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Platone, "La Repubblica", libri VI-VII

All’inizio del VI libro della Repubblica, Socrate riprende la discussione con il discepolo Glaucone
riguardo alla distinzione tra filosofi e non filosofi. Socrate afferma che il filosofo è colui che ha
come obiettivo ciò che sempre permane invariabile: questo è l’oggetto della riflessione filosofica,
che non si occupa della dimensione del mutamento. La polemica qui è contro i sofisti che
individuavano nell’abilità persuasiva la capacità di produrre la realtà, che poteva essere creata a
seconda dell’utilità del discorso. I sofisti per Platone si occupavano solo dell’opinione, della doxa,
che si trova nella dimensione sensibile, nel mutamento e nella variabilità. Al contrario, il filosofo
vede le forme, le idee, che sono modelli trascendenti, immateriali, eterni, ma reali, attraverso cui
si riesce a comprendere e definire la realtà sensibile, e in base a queste dirige lo stato.
Platone elenca le qualità che devono possedere i filosofi, tema che riprenderà alla fine del libro
VII. Le nature filosofiche sono innate, non sono generate dall’esperienza, e sono nature che solo
pochi possiedono. Esse «amano l’essenza che perennemente è»: il filosofo ha una disposizione a
cogliere l’idea, l’essenza nella sua unità e totalità. A causa di questo amore e della corrispondenza
tra la sua natura e l’oggetto amato, il filosofo ha anche altre doti come la sincerità, l’interesse per i
piaceri dell’anima, e per il piano del soprasensibile, e non per gli aspetti particolari e contingenti e
per i piaceri del corpo. Il filosofo è anche dotato di una buona memoria, altrimenti non
ricorderebbe quello che ha appreso, e della capacità di pensare e agire con equilibrio e misura.
Socrate continua il dialogo con un altro discepolo, Adimanto, che gli domanda perché i filosofi
vengano considerati corruttori dello stato oppure inutili alla società. Egli risponde con la nota
allegoria platonica della nave in cui il filosofo è comparato con il vero pilota della nave, che
rappresenta lo stato, il nocchiero con il popolo ateniese e i marinai con i sofisti e i demagoghi. I
marinai, cercano di persuadere il nocchiero, che ha una grande forza fisica ma scarsa conoscenza
di cose navali, a farsi affidare la barra, anche se non sanno come governare la nave, e considerano
inutile il vero pilota, credendo che non si possa raggiungere la conoscenza dell’arte navale. Quindi
l’accusa di inutilità dei filosofi viene dai sofisti e dai demagoghi che sostengono che non ci possa
essere una conoscenza vera della realtà e cercano di persuadere il popolo, tramite la dialettica e la
retorica, a farsi affidare il governo dello stato.
L’altra accusa rivolta a coloro che praticano la filosofia è quella di corrompere lo stato. Questa
accusa viene mossa dagli avversari della filosofia perché essa o è praticata da persone che non
hanno una naturale disposizione ad essa, come i sofisti che affrontano un compito troppo grande
per loro e chiamano sapienza solo ciò che è utile e necessario, oppure da persone che hanno la
disposizione ma non hanno ricevuto un’educazione adeguata. Infatti la natura filosofica può venir
corrotta dalle sue stesse qualità, come la capacità d’apprendere, la memoria e il coraggio, perché
queste la faranno essere prima fra tutte e per questo, senza educazione, l’individuo che possiede
questa natura può diventare arrogante e corrotto. Lo stato deve quindi introdurre una
costituzione ed un’educazione appropriata alla natura e al compito del filosofo, tema che verrà
ripreso nel libro VII.
Adimanto chiede a Socrate quale sia l’oggetto della massima disciplina a cui devono dedicarsi i
filosofi, cioè la dialettica. Socrate risponde che l’oggetto è l’idea del Bene, che dà fondamento alla
realtà e permette ad essa e alle idee di esistere e di essere conoscibili. Essa viene prima di tutte le
altre idee e rende desiderabile la loro conoscenza. Infatti solo ciò che è buono, e quindi che
partecipa dell’idea del Bene, è desiderabile.
Ma che cos’è e come può essere definita l’idea del Bene? Quando Glaucone lo domanda, Socrate
si mostra reticente a rispondere. Questa reticenza di Socrate è ragione di un vasto dibattito
esegetico. Da una parte ci sono le interpretazioni oralistico-esoteriche che sostengono che la
definizione dell’idea del Bene non poteva essere affidata alla scrittura, dato che il mezzo era
considerato da Platone inadeguato per contenerla e quindi che essa sarebbe stata trasmessa
oralmente durante le lezioni dell’Accademia. Secondo questa interpretazione l’idea del Bene
veniva identificata con l’Uno, il principio formale che unisce ed ordina la realtà. Un'altra
interpretazione è quella che afferma che Platone avrebbe lasciato aperto nella Repubblica il
dibattito riguardante questa idea per affrontarlo nuovamente, e in modo più approfondito, in altri
suoi dialoghi come ad esempio il Filebo. Si è anche sostenuto che il Bene non possa essere definito
da Socrate perché esso è al di là dell’essere, e quindi anche della sua conoscibilità. Il Bene non può
essere definito in se stesso ma solo in base ai suoi effetti, che sono i criteri di verità e di valore
delle idee.
Socrate dunque usa una metafora per descrivere il Bene: esso è come il sole che illumina gli
oggetti e li rende visibili e quindi conoscibili; così il Bene “illumina” le altre idee e le dà valore, le
rende pensabili, intellegibili. Esso quindi è causa della conoscibilità ma anche dell’esistenza delle
altre idee. Ma qui sorge un problema: come fa ad essere causa di esistenza delle idee se le idee
sono eterne? In realtà l’esistenza delle idee coincide con la loro stessa essenza e la loro essenza è
quella di essere oggetti di significato e di valore. Il Bene conferisce ad esse questo valore, questa
verità e per questo le “genera”.
Il Bene è quindi «causa di scienza e verità», è la condizione per cui si dà la scienza e senza questo
sia chi governa lo stato sia le singole scienze non possono avere un fondamento. Chi governa, il re-
filosofo, deve conoscere questa idea in vista del bene comune e deve applicarla alla vita
individuale e dello stato.
Alla fine del libro VI Platone descrive i vari livelli di realtà, e quindi di conoscenza, e li compara a
una linea divisa in due segmenti. Il primo segmento rappresenta il mondo intellegibile, e la
rispettiva forma di conoscenza scientifica, e il secondo segmento rappresenta il mondo sensibile e
l’opinione. A loro volta i segmenti sono divisi in due. Il mondo sensibile si distingue tra
rappresentazioni degli oggetti e oggetti. Le rappresentazioni sono le ombre, i riflessi nell’acqua, ma
anche le imitazioni delle arti figurative. Infatti Platone dà a queste ultime un giudizio negativo
considerandole solo come copie di copie che non hanno nessuno scopo educativo. L’altro
segmento del mondo sensibile è formato dagli oggetti, che non sono reali in sé, ma solo in quanto
partecipano delle idee. Essi quindi sono solo oggetti di credenza e quindi la conoscenza relativa ad
questi è l’opinione comune, che non è certa. Anche il segmento del mondo intellegibile può essere
diviso in altri due segmenti. Il primo rappresenta gli enti matematici e la forma di conoscenza che
muove da postulati e assiomi. Le scienze matematiche possono essere chiamate in questo modo
perché trattano di enti che sono astratti dagli enti sensibili e diventano intellegibili e quindi hanno
un carattere stabile e universale. Però allo stesso tempo queste scienze non possono essere
considerate interamente vere e certe per due ragioni. La prima è che per procedere nella
dimostrazione devono rappresentarsi gli oggetti sensibili, che si fondano sulla credenza (come
accade nel disegno geometrico). La seconda ragione è che i postulati e gli assiomi su cui si fondano
non sono dimostrati e quindi non c’è la certezza delle conclusioni. Per questo bisogna trovare una
scienza per eccellenza che le unisca tutte e dia un criterio di verità ad esse, dimostrando od
eliminando le ipotesi e arrivando, tramite un processo ascensivo che termina con l’intuizione, a
comprendere l’idea del Bene. Questa scienza è la dialettica che non è intesa più in senso socratico
come l’arte di generare la verità dentro se stessi attraverso il dialogo, né in senso sofistico come
l’arte di persuadere gli interlocutori, ma come il processo di ascensione discorsivo-intuitivo che
culmina con la comprensione dell’idea del Bene ma anche come il processo discensivo del filosofo
che dopo aver compreso questa idea mette il suo sapere al servizio della comunità. Il tema della
dialettica sarà approfondito nel libro VII anche se Platone non darà mai una descrizione esauriente
di essa.

Il libro VII si apre con il noto mito della caverna. Platone paragona la condizione umana a quella di
prigionieri legati in una caverna con gli occhi rivolti verso la parete della caverna e la schiena verso
l’entrata e che non possono voltarsi. Tutto ciò che vedono sono delle ombre di oggetti proiettati
sulla parete. Dietro di loro c’è un fuoco, tra il fuoco e i prigionieri c’è una strada rialzata ed un
muro che corre lungo la strada, dietro al muro ci sono degli uomini che trasportano oggetti che
sporgono dal margine e vengono proiettati sulla parete. I prigionieri pensano che le ombre
proiettate siano quelle vere, ma se venissero liberati potrebbero voltarsi e vedere i veri oggetti. In
questo caso però giudicherebbero più reali gli oggetti proiettati e, allo stesso modo, se uscissero
dalla caverna e vedessero la luce del sole, cercherebbero di fuggire perché la luce sarebbe troppo
intensa per i loro occhi, abituati al buio della caverna. Allora gli occhi si devono abituare
lentamente alla luce del sole e una volta che i prigionieri riescano a sostenere la sua vista,
proveranno pietà verso i compagni ancora legati nella caverna, e torneranno lì per liberarli.
Così il filosofo è comparato a un prigioniero che, una volta slegato, riesce a vedere il sole, cioè
l’idea del Bene, si libera dai falsi saperi che incatenano l’uomo all’ignoranza, all’inconsapevolezza e
all’arbitrio di uomini che esercitano un potere ingiusto e scende di nuovo nella caverna per
liberare i suoi compagni. Qua però si apre una frattura tra l’esercizio dialettico e quello politico:
perché i filosofi scelgono di scendere nella caverna se dopo aver visto la luce del sole sono convinti
di essere già beati? Inoltre se tornano i loro occhi farebbero fatica ad abituarsi di nuovo al buio
della caverna ed essi non si muoverebbero agilmente, come succede quando i filosofi si trovano ad
affrontare sofisti e demagoghi. Nessuno poi crederebbe al loro messaggio, troppo grande per
essere compreso dalla maggioranza, che preferisce credere alle apparenze e per non ascoltare la
verità cercherebbe di ucciderli: qua si allude alla morte di Socrate che era stato condannato a
morte a causa delle sue parole e del suo essere atopos, fuori luogo.
E’ la città quindi che deve esortare i filosofi a tornare alla vita cittadina, per ricompensare
l’investimento fatto per la loro educazione e inoltre convincendoli che se non facessero ritorno
sarebbero governati anche loro da persone ingiuste. Alla legge poi non interessa che solo una
parte della popolazione trovi una condizione favorevole ma essa vuole mettere in relazione tutti gli
uomini nello stato e cementare la sua compattezza, facendo si che ogni uomo svolga il suo
compito e in questo modo aiuti gli altri a svolgere il loro.
Platone prosegue indicando il programma di formazione che i filosofi dovranno seguire e
riprende così il tema della dialettica. La nuova disciplina a cui si devono dedicare i filosofi «attira
l’anima dal mondo della generazione al mondo dell’essere» quindi deve basarsi su oggetti che
invitano l’intellezione, e non la sensazione, a indagare su cosa essi siano. Viene fatto l’esempio di
un dito che percepito attraverso la vista rimane solo un dito, non presentandosi mai
contemporaneamente con il suo contrario. Se però questo dito viene percepito attraverso il tatto,
esso potrebbe essere considerato duro, una sensazione che non viene mai da sola, ma sempre
accompagnata dal suo contrario, il molle. Questa contraddizione richiama l’anima e l’intellezione
ad indagare sul significato di “duro” e “molle” e le eleva verso il mondo delle idee.
Quali sono le discipline che elevano l’anima? La prima è la matematica: i numeri infatti fanno
apparire la contraddizione tra unità e pluralità, perché ogni numero è se stesso ma è anche la
somma dei numeri precedenti. Un’altra disciplina è la geometria perché astrae dagli enti sensibili e
costruisce le forme intellegibili. Poi come terza c’è l’astronomia che per essere utile al filosofo non
deve basarsi solo sullo studio dei corpi celesti, ma astrarre da questi e dedicarsi allo studio del
movimento degli oggetti dotati di profondità in rapporto ai numeri. La quarta disciplina è la musica
che non viene più identificata con lo studio di uno strumento, che antepone l’udito all’intelletto,
ma con lo studio dell’armonia in rapporto alla matematica.
Tutte queste discipline sono però solo una preparazione e un’anticipazione alla disciplina più
esatta, la dialettica, che elimina o dimostra le ipotesi e arriva a comprendere l’essenza delle cose.
Il processo dialettico non è descritto da Platone analiticamente. Socrate si mostra di nuovo
reticente a dare una risposta a Glaucone, come aveva fatto per l’idea del Bene, e per questo esiste
un vasto dibattito esegetico al riguardo. Infatti non è chiaro come si riesca a raggiungere l’idea del
Bene a partire dagli assiomi matematici e come si faccia a partire dagli assiomi che vengono
dimostrati e derivare da essi i fondamenti delle altre scienze. Forse più semplicemente la ragione
dell’esistenza della dialettica è che essa dovrebbe controllare i procedimenti usati dalle altre
scienze, per fare in modo che non ci siano errori, e criticare i residui empirici presenti. Oppure
un’altra ragione potrebbe essere che, per dare un valore alle scienze e alle azioni dei governanti e
degli individui, ci sia bisogno di un fondamento ultimo, l’idea del Bene. In ogni caso Platone non
darà mai una definizione compiuta della dialettica ma descriverà solo alcune modalità del lavoro
dialettico come l’eliminazione delle ipotesi, che fornisce fondamenti certi alle scienze e le mette in
relazione, la descrizione discorsiva delle idee e il raggiungimento dell’idea del Bene. Quest’ultimo
compito della dialettica è svolto in due modi. Nel primo si giunge al Bene per eliminazione, cioè
togliendo tutte le cose che non possano identificarsi con esso, perché diverse da esso o perché
non lo esauriscono. Questo modo è però giudicato da Platone pericoloso se non praticato
correttamente e da persone mature. Infatti la dialettica viene insegnata a persone troppo giovani,
che la utilizzano per far prevalere il proprio punto di vista, come i sofisti. Per spiegare questo
rischio viene usata la metafora di un giovane a cui viene rivelato troppo presto di essere stato
adottato e non riconosce più così i valori dei genitori adottivi, perdendosi con persone che gli
trasmettono falsi valori, anziché sostituire i primi con valori più fondati. Così questi giovani
finiscono nel nichilismo morale e nello scetticismo tipico dei sofisti.
Il secondo modo del processo dialettico è quello di afferrare il Bene con un atto di intuizione pura
(noesis) e poi, attraverso questa conoscenza, affrontare la discussione con altri individui per
evitare che esso sia identificato in modo erroneo e per riferirlo solo a cose e condotte appropriate.
La dialettica ha dunque due aspetti: uno che resta radicato nel mondo empirico, dato dalla
necessità del dialogo, della comunicazione e della spiegazione degli elementi primi, e un altro che
resta nel mondo intellegibile, attraverso l’intuizione dei fondamenti.
Che qualità devono possedere i giovani ai quali si insegnerà l’arte della dialettica? Platone dice
che essi devono essere coraggiosi, belli e intelligenti, apprendere senza difficoltà, avere una buona
memoria, essere amanti del lavoro e della verità e possedere le virtù della temperanza e della
magnanimità. Fin da piccoli gli si devono insegnare la matematica, la geometria e tutte le altre
discipline propedeutiche alla dialettica e lo studio deve avvenire non in maniera forzata, ma
giocando, in modo da osservare chi ha una naturale disposizione a diventare filosofo. Più avanti li
si deve portare alla guerra per osservarla e, nel caso non ci sia particolare pericolo, anche per
combattere. Dopo averli osservati nello studio e nella guerra si sceglie tra di loro un gruppo
ristretto, quello che si dimostra più preparato. Poi a vent’anni riprendono lo studio delle discipline
precedenti, insegnate questa volta attraverso una visione complessiva dei rapporti di affinità che ci
sono fra di esse, così da capire chi ha una disposizione verso la dialettica. Più tardi, quando
passano i trent’anni si fa di nuovo una selezione: gli si fa provare la dialettica e si individua chi di
loro riesce a raggiungere tramite essa, e non tramite gli altri sensi, la verità e l’essenza delle cose.
Dopo essere stati educati in questo modo i giovani devono ridiscendere nella caverna per fare
esperienza, assumendo cariche militari e pubbliche, e anche qui si deve selezionare chi è adatto a
sostenere questi compiti. Dopo quindici anni, quando ormai hanno circa cinquant’anni, i prescelti
vengono finalmente guidati a vedere l’idea del Bene e a ordinare lo stato in base a questa idea. I
nuovi governanti passeranno la maggior parte del tempo occupati nello studio della filosofia ma
ogni volta gli si chiederà a turno di tornare alla vita politica e governare secondo il Bene.
Platone termina il libro VII affermando che per realizzare questo percorso educativo e formare i
nuovi re-filosofi, si dovranno mandare in campagna, lontano dalle loro famiglie, tutti i bambini che
superano i dieci anni e allevarli non più con i costumi dei genitori ma con i modi e le leggi esposte
in precedenza.
Nella Repubblica in realtà non c’è coerenza riguardo al programma di formazione dei governanti
perché nel libro IV la città appariva governata dal ceto politico-militare degli archontes, che non
avevano una specifica preparazione filosofica. Per questo motivo la Repubblica non può essere
considerata come un trattato di filosofia politica o di tecnica di governo ma essa ha
prevalentemente un senso etico: l’uomo si deve liberare dall’ignoranza e dalle false credenze e
raggiungere una conoscenza vera, senza pregiudizi, vivendo la propria vita individuale e collettiva
attraverso verità e giustizia.
BIBLIOGRAFIA

- Platone, "La Repubblica", a cura di B. Centrone, Laterza, Roma-Bari 2006.


- M. Vegetti, "Guida alla lettura della Repubblica di Platone", Laterza, Roma-Bari 2007.
- F. Adorno, "Introduzione a Platone", Laterza, Roma-Bari 1997.
- P. Porro e C. Esposito, "Filosofia. Vol. I: Filosofia antica e medievale", Laterza, Roma-Bari 2008.

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