essere il centro del mondo e di trasformarsi da
Stato difensore dell’equilibrio europeo in portatore di un nuovo equilibrio globale del mondoέ […] εa il
suo obiettivo di un equilibrio mondiale non ha potuto essere realizzato dall’isola dell’Inghilterraέ
δ’Inghilterra diventò invece la potenza tradizionale per aree determinate del mediterraneo e della via
delle Indie. In ciò svolse il ruolo di un katechon» (C. Schmitt, Nomos, 303). Il cambio di prospettiva
rispetto al suo articolo del 19 aprile 1942 è evidente.
285
C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, 81.
286
«Tocqueville era un vinto. In lui si adunavano tutte le specie di sconfitte, e non per caso e per mera
sventura, bensì fatalmente ed esistenzialmenteέ ἑome aristocratico, era un vinto […] dalla rivoluzione del
1ικλέ ἑome liberale, previde la non più liberale rivoluzione del 1κ4κέ […] ἑomefrancesce, apparteneva
alla nazione che dopo una guerra di coalizione ventennale era stata vinta da Inghilterra, Russia, Austria e
Prussiaέ […] ἑome europeo, venne parimenti a trovarsi nel ruolo dello sconfitto, poiché previde
l’evoluzione che di due nuove potenze, l’America e la Russia, avrebbe fatto, al di sopra della testa
dell’Europa, le portatrici e le eredi di un’incontestabile centralizzazione e democratizzazioneέ ἑome
cristiano, infine, quale era rimasto secondo la fede dei padri, grazie al battesimo e alla tradizione,
soggiacque all’agnosticismo scientifico dell’epocaέ Per questo egli non divenne quel che più di ogni altro
sembrava predestinato ad essereμ un Epimeteo cristianoέ ύli faceva difetto l’ancoraggio a una storia della
salvezza che preservasse dalla disperazione la sua idea storica di Europaέ Senza l’idea di un katechon,
l’Europa era perdutaέ Tocqueville non conosceva alcun katechon. In sua vece cercò degli intelligenti
compromessiέ Avvertiva egli stesso la debolezza di questi compromessi, così come l’avvertivano i suoi
avversari, che per questo lo deridevano. Divenne così un vinto che accetta la propria sconfitta, c’est un
vaincu qui accepte sa défaite» (C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, 32-34).
287
Ivi, 14.
288
M. Maraviglia, La penultima guerra, 234.
289
Schmitt concorda con Löwith nel ritenere eminentemente storica la riflessione cristiana, opponendosi
sia al paganesimo (con la sua concezione ciclica) che all’illuminismo (semplice secolarizzazione delle
stesse categorie cristiane).

87
rimarca anche il parallelismo tra la propria epoca e quella del cristianesimo primitivo,
accumunate dalla coscienza di una fine dei tempi («tempo esaurito») in cui la figura dei
vari katéchontes290 fa da tramite tra la fede escatologica e l’ermeneutica della storia e
costituisce un deciso richiamo per il cristiano all’agire storico291.

Nel 1951, nel saggio pubblicato a Madrid La unidad del Mundo (δ’unità del mondo),
precisa l’oggetto a cui si oppone il katéchon: in Oriente il marxismo che secondo Lenin
immagina l’unità di un mondo elettrificato, e in τccidente l’unità asintotica prodotta da
un progresso materiale indefinito secondo il mito del progresso liberale ed illuminista.

«La soluzione per chi non si adegua al mondo che promette magnifiche sorti e progressive
per l’uomo integrato e tecnicizzato, può essere quella del rifugio in un paganesimo rinnovato
che, nel ciclo dell’eterno ritorno, adombra la possibilità di un futuro nuovo inizio redento
dalle derive dell’età del fuoco o delle conflagrazioniέ Tuttavia a parere di Schmitt “questa
periodicità è più un espediente che un autentico rimedio. Non contiene nessuna risposta
storica, ma lo sprofondarsi dell’uomo nella natura, cioè la rinuncia alla Storia”έ È ribadito in
questa occasione l’atteggiamento di rifiuto nei confronti delle soluzioni proprie di una
corrente di pensiero che aveva ricevuto nuovo vigore, dopo σietzsche, dall’opera culturale
della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice. [Avendo conosciuto personalmente diversi di
questi autori] è pensabile che su questo argomento fondamentale egli ci tenesse invece a
rimarcare le differenze, così come, parimenti, le rimarcò rispetto a Spengler. In particolare,
riguardo all’autore de Il tramonto dell’occidente, Schmitt vuole sottolineare che la seconda
soluzione possibile, e alternativa al paganesimo, è proprio il fatalismo spengleriano. Però
“nel fondo questa scelta conduce al suicidio, un suicidio di proporzioni spaventose”έ […]

σell’ambito di una risposta potenzialmente efficace si situa il pensiero storico del


cristianesimo e la principale categoria di cui si serve, il katéchon» 292.

290
In Schmitt è ormai chiaro che non può trattarsi di un’azione meramente conservativa e paralizzante;
egli cita direttamente il sociologo Hans Freyer, di impostazione neoidealista, che aveva presentato in
maniera attiva la categoria di α χω έ Hέ όreyer, Weltgeschichte Europas, 2 Bde., Dieterichsche
Verlagsbuchhandlung, Wiesbaden, 1948.
291
«Contro Löwith, Schmitt sostiene che il cristianesimo non è una chiamata alla epnitenza, bensì,
coerentemente con la suddetta interpretazione del katéchon, all’azione storicaέ Dunque nel cristianesimo
convivono l’esclusione tanto della pianificazione solo umana quanto della passività della pura espiazione.
Il senso peculiare dell’agire storico cristiano si delinea attraverso la chiamata in causa del poeta Knorad
Weiss e dell’immagine mariana della storia che egli veicola nel suo poema Epimeteo cristiano» (M.
Maraviglia, La penultima guerra, 250).
292
Ivi, 252-253.

88
In un quadro di pensiero ormai maturo e definito, a Schmitt rimangono da tratteggiare
solo qualche ulteriore sfumatura sul katéchon. Nel 1957 pubblica l’articolo Die andere
Hegel-Linie (δ’altra linea di Hegel), in cui la linea dell’idealismo hegeliano (come
ultimo rappresentante viene indicato Freyer 293, a cui la pubblicazione è dedicata
nell’occasione del suo settantesimo compleanno) è visto come impedimento sulla via
dell’ateismo percorso invece dalla linea dell’interpretazione hegeliana progressista e
materialista (a cui appartengono Lenin e Stalin). Per andare al di là di ogni equivoco
reazionario sul suo pensiero, il giurista evidenzia la «poderosa creatività» di cui il
katéchon è capace: così è stato per Bisanzio (che ha trattenuto l’avanzata Araba e nel
contempo ha evangelizzato i popoli slavi), per la Chiesa cattolica (che ha perpetuato i
valori della Roma antica, mentre diventava uno dei due centri propulsori
dell’τccidente) e per la σazione Tedesca (con i popoli germanici che invadono
l’Impero e, distruggendolo, ne perpetuano l’eredità)έ

«δ’osservazione di questi tre casi [di ἐisanzio, della ἑhiesa e della ύermania] induce όreyer
a constatare che il loro minimo comune denominatore è l’evidenziarsi di un’attività
autonoma accanto alla pura forza trattenente, di un’attività, cioè, volta a superare le forme
dell’esistente a fianco di quella intesa a conservarne l’essenzaέ ἑiò significa che una delle
peculiarità del loro modo di essere è quella di distruggere proteggendo e di proteggere
distruggendo, ossia di partecipare ad un movimento dialettico, tipicamente hegeliano che,
nella negazione di quanto già dato, vede al tempo stesso una conservazione di ciò che è stato
negato su un piano diverso e, nell’affermazione, la contemporanea posizione di un negativo.
Pertanto la dimensione ostacolante del katéchon va sempre di pari passo con una promozione
di ciò che è ostacolato in una diversa e superiore dimensione» 294.

Con questo articolo, si esauriscono le precisazioni di Schmitt sull’argomento degne di


nota295.

293
«όreyer custodisce l’essenza non conservatrice del pensiero hegeliano come katéchon» (Ivi, 256).
294
Ivi, 256.
295
Il concetto viene ripreso successivamente solo nel 1970 in Politische Theologie II. Die Legende von
der Erledigung jeder Politischen Theologie (Teologia Politica II), in polemica contro Peterson (morto nel
1λθί), interrogandosi sull’esatta concezione di Eusebio di ἑesarea riguardo alla sua idea dell’Impero
romano come freno all’Anticristo. Peterson individuava il katéchon nell’incredulità degli Ebrei ed
indicava in Eusebio il fondatore (e in Schmitt l’epigono) di una inaccettabile teologia politica che avrebbe
corrotto il fine e i contenuti del cristianesimo.

89
5.3 Elementi agostiniani in Schmitt

Quasi in ultima battuta, in che misura la riflessione di Schmitt sul mistero della storia
può dirsi agostiniana in maniera almeno parziale?296

Anzitutto bisogna ricordare che la figura di Agostino svetta gigantesca da quindici


secoli nel panorama culturale occidentale in generale e tedesco in particolare. Non desta
nessuna meraviglia che il riferimento ad Agostino sia presente in Schmitt fin dal suo
saggio presentato per l’esame di abilitazione come giurista Der Wert des Staates und die
Bedeutung der Einzelnen297, nel 1914.

Pochi anni dopo, nel contesto delle celebrazioni per i quattrocento anni della Riforma
Luterana, Schmitt entra in polemica sia contro un’opera recente di un discepolo di von
Harnak298, Heinrich Scholz (che nella sua opera interamente dedicata al De civitate Dei
ed edita nel 1911, Glaube und Unglaube in der Weltgeschichte. Ein Kommentar zu
Augustinus de civitate dei, indica le realtà incommensurabilmente distanti create dai due
principi della Città di Dio e quella degli uomini, cioè rispettivamente la fede e
l’incredulitàέ δa ἑhiesa è il Regno di Dio, invisibile e trascendente) sia con l’ormai
classica tesi del canonista protestante Rudolf Sohm (è del 1892 la sua già citata
affermazione: «Das Kirchenrecht steht mit dem Wesen der Kirche im Widerspruch».
Per la teologia liberale l’evidente carattere giuridico della Chiesa cattolica era anche
l’evidente sconfessione del suo carattere spirituale).

Nel 1917 dunque Schmitt, col suo saggio Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine
scholastische Erwägung (La visibilità della Chiesa)299, combatte sia il diffuso

296
Secondo Trapè l’agostinismo autentico, quello di Agostino, non è che unoέ ἑhi si riferisce ad esso o
sceglie Agostino come suo maestro e ne vuol continuare il pensiero, o ne assume solo alcuni principi: nel
primo caso l’agostinismo può dirsi integrale, nel secondo parziale.
297
«Il diritto è per lo Stato, per usare un’espressione di Sέ Agostino, “origo, informatio, beatitudo”» (δa
citazione è riferita a De civitate, II, 11, 24). Per Schmitt «non il Diritto è nello Stato, ma lo Stato è nel
dirittoέ […] La citazione agostiniana non è usata per separare città celeste e città terrenaέ […] Lo Stato si
trova, dunque, in una situazione paradossale: definito dalla territorialità è necessariamente un soggetto
plurale, perché esistono molti stati e non uno soloέ D’altra parte, ogni Stato, per sé, rivendica di incarnare
il diritto ed è, pertanto, tendenzialmente “cattolico”μ lo vuole necessariamente anche esportare». G.
Parotto, Schmitt interprete di Agostino, Heliopolis, XII, 2, 2015, 20.
298
Secondo Harnak (nella sua opera Das Wesen des Christentums) il cattolicesimo romano come Chiesa
esteriore non ha nulla a che vedere col Vangelo, anzi lo contraddice profondamente.
299
Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastische Erwägung, in Summa, 1 (1917-1918), trad. it., C.
Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, a
cura di C. Galli, Giuffré, Torino, 1986.

90
«sentimento antiromano»300 sia la riduzione «impolitica» della religione alla sfera
privata, mantenendo le tesi profondamente agostiniane addotte anche dai suoi
avversari301, ma interpretandole in maniera cattolica, confutando con precisione la tesi
protestante che Agostino nel De civitate avesse contemplato soltanto una Chiesa
invisibile e niente affatto giuridica ed incarnata. Un suo riferimento a De civitate
XIV,22, serve al giurista per affermare addirittura «che l’ordine giuridico ed
istituzionale non è una conseguenza deleteria dello status peccati, ma autentica
espressione della mediazione divina. “La legalità del visibile è parimenti buona per
natura” e “la regolamentazione giuridica dei rapporti umani esisteva prima della
malvagità e del peccato”» 302.

Dagli esordi da giurista passiamo direttamente al suo tramonto, come uomo anziano e
messo in disparte: nel 1972, pur vedendosi «(quasi fossi in televisione) come un uomo
vecchio e fragile»303, Schmitt concesse un’intervista radiofonica, poi pubblicata in una
versione a stampa tre anni dopo, che va a tutto campo «dall’infanzia “nella diaspora
cattolica” al katechon, la forza che trattiene l’Anticristo, dalla consolazione offerta
dall’idea di possedere “la vera religione nel giorno del ύiudizio” (malgrado le sconfitte
subite nelle risse coi compagni di scuola evangelici) alla domanda di Agostino “ἑhi mi
garantisce la vittoriaς”».304

Quasi alla fine del primo dei quattro audionastri (complessivamente formati da
diciassette spezzoni di conversazione) che costituiscono il colloquio, sviscerando la
funzione svolta dai grandi parallelismi305 all’interno della filosofia occidentale della
storia, Schmitt si rivolge al suo interlocutore affermando esplicitamente: «Le do un

300
Addirittura, l’opera di poco posteriore «Cattolicesimo romano e forma politica si può considerare un
“contromodello metacritico” di L’etica protestante e lo spirito del capitalismo», la celebre opera del
luterano M. Weber (G. Magrì, Dal volto alla maschera, 206).
301
Come l’ansia escatologica di fronte alla morte e il sentimento religioso che ciascun individuo deve
risolvere personalmente ed interiormente nel proprio rapporto con Dio; oppure anche concepire il potere
politico, legato alla realtà esclusivamente mondana, come «imitazione di Dio», potenzialmente
demoniaca, quasi arrogante caricatura dell’ordinamento divinoέ
302
G. Parotto, Schmitt interprete di Agostino, 25.
303
C. Schmitt, Imperium, 13.
304
Ivi, 16.
305
Schmitt fa riferimento al continuo evocare del «grande parallelo», categoria antieuropea del russo
Aleksandr Ivanovič Herzen (1812-1870), in funzione viceversa per l’Europa da parte di Marx ed Engels
nella loro progressista filosofia della storia. Nel periodo intorno ai moti del 1848 Herzen, ritenendo
assurdo il ritorno alla ἑhiesa ἑattolica dell’Europa come via indicata per la salvezza dal suo
contemporaneo Donoso Cortés (1809-1853), gli contrappose la versione socialista del grande parallelo.
Secondo Schmitt, Herzen era fermamente convinto che ai socialisti rivoluzionari del XIX secolo spettasse
un ruolo storico analogo a quello dei cristiani del I secolo, e ridusse Donoso alla parte di un apostata
reazionario.

91
consiglioμ si legga Agostinoέ σei suoi scritti, infatti c’è già tutto [anche in riferimento ai
grandi paralleli]».306 Il giurista depreca che «quello stupido di Adolf» non si fosse
comportato come Costantino e, secondo «i grandi paralleli» affianca l’epoca storica
dell’uscita dei cristiani dalle catacombe e quella subito seguente delle invasioni
barbariche con suo periodo storico contemporaneo: in esso lo stesso presidente cinese
Mao Tse-tung307 viene associato alla funzione di katéchon per il suo ruolo nella
rifondazione di tutta una élite intellettuale durante la rivoluzione cultuale.

δ’intrecciarsi di attese e di ritardi, di freni e di acceleratori viene vista come una vecchia
questione che emerge in san Paolo, sant’Agostino e Albert Schweitzer, in Trotzkij ed
Engels; non a caso la riflessione schmittiana si autodefinisce una «teologia politica» in
quanto si tratta di una filosofia della storia che consiste in una trasposizione concettuale
all’interno di una sintesi sistematica della dottrina della Chiesa cattolica e dello Jus
Publicum Europaeum. È per questo che qui Schmitt può affermare:

«Il mondo è al tramonto. Domani sarà tramontato perché è corrotto. Ciò equivale
esattamente anche a quanto sotto sotto vorrebbe anche un anarchico rivoluzionario, il quale
diceμ “Quand’e allora che viene il Regno della libertàς σon s’intravvede ancora niente del
Regno della libertàς Perché non arrivaς” Questo è lo schema che io chiamo teologia politicaέ
ἑiò potrebbe voler dire che l’inventario delle possibili risposte a tali domande è ormai
esaurito. Invece non è così.

Primo: perché noi non possiamo sapere con altrettanta esattezza quello che Dio sa. La storia
non è calcolabile come un orario ferroviario o come un’eclissi lunare e similiέ

Secondo: perché, continuando ad esserci alcune cose – sì, i peccatori – a tenere a freno
[halten es auf] la venuta della fine, continuano ad esserci viceversa anche alcuni giusti che
pregano.

Una volta, per mia informazione personale, ho fatto anche una lista delle cosiddette forze
frenanti, a partire dalla “forza frenante” [die Aufhalter, vom “Aufhalter” her]. È

306
C. Schmitt, Imperium, 66.
307
Sulla distruzione dell’establishment del partito comunista cinese ricostruito da Mao ex novo, Schmitt
osservò: «Simili avvenimenti mi ricordano la storia del cristianesimo, che ebbe inizio con una totale
negazione del mondo di allora, dell’Impero romano […] nelle catacombe del territorio romano,
letteralmente nel sottosuolo […] E come va a finire questa negazione totaleς ἑon ἑostantino, religione di
stato e infine con l’immancabile arcivescovo romanoέ Un’organizzazione così ben centralizzata che a
fatica se ne potrebbe dare al mondo una più completa» (J. Schickel, Gespräche mit Carl Schmitt, Merve,
Berlin, 1993, 25).

92
sorprendente, c’è di tutto, a cominciare dall’Imperatore del Sacro romano impero fino al
gruppo dei “Tranquilli della terra” [un gruppo di pietisti e mistici tedeschi]

Lei si chiederà che significato abbia tutto ciò. Ma quando penso alla storia, alla storia
contemporanea, vedo che tale schema si ripete, anche nel caso dei marxisti. Il nostro Trotzkij
diceμ “Sì, il salto nel regno della libertàέ ἑi si può immaginare che per compierlo non
servano che un paio di minuti, invece può volerci un’intera epoca…”έ È la risposta di
Trotzkij. È anche quella di Agostino. Ma questa però è una vecchia questione». 308

Il discorso poi si sposta su Engels, sull’escatologia ritardata in Albert Schweitzer e sul


σuovo Testamento, in particolare sull’immancabile Seconda lettera ai Tessalonicesi;
infine è proprio su Agostino e sul suo De civitate che termina questo primo nastro
audiofonico che raccoglie la conversazione tra Schmitt, Figge e Groh:

«Un compendio dei modi in cui ci si è rappresentati il katechon, non l’ho ancora scritto. Sì,
ci sto lavorando. Agostino risponde309 lui è sempre cauto, guardiamo cosa dice. Dice:
“Ignoramus”έ (“Ignorabimus”, stavo quasi per direέ) – Ridacchia. – Quindi: Noi non
sappiamo quando arriverà la fine. Non si conosce né il periodo né il momento. Questa è la
questioneέ E poi Agostino diceμ “σon è assurdoς”έ Alcuni dicono che non absurde è che
fosse l’Impero romano a essere il katechon – noi però non lo sappiamo. Per di più è soltanto
un… ecco la questione di cui si sta parlandoμ cos’è allora questo katechon) La mia opinione
è che s’intenda nel senso di ho katechon. In un passo – dev’essere Ts β,θ, credo – si dice
prima “ho katechon”, e subito dopo “to katechon”έ Dunqueμ prima al maschile e poi al
neutro. Ciò non significa altro che questo: ho katechon è l’imperator che di volta in volta
regna, mentre to katechon è l’imperiumέ E fin tanto che c’è l’imperium, anche il mondo non
tramonterà». 310

La Germania in cui Schmitt ha vissuto, osservato e scritto era quella dove (come
reazione ad un cristianesimo moderno incapace di sollevare energie e desiderio di
cambiamento) sorse l’ateismo di Nietzsche, era quella dove la diagnosi di Spengler
segnava anche il tramonto degli ultimi residui dell’Europa cristiana, una ύermania dove
ogni segno di crisi può anche essere letto nel senso della nostalgia e in cui molti

308
C. Schmitt, Imperium, 68.
309
Agostino, De civitate, XX,19. Abbiamo già presentato questo passo: si veda la nota 138.
310
C. Schmitt, Imperium, 70.

93
intellettuali cattolici scorgevano quasi l’illusoria possibilità di un «ritorno al
Medioevo». Si trattava di un abbaglio che però Schmitt311 (al pari di Guardini312, di
Voegelin313 e di Maritain314) non condivideva ed è ancor più per questo che diventa
significativo il legame con un pensatore mai «antico» (né tantomeno «vecchio») come
Agostino, capace molto più di altri Padri della Chiesa o di Teologi medievali di fare da
tramite fra il Cristianesimo dei primi secoli e la Modernità.

Come si è cercato brevemente di presentare, Agostino viene esplicitamente citato o


rimane comunque sempre presente sullo sfondo dagli albori fino alla piena maturità del
pensiero di Schmitt: pur non essendo prettamente teologo, in lui emerge sempre una
acuta capacità di ritradurre categorie antiche in una lettura contemporanea (ed
escatologica). Così è per il parallelismo tra la lettura che Agostino nel De civitate
fornisce sul significato del «mare» («ragionevolmente alcuni ritengono che in questo
passo il mare sta a significare il tempo presente»315) e la contrapposizione schmittiana
fra l’elemento terrestre e quello acquatico (specie in Land un Meer). Più volte,
inserendosi in un solco molto antico, il giurista di Plettenberg viene a trovarsi
sostanzialmente d’accordo sia con il Vescovo di Ippona che con il Visionario di Patmos
sulla scomparsa escatologica del mare a favore di una terra nuova, allargando poi la
propria riflessione alla natura insulare dell’Inghilterra (e di quella «isola maggiore» che

311
Taubes vede in parallelo Walter Benjamin e Schmitt come profeti di una svolta teologica del XX
secolo: Benjamin intento a costruire febbrilmente la sua improbabile teologia marxista, e Schmitt
apologeta di una teologia reazionaria (addirittura, nel 1930 Benjamin riconobbe il proprio debito
intellettuale verso Schmitt in una lettera a quest'ultimo, un documento così imbarazzante che Scholem e
Adorno decisero di escluderlo dall'edizione dell'epistolario benjaminiano del 1966). Si veda J. Taubes e
C. Schmitt, Briefwechsel mit Materialien, Fink, München, 2011. O anche J. Taubes, In divergente
accordo. Scritti su Carl Schmitt, Quodlibet, Macerata, 1996.
312
Si veda il già citato G. Magrì, Dal volto alla maschera.
313
Per una filosofia della storia resta significativa la distinzione istituita da Eric Voegelin tra storia
pragmatica e storia paradigmatica. Fino al 1938 Voegelin cita Schmitt solo attingendo alle sue opere di
un decennio prima (precedenti all’adesione del giurista al nazionalsocialismo)έ Dopo tale data i
riferimenti a Schmitt si fanno ancora più rarefatti. Si veda De la théologie politique à la religion
politique: Eric Voegelin et Carl Schmitt, in T. Gontier, D. Weber, Eric Voegelin. Politique, religion et
histoire, Éditions du Cerf, Paris, 2011, 45-66.
314
Maritain negli anni Venti, quando era vicino al movimento dell’Action française e a Maurras, ha una
relazione culturale e una corrispondenza epistolare con Schmitt. Entrambi fieri avversari del positivismo,
giungono su posizioni divergenti;è soprattutto poi «in Umanesimo integrale che Maritain sviluppa la sua
critica a Schmitt, rilevando una confusione tra la teologia e la politica. Dopo avere ricordato che poco
prima di scrivere questo libro aveva ricevuto un manifestino pubblicato da un gruppo di giovani tedeschi,
discepoli di C. Schmitt e partigiani del nuovo regime, che lo accusavano di avere affermato che “l’ideale
del Sacro Impero è un ideale scaduto, per cui bisogna sbarazzarsene l’immaginazione” (VI, 4ηθ), afferma
che non bisogna confondere il Regno di Dio con la società civile» (P. Viotto, Grandi amicizie. I Maritain
e i loro contemporanei, Città Nuova, Roma, 2008, 233).
315
Agostino, De civitate, XX,15. È ricorrente nell’Antico Testamento (ad esempio Sal 97,7) e nella
letteratura profana (Eschilo, Theb. 758-760; Virgilio, Aen. 5,790) la similitudine tra il mare e la vita
dell’uomo nel tempo.

94
è l’America316) che in tal modo dovrebbe mai riuscire ad avere davvero l’ultima parola
sulla realtà continentale317 europea.

«Riguardo alla frase: Non v'è più il mare, non saprei dire se si prosciugherà con quello
straordinario calore o se anch'esso si trasformerà in meglio. Abbiamo letto che vi saranno un
cielo nuovo e una terra nuova, ma non ricordo di aver letto alcunché da qualche parte sul
mare nuovo, salvo la frase che si ha in questo stesso libro: Come un mare di vetro simile al
cristallo. Ma in quel passo non parlava della fine dei tempi e non sembra che abbia usato
“mare” con significato proprio, ma come mare. Tuttavia anche in questo passo, siccome il
linguaggio profetico ama mescolare il parlare figurato con il proprio e così in un certo senso
velare quel che si dice, ha potuto dire di quel mare: E non v'è più il mare, come prima aveva
detto: Il mare restituì i morti che in esso erano. Allora infatti non vi sarà più questo tempo,
agitato e turbolento con la vita degli esseri posti nel divenire, che ha espresso figuratamente
con la parola “mare”» 318.

Collegando questo stesso capitolo β1 dell’Apocalisse con la volontà britannica di far


inabissare l’isola tedesca di Helgoland 319 (che filologicamente significa Terra sacra) in
un misto di concretezza ed escatologia, il 16 e il 19 gennaio 1948 Schmitt si interroga
dolorosamente nel proprio diario:

316
«[σel saggio del 1λί4 dell’ammiraglio americano εahan] appare piuttosto la necessità di mantenere il
dominio anglosassone sui mari del mondo, il che può avvenire solo su base “insulare”, mediante l’unione
tra le due potenze angloamericane. In seguito allo sviluppo moderno, l’Inghilterra stessa è diventata
troppo piccola, e quindi non è più isola nel senso inteso finoraέ Sono piuttosto gli Stati Uniti d’America la
vera isola contemporanea. È un fatto di cui non ci si è ancora resi conto, sostiene Mahan, a causa della
loro dimensione, ma che corrisponde ai parametri e alle proporzioni attuali. Ora, il carattere insulare degli
Stati Uniti dovrebbe garantire la salvaguardia e la prosecuzione del dominio del mare su base più ampia.
δ’America sarebbe, insomma, l’isola maggiore che perpetuerebbe la conquista britannica del mare e la
proseguirebbe su più vasta scala come dominio del mare angloamericano sul mondo intero» (C. Schmitt,
Terra e Mare, 103-104).
317
όermo restando che l’estensione e il carattere non sono misurabili anzitutto geograficamente, quanto
piuttosto spiritualmente: «Gli spazi russi sono sterminati, ma gli spazi spirituali della terra fra la Mosella
e la Saale, la Frisia e la Brisgovia, sono di gran lunga più ampi e profondi» (C. Schmitt, Glossario, 12).
318
Agostino, De civitate, XX, 16. Il commento è su Apocalisse 21,1.
319
Arcipelago composto da due isole (Helgoland ed Helgoland-Düne), delle quali nessuna supera 1 km²
di superficie, costituisce un comune di 1.267 abitanti, situato nel land dello Schleswig-Holstein, a sud-est
del Mare del Nord. Appartenuto alla Danimarca e successivamente al Regno Unito, passò alla Germania
nel 1890 in virtù del trattato di Helgoland-Zanzibar. Quando il 18 aprile 1947, la Royal Navy fece
esplodere 6.700 tonnellate di esplosivi (ricordata dagli abitanti del luogo come Big Bang o British Bang),
realizzò una delle maggiori detonazioni non nucleari della storia.

95
«Che significa Ap., 22,1[così nel testo]μ nuova terraς Senza mareς Un’utopiaς Qual è il
significato della distruzione dell’isola di Helgoland nel 1λ4ι-48? Un pezzo di terra è reso
uguale al mare, sprofonda in esso; la popolazione viene evacuata. Non era mai successo nella
storia. Utopia; trasformazione di una localizzazione molto forte in un niente.
Annientamento»320.

«Stamattina ho riflettuto sul piano inglese di distruggere Helgoland: il sacrilegio è compiuto


direttamente contro gli stessi elementi; di solito è la terra a venire strappata al mare. Qui,
invece, la terra viene inabissata nel mare; terra abitata, patria di uomini, terra sacra distrutta
in modo sacrilego, distrutta in quanto terra, per motivi militari. Terribile. Durante la guerra
abbiamo tremato dinanzi al programmato scelus infandum di riprecipitare Leningrado nelle
paludi; méchant et néfaste»321.

6. Conclusioni

«Ogni epoca è sempre stata la peggiore. E se ve ne sono state di veramente peggiori, si tratta
di quelle che produssero gli eventi più grandi. S. Agostino, questa fiaccola luminosa che
ancora ci illumina, verso la fine della sua vita, era un piccolo vescovo assediato dai barbari,
che vedeva crollare il grande impero, la cui storia sembrava confondersi con quella del
mondo... È nel VI secolo, “epoca di perpetue minacce e di afflizione”, mentre l’Italia era in
balìa dei Goti e dei Longobardi, che la Liturgia romana, questa opera tanto meravigliosa,
acquistava la sua maggiore ricchezza... In pieno XIII secolo, il grande secolo della
Cristianità, il più grande, quello che desta tanta nostalgia, quello che non tornerà più, la
Cristianità credette giunta la sua ultima ora. Nessun grido di dolore universale può essere
paragonato al discorso pronunciato da Innocenzo IV, nel 1245, a Lione, nel refettorio di
Saint-Just: costumi abominevoli di prelati e di fedeli, insolenza dei Saraceni, scisma dei
Greci, sevizie dei Tartari, persecuzione di un imperatore empio... queste le cinque piaghe
della quali muore la Chiesa; per salvare il salvabile che tutti si mettano a scavare delle
trincee, solo rimedio contro i Tartari... “Questo secolo è un secolo di ferro!” gemeva
Marsilio Ficino, nel XV secolo a Firenze! Non vi è materia sufficiente per infonderci
coraggio?»322.

320
C. Schmitt, Glossario, 118.
321
Ivi, 122.
322
H. De Lubac, Paradossi e nuovi paradossi, (Già e Non Ancora 172. Opera Omnia di Henri De Lubac
4), Jaca Book, Milano 1956, 1989, 95.

96
Secondo l’annotazione di De δubac, i tempi peggiori hanno prodotto gli eventi più
grandiμ ed è così che, nel crepuscolo di un’epoca, sia il secolo V che il XX hanno
prodotto profonde speculazioni e sistematizzazioni riguardo alla Storia e al suo
significato.

Questa Tesi si è soffermata in particolare sulla risposta che il vescovo Agostino e il


giurista Schmitt hanno tentato di dare agli interrogativi e alle preoccupazioni della
propria epoca: sono evidenti i punti di contatto, che dipendono dalla comune fede
cristiana e dal basarsi sulla Rivelazione neotestamentaria; è altrettanto evidente che il
millennio e mezzo che separa i due autori li porta senz’altro ad avere diverse sfumature
e sensibilità.

Si può comunque ragionevolmente sostenere che la riflessione di Schmitt (sorta nella


consapevolezza di vivere all’interno dell’Europa e non più della Cristianità, quando il
trascorrere dei secoli aveva già prodotto un ventaglio diversificato di Agostinismi
differenti tra di loro) va oltre quella di Agostino, ma certamente non contro.

σelle annotazioni autobiografiche stese nell’immediato dopoguerra (in data 11έ1έ1λ4κ)


nello scambio epistolare con Pierre Linn, lo stesso Schmitt si paragona con l’abate san
Severino323 (410-482, consulente e confidente del re τdoacre, colui che depose l’ultimo
Imperatore romano d’occidente), un santo del periodo immediatamente successivo ad
Agostino:

«Votre conversation avec moi n’est pas celle de ἐoethius avec le roi visigothe Théodericν
elle me paraît plutôt celle d’un sénateur en Aquitanie avec Saint-Séverin, le Saint du 8.
Janvier, qui en 500 vivait en Noricum. La parallèle historique est conforme avec la parallèle
que vous construisez avec les temps de Charlemagne. Les différences dont vous parlez ne
sont que des semblantes. Abstraction faite de 200 ans (1713-1λ14) l’Europe chrétienne a été
toujours une chose pitoyable, envahie de tous les côtés; le temps 1713-1λ14 aussi n’était
qu’un intervalle éphémèreέ σous sommes toujours – comme en 500 ou 800 – dans le “aion”

323
Patrono principale di Austria e Baviera, con notevole abilità organizzativa e amministrativa, supplì
all'assoluta assenza di controllo da parte di Roma nel Norico (attuale Austria), occupandosi della cura sia
religiosa che materiale e della difesa militare (comunque subordinata alla più fine diplomazia) contro i
barbari che premevano al confine orientale. La situazione di frontiera del Norico è ben illustrata in C.
Wickham, L’eredità di Roma, 82.

97
chrétien, toujours en agonie, et tout évènement essentiel n’est qu’une affaire du “Kat-echon”,
c’est-à-dire de “celui qui tient”, qui tenet nunc»324.

Va dato il giusto peso al fatto che mentre Agostino sentì parlare del saccheggio (e non
della caduta) di Roma e scrisse il De civitate ben prima di vedere la sua città di Ippona
assediata dagli invasori barbari, Schmitt visse sulla propria pelle le due Guerre
εondiali (che tolsero il predominio all’Europa e ridussero la sua nazione in cenere e
rovine) e scrisse il Nomos della terra quando la Germania era ancora divisa in due e
sotto tutela della quattro potenze vincitrici.

Di un battito di ciglio o di un millennio e mezzo, Schmitt si sente spiritualmente


posteriore ad Agostino. Ciononostante, nella riflessione del Giurista di Plettemberg non
si trova molto distacco dalle categorie del pensiero del Vescovo di Ippona e, se messa a
confronto, essa non appare neanche eccessivamente crepuscolare e segnata dal
pessimismo. In entrambi ciò che traspare (in maniera più evidente nel Dottore della
Chiesa, in maniera più implicita nel Kronjurist) è la fede cristiana, che conduce
inevitabilmente (ma anche faticosamente) alla virtù sorella della speranza. Secondo le
parole di Cornelio Fabro, «il cristiano è illuminato, dalla sua origine fino al termine dei
secoli, dalla luce della fede che svela l'inserzione del tempo nell'eternità con la
creazione e dell'eternità nel tempo con l'Incarnazione, dipanando il guazzabuglio della
storia, dei suoi errori e orrori, come una trama di storia sacra qual è il progetto
“nascosto dai secoli in Dio”».325

Fermo restando che «una verità storica è vera una volta sola»326, sia la grande sensibilità
umana che la profonda fede religiosa consentono ad entrambi questi autori di non
risultare mai datati nelle loro osservazioni e nel procedere del loro pensiero. Se
sull’eccezionale ruolo di Agostino nella cultura occidentale 327 in molti si sono già

324
C. Schmitt, Glossario, 112.
325
C. Fabro, Gemma Galgani. Testimone del soprannaturale, Ed. Cipi, Roma, 1987, p. 22.
326
C. Schmitt, La contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente, in C. Schmitt – E. Juenger, Nodo
di Gordio, dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, Il Mulino, Milano, 2004, 166.
327
«Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile,
questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il
cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella
vita culturale dell’τccidente e di tutto il mondoέ Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un
influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina
cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu
Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e, dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade
del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale. Di rado una civiltà ha trovato uno spirito

98
espressi, anche riguardo a Carl Schmitt lo scorrere del tempo conduce a riscoprire
quelle felici intuizioni e categorie che seppe delineare nelle sue opere: il significato
paradigmatico di concreti episodi della storia europea328, la messa in guardia contro
ogni illusione di tipo irenista329 (come quella teorizzata da F. Fukuyama nella sua
famosa tesi della fine della storia330), la caparbia volontà di scorgere nuove strade – pur
tra le inevitabili difficoltà – nel cammino dell’umanitàέ Se nel corso dei secoli (nelle
opere dei classici pagani, o nell’analisi di Spengler, o ultimamente nella diagnosi di
Fukuyama) viene continuamente additato un presunto tramonto delle vicende terrestri,
viceversa (inserita nelle medesime vicende storiche) la voce della cristianità continua a
ribadire – per usare una felice espressione di Marrou – che «la fine del mondo non è
domani. Ma inizia già oggi»331.

Quando all’orizzonte si scorgono rutilanti bagliori, è comunque riconosciuto come il


rossore di un’alba, piuttosto che di un tramonto: è questa la comune lettura teologica

così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme
di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VIμ “Si può dire che tutto il pensiero
dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la
tradizione dottrinale dei secoli successivi”έ» (ἐenedetto XVI, Udienza generale, 9 gennaio 2008).
328
«Dall’odierna prospettiva dell’Unione Europea, siamo portati a guardare con maggiore simpatia – o
almeno con minore disprezzo di un tempo – all’ormai scomparso mosaico imperiale dell’Austria-
Ungheria asburgica. Infine, oggi è forse più facile vedere che non è opportuno liquidare le due uccisioni
di Sarajevo come un semplice incidente non in grado di condizionare veramente gli eventiέ δ’attacco alla
Torri ύemelle dell’11 settembre βίί1 ha mostrato come un unico, simbolico evento – per quanto
profondamente intrecciato a processi storici più vasti – possa modificare irrevocabilmente le dinamiche
politiche, rendendo obsolete le vecchie opzioni e conferendo alle nuove un’imprevedibile urgenza» (C.
Clark, I sonnambuli, XIX).
329
«Ciò implica la possibilità di un equilibrio di forze, un equilibrio di vari grandi spazi, che creino tra
loro un nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello, e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo,
dotato di certe analogie con il diritto delle genti europee dei secoli XVIII e XIX, che pure si basava su un
equilibrio di potenze grazie al quale si conservava la sua struttura. Anche lo ius publicum europaeum
implicava una unità del mondo. Era un'unità eurocentrica; non era il potere politico di un unico padrone di
questo mondo, ma di una formazione pluralista e un equilibrio di varie forze. I numeri dispari (tre, cinque,
ecc.) sono qui preferiti rispetto ai pari, perché rendono meglio possibile l'equilibrio. È molto probabile
che l'attuale dualità (il riferimento è al bipolarismo scaturito dal termine della II Guerra Mondiale N.d.R.)
del mondo sia più vicina ad una pluralità che all'unità definitiva, e che siano troppo affrettati i pronostici e
le combinazioni dell'one world» (Carl Schmitt, L'unità del mondo, 1951). Si veda la nota seguente per
capire quanto Schmitt fosse stato preveggente con quasi mezzo secolo di anticipo sull’inevitabile esito
della guerra fredda.
330
«εeno di un quarto di secolo fa, nell’estate del 1989, Francis Fukuyama poteva audacemente
profetizzare “l’intrepida vittoria del liberalismo politico ed economico… il trionfo dell’τccidente” e
proclamare che “il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità” era “l’universalizzazione della
democrazia liberale occidentale come forma definitiva del governo umano”έ Quanto appare diverso il
mondo oggiέ Il “liberalismo economico” è un marchio di fabbrica screditato, e in ἑina e altrove i
sostenitori del “capitalismo di Stato” irridono apertamente la democrazia occidentaleέ δ’τccidente
ristagna, e non solo sul piano economico» (N. Ferguson, Il grande declino. Come crollano le istituzioni e
muoiono le economie, Mondadori, Milano, 2013, 3)έ Se l’irenismo post-liberale di Fukuyama può trovare
i suoi fondamenti nella diagnosi neopagana di O. Spengler, viceversa la contrapposta tesi dello «scontro
di civiltà» di R. Huntington sembra più aderente alla riflessione schmittiana (specie sui «grandi spazi») e
soprattutto al reale andamento delle vicende umane.
331
H. Marrou, La fine del mondo non è per domani, La Medusa, Milano, 2011.

99
della Storia che emerge dall’analisi degli scritti di Agostino e di Schmitt (soprattutto,
rispettivamente, nel De civitate e nel Nomos della terra), dove quest’ultimo si spinge
oltre la riflessione del primo, ma non certo contro.

In conclusione, si può ritenere che entrambi – l’uno più con un sorriso, l’altro forse con
un sospiro – sottoscrivano senz’altro la nota affermazione paolina: «diligentibus Deum
omnia cooperantur in bonum»332.

332
Rm 8,28.

100
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104
Indice

0. Presentazione della Tesi ........................................................................................................ 3


0.1 Il contesto storico di Agostino ................................................................................................ 3
0.2 Il contesto storico di Carl Schmitt ........................................................................................... 7
0.3 Svolgimento della Tesi .......................................................................................................... 10
1. L’o iezio e paga a alla Chiesa: verso il tra o to del o do ............................................... 12
1.1 La vecchiezza del mondo ...................................................................................................... 13
1.2 I cristia i visti co e ale dell’I pero .................................................................................. 15
1.3 Anno 382: una tappa significativa di uno scontro inevitabile ............................................... 18
1.4 Storia e mondo per i pagani e per i cristiani: una inconciliabile differenza .......................... 21
1.5 La senectus mundi ella cristia ità, soprattutto dell’Africa ro a a ................................. 25
2. La risposta teologico-politica di Agostino ............................................................................. 27
2.1 Il solco già tracciato dell’apologetica cristia a ..................................................................... 28
2.2 La riflessione agostiniana sulle età del mondo. .................................................................... 30
2.3 De civitate Dei: la centralità di Cristo e del Regno di Dio ...................................................... 35
2.4 Roma e la Storia nel De Civitate. .......................................................................................... 38
2.5 Storia ed eternità, Impero dei romani e regno di Dio ........................................................... 46
3. Dal V al XX secolo: un raccordo storico-teologico .................................................................. 48
3.1 Da Agosti o all’Agosti is o ................................................................................................. 48
3.2 Dalla Cristia ità all’Europa ................................................................................................... 54
4. L’o iezio e eopaga a di “pe gler: il tra o to dell'O ide te ............................................. 57
4.1 Spengler: dalla Belle èpoque alla crisi del Novecento ........................................................... 58
4.2 L’a alisi della storia di “pe gler el Tra o to dell’Occide te ............................................. 59
4.3 La Rivoluzione Conservatrice ................................................................................................ 68
5. Alla ricerca di u uovo o os della terra : Schmitt e la sua teologia politica ..................... 71
5.1 Il Nomos della terra .............................................................................................................. 72
5.2 Il precisarsi del concetto di Katéchon ................................................................................... 80
5.3 Elementi agostiniani in Schmitt ............................................................................................ 90
6. Conclusioni.......................................................................................................................... 96
Riferimenti bibliografici ..................................................................................................... 101

105

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