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LETTERATURA SPAGNOLA II 1 LEZIONE 2.10.

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Tratteremo in questo corso, con frequenza, di una categoria storiografica che viene definita “siglo de oro”.
In italiano viene tradotto come “secolo d’oro” o “secoli d’oro” e il dibattito in storiografia è ancora
apertissimo attorno a questa nomenclatura, questo dovuto al fatto che dal versante della storia dell’arte il
Barocco corrisponde al 600, mentre su altri versanti disciplinari, tra questi quello critico-letterario inizia a
metà del 500, con la fine del Rinascimento. Alcuni ci piazzano in mezzo un’epoca intermedia, il Manierismo
a precedere il Barocco.

Il siglo de oro corrisponde ad una periodizzazione che va dalla metà del 500, ma esistono limiti post quem:
alcuni dicono che arriva alla metà del 600, mentre per altri finirebbe con la morte di Calderòn della Barca,
intorno al 1680. Da qui la definizione di “secoli d’oro” in italiano, inteso come 500 e 600, mentre in
spagnolo più semplicemente parliamo di Siglo de oro, da metà 500 fino a metà 600 più o meno.

La tradizione italiana si articola principalmente facendo riferimento alle varie epoche, invece la
periodizzazione spagnola è molto marcata da un punto di vista storico-politico (es. Età dei re cattolici, Età
degli Asburgo ecc.)

Noi copriremo tutta la dinastia degli Asburgo fino al problema della mancata discendenza di filippo IV e
l’ascesa dei Borbone, che sono al potere tutt’oggi.

La periodizzazione spagnola tende a vincolare i vari periodi a seconda delle dinastie, questo un po’ accade
in Inghilterra ma neanche tanto, mentre in Spagna c’è una forte dipendenza del mondo culturale alla
politica e al potere. In Italia non poteva essere così perché ancora divisa in tutti i vari regni, quindi era
impossibile.

In Spagna c’è sempre stata la volontà di creare una forte sinergia tra mondo politico e cultura, a partire da
Isabella di Castiglia, cui progetto di unificare il paese si unì in osmosi con quello dell’unificazione della lingua
di Nebrija (che inizialmente voleva diffondere il latino ma che poi, convinto dalla regina, decise di dar vita
ad una grammatica del castigliano). Fu la regina ad incentivare il lavoro di un intellettuale.

E questa fu un’importante differenza con monarchi di altri Paesi che spesso tentavano di frenare ed opporsi
al lavoro degli intellettuali.

Sicuramente i fenomeni culturali furono influenzati dalle situazioni di tipo politico. Uno dei cambiamenti più
importanti fu la fine dell’Impero di Carlo V (quello su cui non tramontava mai il sole)

Già i Re Cattolici erano stati fondamentali per l’attuazione del progetto di unificazione dei territori di
Spagna, ma il passaggio della corona a Carlo e non a sua madre Juana la Loca, consentì che lui ereditasse
non soltanto i territori Austriaci e tedeschi, ma anche quelli della Borgogna, i territori italiani come Napoli
che era già stata proclamata vice regno alla fine del ‘500 con la cacciata dei francesi, i Paesi Bassi, i territori
spagnoli e le colonie oltreoceano, mentre la Lombardia, il Milanesado, sarà sempre una spina nel fianco
perché non arrivò mai ad essere vice regno, ma solo un governatorato spagnolo e fu sempre terreno di
conflitti asprissimi con la Francia che voleva arginare i poteri della Chiesa.

Durante il governo di Carlo V, nonostante il periodo di guerre e forti tensioni all’interno e all’esterno del
Paese, fu caratterizzato da una forte crescita di evoluzione e miglioramento e crescita del paese, mentre
con Filippo II le cose cambiano ed entriamo appieno in un’epoca di crisi e questo sicuramente influì di gran
lunga sul mondo culturale.

Lo scudo, simbolo di Carlo V, aveva la corona imperiale e l’aquila, simboli che verranno persi con la perdita
progressiva dei territori dell’Impero che finirà per diventare solamente un Regno.
Carlo V nel 1556 decise di ritirarsi a Iusse? abdica a favore di suo figlio, ma divide i territori dell’Impero tra
quest’ultimo (a cui affida la corona di Spagna con governatorati annessi come la Borgogna, le Fiandre, il
Milanesado e il regno di Napoli e le colonie dell’America) e il fratello Ferdinando a cui cede la corona
d’Austria.

Per quanto riguarda l’America dobbiamo ricordare che l’aspra conquista delle popolazioni locali continua in
questo periodo ed è solo negli anni 30/36 che fu fondata Buenos Aires, negli anni 60 la Colombia e il Perù
(si tratta di acquisizioni recenti). Filippo II eredita la corona di suo padre e sono questi gli anni in cui iniziano
a manifestarsi i sintomi di una profonda crisi economica, dovuta ad una fortissima inflazione.

La Spagna diventò dipendente dai metalli preziosi, oro argento dell’America, delle materie prime e dei
manufatti e questo provocò una situazione disquilibrio economico fortissimo. La corona fu costretta ad
indebitarsi prima con le grandi famiglie di banchieri e usurai che foraggiavano le casse della corona (I
Fugher ad esempio) e in una seconda fase anche con i Genovesi che si arricchirono sulle spalle dei sovrani
spagnoli con l’aumento delle tasse di interesse e così in ben tre occasioni dagli anni ’60 agli anni ’90 Filippo
II sarà costretto a dichiarare bancarotta.

Problema del conflitto con i protestanti:

Carlo V lascia il potere senza aver risolto un problema enorme, non solo per la Spagna, ma per tutta
l’Europa: la questione delle eterodossie cattoliche. Ormai divenuto insanabile, in alcuni casi fu risolto con lo
Scisma, come in Inghilterra, ma nel mondo cattolico della Spagna fu un problema irrisolvibile.

La spina nel fianco di Carlo V era stato Calvino nelle Fiandre e anche tutti gli altri sovrani cattolici, paladini
della cristianità dovettero far fronte a tutte queste tensioni insanabili.

Il protestantesimo si diffuse in tutto il Nord Europa e i cattolici doverono incassare il colpo, ma nel Sud era
praticamente una questione irrisolvibile. Dopo il colpo inferto dal protestantesimo conquistando tutto il
Nord Europa, sarà l’apertura del concilio di Trento, con il tentativo di risanare la frattura interiore del
granitico edificio della religione cattolica, che non era mai stato messo in discussione fino ad allora, ma che
fondamentalmente non si risanerà mai. Tentarono di recuperare l’unità perduta. Il Concilio di Trento con la
convocazione degli ordini religiosi e degli stati cristiano-cattolici, per recuperare il potere e arginare il
problema del protestantesimo, si dimostrò molto costruttivo di quanto si aspettassero, perché in realtà il
controllo delle coscienze (cioè dei territori) fu quasi impossibile tanto è vero che tentarono in tutti i modi e
con ogni mezzo di distruggere queste correnti. Per la prima volta la Chiesa aveva dovuto certificare,
motivare e provare tutto l’edificio dottrinale su cui era fondata, che fu messo in discussione proprio dalle
diverse correnti protestanti. Da ciò possiamo ben capire come la società fu colpita da questo frattura, da
questo veleno che si inoculò nelle coscienze, soprattutto in quei paesi come la Spagna che aveva strutturato
la propria cultura e società su queste verità tutto il proprio apparato formale e soprattutto la sua forza e il
proprio agire.

Pertanto non deve sorprenderci l’esplosione del misticismo proprio in Spagna e proprio in questi anni. La
frattura delle certezze provocò l’attaccamento al passato. L’unica difesa e strumento per difendersi dalla
perdita delle certezze spesso si tramuta in un ultimo tentativo di aggrapparsi con forza alle certezze che sta
per perdere. Tutto questo fervore religioso (anche al di fuori della dimensione spirituale e religiosa) si
spiega nella ricerca delle certezze nel già noto.

E’ un altro nucleo di problematiche della società: crisi economica, crisi spirituale a cui si aggiunge la crisi
sociale. Dopo un’ampia espansione e crescita delle città, ad un certo punto raggiungono un limite oltre il
quale non possono più andare, non possono più spingersi.
Gran parte della povera gente che viveva nelle campagne si era trasferita nella corte di Madrid, che in
realtà era molto più piccola di città come Barcellona e Siviglia, ma Filippo II scelse come capitale proprio
Madrid che divenne una grande metropoli (già nel 600 inoltrato).

All’inizio la società riesce a sostenere ed assorbire questi flussi migratori, ma poi non riesce più ad assorbire
queste popolazioni che si riversano nel nucleo della città e iniziano a svilupparsi fenomeni come il
vagabondaggio, la presenza di uomini senza impiego nel tessuto sociale della corte e che iniziano a vivere di
accattonaggio, elemosina, vagabondaggio; c’è una frotta di parassitismo sociale fortissima, a cui si
aggiungono gli IDALIGOS, che non fanno più la guerra, non lavorano perché nobili e quindi non possono
lavorare e perciò reclamano tutti i propri privilegi, a cui si aggiungono i conquistatori delle Indie che
chiedono ovviamente le ricompense che gli spetterebbero.

La corona si ritrova ad essere incapace di risanare tutti questi debiti che doveva a questa quota di classi
sociali che vivevano in maniera parassitaria, compresi i nobili.

Per di più all’inizio del ‘500 fino al 1609 continuano gli editti di proscrizione contro i moros e contro i judios
(che prestavano i soldi), perciò la società spagnola perde la fascia dell’artigianato, quella della lavorazione
agricola, i judios e quindi si ritrova a manifestare i primi ma violentissimi segnali di crisi su tutti i livelli,
religioso, sociale, economico con inevitabili conseguenze anche sul piano letterario.

2° Lezione 03-10
Dopo lo splendore del periodo di Carlo V, la Spagna inizia a vivere una lungo periodo di estrema crisi su tutti
i livelli, politico, economico, sociale, che ha dei riferimenti diretti nelle opere letterarie. Situazione che si
evince durante il periodo di Filippo III; le cose sembrano andare meglio con Filippo IV, ma ormai la Spagna si
è consumato in via definitiva quell’ottimismo che aveva ispirato la politica espansionistica e perde quel
primato, l’egemonia che aveva avuto per più di un secolo in Europa.
Filippo II acquisì il nomignolo del “Re Prudente” perché acquisì piena coscienza delle difficoltà che stava
vivendo la corona in quel momento e fortunatamente adottò una politica ispirata ad un principio di
moderazione e contenimento.
Se Carlo V aveva abusato dell’esercizio della guerra (l’età di Carlo V è stata un emergenza continua rispetto
alle esigenze di sedare focolai bellici da tutte le parti, più si espande l’impero più si va incontro a ribellioni, a
forme di tensione nei riguardi dei governatori e queste guerre avevano reso esanimi le casse dello stato),
Filippo II interruppe la politica espansionistica (poiché non c’erano risorse sufficienti per alimentari sogni e
campagne di quel tipo), si concentrò sulla politica interna e ispirò la sua azione di governo al tentativo di
riequilibrare la situazione economica, che però non ebbe esiti positivi poiché le spese legate alla vita della
corona erano ingentissime, in più c’era il problema di quella tradizione privilegistica che essendo stata
concessa per molti anni, dalla Reconquista in poi, adesso pesavano tantissimo sulle casse dello stato e non
erano reversibili, perché ormai non si potevano negare i privilegi concessi alla piccola nobiltà e a “Los
Grandes” di Spagna, che erano queste grandi famiglie nobiliari che effettivamente non partecipavano ai
pagamenti tributari, quindi non pagavano le tasse, ma pretendevano ingenti ingressi economici per la loro
fedeltà alla corona.
Il clero era ovviamente avulso dai pagamenti, e così l’inflazione aumentò enormemente e
Filippo II, con tutta la prudenza possibile (fu definito, infatti “il Re Prudente”), comunque non riuscì a
riequilibrare le cose.
Con Filippo III le cose andranno peggio poiché non aveva la tempra del re, era un uomo abbastanza pavido
a cui interessava esercitare le sue passioni e si occupò ben poco della vita politica.
Se ne interessò così poco che in questa situazione esplose il fenomeno dei Validos, “i sostituti del re”, i
favoriti, figure che dovevano svolgere attività coadiuvanti a quelle del reggente come consigliarlo, svolgere
mansioni da siniscalco, portare ambascerie; svolgere le funzioni di prefetto, ma in realtà in presenza di
questi sovrani come Filippo III incapaci di esercitare il potere, questi Validos acquisirono sempre più
prestigio fino a trasformarsi in vere e proprie figure vicarie del governante, quindi per certi versi iniziarono
ad esercitare il potere. La conseguenza fu che questi nobilucci che a volte non avevano nemmeno la carica
nobiliare, ma riuscivano ad assurgere questi posti attraverso rapporti personali, e non avevano neanche
quell’idea di governanti illuminati e piegano l’esercizio di governo ad interessi personali, perciò secondo
logiche nepotistiche e patronali si trasformano in governi personalistici aumentando a dismisura il livello di
corruzione.
Con l’arrivo di Filippo IV si ha per un momento la sensazione che le cose cambino e fu accolto come quasi
“un miracolo”, alimentò un grande ottimismo, infatti appena salì al trono eliminò tutte le figure più corrotte
dell’apparato istituzionale, però certi retaggi non sono facili da estirpare e dopo un po’ anche lui cominciò
ad affidarsi ai Validos e le cose continuarono secondo quella che ormai era diventata una prassi
consolidata.

In questi anni sul versante letterario:


La letteratura ha una funzione nobilissima: racconta la storia e denuncia questa situazione attraverso
l’indagine e la rappresentazione di questa condizione di crisi nell’animo della collettività, ovviamente non
raccontando direttamente i fatti dal punto di vista storico e oggettivo, ma raccontando questa condizione
negli animi dei protagonisti, perciò è un’analisi molto più raffinata della storia. Non passa per la descrizione
di fatti di tipo cronachistico, ma attraverso i propri canoni e stili e soprattutto i propri codici: quello della
finzione che non è mai finzione, quello della ricreazione libera, che però è sempre alimentata e nutrita da
un sentito reale. In questo periodo parliamo senza dubbio di una letteratura di crisi.
In questo contesto si inserisce il genere Picaresco.
Ma quando nasce la picaresca?
In effetti con il Lazarillo de Tormes non abbiamo ancora il genere della picaresca in senso proprio, ma una
sorta di opera che contiene dei prodomi, un archetipo che si svilupperà solo in parte. Perciò diciamo che il
genere della novella picaresca nasce alla fine del 500 con un’ opera di Mateo Aleman: “il Guzman de
Alfarache” dove compare per la prima volta il termine PICARO, che non era comparso nel Lazarillo de
Tormes. Guzman di Alfarache si qualifica come picaro.
La novella picaresca ha a che vedere con il precedente del Lazarillo, “ma non troppo” e per poter spiegare
questa affermazione bisogna inevitabilmente confrontare la proposta iniziale del Nobile autore e le opere
che tentarono di ispirarsi a questo e superarlo.

Con il Lazarillo già siamo nella fase che possiamo definire come fase di fine del Rinascimento (1554), anche
se la redazione dovrebbe essere anticipata di qualche anno. Sicuramente è posteriore al 1525 per il
riferimento alla battaglia di Feudes???; quindi che si tratti degli anni 30, 40 o a ridosso della pubblicazione,
in realtà importa poco perché comunque il tipo di denuncia di cui si fa portavoce è in linea con certe
problematiche che esploderanno nelle decadi successive e quindi nel Barocco.

Per quanto riguarda Il Guzman de Alfarache, la prima parte compare nel 1559, mentre nel 1603-1604 viene
redatta una seconda parte. Inizialmente nel progetto iniziale di Mateo Aleman, nno c’èera l’intenzione di
scrivere una seconda parte, ma poi si sentì “costretto a farlo” perché un autore apocrifo, un certo Mateo
Lujar de Sallaveda si era impossessato del suo personaggio e aveva scritto lui una seconda parte dell’opera,
ovviamente non autorizzata (molto probabilmente il suo nome è uno pseudonimo, che non corrisponde
all’identità reale dell’autore). Mateo Aleman andò su tutte le furie, vedendo corrotto il suo lavoro e si
affretta a scrivere una seconda parte originale della propria opera che viene pubblicata nel 1604.

Non esita Aleman a togliersi qualche sassolino dalla scarpa nel momento in cui scrive la sua seconda parte,
infatti adotta una strategia che adotterà anche Cervantes quando dovrà rimediare ad una situazione
analoga, così incamera elementi della continuazione apocrifa e all’interno del suo testo li scredita e li
neutralizza, per esempio fa diventare Guzman amico di un personaggio che si chiama proprio Sallavedra,
vendicandosi così del torto subito. Aleman fa diventare Guzman amico di un personaggio che si chiama con
lo stesso nome dell’autore che aveva contraffatto la sua opera. Alla fine Aleman fa passare questo
personaggio come un pazzo e lo fa morire suicida lanciandosi dalla barca su cui si trovava assieme a
Guzman e così l’autore in qualche modo si vendica.

Lazarillo 1554, Guzman de Alfarache 1599.


In mezzo a queste due opere ci sono quasi 50 anni in cui non compare assolutamente nulla.

La ragione fu che nel 1559 era stato iscritto all’indice dei libri proibiti il Lazarillo de Tormes, e perciò dopo
qualche anno era comparsa una versione purgata dell’opera, dove erano state eliminate tutte le frecciatine,
tutti i riferimenti alla Chiesa, quindi una versione epurata che non aveva niente a che vedere con
l’operazione dell’anonimo autore.

Se uno guarda alle cronache editoriali vediamo quindi che Il genere della picaresca si inabissa
completamente tra la metà e la fine del secolo, ma in realtà, nei fatti, non è così perché la circolazione
letteraria di quell’epoca (ma anche nel 600) non è affatto testimoniata dalla circolazione dalle edizioni a
stampa, quello che si privilegia è la circolazione manoscritta.
Prima di tutto la stampa era stata inventata poco tempo prima nella seconda metà del 400, si diffonde
lentamente negli anni ’70 in Spagna, nel 500 già viene vista come un metodo di produzione industriale, il
libro a stampa era ritenuto un artefatto non di pregio, quindi in realtà il prestigio si riconosce ancora alla
copia manoscritta, perché ogni manoscritto ha un valore unico, è scritto a mano Quindi i grandi lettori, che
ovviamente appartengono alle schiere alte della società perché tutti letterati e alfabetizzati che hanno la
possibilità economica di acquistare questi esemplari. Nonostante questo, ovviamente col passare del
tempo, la stampa avrà il merito di aumentare il pubblico dei lettori e di far entrare il prodotto letterario nel
tessuto sociale.

Un'altra ragione è legata all’effetto della censura, il fatto che chi volesse stampare un’opera dovesse
passare dalla censura, ottenere l’approvazione, passare per il consejo e arrivare fino alla stampa,
ovviamente investendo denaro proprio per pagare i costi di edizione, faceva sì che in tanti privilegiassero il
mercato clandestino. Il Lazarillo nonostante tutte queste proibizioni continuò a circolare clandestinamente
e fu letto tantissimo.
Quindi nel panorama ufficiale ci chiediamo come sia possibile che un genere nuovo così straordinario per
mezzo secolo venga abortito e poi rinasca improvvisamente, ma in realtà di fatti non è così. Dobbiamo
tener presente tutto ciò per trattare della costituzione e i primi vagiti del genere.

IL LAZARILLO DE TORMES
Il Lazarillo de Tormes poggia su una serie di tratti caratteristici che ne garantiscono il valore e la funzione, in
primis l’anonimato. In realtà sarebbe sbagliato parlare di un’opera anonima, perché l’autore è il Lazaro che
racconta la propria esistenza, al massimo è un’opera apocrifa.
Il Lazarillo de Tormes è un racconto in prima persona, è Lazaro che scrive un autobiografia della propria
vita. I primi contrassegni identitari del Lazarillo sono; l’anonimato, l’autobiografia, e all’autobiografia è
collegata poi l’espediente del punto di vista unico ed esclusivo del narratore dall’inizio alla fine dell’opera,
un solo punto di vista, cioè quello di Lazaro.
Diversamente dalla forma Romanzo che noi conosciamo, è il narratore che gestisce tutta la prosa e che
interviene a stabilire gli equilibri interni dell’opera.
Quell’anonimato nel Lazarillo è funzionale alla riuscita dell’opera, il lettore accede ad un impatto implicito
con l’autore anonimo (nel senso se il lettore vuole godere della lettura a pieno, deve accettare che chi parla
veramente è Lazaro de Tormes, se non accetta questo patto, l’azione dell’anonimato fallisce. Se si parte dal
presupposto che si raccontano cose non vere nel testo la funzione per la quale è nato quel testo viene
assolutamente neutralizzata). Per questo l’anonimato è essenziale.
Anonimato per il fatto che non si dichiara l’autore reale (cioè non sappiamo chi ha scritto l’opera);
l’autobiografia che consente di avere un solo punto di vista, l’io di Lazaro (diversamente dalla forma
romanzo che siamo abituati a conoscere, con il narratore che interviene nell’opera e integra le
informazioni).
Nell’autobiografia legata al punto di vista dell’io unico ed esclusivo, diventa una sorta di forza accavallatrice
di tutto ma soprattutto consente che il lettore si identifichi completamente con l’io. Per esempio
nell’incontro con lo scudiero, inizia uno schema di congetture con una serie di formule dubitative, che
ovviamente in assenza di dati che possa esprimere il testo sulle azioni di Lazaro, è l’io che costruisce
l’azione. Lazarillo segue lo scudiero con ansia e speranza, eternamente incalzato dalla fame, dal bisogno di
mangiare, inizia ad immaginare che stessero per fare qualcosa, per fare la spesa, allora Lazaro deve
modificare di volta in volta le sue speranze, più proseguiamo il suo percorso, più ci identifichiamo nei suoi
occhi. Di quell’itinerario e di quel contesto, tutto quello che vede Lazaro e decide di non raccontare, non lo
sapremo mai. PUNTO DI VISTA ESCLUSIVO che tiene insieme tutta la biografia. Non esiste un testo del
genere prima di questo.
L’anonimato è funzionale alla riuscita dell’opera; il lettore deve accedere ad un patto implicito con l’autore
anonimo, nel senso che se vuole godere pienamente della lettura del testo, deve accettare
necessariamente che chi sta parlando è Lazaro de Tormes, se non accede completamente a questi
presupposti, la funzione per la quale è nato il testo viene completamente neutralizzata (se credessimo che
in realtà è tutto finto). Perciò dobbiamo pensare che la storia narrata sia vera.

Abbiamo detto dell’autobiografia, del punto di vista unico, mancano due dati relativi fondamentali: in
primis la forma della lettera.
Non è un caso che l’anonimo autore scelga come forma testuale la lettera, è un autobiografia ma in forma
di epistola, con l’espediente di inventarsi un destinatario implicito (Vuestra Merced) di cui non si sa niente,
che non viene mai nominato così come anche degli altri personaggi non si sa niente, perché in realtà si
tratta di tipi sociali, di prototipi sociali, ma in effetti non viene nominato nessuno: solo Lazaro e i suoi
genitori vengono nominati e di loro si sa molto.

La lettera è anch’essa un elemento fondamentale dell’anonimo autore in quanto innanzitutto la lettera è


legata a una prosa personale, a una pratica di scrittura che rientra nella vita reale, la lettera aumenta la
veridicità di quello che viene narrato e ha il vantaggio di essere un tipo di testo documentale, è un pretesto
che fa credere che siano veramente accadute quelle cose perché legata ad un tipo di testo realistico che
rientra nell’esperienza umana, della quotidianità.

Per di più agli inizi del 500 quelle delle lettere diventa una vera e propria moda culturale, nasce soprattuto
in Italia sul modello delle lettere di Pietro Aretino, se in un primo momento si trattava di un tipo di genere
prettamente privato e personale, in realtà negli anni che avevano preceduto il Lazarillo de Tormes la lettera
si era convertita in un genere letterario vero e proprio.
L’epistola era un genere letterario già nella classicità ma legati a contenuti e finalità di un certo tipo; in
questo periodo parliamo di qualcosa di diverso, di un’altra modalità, quella della “carta messaggera” un
sottogenere del genere epistolario, che nasce proprio nel 500.
Pietro Aretino era diventato uno dei personaggi più in vista delle corti italiane tanto che veniva visto come
la stella d’Italia delle corti perché era un letterato illuminato, faceva politica, era ricchissimo, aveva rapporti
con gli intellettuali più in vista dell’Europa del momento.
Ed era assurto ad un modello di virtù, cioè dell’uomo che riesce a farsi da sé semplicemente sulla base delle
proprie virtù e del proprio esercizio e delle proprie capacità, perciò incarna il prototipo dell’uomo
rinascimentale che si basa sul principio dell’uomo “faber” che si fa da sé, assolutamente rivoluzionario
rispetto al modello medievale, basato sul principio di predestinazione e non di mobilità: che se uno nasceva
contadino moriva contadino, era una società estremamente gerarchizzata, cui costituzione sociale basata
su principi di inamovibilità era spiegata e risolta come riflesso di un disegno divino, della volontà di Dio.
Così come il reato era organizzato per livelli, allo stesso modo il microcosmo del mondo rispettava lo stesso
principio.
La modernità nasce nel Rinascimento, perché si avanzano idee completamente contrapposte; c’era ancora
una visione antropocentrica, per cui se l’uomo è al centro della terra, (e siccome l’uomo è il corrispettivo di
Dio) allora l’uomo può tutto.
Aretino a un certo punto della sua vita decide di dare alle stampe la sua raccolta di lettere private (con papi,
principi, figure illustri con le quali si relazionava) perché questa raccolta privata di lettere faceva si che lui si
potesse offrire come modello di vita esemplare. (Siamo negli anni 20 del 500) poco a poco questa divenne
una vera e propria moda. Cominciarono anche quelli che non avevano acquisito grossi meriti a pubblicare le
proprie lettere privata.
Se gli uomini illustri erano autorizzati in qualche modo ad un’iniziativa di questo tipo e la comparsa di
raccolte di lettere assolutamente false, apocrife su personaggi mai esistiti.
Così iniziarono a diffondersi queste raccolte di carte messaggere in cui si raccontavano le storie di
personaggi.
L’epistola conservava il valore editoriale e accresceva il quoziente di realismo e veridicità del testo.

Tutta questa operazione di costruzione della vita di Lazaro fa sì che si leghi ad una finalità satirica. Il Lazarillo
nasce e si consolida come opera di satira sociale, la vita che racconta Lazaro diventa l’architettura esterna,
la struttura che giustifica l’atto satirico della società del tempo.
Il fatto che gli incontri che fa Lazaro con diversi padroni diventa l’espediente attraverso il quale integrando
in questo schema una serie di individui sociali, consente di fotografare la società nella sua dimensione
abbietta, del vizio, dell’amoralità, del peccato e quindi il clerico denunciato come campione di avarizia, lo
scudiero come rappresentante di una nobiltà decaduta, come smascheramento dell’ipocrisia della nobiltà.
L’opera fotografa il rovescio della società.

Solitamente l’autobiografia si riferisce alla vita del personaggio per intero, mentre la picaresca adotta lo
stesso espediente dell’ascendenza del personaggio, ma al rovescio.
L’autobiografia dovrebbe descrivere tutta la vita, o quantomeno gli episodi salienti di un’esistenza quasi per
intero, che si dovrebbe arrestare nel momento di massimo auge che raggiunge il protagonista.
Con il Lazarillo l’autobiografia è una tipologia particolare, infatti non si tratta di un’autobiografia completa,
ma è di tipo selettivo, è una lettera di risposta, è il caso a giustificare la redazione della lettera.
Sta obbedendo ad una richiesta, ad una lettera di risposta. Scrive che gli si racconti il caso in forma estesa,
dettagliata per cui ha deciso di iniziare dall’inizio. La decisione di narrare la propria vita dalle origini, fa sì
che sia il caso a giustificare la redazione della lettera.
Il termine caso compare nel prologo e alla fine del settimo trattato, poco prima di licenziare il testo, quando
ormai Lazaro dice di aver raggiunto la cumbre della sua felicità, che in realtà corrisponde ad una situazione
di grande ambiguità. Sceglie di raccontare tutti gli eventi sin dall’inizio così che il caso diventa allo stesso
tempo la finalità della narrazione (perché si scrive per spiegare il caso) ma diventa anche la causa, il
preteso, la giustificazione della narrazione (perché lo dice all’inizio; se non ci fosse la necessità del caso io
non scriverei questa lettera).
E’ la causa e il fine dell’opera.
Con il Lazarillo nasce nel suo stato embrionale per la prima volta il realismo moderno; infatti fino a questo
momento non è che non ci fosse mai stata la descrizione di personaggi bassi in letteratura, ma il basso era
rappresentato sempre in termini comici. IL quotidiano era sempre sottoposto a un regime del ridicolo. Si
rideva del basso, invece per la prima volta all’altezza della metà del 500 e in Spagna, ci troviamo di fronte
ad un’opera che riscatta in termini di dignità letteraria il quotidiano, il reale e il basso dell’umanità, perché
stiamo parlando di fame, sete, di istinti primari, del basso ventre dell’umanità che viene trattata in forme
serie.
E’ vero che il Lazarillo è un’opera comica, ma non è solo quello; è un’opera in apparenza comica, perché
quella comicità è messa al servizio di una serietà estrema, di un messaggio contro l’amoralità della società
del tempo; ovviamente dati i tempi in cui fu pubblicata c’è bisogno della copertura di comicità per trattare
di quest’opera.
Lo stesso Lazaro si era proposto come esempio di virtù, che ce l’ha fatta nella vita per lui, ma in realtà si
riscatta diventando un banditore di vini, a condizione di una vita adulterina (situazione terribile). Nella sua
prospettiva di vita Lazaro ascende, ma al prezzo dell’onore e per quell’orizzonte culturale un uomo senza
horra, non esiste. Senza horra non si è cittadini, non si hanno diritti, né riconoscimenti sociali.
Si gioca proprio su questi piani, del goliardico e del reale. Un lettore medio non prende l’opera sul serio, ma
allo stesso tempo quello stesso lettore che ride di Lazaro e racconta, proponendosi come modello di vita
Con il Lazarillo viviamo una fortissima empatia con il personaggio di Lazaro, questo perché a dispetto della
copertura comica, comunque ci impersoniamo con il personaggio. E anche il lettore dell’epoca si identifica e
anche il meccanismo, il binomio storia fittizia a cui non dobbiamo credere/empatia con il personaggio e
quel tipo di società, alla fine ci immedesimiamo.
Questa è la duplice funzione del Lazarillo.
Che cosa succede all’eredità del Lazarillo? Se pensiamo al secondo grande prodotto della picaresca, il
Guzman, notiamo un dato macroscopico, una differenza enorme con il Lazarillo.

La prima cosa che viene meno nelle riprese successive del genere è proprio l’anonimato: il Guzman di
Mateo Aleman. Quindi il lettore sa già che si tratta di finzione.
Il fatto che Mateo Aleman non accolga l’espediente dell’anonimato fa venir meno quello statuto che era
essenziale nel Lazarillo che garantiva la veridicità della narrazione e del testo. In questo modo il lettore sa
già che non è un’autobiografia reale, ma un’autobiografia fittizia di un personaggio fittizio che si chiama
Guzman de Alfarache. Non è un dettaglio da poco, ma una deviazione enorme rispetto al Lazarillo.
L’autobiografia di Guzman de Alfarache è assolutamente dilatata rispetto al Lazarillo. In questo senso siamo
già di fronte ad un prodotto eminentemente barocco dove si rompono i confini della cosiddetta “misura”
(mensura) rinascimentale per andare sempre incontro all’eccesso. Il Guzman de Alfarache si dilata come
autobiografia perché rinuncia ad un espediente e ad un elemento di misura di contenimento che era stata
come quella del caso.
L’opera rinuncia all’espediente del caso, Non c’è nessun caso per cui si scrive questa narrazione, se non il
fatto che dopo aver consumato la propria esistenza nell’esercizio dei vizi, peccati, dopo averne fatto di tutti
i colori e dopo aver commesso addirittura azioni delinquenziali, Guzman de Alfarache decide di scrivere la
propria autobiografia.
Altro elemento di distacco dal Lazarillo è che la figura del picaro inizia ad avvicinarsi sempre di più a quella
di un delinquente. Se alla fine Lazaro era semplicemente un povero servo, ma non un delinquente. Con
Mateo Aleman il picaro si trasforma diventa un ladro e truffatore di professione, addirittura con il Buscon
de Quevedo diventa un lenone che vive dei proventi della prostituzione di sua moglie; quindi i livelli di
abiezione e immoralità che acquisisce non hanno nulla a che vedere con Lazaro. Alla fine di questa vita
consumata nel vizio e nell’abiezione, dopo essere stato arrestato, sulle Galere decide di redimersi, ha un
ravvedimento, una conversione e decide di scrivere una “General Confession” (quello che era la lettera di
Lazaro, si trasforma con Guzman de Alfarache in una confessione) che sfrutta il modello delle confessioni di
Sant’Agostino, il quale dopo una gioventù estrema decide di offrire la propria storia come una possibilità di
sfruttare il proprio esempio ex contrario, non come esempio di virtù ma come esempio di abiezione, di
modello da non seguire. Stessa cosa farà il Guzman.
“General” copre l’accezione di autobiografia, perché vuole dare conto di tutta la progressione della sua
vita, dall’infanzia alla conversione.
Viene meno quindi anche la forma di epistola.
Se ricordiamo la famosa marca distintiva del Lazarillo, dell’io che governa la scrittura sia dal punto di vista
della voce narrante che della realtà, unico ed esclusivo che diventa anche collante dell’opera. Infatti tutte
queste diverse esperienze hanno come filo unico che le tiene insieme proprio la narrazione in prima
persona, mentre nel Guzman abbiamo una specie di sdoppiamento interno, un Guzman bambino che parla
in prima persona, e un Guzman adulto, autore dell’autobiografia, che interviene nel testo. A volte
affiancandosi alla voce del bambino, e altre volte intervenendo nel testo preso in dialogo con Guzmanillo (è
il Guzman adulto che si rivolge al bambino). Con questo quindi abbiamo anche lo sdoppiamento del punto
di vista dell’io narrante in due voci. Se parliamo di uno sdoppiamento dell’io parliamo allora di uno
sdoppiamento del punto di vista, della prospettiva:
Un punto di vista del Guzman adulto, cioè il peccatore redendo
Un punto di vista del Guzmanillo (che vive dal basso della sua condizione di bambino)
Quindi si rompe quel concetto di unitarietà, non IO ma uno sdoppiamento, non un unico punto di vista, non
l’unita del testo affidata al caso che lo tiene dentro come un unità organica ma la dilatazione, la rottura
degli argini della narrazione. In soldoni, tutto questo è il Barocco che va contro alla misura, costrizione,
moderazione.
Ci sono anche altri espedienti che marcano l’operazione del Guzman di Alfarache.
Per la prima volte entra nel testo una componente che era assente nel Lazarillo: la componente
moraleggiante e dottrinale. Nel Guzman de Alfarache entra per prima volta nel testo una componente
moraleggiante, dottrinale. Accanto alla narrazione che riguardava la vita del personaggio, aneddotica
(prima bambino poi adulto) compare anche la componente dottrinale (cosa che era assente nel Lazarillo de
Tormes). Attraverso delle digressioni vengono inseriti questi elementi dottrinali.
3° Lezione 05-10
Da questo momento in poi gli esempi di picaresca compariranno sempre con l’indicazione di un autore.
Ovviamente per poter definire il genere che si sviluppa bisognava fare un passo indietro alla fase
embrionale del Lazarillo.
Differenze sostanziali con il Guzman di Alfarache. 1599 segnalazione del nome dell’autore nella
pubblicazione dell’opera e questo neutralizzava un dispositivo che in effetti era stato fondamentale nella
stesura del Lazarillo, ma come abbiamo detto da questo momento in poi i vari esempi di picaresca
comparivano sempre con le indicazioni dell’autore. Questo indica il fatto che venisse meno quel patto
implicito che comportava che in qualche modo si potesse dare credito alla veridicità dell’opera. Viene meno
questa caratteristica, con ovvio pregiudizio che il genere avrebbe acquisito. Viene meno il pretesto della
lettera, sebbene il Guzman comunque ha un fine, la “General” confesion, tuttavia l’autobiografia di Guzman
de Alfarache non è di tipo selettivo, mentre la definizione dei particolari della vita di Lazaro erano stati scelti
per spiegare il caso. Viene meno la giustificazione materiale dell’autobiografia se non come causa finale,
quando decide di redimersi. Ma non c’è una causa materiale esterna.
A tutto ciò si aggiunge il criterio estetico della dilatazione che si manifesta a tutti i livelli del testo in termini
di contenuto nella porzione di vita raccontata, è molto più estesa, più articolata ed esaustiva come
narrazione autobiografica rispetto al Lazarillo de Tormes (questo perché Lazaro andava selezionando solo
quegli episodi della sua esistenza che erano funzionali al caso, mentre Guzman no).
Dilatazione che investe anche le coordinate spazio-temporali perché l’arco cronologico che interessava
l’autobiografia era più esteso, ma anche dal punto di vista spaziale geografico, il genere conosce un
allargamento, un ampliamento. Tutto sommato Lazaro de Tormes non si sposta oltre i confini di Salamanca,
Toledo quindi siamo in Castiglia più o meno, mentre Guzman non solo si muove per la Spagna in lungo e il
largo, ma viaggia anche in Italia (Genova, Firenze, Roma).
Ancoraggio molto forte all’estetica e al gusto barocco, giacché l’opera va contro ogni principio di
moderazione, misura, di decoro legato a un criterio rinascimentale di unità e unitarietà e si manifesta anche
in questo caso a più livelli, se durante il rinascimento avevano recuperato gli ideali di bellezza classici, il
principio di armonia, con il barocco si viaggia in direzione contraria, si rompono e si rinuncia alle
manifestazioni, non si crede più all’ideale di perfezione, il barocco cerca la disarmonia, rompe le perfezioni.
Il 600 è vittima di una sindrome dell’orror vacui.
Il criterio di misura, di armonia è estraneo al barocco.
Questo ovviamente si ritorce nella letteratura (come nel caso dello sdoppiamento del punto di vista del
testo, sembra che si alternino continuamente tante voci diverse che danno l’idea di pluri-discorsività
all’interno del testo).
Questo io a volte coincide con il bambino e in questo caso questo tipo di narrazione coincide
completamente alla vita e alle esperienze del bambino, in questo caso in letteratura si dice che assume la
prospettiva dal basso, cioè decide di mettersi dal punto di vista dell’io del bambino che ovviamente guarda
le cose che gli succedono con l’ingenuità e i limiti del bambino.
Nel nostro caso abbiamo proprio la restituzione di uno sguardo sulla realtà assolutamente ingenuo,
Guzmanillo non si rende conto di tante situazioni. In effetti va via di casa a 12 anni, non troppo piccolo, ma
neanche così esperto, quindi la narrazione degli episodi ha tutta la parzialità di chi non sa nulla della vita, e
che si affaccia alla vita con uno sguardo puro alle varie cose che gli accadono.
L’altro punto di vista che si contrappone a questo è il punto di vista del Guzman adulto che interviene nel
testo a volte come peccatore e a volte come redento, sfoggiando il sapere maturato sulla base della
conversione. Altre volte è il Guzman adulto che si sdoppia, che parla con se stesso, pars sana contro la
parte abietta. Addirittura nella disposizione testuale sceglie di fare un’operazione combinatoria di varie
tipologie testuali integrate nel testo.
IL GUZMAN DE ALFARACHE
Andiamo sul testo:
Il testo si presenta con 2 prologhi e 1 dichiarazione; quella tendenza a rompere la misura e a far proliferare
qualunque cosa nel testo, tipico del senso barocco, si può riscontrare già al livello del paratesto dell’opera.
Infatti già a questo livello vediamo riverberato il gusto barocco con la presenza di due prologhi e una
dichiarazione.
I due prologhi sono interdipendenti.
Il primo prologo
“Bien cierto estoy..”
Come sempre accade all’interno delle opere che risalgono a questo periodo, ogni genere testuale si rifà a
una certa convenzione letteraria, con norme e “leggi” formali e questo anche nel caso della stesura di
prologhi, che richiedono un certo tipo di espedienti retorici.
In questo caso il prologo segue la tradizione oraziana del “Odi profano vulgo”, la tradizione di vituperare il
vulgo, topos oraziano che si basa sulla strategia di vituperare il lettore basso, in quanto incapace di
accedere ai contenuti profondi dell’opera. “Sei un topo di campagna, ti nutri della dura corteccia del
melone che è amara e sgradevole e quando arrivi alla parte dolce resti attaccato, resti con le mani
appiccicate e non sai che farne”: metafora dell’opera letteraria come un frutto la cui parte essenziale è
occultata sotto una dura corteccia e solo il lettore dotato di certe capacità sa superare il primo grado, cioè
la superficie del testo e vedere ciò che c’è realmente. Mateo Aleman inveisce contro il volgo.
“Imiti la mosca fastidiosa, noiosa e molesta e ignorando ciò che profuma, rifugge dai giardini e dalle foreste
per inseguire i letamai, tu sei lettore del volgo esattamente così, disdegni il buono per inseguire parti
schifose; non badi né fai attenzione ai contenuti altamente moraleggianti dei divini ingegni (autori
prestigiosi) e ti accontenti solo dell’inciucio e del pettegolezzo. A te ti rimane solo questo (la parte più
superficiale dell’opera)”

“Libertad tienes…”
“Sei consegnato alla libertà (non sei una mente controllata e lucida), leggi così senza seguire un cammino,
una via” Nello schema delle offese arriva a una zoomorfizzazione dell’uomo.
“I tagli mortali dei tuoi canini e le ferite mortali …”

I due prologhi vanno letti in maniera interdipendente; sta manifestando l’invettiva contro il volgo per
preparare il discorso al discreto lector, che è il suo destinatario ideale, dotato di tutte le qualità ideali per
accedere all’opera e al suo messaggio. Quindi quando più degrada e offende il volgo, tanto più sarà in grado
di esaltare il discreto lettor.
Discreto si riferisce alla capacità di discernimento, colui che è dotato di discrecion, colui che è in grado di
discernere il bene dal male, giusto e sbagliato ecc., capace di rompere la superficie e arrivare al succo e alla
verità dell’opera, colui che ha le qualità per accedere all’opera. Colui che sa valutare e giudicare.
“Presso il quale, sotto la cui egida io sarò accolto e protetto” si mette sotta la protezione del discreto lector.

Secondo prologo
“Sono soliti alcuni di coloro che sognano nel corso della notte cose tristi, pesanti e sgradevoli, lavorare così
forte nell’immaginazione, che senza essersi neanche mossi dal letto, al risveglio
Hanno l’impressione di aver combattuto per tutta la notte. Così sono venuto fuori dal prologo precedente
(quello in cui ha lottato corpo a corpo col lettore del volgo), mi sono visto obbligato ad intraprendere
questa lotta con il volgo, perché volevo intraprendere una battaglia contro la barbarie e gli ignoranti; ma
vedo bene che in virtù del mio corto ingegno e scarsa sapienza (topos della falsa modestia, tecnica per
captare la benevolenza del discreto lector).
Io vedo bene che non mi sarei dovuto permettere, giacchè i miei scarsi studi e corso ingegno, che sono
andato oltre i miei limiti pretendendo di scrivere questi prologhi, ma quello che mi ha spinto è il desiderio e
la voglia di dare qualcosa in profitto del prossimo, qualcosa che potesse servire al prossimo, dato che non
c’è un libro che per quanto cattivo non contenga qualcosa di buono. Sperando che nel sortire qualche
effetto benefico io possa trarre il perdono di tale azzardo.
Non mi saranno necessarie con il discreto lettore ricorrere alle arringhe a cui sono dovuto ricorrere con il
precedente. Perché certamente al discreto lettore né gli manca l’eloquenza della parola, né lo svia dai miei
propositi la forza del discorso oltre il necessario, né la sua felicità risiede nel fatto che io capti la sua
benevolenza. (Questo crescendo finale esplicita la finalità del suo discorso) Alla sua correttezza morale mi
conformo, la sua protezione chiedo e alla sua difesa mi raccomando. E tu discreto lettore “deseoso de
aprovechar”, desideroso di migliorare, di trarre profitto dal discorso, al quale io pensai quando decisi di
iniziare quest’opera, non credere che io l’abbia scritta per ostentare il mio ingegno o mosso da interesse
personale, perché non l’ho mai preteso, né ero in condizioni per pretendere una cosa tale (caudar=
patrimonio per aspirare a qualcosa).
Metafora della barchiglia encaminada a buen puerto= REMINESCENZA AL LAZARILLO il prologo si chiudeva
proprio con questa metafora, con il desiderio di dimostrare che attraverso gli esercizi della propria virtù, si
sarebbe avvicinato ad una vita migliore.
GIOCHI RETORICI= CIFRE STILISTICHE DEL LINGUAGGIO BAROCCO
Il barocco ama ricercare questi effetti di sorpresa, di intrattenimento del lettore che cerca di ottenere
lavorando proprio sul testo, con l’uso di iperbati ecc. e il lettore s intrattiene per il piacere estetico di
riuscire a decodificare il messaggio nonostante l’ostacolo costituito da una lingua artificiosa come quella del
barocco che ricorre a tutti gli espedienti possibili per ricercare quest’effetto di originalità. Per cui abbiamo
molto spesso soluzioni linguistiche di questo tipo.
Ti dico molto che tutto quello che desidero dirti (allitterazione + parallelismo della costruzione sintattica +
poliptoto digo decirte decia)
Haz como lea: fai come se leggessi veramente quello che stai leggendo e non ridere della conseja e ti sfugga
el consejo. Siamo di fronte ad uno degli espedienti più connotativi del GUzman. Aleman ha deciso di
articolare la sua scrittura su un doppio dominio: la conseja (dimensione narrativa) cioè le vicende
aneddotiche della sua vita e tutta la parte di narrazione e di finzione, però non deve accontentarsi dei
fatterelli, ma non deve farsi sfuggire il consejo cioè la componente moraleggiante e didascalica.
Dottrine e sermoni che vengono inseriti nel testo.

Come incidono sulla dispositio testuale? A volte Guzman sceglie di narrare un episodio della sua vita,
un’avventura, una circostanza (tipo una burla che subisce, o un misfatto che infligge una volta diventato
picaro) prima e poi dopo interviene nel testo adottando il consejo, la moralitè e allora inizia come una
sorta di digressione la spiegazione del sermone moraleggiante.

Altre volte come nel caso del capitolo III della prima parte, si apre direttamente con un lungo discorso
moraleggiante, come lo sproloquio sulla falsa honra e reprensione legata alla vanità e all’inutilità di
continuare a perseguire l’onore come un falso valore e inserisce l’episodio della propria vita che ha a che
vedere con quel messaggio morale esattamente dopo.
Altre volte non è così facile separare e riconoscere un dominio discorsivo dall’altro perché a volte nello
stesso discorso, anche come una sorta di frase accidentale, viene inserita l’elemento moraleggiante e gli
stessi discorsi possono assumere la forma di una facezia, un piccolo raccontino breve, a volte sono dei
sermoni molto lunghi, a volte degli exempla allo stile medievale, altre volte possono corrispondere ad
inserti di altro tipo. Quindi utilizza varie tipologie testuali che finiscono all’interno del testo.
“Ricevili entrambi con l’intenzione con i quali te li offro, non li gettare come spazzatura al letamaio della
dimenticanza.” Si mette in digressione con quello che era apparso nel prologo precedente. “Non sprecare la
possiblità di arrivare al di là della corteggia” insiste con l’utilizzo degli imperativi
“Raccogli, riunisci questa terra, riponila nel crogiolo della discrezione, dà fuoco allo spirito e ti assicuro che
ti ritroverai tra le mani un oro che ti arricchirà (l’anima)”
Topos della letteratura come ricchezza.
Al discreto lector riconosce una certa libertà nell’interpretazione del messaggio, diversamente dal vulgo che
deve essere indirizzato nella lettura perché non ha le capacità mentali per arrivare al di sotto della
superficie, mentre al discreto lettore riconosce una certa libertà.
“Al discorso potrai moralizzare a tuo piacimento e quello che ti dovesse comparire non grave né ben
composto, sappi che la colpa di tutto questo è dovuta al fatto che il protagonista di questo libro è il picaro”
la colpa non è mia ma che la materia di questo libro è un picaro; PRIMA VOLTA CHE APPARE QUESTO
TERMINE IN LETTERATURA.
Fa una serie di giochi di parole con il termine picaro.
Ci sono varie teorie su cosa voglia effettivamente significare, però la più accreditata vuole che in effetti la
parola picaro derivi da PICAR “becco”, colui che becca di qua e di là ed era un gergo utilizzato all’epoca
come sinonimo di rubare. Allo stesso tempo potrebbe star a significare un prolungamento della metafora
iniziata nel primo prologo e quindi in questo caso picar corrisponderebbe a “saper ben picar” cioè a beccare
correttamente e prendere il buono di questa storia. Per questo dice al discreto lettore di essere come il
picaro però in un’accezione positiva.
Saper picar vuol dire anche saper discernere e selezionare le cose nel testo, capacità di discernimento.

DECLARACION
Definisce l’opera una “poetica historia” espressione ossimorica, perché all’epoca il termine poetica si
riferiva a qualcosa che venisse inventato, invece istoria componente realistica.
L’opera si autodefinisce come poetica historia, quasi come a svelare un’identificazione di sé, una
componente metatestuale fortissima. L’opera si autodefinisce: statuto ambiguo. Da una parte è storia
perché narrerebbe la vera storia della vita di Guzman di Alfarache, dall’altra parte è poetica. Svela la natura
fittizia del narrato, che però non è vera né falsa, è vera e falsa allo stesso tempo.
Inoltre ha a che vedere anche con un’altra implicazione. La storia è quella personale dell’individuo, ma la
poetizzazione del passaggio ha a che vedere con la sua universalizzazione, dell’incontro della storia
particolare del protagonista che deve essere un esempio per gli altri e per il prossimo e quindi in poetica
ricordiamo anche questa accezione legata all’universalizzazione del messaggio narrato.
Declaracion para el intendimiento della honra: è tale la preoccupazione dell’autore che l’opera venga
correttamente ricepita che intitola la sua scrittura a un’azione di dirigismo ideologico e culturale molto
forte. L’autore si preoccupa dall’inizio alla fine di definire chi la deve leggere, come la deve leggere, come
interpretare ecc. altro elemento fortemente connotato dal punto di vista culturale. Dopo il Lazarillo chi si
cimenta in un’opera picaresca ha qualche preoccupazione sul giudizio che si possa dare all’opera e questo
eccesso è dovuto al fatto che probabilmente Aleman si preoccupasse che dovesse passare al vaglio della
censura (anche perché Aleman aveva origini judie). Non solo preoccupazione personale, ma anche
caratteristica tipica del tempo.

Sono i bisogni primari che portano il personaggio a compiere azioni da picaro nel caso di Lazaro, invece
l’atteggiamento di Guzman è caratterizzato da un’abiezione naturale, una tendenza al male, nonostante lui
parta da condizioni di partenza molto più agevolate rispetto a Lazaro, ma a nulla serve tutto questo perché
ha un’estrema predisposizione al male, al lasciarsi andare al vizio.
Guzman assurge alla fama di ladro conosciutissimo e famosissimo e questo ha a che vedere coni l fatto che
il picaro da Guzman in poi acquisisce la caratteristica di essere un delinquente su tutti i livelli, commette
reati a tutti i livelli.

Nell’ultima parte dice che il libro è diviso in tre parti e racconta cosa contiene ciascuna parte: l’abbandono
della casa materna, nel secondo la vita del picaro a partire da quando decide di consegnarsi
volontariamente alla vita picara “la seconda parte racconta la vita del picaro dovuta alle cattive compagnie,
ma anche al tempo ozioso”, è l’ozio che spinge Guzman a fare il picaro, la terza parte è come lui sfugge a
tutti i tentativi di recuperare l’onore.

I primi capitoli della prima parte sono dedicati a tener conto delle origini e della nascita del bambino e lui lo
dice che veniva viziato e non aveva necessità di fare questa scelta di vita. Anche se in effetti il padre muore,
la madre ha 6 partner diversi e ogni volta fa pensare a Guzman che ognuno di quelli sia suo padre quindi
non si capisce mai chi fosse ed in effetti l’ultimo padre che avrebbe avuto era un delinquente, quindi magari
prende questa decisione per seguire le sue orme, ma questo non lo sappiamo.
LEZIONE 4 09-10
Nel secondo prologo emergeva un altro dato fondamentale: quell’elemento strutturale costituito dal
doppio dominio del consejo (componente moraleggiante) e della conseja (componente aneddotica
dell’autobiografia, esempio della vita del protagonista che esemplifica la spiegazione moraleggiante) che
vengono presentate nel testo in maniera differente: trattando prima l’episodio e poi la dottrina oppure con
un meccanismo contrario dal punto di vista dispositivo come exemplum (prima il consejo poi la conseja).

Anche sulla natura dei testi moraleggianti possiamo dire che potevano corrispondere a diversi modelli:
l’exemplum (discorso di tipo dottrinale che segue il sermone), il ciascarriglio (raccontino divertente da
quale emerge il lato dottrinale e moraleggiante), proverbi e palemiologia (presenta abbondantissima di
proberbi).

Crea un collage di tipologie testuali differenti.

Mateo Aleman sembra incalzato nel bisogno di condurre il lettore alla decodifica del testo.

Sintesi degli episodi salienti e del contenuto dell’opera + autodefinizione dell’opera come poetica historia
(espressione ossimorica dal pieno gusto barocco, che allude pienamente alla doppia natura del testo).

Ovviamente preleva questi temini dalla tradizione poetica/storica dell’epoca e dai vari trattati. In effetti in
questo periodo siamo in un momento del pieno neoaristotelismo, in particolar modo il concetto di
mimesis, la necessità di raccontare il reale o quantomeno il verosimile. Tutto il 500 sia dal punto di vista
teorico che pratico, non può evitare di confrontarsi sistematicamente con il condizionamento che la poetica
di Aristotele opera su ogni intento compositivo e questi più o meno investe tutti i generi letterari.

Ovviamente parliamo delle imposizioni e il tipo di lettura che si faceva di Aristotele all’epoca, quindi
rilettura 500esca di Aristotele.

Quando Mateo Aleman usa la definizione di poetica historia non sceglie due termini a caso ma si rifà sui
due termini sui quali si stanno accapigliando da secoli i teorici della letteratura che si scontravano sul tipo di
testo che dovesse prevalere, la poetica (l’inventio) o l’historia (riferimento al reale).

Alla fine Matteo Aleman decide di utilizzare una soluzione di compromesso, proponendosi di adottare un
metodo mimetico. Il racconto della vita di Guzman di Alfarache, ma allo stesso tempo si tratta di un
racconto fittizio.

L’opera unisce il particolare (l’esperienza di conversione e di pentimento), ma allo stesso tempo si aggiunge
l’universale (quell’esempio deve essere un esempio per tutti).

CAPITULO III SEGUNDA PARTE (1599 o 1603/1604)

Quando sentiamo prima o segunda parte facciamo riferimento all’articolazione interna della prima parte.

Quindi capitolo terzo della seconda parte della prima edizione (prima parte del 1599)

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“El mejor medio que hallè...”

“Il miglior strumento che trovai per sondare la possibilità di uscire dalla miseria fu lasciare mia madre e la
mia terra” è lui che lascia, per la prima volta il protagonista non viene consegnato alla vita picara da terze
persone, dal caso o che sia (caso di Lazaro, commiato tra Lazaro e sua madre, che effettivamente lo affida
alla guida del cieco, quando nel momento di lasciarlo licenzia il figlio, come una sorta di atto contro natura,
lo consegna alla vita e nel momento in cui si accomiatano, gli fa anche una consegna di tipo “morale” o
comunque ideologico “valete por ti” “conta solo su te stesso a partire da adesso”: momento spartiacque
della vita di Lazaro che comincia la sua vita da adulto, scena che connota fortemente il Lazarillo). In questo
caso invece, Guzman non ha la necessità di andarsene di casa, nonostante la madre abbia delle difficoltà,
comunque non è l’istinto di sopravvivenza che spinge Guzman ad andarsene.

Alfarache è il luogo di provenienza.

“Per non essere riconosciuto come figlio di mio padre, scelsi il cognome di mia madre e ci appiccicai il mio
luogo d’origine”, anche in questo caso abbiamo un forte elemento parodico rispetto all’opera lirica ed
eroica, ribalta completamente i nomi dei grandi. Sfrutta l’espediente dell’eroe della cavalleria, ribaltandolo
completamente… Rovesciamento parodico del libro di cavalleria.

Se i luoghi a cui si riferivano i grandi libri di cavalleria erano luoghi straordinari, questi no.

“Salì a ver el mundo”, ciò che spinge Guzman ad abbandonare la casa è un desiderio di scoperta, di
avventura.

Subito dopo inizia la vita del picaro vera e propria. Inizia ad errare, “pelegrinando”, se il cavaliere era mosso
affinchè gli si materializzi l’occasione dell’avventura per distinguersi e mettere in atto le sue capapcità e
virtù, qui è un peregrinare senza un motivo, senza un obiettivo.

“Io ero un ragazzino viziato e coccolato”, siamo davanti ad uno statuto del personaggio completamente
contrario rispetto a Lazaro.

“Sono stato allevato senza castigo di padre, senza ricevere nessun istituto censorio da parte di padre, la
madre vedova e ho vissuto a dolciumi, leccornie, zuppe di miele rosate, vigilato e adorato più che se fossi
stato il figlio di un mercante di Toledo (Toledo era uno dei mercati più fiorenti della Spagna, quindi i
mercanti avevano la fama di essere ricchissimi).

Mi sembrava strano abbandonare la casa, i parenti e gli amici, soprattutto perché è il dolce amor quello
della patria e tuttavia non potei evitarlo, ero costretto. Mi spingeva il desiderio di vedere il mondo, andare
a conoscere i miei parenti in Italia (obiettivo morale e “pratico”).

stessa, è una prosa involuta, ritorta su se stessa che procede non per linee successive, ma a spirale. Questo
effetto è possibile per l’utilizzo di molte figure retoriche, in questo caso zeugma “Salì che no debiera” (è
un’ellissi che elimina un elemento sintattico appena comparso). “tarde e con mal” commette due errori:
esce tardi e mal organizzato, senza provvigioni, quindi non si porta niente dietro “credendo di trovare
abbondante rimedio” (ingenuità del bambino che non ha ancora esperienza, Guzmanillo narra e dice di sé
che se ne andò di casa pensando che avrebbe trovato abbondanti soluzioni alla sua condizione)

“Perdì el poco que tenìa” altro zeugma (el poco).

Gli successe quello che accadde al cane con l’ombra della carne, di vedere frustrata un’aspettativa.

Punto di vista unico dell’io di questo momento.

METAFORA altro elemento tipico dell’epoca. “dos Nilos” anziché parlare di lacrime, per dare l’idea
dell’abbondanza di questo pianto.

Il volto restò bagnato tutto di lacrime. “Il fatto che stava per tramontare il sole, inducono GUzman a
fermarsi a san Lazaro, dove c’è la chiesa con il sagrato e decide di arrestare la sua erranza, si siede sui
gradini della scala attraverso la quale si arriva all’eremo. Già qui inizia una scena cruciale: si ritrova per la
prima volta solo, la condizione del picaro è sempre quella di un individuo solo, la solitudine che
accompagna costantemente l’io. Non vive armonia, non vive degrado nella collettività, è un ser solo. Si
ritrova sulle scale di questo sagrado e dice: “mi ritrovai a ricordare tutta la mia vita” Guzman esce di casa a
12 anni, quindi che esperienze potrebbe aver avuto un ragazzino 12enne vissuto tra coccole e leccornie?
Ancora una volta sta parodiando l’espediente della “encrucijada de la conducta” cioè il crocevia.

Anche nei grandi romanzi cavallereschi, l’eroe si trova sempre al crocevia e non sa quale strada
intraprendere e quale strada lo porterà a realizzare i suoi obiettivi, quale lo porterà a realizzare le sue
scelte. Ovviamente questo espediente letterario è allegoria di una condizione esistenziale dell’individuo: la
scelta fra bene e male, alto e basso, con le differenze implicazioni filosofiche. Quest’immagine dell’eroe che
sta al bivio e non sa cosa fare è riprodotta qui in termini declassati e abbassati del bambino che si trova
davanti ad un bivio e non sa cosa fare. Voleva ritornare perché si rendeva conto di essere andato via senza
niente con sé e d’altra parte non voleva rinunciare all’esperienza di vedere il mondo e di incontrare i
parenti.

“Su tutte queste sfortune, perché quando vengono le sfortune, vengono sempre accompagnate, intrecciate
le une alle altre come le ciliegie, era venerdì sera, in una sera piuttosto oscura, non avevo cenato né fatto
merenda. Se fosse stato un giorno di carne, fuori dalla città anche se fossi stato cieco (allusione al Lazarillo),
l’odore mi avrebbe condotto verso qualche posto dove avrei potuto chiedere di darmi da mangiare”,
essendo venerdì ha fame e non c’è nulla che può fare.

Tutti questi commenti al fatto che ha appena detto di sé Guzmanillo, questo è la conseja, immediatamente
dopo tutta la riflessione morale, il commento etico su quello che sta dicendo, non è il bambino a parlare,
ma la spiegazione morale dell’adulto.

Non è linguaggio né registro del bambino, ma è l’adulto a fare una riflessione sul fatto che nel creato tutto è
conteso per gli individuo, ovviamente non può riflettere Guzmanillo su queste cose.

L’unica cosa che poteva portare alla bocca era acqua fresca. Non sapevo che fare né a quale porto
dirigermi. Dall’inizio della pagina insiste sul non saper cosa fare, è una tematizzazione forte dell’espediente
del crocevia: “quello che da una parte mi dava coraggio, dall’altra mi rendeva vile, mi ritrovavo a metà fra la
paura e la speranza, mi ritrovavo il precipizio davanti e i lupi (dubbi?) che mi balzavano alle spalle.

Insiste fortemente sul fatto che non sapesse cosa fare, topos letterario.

“Entrai nella chiesa, faccio preghiere brevi ma certamente devote, non mi lasciavano stare molto tempo
perché la chiesa doveva essere chiusa. Non smette di piangere e (piangendo piangendo) si addormenta
sulla panchina all’esterno della chiesa, dove dorme praticamente al gelo.”

Altra digressione e inserisce un altro tipo di discorso, ha interrotto la narrazione e inserisce un raccontino di
tipo folclorico che SUL PIANO DELLA NARRAZIONE non ha nulla a che vedere con quello che stava dicendo,
mentre SUL PIANO DEL SIGNIFICATO sì. Fa riferimento ai disordini che a quell’epoca c’erano in quella terra.

“Levanteme aunque tarde” mi alzai sebbene fosse tardi, assonnato e affamato, senza sapere dove mi
trovassi, tanto è vero che mi sembrava che non mi fossi ancora svegliato dal sogno; quando capii che era
vero, sentii un impulso che mi disse di non tornare indietro, di andare avanti, ma non sapevo dove andavo
né avevo riflettuto su di esso. Presi semplicemente il cammino che mi sembrò più bello (che non è proprio il
motivo migliore di una scelta morale), mi portasse dove mi portasse.

I piedi mi portavano e io andavo dietro di loro, che mi portassero dietro la montagna o dietro il contado.

Insiste sull’idea di un andare senza governo. Il soggetto che però si comporta così rinuncia al governo della
parte razionale, procede in maniera irrazionale, non si affida all’autocontrollo della ragione.

“Accadde in quel momento quello che era accaduto, per quel che si racconta, ciò che era accaduto al
medico falso della Mancha” inserisce il racconto di un caso famoso che gli serve da esempio.
Pag. 167

“Este dìa” quel giorno stanco ormai di camminare, sebbene fossero solo due leghe, mi sembrava di essere
arrivato agli antipodi del mondo, “llevè a una venta” elemento cruciale, topico della picaresca, luogo per
eccellenza del genere picaresco, perché svolge funzioni rovesciate rispetto all’altro luogo tipico del genere
cavalleresco come castelli, corti, edifici alti. La venta ha di per sé questa connotazione di rovescio della
corte e del titolo nobiliare elevato ed il picaro passa da una venta all’altra. Per di più teniamo conto del
fatto che la venta possa essere definita anche come un “non luogo”, un luogo che sta fuori dalle zone
abitate, fuori dalla ciudad ed è un punto di passaggio, un crocevia umano, dove si incontra l’umanità nella
sua varietà. Nella venta si incontrano prostitute, ladri, qualsiasi tipo sociale, pertanto è occasione di
incontro e di scambio tra i vari tipi umani; in qualche modo fa le veci della foresta nel romanzo cavalleresco.
Guzman arriva tutto sudato a questa venta, polveroso, despeado (dopo aver camminato a piedi) triste e
affamato, avevo il becco che non beccava, lo stomaco debole, il dente ansioso di mordere qualcosa.

La rappresentazione della sua fame assume connotazioni antropomorfe.

Era quasi mezzogiorno

L’azione della conseja avviene in termini realistici, con lo snocciolamento delle azioni in progressione, poi
all’improvviso si interrompe e inserisce una serie di inserti.

Il Guzman ebbe molta fortuna e fu tradotto, soprattutto in Francia ed Inghilterra (Fielding avrebbe
conosciuto il romanzo picaresco) e quando venne tradotto, in effetti fu espropriato di tutta la parte
dottrinale, lasciando soltanto la parte narrativa. Mantengono solo la parte narrativa, l’autobiografia del
picaro e questo è un indizio del fatto che fosse troppo intrisa e integrata all’orizzonte culturale della Spagna
dell’epoca, per cui a differenza dei grandi classici che sopravvivono a se stessi, il Guzman trasuda di contro
riformismo e barocchismo da tutte le parti, quindi risulta insopportabile oltre gli anni della sua
pubblicazione e dimensione. Proprio per il fatto che inserisce pedissequamente elementi moraleggianti.

Il problema è che questa locanda ha da offrire al ragazzo solo delle uova, “non sarebbe andata così male, se
fossero state (uova)” (altro zeugma) perché la vejaca de la ventera per non perdere le uova che per il calore
erano già state fecondate (ovviamente la locandiera era avara), le mescolava con le uova normali.

“Non fece così con me (rimescolarle con quelle buone”, gli diede solo le uova fecondate “che la ripaghi dio
per quest’azione, questo perché mi vide un ragazzino inesperto, senza barba, con le labbra chiare, con la
faccia tonda dei ragazzini, senza ancora il pomo d’Adamo (utilizza tantissimi neologismi, specialmente nella
descrizione di Guzmanillo), pensando che fossi uno stolto e chev a me sarebbe bastato qualsiasi cosa. Mi
chiese –di dove sei figliolo?- (..) e dove va lo sciocchino? Oh Dio onnipotente, mi sembrò che quel suo
cattivo alito mi facesse invecchiare all’improvviso e se avessi già avuto nello stomaco qualcosa, lo avrei
sicuramente vomitato perché mi fece arrivare l’intestino alla bocca” La ventera è una persona sporca
trascurata, laica per eccellenza, che dà quindi la sensazione di rifiuto.

Tecnica descrittiva tipicamente realistica “le dissi che stavo andando alla corte e che mi desse da mangiare,
mi fece sedere su uno sgabello zoppicante e su un banco sul quale stese uno strofinaccio da forno, con una
saliera fatta con un pezzo di sughero, un recipiente che si usava per far mangiare le galline, pieno d’acuqa e
una mezza focaccia nera tanto quanto la tovaglia” descrizione molto forte “dopo mi diede una frittata di
uova che si sarebbe chiamata meglio impasto di uova, più che frittata” tecnica con la quale descrive gli
elementi della tavola imbandita, rovesciamento di una tavola ben imbandita “tutto era la stessa cosa” era
tutto sporco, unto, nero, compresa la ventera, era tutto la stessa cosa.

“Io mi ritrovavo ancora ierme, troppo giovane, lo stomaco vuoto, con la pancia che mi faceva da guardia,
che gli intestini si scontravano tra di loro tanto era vuoto, mangiai con la foga con la quale i maiali
mangiano. Mangiai tutto in un boccone, sebbene sentissi scricchiolare fra i denti, gli ossicini degli sventurati
pulcini, che l’effetto che mi davano era come se mi facesse il solletico alle gengive”

Descrizione estremamente realistica, infatti il romanzo picaresco contiene i prologhi del romanzo realista
con l’unica differenza di contenere al suo interno elementi di COMICITA’, è un romanzo che ha ancora
bisogno di far ridere, mentre il romanzo realista nasce quando si parla di forme gravi, serie, problematiche
senza l’utilizzo della comicità.

“A me mi sembrò una cosa strana, persino nel gusto che non era come quello delle altre uova che mangiavo
a casa di mia madre, però lo attribuii per ingenuità al fatto che non tutta la cucina del mondo è uguale e che
magari quelle uova erano diverse da quelle di mia madre, o che comunque si solevano cucinare così da
quelle parti, anzi mi ritenni addirittura fortunato di aver trovato da mangiare.”

La prospettiva è quella del bambino con la sua ingenuità, ovviamente l’adulto dà conto alla portata
dell’inganno di cui il bambino era stato vittima, lui sa la realtà ovviamente.

Questa è la prima esperienza/avventura che Guzman vive dopo essere uscito di casa ed è un evento
spartiacque perché da questo momento in poi Guzman aguzza l’ingegno, è una costante del genere come
nel caso di Lazaro e la beffa della statua del bezerro (quella specie di toro). Così acquisisce la luz del
intendimiento. Da quel momento Lazzaro capisce che si deve svegliare e questo segna la fine dell’infazia e
l’arrivo a quel tipo di maturazione che preclude all’età adulta. Questa beffa è l’evento di passaggio per
Guzmann.

5° LEZIONE 10-10
Episodio della beffa che Guzmanillo subisce dalla ventera rappresenta un momento di svolta
nell’evoluzione psicologica del personaggio e allo stesso tempo rappresenta una costante del genere
picaresco. Infatti abbiamo visto quanto sia costitutivo del genere della picaresca un momento, un episodio
chiave nel testo che coincide alla perdita dell’ingenuità, della figura del prossimo e dell’ottimismo. Da qui la
consapevolezza di essere soli e dover mettere aguzzare l’arguzia e l’ingegno per sopravvivere.
Capitolo II
Nello spazio che intercorre tra la prima avventura e il momento di cui parleremo adesso, dobbiamo
considerare che Guzman finisce per lavorare nella venta, ma desiderava affrancarsi dal servizio. Infatti una
caratteristica del picaro è la volontà di volersi liberare dalla condizione di subalternità; per il picaro è un
disonore lavorare come criado, di servo, perché relegato alla condizione di dipendenza dal suo datore di
lavoro, il picaro vuole essere indipendente. Già figure “imparentate” con quella del picaro come la Celestina
era fiera di sottolineare la differenza con Sempronio e Parmeno, lei che aveva un’etica del lavoro
sviluppatissima per quel tempo ed era fiera di poter guadagnare e vivere dei risultati del proprio lavoro. Il
paradosso risiede nel fatto che quel lavoro non aveva altro che ubiquità, che non è in linea con l’etica del
tempo. Così los picaros de profession rivendicano l’autonomia e la capacità di costruirsi da sé.
Abbandonato il lavoro, Guzman si ritrova a corte, che all’epoca ha già sede a Madrid, che ormai non è più
una cittadina secondaria, ma è diventata una città centrale e punto di attrazione enorme per le masse che
abbandonano le zone rurali della Spagna e le zone meno sviluppate e che cercano la possibilità di realizzarsi
proprio a corte, di ottenere incarichi, di avere privilegi.
È un luogo di attrazione che dopo un po’ non riesce più ad assorbire questa mole di persone che si
riversano sulla corte ma che in realtà non hanno mezzi di sussistenza o un profilo lavorativo che gli
permetta di costruirsi. Così diventano forze inerti per la società madrilena, sono una componente
parassitaria. Da qui il fenomeno del vagabondaggio che esplode enormemente fino al punto che i sovrani
saranno costretti ad emanare degli ordini che proibivano il vagabondaggio e la pratica dell’elemosina; si
veniva estradati ed esiliati fuori dalla corte e a partire da un certo momento diventava un reato.
CAP. II
Guzman approfitta per prendere le distanze dall’anonimo autor: non si accontenta della normalità, deve
vivere fuori dalle regole. Il nuovo picaro non ambisce ad un’integrazione all’interno della società, perché in
realtà ogni volta che ne ha l’occasione e può rientrare nella compagine sociale, effettivamente rigetta le
varie occasioni di ottenere una certa dignità sociale ed economica, ma preferisce sempre ritrovarsi ai
margini della società.
“Perché in fin dei conti a cosa ero arrivato? Ero servo di un locandiere, la qual cosa era peggio di essere un
servo di un cieco” ovviamente riferimento allo sdegno per le scelte di Lazaro. Aleman compete con
l’anonimo autore del Lazarillo, perché fa una proposta di genere assolutamente diversa, pretende di
rinnovare il genere e la convenzione della picaresca del 500 (anche se era ancora più retrogrado ma non lo
sa).
“Io non volevo essere riconosciuto in quel mestiere, mi vergognavo. Quando qualche volta passeggiavano
davanti alla locanda ragazzini del mio stesso aspetto ed età, con dei soldi, altri chiedendo l’elemosina, io mi
chiedevo se fosse possibile che fosse tanto codardo da non poter ambire alla loro stessa carriera?”
addirittura si vergogna di essere un servo.
Sovversione dei codici.
“Sono meno codardo di loro tanto da non poter proseguire questa carriera?” Lo attrae la vita dei pellegrini,
perché erano LIBERI, vivevano per strada, non dovevano dar conto a nessuno, non dovevano rispettare le
regole ecc. e questo ovviamente era un elemento molto affascinante per un ragazzino.
“Io non voglio essere pusillanime, così mi feci coraggio e lasciata la mia locanda, con il poco che avevo
guadagnato dal lavoro precedente me ne andai a zonzo e visitai altre locande, stavolta come ospite” aveva
pochi soldi, li finisce presto e diventa un “pordioseros” inizia a chiedere denaro “por dios” cioè elemosina.
Guadagna la libertà ma per sopravvivere deve chiedere l’elemosina. Utilizza tutti modi di dire che si
riferiscono ai quartos, parti di una moneta, i quartos erano un quarto di maravellí, che non erano molto, ma
pochi centesimi di uno uniti a pochi centesimi di un altro, gli permettono di vivere.
Linguaggio parafrastico rispetto al linguaggio liturgico, espediente ironico/parodico sebbene Matteo
Aleman e il suo personaggio sono allineati al linguaggio controriformista. Non c’è tutto il linguaggio
antifrastico contro gli ecclesiastici, che invece era caratteristico del Lazarillo. Aleman è completamente
omologo all’ortodossia Cristiano/cattolica. La sua è una satira moraleggiante, non un’invettiva al sistema,
denuncia per offrire un messaggio moraleggiante e non per mettere in crisi il sistema.
“Purtroppo era un anno di ristrettezze economiche per cui la regione di Toledo (stava a 200 km da Madrid)
non se la passava meglio dell’Andalucía, (da cui lui proveniva)”.
“Siccome il ricavato era poco rispetto a quanto dovevo comprare mi impoverii a tal punto che decisi di
sfruttare il vestiviglio che portavo addosso.” Per non dipendere dall’elemosina decide di sfruttare il
vestiviglio che portava addosso. Era ancora ben vestito in quella fase e in quell’orizzonte sociale, il modo di
apparire e cosa si indossava era già di per se un elemento sufficiente ad identificare una persona rispetto a
quelle caratteristiche. Si tratta di un sistema codificato per organizzazione sociale.
“Cominciai a romperlo malamente (il vestito che ovviamente rappresenta una stratificazione di varie cose,
piuttosto elaborato come la giubba sotto il petto, il conar le calze ecc.), alcune parti le vendetti, altre le
impegnai (con la promessa di tornare a riscattarle dopo un po’ di tempo), altre le strappai per dare l’idea di
essere un povero”
Inizia la sua esperienza da picaro caratterizzata da TRAVESTIMENTO E FINZIONE (falsi zoppi, falsi storpi, che
si facevano ferite apposta e tentavano di impietosire i passanti con questi artefici)
“In modo tale che quando entrai a Madrid avevo l’apparenza di un galeotto navigato. Ero vestito
leggermente solo con le calze e una camicia e tutto questo molto sporco, rotto e vecchio. Poiché mi fu
necessario alienare tutto il resto per coprire le necessità. Cominciai anche a chiedere se qualcuno volesse
prendermi a servizio ma per come mi presentavo, sporco e con i vestiti rotti, nessuno si fidava soprattutto
perché non portavo la capa cioè il mantello, perché credevano che io potessi essere un ladro.”
Andare in giro senza la cappa era un disonore “desmantellados”, deshonrado, pensavano che potessi
essere un ladro.

Pag. 275 VIENDOME PERDIDO INCIPIT della carriera del picaro.


“A partire da questo momento vedendomi in condizioni di necessità, credendomi perso iniziai a praticare el
officio (il mestiere) della florida (abbondante) picardia, (come se fosse un lavoro, di cui va molto fiero oltre
tutto). La vergogna che all’inizio mi faceva pensare di tornare la perdetti poco a poco o me la dovetti
lasciare indietro quando mi rubarono il mantello in una cappella. Cominciai a prenderci gusto (a
sciorgliermi) e quello che prima era vergogna divenne sfrontatezza. Ma io la vergogna la scrollai dal dito
come se fosse una vipera che mi avesse morso il dito.”
Immagine metaforica che usa per dire che ormai aveva perso ogni tipo di paura e vergogna.
Comincia ad entrare nella comunità di picaros, di torzuelos=ragazzini che fanno vita di strada e alimentano
l’ambiente del “hampa”.
“Ragazzini bravi a sgraffignare, addestrati a rubare!
Sta dando conto del suo apprendistato da picaro, come se fosse un mestiere; ovviamente si tratta di un
passaggio rovesciato dal punto di vista etico. Infatti deve imparare a rubare, a sgraffignare ecc.
“Facendo come loro, andando dietro di loro, mettendomi negli stessi posti in cui si mettevano loro, riuscivo
a fare un piccolo gruzzoletto. Mi abituai alla mangiatoia bassa”
Utilizza una serie di metafore per dar conto di tutto quello che apprende una volta arrivato a Madrid.
“Non mi davo pena perché mi stavo progressivamente perdendo perché in questo tempo iniziai a giocare a
carte e dadi (che si usavano per truffare) per diventare un baro.” Utilizza tutti nomi di giochi di carte e dadi
che si usavano per truffare.
Idea completamente distorta dell’ascesa. “Da quel punto, da zero, migliorai di status”
Quello che già ci sembrava discutibile, nel caso di Lazaro, che però nella sua prospettiva per quanto
discutibile una scalata possiamo accettare che ci sia stata, invece nel caso di Guzman e dei successivi picari,
ormai sappiamo che quando loro affermano che stessero “ascendendo” sappiamo in realtà che è una
discesa. Se già ci appariva strano che in Lazaro ci fosse effettivamente un’ascesa, in questo caso non è così.
Lui è convinto che sta ascendendo, ma tanto più sta sprofondando sul piano dell’abisso morale.
Tutte le scelte di Guzman sono assolutamente gratuite, lui aderisce gratuitamente a queste condotte.
“Non avrei scambiato questa vita picara per nulla al mondo e a poco a poco imparai a conoscere la corte e
mi si andava aguzzando l’ingegno di ora in ora.”
Il picaro è un soggetto intelligentissimo perché ha dovuto sviluppare la facoltà dell’acutezza che però è in
servizio del male e non del bene.
“E vedendo altri ragazzini più piccoli di me che con poco sforzo riuscivano a ricavare molto di più, però non
potendo perdere questa libertà (l’adesione alla sregolatezza ha un vantaggio fondamentale, LA LIBERTA’);
vedendo che altri riuscivano meglio di me, non essendo così abile, capii che dovevo fare il mestiere del
esportillero cioè facchino (mestiere di copertura del picaro)” si offrivano ai cavalieri e alle signore di portar
loro le borse, ottenevano un compenso e allo stesso tempo rubavano a quella persona per cui avevano
lavorato.
Altro inserto di tipo didascalico, giudizio moraleggiante che non è del Guzmanillo ma del Guzman adulto.
Una volta che ha esplicitato il proposito e quello che vuole fare, interviene il giudizio dell’adulto. Il bambino
è fiero e spiega tutto quello che pensa, mentre l’adulto e moralizzatore nel giro di qualche battuta, con
questa digressione offre il contenuto dottrinale. (Si integra il dominio del consejo nella conseja)
“All’inizio ero abbastanza freddo, timido e non mi sapevo muovere, ma poco a poco questo sciroppo
picaresco mi iniziò a piacere sempre di più e incominciai a muovermi come maggiore scioltezza. Che bella
cosa era e quanto comoda, senza dover ricorrere al filo né alla tenaglia né al martello (arnesi di mestieri
codificati e leciti) perché mi bastava solo il mio ingegno.” Elogio alla vita picara
Nella tecnica del monodialogo, il personaggio viene colto in dialogo con se stesso, sempre nella prospettiva
dello sdoppiamento dell’io che discute e parla con se stesso. Guzman parla sempre in prima persona, però
molto spesso riflette sulla propria condizione, cogliendosi in dialogo diretto con la propria coscienza.
Coscienza che parla all’inconscio: parte razionale che si incontra/scontra con quella irrazionale.
A volte pensavo ai miei genitori e a quello che avevano fatto per tirarmi su e a quello che avevano investito
e di quanto fosse inutile vivere condizionati dalla “honra” cioè dall’ONORABILITÀ, ovviamente coloro che
vivono secondo l’ordine prestabilito vivono condizionati dalla honra. Mentre chi è reietto ed emarginato
non ha bisogno di entrare in questi confini stabiliti dalla società.

HONRA/HONOR
HONOR complesso delle qualità e virtù che uno sente dentro di sé come strutturazione della propria
persona.
HONRA immagine/giudizio che altri hanno nei nostri confronti. Onore che deve essere riconfermato
all’esterno nel giudizio di terzi. E questo ovviamente condiziona il soggetto, ti schiavizza rispetto a ciò che gli
altri pensano di te.
I soggetti che non godevano di rispettabilità non potevano avere i diritti civili.
Questo macigno caratterizza tutta la società che ruotava attorno alla honra tra la seconda metà del 400
(unificazione religiosa della penisola) fino a quasi 3 secoli dopo. Infatti coloro che non potevano dimostrare
la loro rispettabilità vivevano emarginati dalla società, non godevano di diritti, non potevano chiedere
documenti, non potevamo lavorare. Dimostrare di avere la honra significava di essere cristianos viejos (e
pertanto di non discendere da moros o judios) e di non fare mestieri infamanti, di non aver subito
tradimenti. Era una vera e propria ossessione a partire dalla seconda metà del 400 con l’unificazione
religiosa della penisola e andò avanti per quasi 3 secoli.

Guzman dice “che sollievo il poter vivere una condizione che non dipende dalla honra, in cui si è liberi
perché non si è costretti ad acquisire la honra e dimostrare di possederla” elogia la vita picara come
occasione di liberazione dal peso della honra. I suoi genitori hanno fatto delle spese inutili e vivono il
condizionamento ed il peso dalla honra, cioè dell’onorabilità.
L’attacco che formula è che “La honra non deve avere nessuna operatività perché proprio perché troppo
condizionata dal giudizio esterno, deve essere svincolata dalla virtù se ho HONOR non ho bisogno di
HONRA. Avendo la virtù, non mi potranno togliermi mai la honra, sempre che sia indipendente, che
coincida con la virtù, invece rifiuto la possibilità che debba dipendere dagli altri.
Fino a quando uno è virtuoso sarà onorato e mi potranno togliere l’onore solo quando mi toglieranno la
virtù. Per lui l’onore è la virtù personale. Quindi nonostante sia privo di honra per la società, lui sente di
possederla perché detentore di virtù. “Quello che comunemente (tu lettore) chiami onore invece è
superbia o un giudizio pazzo degli uomini che si consumano nel perseguire questo tipo di onore.”

Il capitolo terzo è tutta un’arringa, una lunga moralitè sulla falsa, vana honra che finisce per coincidere nella
visione di Guzman nella vanagloria, di superficialità.

Deciderà di lasciare la corte per andare in Italia, si ferma a Genova per trovare i parenti e qui lui riceve una
nuova frustrazione perché in effetti arriva carico di aspettative e si aspetta di essere riconosciuto e accolto
bene, che gli avrebbero riservato quella parte di eredità che riteneva toccasse a lui, invece accade tutt’altro.
E’ vittima del rifiuto di questi parenti che addirittura gli riservano un’altra beffa, lo fanno dormire in un letto
pieno di letame. Prosegue, scende verso Firenze ed immaginiamo questo itinerario come occasione di
incontri e di conoscenze, di tipi che danno modo di conoscere il ventaglio dell’umanità, dei tipi sociali
dell’epoca.
Alla fine va a Roma e riesce ad entrare a servizio di un ambasciatore. Insomma ha tante occasioni per
riscattarsi dalla figura di picaro, ma alla fine preferisce sempre ritornare alla vita di abiezione, alla vita
picara. Poi ritorna in Spagna con la volontà di iscriversi all’università vuole dare i voti ma alla fine la
tentazione è troppo forte, abbandona gli studi dopo poco. Si sposa e quando arriva in un momento di
difficoltà, fa diventare la moglie meretrice e vive di quei proventi, ruba, fa lavori di vario genere; poi torna a
studiare, alla fine viene arrestato come “ladron famosissimo” che ha acquisito una certa importanza e lo
stesso Guzman si vanta per questo.

LA CONCLUSIONE DEL GUZMAN capitolo III della parte III della II parte
Guzman scrive la sua autobiografia dalle galere, dopo essere stato condannato al remo.
Comincia ad ingraziarsi la figura del comitre, cioè colui che governa la galera.
Ad un certo punto viene sventato un tentativo di furto a bordo da parte di certi compagni detenuti, proprio
perché Guzman fa la spia contro i suoi compagni, così viene recuperata quella sommetta di denaro e si
ingrazia il comitre cioè il nocchiero della nave, che in effetti per ricompensarlo cede a lui questa quantità di
denaro. Così Guzman decide di comprarsi con quei soldi un vestivillo. CIRCOLARITÀ DELL’OPERA
Si era separato dalla vita precedente con la perdita del mantello e dopo aver venduto il vestivillo e alla fine
della sua esperienza, appena gli viene data la libertà di scendere dalla galera, si ricompra questo vestito con
i soldi che per una volta non ha ottenuto rubando ma che gli sono stati dati come ricompensa.
Pag. 504 scendono a terra per comprare gli approvvigionamenti della galera (erano carcerati per
combattere). In questa occasione compra il vestito che denotava una migliore condizione rispetto agli altri
prigionieri. “Aspettavamo di unirci a galere che provenivano da Napoli e in questa occasione io e un altro
vengono mandati a comprare i rifornimenti per l’equipaggio e in quell’occasione il nocchiero gli aveva dato
questi soldi e si compra un vestito di prigioniero antico, che denotava una condizione migliore rispetto a
tutti gli altri prigionieri.
“E con la sventura di vivere la condizione di prigionia, tuttavia io cominciavo a vedere la luce come coloro
che iniziano a seguire la virtù e giurando a me stesso con molta fermezza che avrei preferito morire prima
di tornare a fare azioni basse e spregevoli, io mi preoccupavo solo del servizio del mio padrone, di renderlo
contento, della pulizia dei suoi vestit, del letto e della tavola” CONVERSIONE AL BENE di Guzman.
Avrei preferito morire prima di tornare a condizioni basse. Decisi di dedicarmi al mio padrone e lo inizia a
servire. Quello che lui aveva sempre disdegnato, cioè ser mozo de amo, quando comincia ad interpretare la
virtù intraprende proprio quella via per recuperare la virtù morale.
“Per cui cominciai a ragionare e dissi una notte a me stesso (si tratta di un dialogo tra la parte virtuosa e
quella abbietta di Guzman adulto): -vedi qui Guzman la cima del monte della miseria dove ti ha condotto la
tua amoralità, la tua turpe sensualità, la tua debolezza, l’incapacità di controllare le emozioni, il fatto che ti
sei affidato ai sensi e non alla ragione (turpe sensualità come accondiscendenza alla parte irrazionale). Ora
che stai sulla cima della tua parabola vitale: o sprofondare definitivamente nel precipizio, oppure tendere
verso l’alto e tentare di toccare il cielo con le tue dita-.”
Di nuovo torna l’elemento del bivio, in questo caso sul piano verticale e non su quello che sul piano
orizzontale si vede sulla cima della sua parabola vitale, ora ha due opzioni: o tendere verso l’altro
(ravvedimento) o ricadere di nuovo in basso.

Quando viene ripubblicata la seconda parte, comprare con un sottotitolo: ATALAYA DE LA VIDA HUMANA
L’Atalaya è la vedetta. Quando leggiamo nel frontespizio della seconda parte che Aleman scrive alal fine del
500, appare questo termine, Aleman vuole dire che Guzman diventa il modello esemplare, alto che tutti
dovrebbero seguire.
La vedetta è la metafora: Guzman si trasforma lui stesso in una vedetta perché nel momento in cui si
converte al bene e non al male e quindi quando si redime dal peccato, diventa una specie di osservatorio
umano, infatti dall’alto della “sua vedetta” può prima di tutto osservare i comportamenti degli altri, ai quali
decide di offrire la sua vita e la sua esperienza come un modello da seguire.
Continua: “Ti stai impegnando tanto per lusingare questo tuo padrone, tutto questo per evitare le frustrate
e per godere di una benevolenza che però è assolutamente passeggera e ti senti riconoscente nei suoi
riguardi, ma quanto dovresti invece a Dio? Svegliati da questo sogno (recordar vuol dire svegliarsi) e
individua correttamente gli obiettivi giusti per la tua esistenza. Sostituisci al comitre DIO.”
Si conclude con un messaggio in linea con la dottrina cattolica.
È Dio che ti salva perché ti ha offerto la possibilità di redimerti, così come accade per lo stesso Guzman che
decide di accogliere la possibilità di redimersi (che sempre Dio gli ha dato).
Il tema della Grazia divina era fondamentale all’epoca. Soprattutto la questione degli ausili della grazia, cioè
se nasci già con la grazia divina e quindi è destinato a salvarsi, oppure se con le buone azioni, sapendo
riconoscere gli ausili che dio ci dà nella ti permettono di riuscire a salvarti.
Argomento molto importante nel 600
Il messaggio di Aleman si riferisce alla possibilità di redimersi, se lo farai, potrai assurgere al modello
dell’Atalaya e apporti tu come esempio e modello per il prossimo.
Si redime e si pente e da qui decide di mettere a disposizione la propria vita come modello di vita ex
contrario, è una vita esemplare in senso rovesciato perché lui che ha raggiunto gli abissi dell’amoralità
riesce a redimersi e allo stesso tempo invita gli altri a regolare la propria esistenza alla virtù morale.

6° LEZIONE
Oggi facciamo riferimento all’ultimo segmento del nostro percorso relativo al genere della picaresca. In
effetti nel saggio di Francisco Rico, nozione critica ormai consolidata, con il Buscon di Francisco de Quevedo
si estingue il potenziale della novela picaresca, dal punto di vista formale. Parliamo di novela e non di
genere, non a caso perché mentre la forma romanzo evolverà e si trasformerà, la materia picaresca diventa
una materia molto prolifica perché penetrerà e si fonderà in tutti gli altri generi letterari. Ci saranno sempre
altri generi come romanzo cavalleresco, romanzo breve ecc. che si approprieranno della picaresca, quindi
diventerà un dato di contenuto molto evidente. Non avremo più la picaresca come genere letterario, ma
come argomento testuale. Col la tradizione del Buscon il genere recrimina fortemente.

L’opera non può essere stata scritta prima di quest’età perché Quevedo dà prova di aver letto la seconda
versione del Guzman che era stata pubblicata nel 1602.

Il Buscon fu pubblicato nel 1626, ma in realtà la sua redazione va anticipata a inizio secolo. Non ne
conosciamo la data precisa, ma le ipotesi più accreditate lo fissano al 1603/1604, quindi praticamente
contemporaneo al Guzman di Alfarache. Non dimentichiamo che in questo tempo nascono anche altre
forme di romanzo picaresco o di letteratura celestinesca, un filone che va di pari passo con il romanzo
picaresco, come Slazar che scrive la hija de Celestina. Materia picaresca e materia celestinesca finiscono per
fondersi.

Iniziano ad essere protagoniste le donne nella picaresca, questo fenomeno della “picaresca femminina”
proprio perché si ibrida con la tradizione celestinesca.

1626 viene stampato, ma circolava prima in virtù della redazione manoscritta, alcuni dicono 1603/4 altri
1616, questo perché compare con una dedica in quanto si trattava di un’edizione non autorizzata, per di più
Quevedo non ammetterà mai di esserne l’autore. Infatti Quevedo fu uno degli autori più produttivi e più
importanti e interessanti del siglo de oro, soprattutto nel campo della poesia e nel caso dei Suenos, scritti di
tipo allegorico, opere dottrinali e teoriche, traduzioni dal latino e dal greco, conosceva l’ebraico, quindi era
un poligrafo e un intellettuale di livello stratosferico. Nonostante fosse autore di numerosissime opere, ci
sono due generi con i quali non si sarebbe sentito a suo agio, il teatro che riteneva poco corrispondente a
certe sue pulsioni estetiche e il romanzo, la novela, non scriverà altri romanzi. Questo canale della prosa di
finzione non lo avrebbe sentito vicino a sé. Non rivendicò la patria del buscon perché lo riteneva un
esercizio giovanile, una sorta di divertissement, non credeva al progetto dal punto di vista ideologico e lo
rinnegò perché sostanzialmente, visto che proveniva da una famiglia di bassa nobiltà, era sempre stato tra i
nobili perché veniva da una coppia di genitori entrambi vicini ai sovrani, ma non parte dell’alta aristocrazia.

Si formò a corte e aveva una mentalità molto omologa al codice cortigiano, era un filomonarchico,
assolutista, cattolico e affezionato ad un certo tipo di gerarchia sociale. Un conservatore come lui era
incalzato dalla preoccupazione di mantenere l’ordine esistente, se poi avesse un’indole reazionaria forse è
dire troppo, ma comunque siamo certi che non fosse un progressista, essendo figlio di un certo tipo di
nobiltà con tutti i privilegi.

Nonostante questo scrisse un romanzo picaresco e creò un picaro di fama imperitura, il famoso Pablos. In
effetti è un’opera straordinaria per aspetti che hanno poco a che vedere con la picaresca.

EL BUSCON DE QUEVEDO
Breve prologo “al lector” questo prologo non è di Quevedo, ma di Francisco du Porte, l’editore che
finanziava la pubblicazione dell’opera.

INCIPIT
“yo senor soy de Segovia” pieno rispetto del modello della picaresca con questo “yo”, prima persona che dà
informazioni su di sé, che ci parla della sua ascendenza, elemento fondamentale del genere della picaresca.

“fu come raccontano tutti di mestiere barbiere” ci imbattiamo in uno dei contrassegni più forti del Buscon,
l’ironia testuale, ogni discorso dell’opera raccoglie in sé un contenuto assolutamente sovversivo rispetto
all’argomento del testo. Afferma qualcosa di contrario a ciò che si dice nella lettera (ironia), sulla base di
una condizione, cioè che destinatario e scrittore della lettera condividono lo stesso contesto e le stesse
conoscenze in modo tale da potersi capire. Per far funzionare l’ironia c’è bisogno di disporre dello stesso
patrimonio di dati perché se no non si capirebbero/non coglierebbero l’ironia.

Il testo di Quevedo è tutto imperniato sulla strategia retorica dell’ironia come nel caso “sebbene fossero
così alti i suoi pensieri tanto che si offendeva del fatto che lo chiamassero così, sostenendo che lui non era
barbiere, ma era un tonsore di guance e sarto di barbe” il barbiere all’epoca era un mestiere piuttosto
infamante e aveva un’accezione molto larga (spesso toglieva i denti, curava i piedi) aveva una gamma di
funzioni più ampie rispetto ad oggi.

“sepa” la sepa, cioè il ceppo da cui nasce la vite, per cui riferendolo a suo padre vuol dire che era un
ubriacone.

Clemente Pablo, Pablo era un nome tra i più connotati dal punto di vista etnico, perché era un cognome
molto comune tra i judios. Infatti Quevedo non fa altro che riferirsi ai judios nel testo, per villeggiarli,
scaricare la sua ironia e satira mordace contro la comunità degli ebrei, così come un altro obiettivo erano
anche le donne, quelle vezzose che si agghindavano. Si scaglia costantemente contro determinate categorie
sociali.

Inserisce una sfilza di santi nella genealogia di questa signora che con i santi non aveva niente a che vedere,
da leggere al contrario. “Si dice che non era per niente cristiana, invece lei si sforzava a dimostrare che
fosse imparentata alla discendenza diretta di Cristo” copleros=autori di coplas

Era così famosa e così celebrata (anche Celestina sosteneva di avere una fama universale), ma aveva una
fama buona o cattiva?

Altra componente linguistica del testo: utilizzo di modismos, frasi proverbiali ecc. Fa ricorso a tantissime
forme di linguaggio obliquo, altro, laterale, perché gli permette di fare riferimento a significati secondi che
sostituisce al senso letterario.

“Mia madre ebbe tante sofferenze prima di sposarsi con mio padre e anche dopo perché le malelingue
sostenevano che mio padre metteva il due di bastoni per tirare via l’asso di oro” praticamente rubava ai
clienti e li borseggiava. “Fu dimostrato che a tutti coloro ai quali faceva la barba con il rasoio, mentre
sciacquava loro la faccia sollevando la faccia per il lavaggio, un fratellino mio di 7 anni, tirava fuori il midollo
(cioè l’essenza) delle borse e delle tasche di questi clienti” quindi addirittura un fratellino lo aiutava “questo
fratellino morì per le frustate che ebbe in carcere” praticamente fa arrestare il bambino “se ne dispiacque
molto mio padre, perché questo fratellino era capace perché conquistava la volontà di tutti” dal doppio
significato, sia perché si faceva voler bene e conquistava tutti i clienti, sia che rubava i beni tutti
praticamente. “Per questa e per altre sciocchezze mio padre fu imprigionato”.

Altra battuta memorabile, dobbiamo leggere doppiamente il testo, “ne uscì pieno di onore, perché
nell’uscire dalla carcere lo accompagnarono 200 cardinali, se non fosse che a nessuno si rivolgeva come
signoria”.

Cardenal vuol dire sia cardinale, ma anche “lividi”. Uscì dal carcere livido delle botte ricevute. Dice queste
cose con spietatezza perché stiamo parlando di suo padre. Questa ironia così mordace, ovviamente non è di
Pablo, ma dell’autore. E’ una caratteristica dell’opera e la allontana dai precedenti del genere della
picaresca. L’autore si sovrappone al protagonista e parla come se fosse lui il protagonista.

In questo caso si crea quindi una distanza molto forte tra autore e personaggio e questo è dovuto alla
distanza che separa effettivamente Quevedo da Pablos, proprio perché l’autore non ha nessuna empatia
nei suoi confronti. Questo è una caratteristica che diventerà sempre più evidente all’interno del testo. Non
sentiamo la voce autentica di Pablos.

Se facciamo un confronto con il Lazarillo, intanto è possibile accedere al famoso patto tacito dell’anonimo
autore perché pensiamo che le parole di Lazaro siano effettivamente autentiche e in qualche modo ci
immedesimiamo con lui. Invece Quevedo non sposa la sua prospettiva, anzi lo odia, sembra quasi che
Quevedo sadicamente gli fa fare quello che vuole e lo sottomette, si prende gioco di Pablos e ovviamente
della realtà di cui fa parte.

“e non lo dico per vanagloria” ironia lampante, che c’è da vantarsi?

“un giorno lodandomela molto un’anziana che la conosceva, per la sua cordialità tanto che stregava quanti
entravano in contatto con lei” anche con il gioco di allitterazione “solo dis que se dijo” fa finta di ricordare
male “solo dico, riferiscono che si disse in qualche momento non so che di un cabrone, del volare, la qual
cosa la fece vicina che qualcuno le mettesse le piume e la portasse in piazza”

Cabron e volar fanno riferimento alle streghe (cabron era il simbolo del diavolo e di solito si sa che le
streghe volano).

Fu spesso vicina alla punizione destinata alle streghe che venivano cosparse di cera o di miele, poi venivano
impiumate e fatte andare in giro così

“Ebbe fama di riedificare le donzelle “ (celestina) resuscitava i capelli coprendo i capelli bianchi

Alcuni la chiamavano rammendatrice di piaceri (faceva la mezzana) altri, modellatrice di volontà non
concordi.

Faceva fare pace agli amanti.

Linguaggio gergale molto presente “alcuni la consideravano la più brava, altri solo la terza, ma era
bravissima a sottrarre i denari di tutti” e lei ovviamente si vanagloriava della sua fama.

Flux è un termine del gioco delle carte. Era flux per i denari di tutti perché riusciva a prendere i soldi di tutti.

Come buona erede di Celestina, anche lei ha un laboratorio abbastanza ricco “teschi da tutte le parti il letto
costruito sulle corde di impiccati” allo sguardo sconcertato di Pablos rispondeva cercando di sminuire la
cosa “ma che credi, io queste cose le tengo come reliquie dei santi, non per altri motivi”

Litigavano, la madre e il padre, su quale dei mestieri dell’uno e dell’altra, su quale delle due carriere io
dovessi seguire.

PASSAGGIO IMPORTANTE che predominerà sugli sviluppi, emerge il movente fondamentale della scelta di
Pablos di consegnarsi alla vita picara. I miei genitori litigavano su quale carriera dovessi iniziare, ma io che
sin da piccolo ho sempre avuto l’ambizione di diventare cavaliere, di entrare nella compagine sociale dei
cavalieri, quindi di ascendere alla vita sociale, non feci né l’una né l’altra. Mio padre mi diceva che quella di
essere ladro non è una cosa meccanica, ma si deve sviluppare per esperienza.

Riferimento alla suddivisione delle arti del trivium e del quadrivium, chi aveva imparato le arti liberali del
primo livello di studi, dopo poteva scegliere il diritto, medicina o teologia.

Il padre diceva che per essere ladro ci voleva una competenza, un sapere era un’arte liberale.
Discorso polemico sul mondo “perché credi che i poliziotti e le altre autorità ci temono tanto? Perché
temono la concorrenza, i primi a rubare sono loro quindi temono la concorrenza.

In groppa ad un asino se io avessi cantato, se avessi fatto la scuola più di una volta nunca confessè cioè
“non feci mai la spia fino a quando …. E così assieme al mio mestiere ho portato su tua madre

E così insieme al forestiere ho portato a tua madre, lo mas honradamente che fa riferimento al tutto il
sistema di valori che in questo caso è completamente sovvertito. La horra vuol dire valersi da sé e vivere
dei propri proventi, e non secondo la concezione nobiliare del termine. Anche Celestina era fiera di sé, però
parliamo comunque di un codice etico completamente rivesciato.

Non appena la madre sente dal padre che lui l’ha mantenuta, si arrabbia tantissimo “Ma come io ho
mantenuto a te? Ma che stai dicendo? Piena di collera, dispiacendosi che io non diventassi un mago (mi
cimentassi nell’arte magica). Io ho mantenuto a voi, vi ho permesso di uscire dal carcere e vi ho mantenuto
quando eravate pigro, con il mio denaro. Se avevi il valore di non confessare era perché tu eri capace di
tacere, o per i beveraggi che io ti davo che ti facevano tacere? Grazie ai miei intrugli.

Avrebbe detto molto di più se con i colpi che stava dando non le si fosse rotto un rosario (DISSACRAZIONE
DELL’ELEMENTO RELIGIOSO). In effetti era un rosario particolare fatto con i denti di defunti.

“Gli feci far pace, dicendo che volevo andare avanti con i miei desideri/riflessioni/pensieri da cavaliere e
così chiesi che mi iscrivessero a scuola. Dopo aver borbottato un poco entrambi, si rassegnarono del fatto
che io volessi andare a scuola, mia mamma tornò ad infilare gli elementi del rosario e mio padre fue a rapar
(fare i capelli/rubare) (…) rendendo grazie a Dio di avermi reso figlio di genitori così abili e preoccupati per il
mio bene (IRONIA TESTUALE).

Appare qui l’elemento fondamentale che consente al picaro di trovarsi in quella condizione di solitudine
che è propria della figura del picaro.

Effettivamente viene iscritto a scuola, preso da questa ambizione di voler diventare cavaliere, inizia la sua
carriera scolastica. A scuola ha a che fare con bambini di differente estrazione sociale. Molto importante è
che in aula si comporti benissimo, si fa notare dal maestro per la sua diligenza, ci tiene tantissimo ad
imparare a leggere e scrivere per questa ambizione di entrare a far parte de “los buenos”.

Durante la festa del re del gallo, una sorta di Carnevale, l’alunno che si è distinto per correttezza, diligenza
ecc. viene scelto come re del gaglio? Pablo viene scelto ed è contentissimo di questo primo vero
riconoscimento che ha mai ottenuto in vita sua, a tal punto da vivere l’attesa della sfilata dei bambini dalla
scuola (il cui prescelto stava su un cavallo al capo della sfilata di bambini come appunto il re del gallo).
Doveva essere un momento di onorabilità per lui, di orgoglio, invece le cose non vanno come si sarebbe
aspettato.

Arrivò finalmente e questo giorno, si era preparato il vestito, era emozionatissimo. “Arrivò il giorno e salì in
groppa ad un cavallo tisico, magro magro e appassito, il quale andava facendo reverenze (si inginocchiava
perché non ce la faceva a stare in piedi), le anche erano vicine, senza cura el pesques di cammello??

Aveva un occhio storto e nell’altro non vedeva, quanto all’età gli mancava solo di chiudere gli occhi,
sembrava più un arnese che un cavallo. Se avesse avuto la falce nella mano avrebbe impersonato
direttamente la morte dei ronzini. Dimostrava i segni dell’astinenza del suo aspetto e si vedevano
chiaramente le penitenze e i digiuni, senza dubbio alcuno non aveva mai avuto notizia né del fieno né della
paglia, il manto del cavallo a tratti risultava calvo. Se avesse avuto una serratura sarebbe sembrato un
cofanetto tanto era magro. Io e fuoriusciti tutti i bambini dietro di me, con atteggiamento maestoso,
passando dalla piazza, ma tremo solo a ricordarmelo ancora, mentre passavano davanti a dei banchi di
verdura, il povero cavallo affamato prende un cavolo e lo ingurgita, tanto che subito gli arriva all’esofago.

La verziera, la venditrice di verdure, che sono sempre delle sue imbrogliate(?), iniziò a gridare,
offendendolo.

L’ unico momento di gloria che Pablo aveva avuto nella sua vita, si conclude come una vera e propria
battaglia.

Dilogia che sfrutta Quevedo quando dice “carote nasute, nabos frisones, rape come trasformate in cavalli”
trasforma la scena come una sorta di battaglia epica, ma in realtà è una battaglia “nabal” gioca con le
parole, in questo gioco di rape, che rimanda ad una battaglia epica ma non è altro che una battaglia di rape.

Tutti coloro che si trovano in piazza iniziano a lanciargli addosso ogni tipo di verdura.

“Appena mi resi conto che pur essendo una battaglia nabal, che non si doveva tenere a cavallo, scesi subito,
ma il colpo che diedero in faccia al cavallo, fu così forte che cadde con me in una, con rispetto parlando,
latrina.”

Si ricopre completamente di fango: “mi ridussi quale vossignoria possa immaginare”

VUESTRA MERCED: elemento puramente ornamentale, non si sa chi è, non ha valore nel testo. Altro
elemento di separazione dal modello del Lazarillo, nel quale vuestra merced era motivo e finalità
dell’opera. Qui non ha alcuna funzionalità.

Oltretutto dal punto di vista della forma testuale l’autobiografia di Pablos NON è una lettera, non lo dice in
nessun momento, c’è questo interlocutore che appare di tanto in tanto nel testo ma non si sa perché non si
sa come e quando, non è una confessione, non è una lettera, quindi vediamo deprivata l’autobiografia della
sua stessa maggior testio, è un’opera gratuita, l’atto della stesura di un’autobiografia è completamente
gratuito.

Vuestra Merced è il destinatario ma ha semplicemente una funzione di corredo, strumentale.

Anche gli altri bambini iniziano a rispondere ai colpi di rape, carote, verdure che arrivavano da tutte le parti
e i ragazzini finirono per ricambiare lanciando pietre e così ruppero la testa a due di loro.

Ovviamente siccome a scatenare il tutto era stata la caduta di Pablos dal cavallo e il cavallo stesso, se la
presero tutti con lui. “Dopo essere caduto nella latrina, io ero la persona più NECESSARIA (cioè bisognosa
della rissa in quel momento, ma allo stesso tempo c’è un gioco di parole “necessaria” come la latrina per gli
uomini quindi può anche stare a significare che fosse la persona più necessaria, cioè che si era convertito
completamente in una latrina).

Arriva la polizia, inizia a prendere informazioni, interroga tutti quanti, sequestra le armi da una parte e
dall’altra, poi arrivato a me, vedendo che non avevo nessun’arma (..) “quando mi chiesero di deporre le
armi io risposi che se non si riferivano a quelle che erano offensive per l’olfatto, che non ne avevo altre” il
fatto che lui si ricordi e sottolinei che si fosse sporcato, che era imbrattato di feci ecc, si può leggere come
un elemento caricato di un simbolismo allegorico/metaforico, è l’autore che nega al personaggio l’unico
momento di gloria che avrebbe potuto avere e lo punisce con una caduta.

La caduta in letteratura ha sempre un valore allegorico, è una ISODOMIA, che nel corso del Buscon verrà
ripresa più volte sempre con la doppia funzione di castigare il personaggio.

In questo caso si percepisce la vendetta sadica dell’autore che ha voluto castigare e punire l’ambizione del
personaggio di voler essere meglio di quello che era.
“Vedendomi posto in una festa rovesciata, la città sconvolta, i genitori offesi, il mio amico con una ferita, il
cavallo morto, decisi di non tornare più a scuola né a casa dai miei genitori” è la vergogna che non gli
consente di tornare sui suoi passi. Appena fa quello che desiderava subisce un disonore e sulla base di
questo disonore decide di non tornare più indietro.

Così decide di rimanere al servizio di Don Diego, uno dei suoi compagni di classe, il quale però lui sì che è
caballero. E’ figlio della società bene. Decide di restare al servizio di Don Diego, e questo rese felice i suoi
genitori per dargli la mia amicizia.

Sottolinea il fatto che lui fosse entrato al servizio di Don Diego, ma non in una posizione di subalternità,
quando come suo pari, per dargli amicizia.

“Scrissi ai miei genitori che non mi serviva più andare a scuola, perché sebbene non sapessi scrivere ancora
bene, per il mio proposito di essere cavaliere, quello che era sufficiente per un minimo grado di istruzione,
bastava scrivere male, e che me ne andavo per non fargli sprecare più soldi e per non dargli dispiaceri.
Avvisai il mio tutore facendogli sapere come sarei andato a finire e come avrei vissuto finché non mi
avessero dato il permesso, non sarei tornato a visitarli.

CAPITOLO III

Questo capitolo si intitola “Di come io andai in un collegio privato come servo di Don Diego”

“Don Alonso (il padre di don Diego) decise di mettere suo figlio in un convitto per risparmiarsi le cure del
bambino (per non stargli appresso) e perché pensava che gli facesse bene, per allontanarlo dalle sue
coccole ed ebbe notizia che a Segovia c’era questo convitto gestito da un certo Licenziado (maestro) Cabra
che aveva per mestiere quello di allevare i figli di cavalieri.”

Quindi Don Diego viene mandato al convitto e Pablo lo deve seguire come suo servo.

“Entrammo nella prima domenica della Quaresima (periodo di digiuno e astinenza) in potere della fame
viva, una tale miseria non può essere espressa con parole diverse, non può essere maggiorata. “

Descriptio, ritratto di Cabra: lui era un chierico cerbottana (cioè dal punto di vista fisico è magro e alto,
allampanato, smilzo, secco e lungo), lungo solo nelle dimensioni, cioè non era una persona generosa, una
piccola testa, i capelli rossi, non c’è da dire di più a chi conosce il proverbio (el pelo vermejo era associato al
sottotipo del judios), gli occhi avvicinati alla nuca (erano così incavati che sembravano poggiati sulla nuca)
che sembrava ti guardasse dall’interno delle caverne. Così profondi e scuri che sembravano un luogo adatto
ad allestire tende per farci il mercato. Quello che ci interessa della descrizione è che l’autore (che interviene
ad ogni nesso spinto) non si limita a descrivere il personaggio dall’aspetto fisico, ma lo connota anche da un
punto di vista etico e morale. Sta realizzando una ETOPEA, dà una descrizione fisica dalla quale si ricavano
tratti caratteriali (perché nel dire che si trattava di un chierico cerbottana, vuol dire che era VUOTO
DENTRO).

Il naso tra Roma e Francia. Vuol dire sia che ha il naso spropositato tra Roma e Francia, ma in spagnolo
Roma vuol dire “schiacciato” che era un aggettivo che spesso era associato proprio alla capra.

Ha una fisionomia molto vicina a quella della capra e allo stesso tempo il personaggio si chiama proprio
Cabra (esempio di nome/nomen).

Il riferimento alla Francia non è a caso. “Un naso lungo, ma soprattutto pustoloso (le pustole erano insorte
sul naso). A queste escrescenze erano frutto di un raffreddore, non erano certo frutto del vizio, perché di
certo non se lo sarebbe potuto permettere (AVARIZIA, altro tratto caratteristico).
Riferimento alla Francia: coloro che contraevano la Sifilide (malattia venerea che si contraeva con l’atto
sessuale, comunemente chiamata “la malattia di Francia”) e in questo caso sta dicendo che il naso era
pustoloso come quello di chi va a puttane perché era troppo avido per pagarle.

Si può leggere in vari modi; senso letterario: aveva il naso troppo lungo, Roma allude alla Capra e alla
fisionomia della capra che coincide con la persona; Francia: era un personaggio così abbietto che non si
cura nemmeno il raffreddore per non spendere soldi.

7° Lezione 24-10

IL Buscon di Quevedo
L’opera si inserisce nella traiettoria del genere picaresco, ma tuttavia per le sue caratteristiche interne e il
suo statuto interno, ne segna in effetti già il declino.
E’ un’opera che viene pubblicata in maniera non autorizzata, quasi piratesca, frutto di un libraio, Deporte,
autore dell’unico elemento paratestuale dell’opera nel 1626 sebbene l’opera sia da far risalire ad anni
precedenti (1603/1604-1616/1619). Si alternano varie ipotesi anche perché Quevedo non riconobbe mai la
paternità dell’opera.

La redazione del Buscon (termine ad quo) è da far risalire al 1603/1604 sebbene si alternano diverse ipotesi
perché non ci furono dichiarazioni di Quevedo in quanto non riconobbe mai esplicitamente la paternità
dell’opera, quindi l’ipotesi di una redazione intorno a questi anni per un dettaglio interno, in cui si fa
riferimento ad un personaggio, un poeta Sivigliano che fu condannato a morte ed impiccato.

Che non possa essere stato scritto prima del 1603/1604 dipende anche da altre ragioni, da prova Quevedo
che ha certamente letto la continuazione apocrifa del Guzman (la 2° parte che era uscita nel 1602) quindi se
l’aveva già letta doveva essere una data posteriore a quell’anno.

L’opera non può essere stata scritta prima di quest’età perché dà prova di aver letto parte de la seconda
parte della versione del Guzman di Mateo Aleman che era stata pubblicata nel 1602 e in più ci sono dettagli
relativi ad un altro romanzo picaresco, il “Guitton Onofre”, uscito nel 1604 scritta da un certo Gonzales, la
cui influenza si riversa sul Buscon.
Inoltre, intorno al 1612/1616-1619 perché esce un’altra opera di un autore molto noto Alonso Géronimo de
Salas Barbadillo del genere picaresco e della cosiddetta novela cortesana, la cui opera, che si colloca tra il
12 e il 14, dà testimonianza di conoscere il Buscon, che quindi doveva essere stato scritto e diffuso almeno
come manoscritto perché conosciuto in quell’epoca.

La pubblicazione nel 1626 (termine ad quem): viene dato alle stampe e fino a metà secolo (1650) riceve
ben 11 nuove edizioni, a prova del fatto che ebbe un successo editoriale enorme a dispetto del fatto che
forse il suo autore non avrebbe voluto che si conoscesse e si diffondesse tanto.

Abbiamo anche sottolineato altri aspetti provenienti dalla struttura e dall’economia del testo.
Patrocinato del tsto autobiografico, ma oltre a questa prospettiva, in realtà appare ad un certo punto anche
uno pseudo-destinatiario che in effetti sarebbe un’entità priva di funzione all’ interno del testo. Infatti è sì
un narratario in quanto destinatario della narrazione però non ha nessuna funzione, né tantomeno il testo
ci offre una giustificazione alla sua presenza nel testo e oltre tutto è una figura che appare molto
sporadicamente.
Inoltre la versione più accreditata del Buscon tra i 4 manoscritti dell’opera, rinvenuto nella biblioteca
Madrid, come quello più vicino ad un manoscritto autografo. E proprio in questo manoscritto in riferimento
al Vuestra Merced che ricompare nella parte finale, in effetti sembrerebbe che ricompaia in vesti femminili,
come Señora, cosa che farebbe pensare che se il Buscon fosse stato destinato ad una donna ma che ci fa
questa signora lì in mezzo? Fu una svista, una distrazione dell’autore nella redazione poiché non ebbe
modo di correggere l’opera? Era stato pensato con questa prerogativa di un destinatario interno al
femminile? Non lo sappiamo ma questa è sicuramente la riprova che su questo elemento testuale Quevedo
non dovette dare una grande attenzione né diede tanta importanza.
Questo si somma ad altre questioni relative alla struttura interna del testo che ci fanno pensare che in
realtà non fu un’opera molto lugubrada da parte di Quevedo, quasi un esercizio, in divertissement, frutto di
un’occupazione oziosa perché in realtà risulta una narrazione priva di qualsiasi giustificazione, non c’è un
elemento che sia allo stesso tempo causa e obiettivo della stesura dell’opera.
Quindi questo non ci permette di capire quale sia il motivo della stesura dell’opera visto che Pablos non si
pente, non vive una evoluzione, non cambia ma Pablo rimane sostanzialmente uguale a se stesso, anzi ad
ogni tentativo di integrarsi e di migliorare il suo status viene sistematicamente castigata questa sua
pulsione, viene punita e retrocede alla sua situazione di partenza.

Questo ha fatto sì che le interpretazioni del Buscon si addensassero su 2 posizioni contrastanti:


una che fa capo all’esegesi che all’opera ha voluto dare Alexander Parker, che seguito da Stephan May,
due noti ispanisti che difendono una lettura deterministica del Buscon, vale a dire che siccome Francisco
de Quevedo aveva un ideologia conservatrice omologa all’ordine delle cose stabilite, quindi basata sul
principio delle classi sociali costruite sul principio de la sangre, ritengono che, il messaggio che Quevedo
intende lasciare è che Pablo, non potendo godere di una serie di condizioni di nascita, inevitabilmente è
condannato e destinato a non poter mai uscire dalla sua condizione di partenza e a non potersi affrancare
dal contesto che lo ha generato, il suo destino è segnato e per questo non arriva mai all’ambita
integrazione sociale.
Deterministicamente il suo destino è segnato e non può cambiare condizione sociale, non potendo mai
arrivare a raggiungere il proprio desiderio.
2) Altri smussano questa posizione, fra questi soprattutto 2 grandi studiosi ispanisti ; Maurice Molho
insieme a Fernando Lazaro Carreter osteggiano questa lettura di Parker e compagnia, perché vedono una
genialità di Quevedo che non si addice alla lettura deterministica dell’opera, né alla stesura de tesis
dell’opera, cioè di un romanzo a tesi.

In realtà possiamo dire che Pablo compie delle evoluzioni, più che il determinismo legato al contesto di
provenienza socio-culturale e socio pecuniaria, quello che nella lettura di questi studiosi ipoteca le
possibilità di metrar di Pablo è questa sua naturale propensione a scegliere la vita picara, lui
deliberatamente applica il libero arbitrio che avrebbe potuto smarcarlo dalla condizione predeterminata
dalla sua nascita, però in realtà lui a un certo punto rinuncia al proposito di diventare cavaliere e di far
parte di quella schiera a cui lui ambiva, ad un certo punto della narrazione perde la fiducia in quel tipo di
vita e volontariamente sceglie la vita picara, come se non credesse più al suo originale progetto ideologico.
Si tratta di una lettura legata più a fattori psicologici del personaggio piuttosto che a fattori sociologici,
ideologici e deterministici.

Pablo nasce a Segovia da una coppia di genitori che a dispetto delle loro pretese di passare per persone
onorevoli, in realtà erano due genitori completamente deshonrados un ladrone è una
fattucchiera/prostituta, così con il desiderio di diventare un cavaliere, si fa iscrivere ad una scuola ma il
primo tentativo di inserimento in una compagine sociale, sappiamo non andare a buon fine, simbolo della
festa del rey del gallo, con la caduta nella fanghiglia, simbolicamente Quevedo “punisce” Buscon per aver
provato ad inserirsi in questo contesto sociale e si prende gioco del personaggio.
Frustrato dalla condizione di disonore e dalla vergogna decide di abbandonare la scuola, perché non si
sarebbe mai liberato dal disonore e con il suo compagnetto e signore, Don Diego, si recano al convitto del
domine Cabra. Un evento, un’esperienza atroce a cui vengono sottoposti, rappresenta un elemento di
svolta alla formazione psicologica di Pablos (così come l’episodio del toro per Lazaro o quello delle uova per
Guzman).

LETTURA DEL CAPITOLO III

Il discorso segue una determinata strategia retorica. Quevedo snocciola una serie di elementi come il fatto
che fosse Quaresima, già ci inserisce in un’atmosfera ecclesiastica. Poi passiamo ad un’ETOPEA del domine
Capra che si presentava in maniera completamente opposta a quella che sarebbe dovuta essere la sua
generosità in quanto clerico, invece appare da subito caratterizzato da una profonda AVARIZIA.

Prima parte: parte superiore del corpo

“Egli era un chierico cerbottana lungo solamente nell’aspetto, una testa piccolina, il pelo vermiglio, gli occhi
ravvicinati fino alla nuca che sembravano guardare come delle grotte così profonde e scure da poter
montare delle tende da mercanti. Il naso tra Roma e Francia che era stato mangiato da pustole per il
raffreddore, perché di certo non potevano essere state provocate dal vizio, perché costa denaro. La barba
che in origine doveva essere vermiglia, si era scolorita terrorizzata dalla vicinanza e della bocca che se la
voleva mangiare.” Immagine quasi di autofagia: umanizzazione di elementi inanimati, sulla quale Quevedo
gioca molto. Si tratta di procedimenti di trasformazione sempre a scopo satirico e burlesco. Tutti
procedimenti di trasformazione, sempre a fini satirici e burleschi.

“Al domine Capra di denti gliene mancavano non so quanti, e credo che per pigrizia, o perché vagabondi
erano stati esiliati dalla bocca. (Riferimento all’ordinanza di Filippo II che aveva stabilito l’esilio per i
vagabondi), la gola lunga come quello di uno struzzo, con la noce (il pomo) tanto sporgente che sembrava
voleva uscire dal collo per andare in cerca di cibo, le braccia rinsecchite, le mani ciascuna come una
manciata di frasche secche.”

Sembrano delle costruzioni a puzzle, come i quadri di Arcimboldo, come una sorta di assemblaggio.

“Guardandolo dalla metà verso il basso pareva una forchetta o un compasso, dava passi molto ampi,
risuonava come le tablillas di San Lazaro.”

Las tablillas de san Lazaro erano delle cassettine che usavano i mendicanti, che facevano rumore. Lazaro
dice che il domine Cabra era così magro che quando camminava sembrava dondolare e produceva un
suono come quello della cassetta delle Tablillas de san Lazaro.

“Parlava lento (risparmiava anche nella voce), e la barba l’aveva lunga perché mai se la tagliava per non
spendere, mentre lui diceva che era tanta la ripugnanza del sentirsi le mani del barbiere su per la faccia che
piuttosto si sarebbe lasciato ammazzare che permettere una tal cosa; i capelli glieli scorciava un garzone dei
suoi pensionati. Portava un berretto i giorni di bel tempo, sforacchiato, tutto bucato dai topi e
guarnito/rattoppato dal grasso, la sottana era secondo alcuni, un miracolo, perché non si sapeva di che
colore fosse. Alcuni vedendola così spellacchiata la ritenevano di pelle di rana e per altri era solo di pura
illusione (tanto fosse trasparente); da vicino sembrava nera, da vicino di blu scuro. La portava senza cintola;
non portava né collare né polsini; sembrava che con quei suoi capelli lunghi e la sottana ormai consunta e
corta, sembrava il paggio della morte.”

Elemento che si rifà quasi ad una concezione demoniaca di questo personaggio.


CONNOTAZIONE DISTRIBUTIVA DEGLI ELEMENTI:

Il testo è tutto costellato da negazioni o da forme negative come il des- quindi tutti elementi linguistici che
semanticamente rimandano al meno, a qualcosa che va per sottrazione, non è un elemento che dice cosa
c’è ma piuttosto cosa non c’è. Anche le scelte linguistiche si rifanno agli elementi semantici.

RIFERIMENTI TESTUALI: LETTERARIO/SEMANTICO:

Il testo rinvia a tantissimi significati, non solo senso letterale, ma tutto un contenuto simbolico al quale il
lettore dell’epoca poteva accedere.

Per esempio il riferimento allo struzzo si accomuna a quello della madre che abbandona il figlio, come uno
struzzo che sotterra le sue uova e le abbandona, quindi associazione al domine Cabra che dovrebbe essere
paterno e amorevole nei confronti di questi bambini che dovrebbe tenere in cura, e invece non lo fa, perciò
lo assimiliamo alla destruz.

L’ elemento della Cabra,infatti oltre a chiamarsi così, praticamente si avvicina ad una capra. Non ci
dimentichiamo che l’elemento del pelo vermiglio richiama esplicitamente alla tipologia del judio, per non
dimenticare l’episodio biblico del capro espiatorio, quello sul quale cadevano tutti i peccati, e perciò veniva
abbandonato nel deserto e scontare tutti i peccati della comunità.

Anche la pelle di rana, potrebbe alludere alla piaga d’Egitto.

Rovesciamento del concetto di abbondanza.

Il personaggio è una SUMMA VITIORUM che viene a snocciolarsi attraverso questa fusione di elementi
simbolici.

E’ il rovesciamento della cornucopia, corno simbolo dell’abbondanza.

Perché la capra? Non solo per la questione del capro espiatorio abbinato all’elemento satirico contro gli
ebrei, ma anche perché se abbandoniamo le sacre scritture e rientriamo nella mitologia, sappiamo che la
capra maltea era quella che alimentò con il proprio latte Zeus, da lì dalla capra maltea venne fuori il corno
dell’abbondanza. La stessa cornucopia è un evoluzione di questo mito dell’abbondanza. Invece il domine
Cabra è il rovesciamento dell’abbondanza. La cornucopia diventa una cornu-inopia, il corno della carenza e
della povertà.

Per la cultura cristiano/ebraica, la capra è simbolo dell’intelligenza divina.

Nella cultura greca la capra che viveva sui monti aveva una vista straordinaria e questa veniva considerata
come una manifestazione dell’intelligenza divina: capra con gli occhi piccoli che vedono oltre.

Invece lui non vede, occulta la realtà attorno a sé, c’è miseria da tutte le parti ma lui finge che sia
abbondanza.

Stratificazione semantica, su tutti i livelli, da tantissimi riferimenti cristiani/cultura occidentale. Tutti con
l’obiettivo di smascherare questo personaggio.

“Ognuna delle sue scarpe poteva fungere da tomba per i filistei. E la sua stanza? Non c’erano neanche
ragni; faceva degli scongiuri contro i topi dalla paura che gli rosicchiassero certi pezzetti di pane duro che
conservava. Aveva il letto per terra e dormiva sempre da un lato per non consumare le lenzuola; al fin dei
conti era arcipovero e arcimisero.”
TECNICA LINGUISTICA DI QUEVEDO:

arcipovero/protomiseria sono neologismi creati da Quevedo che spesso nelle sue opere ricorre a questa
tecnica per creare parole nuove che diano conto di un significato nuovo. Aggiunge un surplus di senso e
significato che prima non esisteva.

Con Quevedo siamo già nell’ambito di quella che sarà un’estetica concettistica (del concepto o
dell’acuteza) che ricercherà sempre questo effetto di sorpresa nel prodotto artistico (sia esso un quadro,
una facciata di una chiesa, un gioiello, e sia esso una pagina scritta di un’opera letteraria) dove si assegna
un primato non tanto a quello che si racconta, ma a come lo si racconta e soprattutto la scrittura deve avere
questa componente creativa. E’ questo che fa Quevedo: gioca con la lingua per costruire un linguaggio
altro. Sistematicamente occulta i riferimenti reali sotto l’uso di metafore, che però nonn sono metafore
semplici, di primo livello ma sono sempre riferite ad un secondo e terzo grado della trasfigurazione retorica.
Prima di conoscere il referente linguistico, bisogna fare 2/3 passaggi logici.

“La nariz entre Roma i Francia” è una metafora che presenta varie articolazioni interne: concepto.

Non ci permette di accedere subito al referente reale e al senso letterale.

L’INFRALINGUAJE:

Gli studiosi del Buscon hanno parlato di Quevedo come ideatore dell’ infralinguaje. Leo Spitzer fa uno
studio su questa tecnica retorica di Quevedo. Spitzer si riferisce alla capacità di Quevedo di creare un’altra
realtà al di fuori del linguaggio utilizzato. Non leggiamo soltanto un ritratto, ma un’altra cosa.

E’ la realtà che viene trasfigurata e ricreata ad un altro livello, perciò come se Quevedo si inserisse tra
l’oggetto/la realtà e la parola che lo determina, per creare una sorta di oggetto a metà, che vuole significare
un’altra cosa. Si inserisce in mezzo alla lingua per creare altri elementi.

E come se Quevedo altera il rapporto di univocità fra parola e significato, infilandosi dentro, rompendolo,
creando questo infralinguaggio dove la realtà e i referenti reali non sono più riconoscibili con immediatezza,
ma bisogna per forza ricorrere ad un linguaggio altro per capirli. Si tratta di un sistema obliquo, laterale.

Se mi sposto dalla realtà letteraria, posso andare oltre.

Se facciamo riferimento ai 4 sensi delle scritture, nel barocco questi si mescolano, si incontrano, non sono
disposto in maniera progressiva, ma a spirale.

Venni in suo potere e in suo potere stetti con Don Diego. La notte che arrivammo al convento ci disse quale
sarebbe stata la nostra camera e ci fece una predica corta (ovviamente corta, deve risparmiare pure su
quello praticamente) naturalmente corta per non sprecare tempo e altro ancora, ci disse quello che
dovevamo fare, fummo occupati nel fare questo fino a ora di mangiare, andammo alla stanza del refettorio,
mangiavano prima i padroni e servivano i servi.”

Allude al fatto che i cavalieri si sedevano a tavola e immediatamente dietro, servivano i padroni e per
tradizione mangiavano gli avanzi dei loro padroni.

Selevin= parte più piccola dietro l’altare dove il prete fa le sue cose.
“Fino a 5 cavalieri si sedevano ad un tavolo.” La prima cosa che fa è vedere se ci sono i gatti, che
solitamente vanno dove sta il cibo. “Mi guardai intorno per vedere se c’erano gatti e come non li vidi chiesi
ad un ragazzo del pupillaje del convitto, che portava su di sé i segni del soggiorno (stava lì da tempo).
Cominciò ad impietosirsi e disse –Ma chi vi ha detto che i gatti sono amici del digiuno e delle penitenze. Si
vede che siete nuovi dal fatto che siete ancora grassottelli- Iniziai a spaventarmi, e ad affliggermi sempre di
più quando vidi che quelli che stavano qua da tempo erano tanto sottili come lesite e avevano le facce così
bianche che sembrava si sbarbassero con el aquilon. Si sedettero a cena e mangiarono una cena eterna,
senza inizio né fine.”

Racconto della cena come parafrasi del linguaggio eucaristico e antifrasi dell’ultima cena di Gesù.

“Da quel momento si sedette il domine Cabra tra di noi, dispensò la benedizione e da quel momento ebbe
inizio una cena eterna, perché non ebbe inizio né fine. Portarono del brodo in certe scodelle di legno, ma
così chiaro che nel riflettersi in una di queste Narciso avrebbe corso più pericolo che alla fonte (allude al
mito di Narciso che, avendo sprezzato l’amore della ninfa Eco, s’innamorò della propria immagine riflessa
nell’acqua d’una fonte, dove, disperato, si annegò credendola di persona reale). Notai con ansia che le dita
macilente, si tuffavano a nuoto dietro ad un cecio orfano (cioè era uno solo) che stava da solo sul
pavimento. Ad ogni sorso diceva Cabra: - Certo che non c’è niente di meglio che lo stufato, dicano quel che
dicono, tutto il resto è vizio e gola. Tutto questo è salute e altrettanto ingegno.”

IPOCRISIA del personaggio: vuole occultare questa realtà così misera e al contrario sottolinea l’opulenza del
luogo e della cena che è servita ai bambini.

Pablo si rende conto della situazione che sta iniziando a vivere e di fronte alla falsa affermazione del
domine Cabra inizia con le sue lamentele “-Ma che ingegno e ingegno, che tu possa morirci con il tuo
ingegno- dicevo io tra me e me quando vidi un ragazzino mezzo spiritato, praticamente con più spirito che
carne, e così fiacco che aveva un piatto di carne tra le mani che sembrava l’avesse tolta da se stesso.

In questa scodella priva di tutto, veniva una rapa (nabo) avventuriera che girovagava e disse il maestro: -Ci
sono le rape, non c’è la cacciagione? Non c’è piatto migliore che possa competere con una rapa. Mangiate,
mangiate che io mi compiaccio a vedervi mangiare.” Ovviamente da leggere come un’espressione
rovesciata.

“Distribuì a ciascuno di noi così poco capretto, che tra ciò che gli si attaccò sotto le unghie e ciò che gli si
rimase fra i denti, penso che si sia consumato per intero, lasciando prive di comunione” (NEGAZIONE
DELL’EUCARESTIA, negazione dell’alimento dietro la quale per un rinvio di significato si rifà alla negazione
della comunione. Inversione del simbolo della comunione, che simboleggia l’assenza di aiuto per questi
bambini.

“Cabra li guardava e continuava a dire – mangiate mangiate che siete ragazzi io mi compiaccio a vedervi
mangiare-. Guardi che buon condimento per quelli che sbadigliavano dalla fame. Finirono di mangiare e
rimasero delle briciole sulla tavola e nel piatto, delle pelli e delle ossa e disse il precettore: - Questo va dato
ai servi, perché anche loro devono mangiare, non possiamo mica mangiare soltanto noi?-

Continua l’episodio che ha un epilogo tristissimo, mentre stanno mangiando i criados, uno dei bambini del
pupillaje, non ne può più e ha una visione, come se avesse davanti a sé qualcosa da mangiare e lo
abbandonano così tanto le forze che muore. Questa notizia viene alle orecchie del padre di Don Diego, don
Alonso, finalmente scoppia lo scandalo di questo domine Cabra che non dà nutrimento ai suoi ospiti e
decidono quindi di abbandonare il pupillaje. E’ un’esperienza drammatica per Pablo e don Diego, che
restano un po’ a casa e poi decidono di andare ad Alcalà a studiare e finalmente si rimette in moto quella
possibilità di trovarsi finalmente nella condizione sociale alla quale aspirava. Ma per la sua posizione di
subalternità, ottiene soltanto ogni tipo di vessazione e castigo e dopo un po’ si rende conto che non può
sottrarsi alla sua condizione di disonore che la vita gli sbatterà in faccia ad ogni occasione, così in autonomia
sceglie d lasciare l’università e don Diego che era stato per lui modello di riferimento, ciò che lui sarebbe
sempre voluto essere.

Lascia Alcalà perché non riesce a sopportare questo tipo di condizione nella quale si ritrova e anche perché
ottiene una lettera dallo zio, che gli dice che il padre è stato giustiziato e quindi può tornare a Segovia per
recuperare la sua eredità.

LEGGERE LA LETTERA CHE LO ZIO GLI INVIA sembra quasi che voglia occultare o sminuire il fatto ch sia stato
giustiziato e sottolinea, invece che fosse un grande uomo.

Una volta riscossa l’eredità decide di andare a corte, sempre per quel desiderio di diventare cavaliere, unico
movente delle sue azioni. A Madrid incontra un personaggio molto importante (ci tiene), DON TORILLO
(figura importantissima per Pablos che lo inizia alla vita della strada) e gli offre gli ammaestramenti. Don
Torillo è un falso nobile, che va in giro a truffare ed ingannare la gente. Lo introduce negli ambienti dei
gruppi della strada e con lui impara i trucchi, le attività e gli espedienti di cui deve vivere un picaro e
soprattutto come fare a sembrare un falso cavaliere. Così dopo il “magistero” di don Torillo, questo gruppo

Di picari viene arrestato perché avevano commesso diversi delitti e anche lui finisce in galera, dalla quale
alla fine riesce ad uscire utilizzando i soldi che aveva ricevuto in eredità, perché paga il personale della
prigione.

A Madrid inizia a lavorare come ruffiano, si finge nobile per adescare ed ingannare le nobildonne, sposarle,
ricavare i loro proventi e abbandonarle. Assume l’identità de Don Camilo de Guzman, poi assume anche
un’altra identità, quella di Don Felipe Tristan, fingendosi cavaliere dell’alta società. E il caso vuole che inizi a
fare la corte con questo nome, di una dama della nobleza che sta quasi per sposare, è sul punto di sposarla
e si scopre durante una cena proprio che fosse parente proprio di Don Diego, con il quale si era lasciato da
bambino. Ma questi lo smaschera e lo insulta pubblicamente.

Uno degli atteggiamenti del corteggiamento dell’epoca era quello di fare la ronda alla casa dell’amata.

Felipe Tristan a un certo punto prende in affitto il cavallo per mostrarsi ed esibire tutti i segni di
un’opulenza che effettivamente è tutta finta, il secondo giorno ruba il cavallo ad un giovane servo, e proprio
mentre la dama stava per fare un segno di riconoscimento e di assenziona, il cavallo si imbizzarrisce perche
non riconosce il padrone e lo fa cadere nuovamente in una pozzanghera.

Altra caduta ocme punizione alla pretesa di voler passare per qualcuno di migliore rispetto alal sua
posizione. Così non potendo più stare negli ambienti di corte perché venne smascherato, allora assume
consapevolezza del proprio disonore, si arrende, si rende conto di non potersi allontanare da esso e sceglie
di andare a Toledo per condurre una vita dedita alla malavita, quindi lascia la corte, qui lavora come
drammaturgo, come commediante (sappiamo quanta poca stima Quevedo avesse del teatro), fa il taur,
termine dei giocatori di carte, anche come truffatore. Lascia Toledo e si dirige a Siviglia.

A Siviglia entra di nuovo negli ambienti della malavita e delinquenza di strada, conosce la cosiddetta
Trajaves, un’attrice, diventa nuovamente Taur, ne fa di tutte e di più con i picari sivigliani e alla fine
uccidono due poliziotti e si rifugiano in Chiesa. Rifugiarsi in terreno sacro per l’epoca non permetteva,
almeno per un tempo limitato, allo stato di intervenire. Decidono di scappare

ULTIMA PAGINA DEL TESTO 308 “La giustizia non si stancava di cercarci, noi rimanevamo sempre nei pressi
della città, stavamo appena di fuori della città e dalla mezzanotte in poi entravamo in città travestiti. Io che
vedevo che questa cosa durava molto e che soprattutto la Fortuna si ostinava a perseguitarmi, non per il
fatto che io avessi imparato la lezione e avessi capito quanto fosse sbagliato vivere come picaro, ma perché
mi ero stancato, in quanto ostinato peccatore, decisi, consultando prima la , decisi di scappare
presso le Indie americane, per vedere se cambiando lo spazio geografico, sarebbe migliorato il mio destino
e mi andò anche peggio, come Vossignoria vedrà nella seconda parte, poiché non cambia mai la situazione
di chi cambia soltanto di luogo e non di vita e di costumi.”

Non c’è nessuna conversione, nessuna evoluzione in chiave positiva o pentimento. Resta uguale all’inizio.

Topos della stesura di una seconda parte, è solo un espediente e convenzione per garantirsi dei futuri
lettori ma in realtà non la scrivevano quasi mai.

Le parole finali: momento del commiato, epilogo che dà la consegna definitiva del suo messaggio
ideologico, non c’è possibilità di cambiare la propria condizione se non cambia prima interiormente che
all’esterno della propria persona. Messaggio morale: se non cambi dentro non cambi fuori. Il problema è
che Quevedo non crede proprio nella possibilità che un personaggio reietto come Pablo possa cambiare, in
virtù del fatto che essendo privo di onore non ha le qualità morali, per essere altro da sé e quel caballero
che sperava di essere da sempre. Non dà speranza che possa esserci un cambiamento ma resta fedele
all’ordine precostituito di un pregiudizio di classe che si basa sul primato di sangre.

Lezione 7/1 Gherardi


Luis De Gongora per buona parte della sua vita aveva composto poesia in vario metro, senza però
mai preoccuparsi di pubblicarla e conservarla, infatti non ne supervisiona la circolazione: questo
causa un problema di false attribuzioni delle sue poesie . A parte le due edizioni del Romancero
non esisteva una raccolta di componimenti suoi, da lui autorizzata.
Sebbene lui non abbia mai curato più di tanto la pubblicazione delle sue poesie, nel 1610, intorno
ai 40 anni è gia stato consacrato come uno dei maggiori poeti della scena letteraria spagnola.
Quindi quando prova a dedicarsi alla poesia nueva, aveva la massima attenzione perché era già un
poeta molto seguito. A questa svolta lui collega il desiderio di ricavare dei proventi dall’attività
letteraria. Come Cervantes, era povero e faceva il Cabildo alla Catedral de Còrdoba, e viveva di
vivenda ecclesiastiche, che però doveva dividere con i figli della sorella (poiché non aveva una sua
famiglia si occupava di quella di sua sorella), quindi non gli bastavano più; in più nel 1605 c’è stato
un evento che ha segnato profondamente gli svolgimenti familiari:il ventenne Francisco, suo
nipote figlio della sorella, morì in una rissa. Il dolore fu grandissimo ma sua madre pretendeva
giustizia, quindi iniziarono una causa per ottenere giustizia. Questo comportò grandi spese, e
aggravò la situazione economica. Non solo; infatti la causa non venne mai vinta e questo gli causò
un grande sentimento di disprecio nei confronti della corte e delle sue dinamiche interne.
Le soledades maturano in questo periodo. Nel 1612 (gennaio) mete mano alla composizione della
SOLEDAD PRIMERA ma probabilmente l’aveva già ultimato a maggio poiché proprio l’11 maggio
scrive la lettera all’amico Pedro De Valencia, storico di corte da poco nominato, che si trovava a
Madrid, chiedendo un riscontro. Nel frattempo la invia anche all’Abate di Rute e anche lui gli invia
un parecer, tutti i riscontri lo spingono a cambiare ed apportare modifiche ( è intervenuto almeno
7 volte) quindi è frutto di diversi rimaneggiamenti e non corrisponde all’incipit dell’autore. Ci fu un
acceso dibattito rispetto alle Soledades.
PASSIAMO AL TESTO. LE SOLEDADES Si presentano come un progetto unitario, e dovevano
inizialmente essere 4. Nell’autunno del 1612 mette mano alla Seconda, ma si interrompe, forse a
causa dei riscontri negativi.
Nell’incipit, ( dedicata al duque de Bejar ) sono contenute diverse importanti informazioni
sull’opera.
vv. 1-4. Sono i passi di un pellegrino errante, quanti versi mi dettò una dolce Musa; sperduti quelli in
solitudine CONFUSA(1), (da essa) questi ispirati.
Rinviano sia all’attività del poeta ( perché parlano di versi di un pellegrino, che vorrebbe condurre
da qualche parte), però i pasos sono anche quelli del protagonista.
(1) Soledad confusa: a. Perché è uno spazio confuso
b. Solitudine del protagonista
c. Soledad della selva

La dedica è per il Duca di Bejar, che è il rappresentante di una delle zone più in vista
(zona a confine col Portogallo), e Gongora aveva dei possedimenti che confinavano con quella di
questo duca, quindi aveva tutto l’interesse nell’entrare nelle sue grazie. Lo immagina mentre è
impegnato in una battuta di caccia in una montagna innevata, si rivolge direttamente a lui nei
primi versi dicendo:
vv. 5-11 0 tu, che, equipaggiato(2) di venabli(1) — muri di abete, muri di diamante(3) — batti i monti, che,
armati di neve(4), il cielo li teme quali giganti di cristallo(5); dove il corno(6) ripetuto dall'eco ti sporge(7) le
fiere — che morte sul suolo tinto[del loro sangue] chiedendo uno spazio disforme danno al Tormes una
schiuma corallina;
(1)Venablos: dardi per la caccia.
(2) Latinismo che significa piede ostacolato, quindi carico di frecce.
(3) due Metafore per indicare le montagne, il diamante è perché appunto sono bianchi a causa
della neve, anticipano quello che viene dopo.
(4) Le cime delle montagne armate di neve, è una bella immagine
(5) sono talmente alti da ricordare giganti che fanno paura al cielo
(6) Il corno è quello per chiamare gli animali a caccia
(7) Latinismo, ex-ponere = porre fuori, cioè il suono del corno espone ai suoi occhi le prende, le
attira e quindi le fa uscire fuori
(8) concepto molto bello: il sangue delle prede nell’arrivare al fiume Tormes, mescolandosi con la
neve , diventa rosato,assomiglia alla spuma da cui nasce il corallo, quindi rende i fiumi non
conformi al corso ordinario.

vv.12-18 appoggia a un frassino il frassino(1) — il cui acciaio sudando sangue, in breve tempo, farà
imporporare la neve — e nel mentre il battitore alla dura rovere e all'acuto pino —

(1)Il frassino è una metonimia (che consiste nell'usare il nome della causa per quello dell'effetto )
per indicare l’arma che usa ( quindi x indicare le frecce che sono fatte di legno di frassino), il cui
acciaio ( la punta) trasuda sangue.
in gara di longevità fra le rupi — consegna le formidabili spoglie dell'orso che ancora, trafitto, baciava l'asta
della tua lucente asta ( jabalina);

(2): così come il montanaro cacciava gli orsi tra i pini, così tu riuscirai nella tua caccia con la tua
asta (jabalina è un arnese per la caccia).

Inizia il poema con versi memorabili: vv.1-14: questi versi sono un solo periodo.
Questa prima parte risponde a quella che si dice una CRONOGRAFIA: si offrono coordinate
temporali e ambientali dell’azione: L’azione inizia in medias res, non ci vengono date informazioni
se non quelle in questi versi:
Era quella fiorita stagione dell'anno(1) in cui sotto mentite spoglie il rapitore di Europa(2) — mezza luna(3)
le armi della sua fronte e il sole tutti raggi del suo pelo(4) — lucente onore del cielo, in campo di zaffiro
pascolano le stelle(5); quando colui che avrebbe potuto somministrare la coppa a Giove meglio del
giovinetto dell'Ida (7)— naufrago e sdegnato(8), oltre che assente(9) — dava lacrimose dolci lamentele
d'amore al mare(10), che compassionevole fu per le onde, fu per il vento, il misero gemito secondo dolce
strumento di Arione (11).

Sintatticamente : (1) Perifrasi per indicare la primavera


(2)Si riferisce a Zeus con il rapimento d’Europa > Zeus si trasforma in Toro per rapire Europa, e il toro poi si
trasforma in una costellazione = questo processo si chiama CATASTERISMO ( infatti il segno del toro entra
nello zodiaco ad aprile, quindi ad aprile)*
*Per il Barocco la mitologia greca viene usata spesso per dire cose in maniera velata.
(3) Sarebbero le corna.
(4) Si riferisce alla costellazione del toro, per questo parla di lucentezza.
(5) Citazione a Virgilio
(6) Da un punto di vista ambientale siamo al crepuscolo, perché è una luce notturna e diurna insieme
(7) Perifrasi mitologica che allude al mito di Ganimede ( era stato portato sul monte Ida). E di Ganimede si
era innamorato Zeus .
(8) Il naufragio deriva da un rifiuto d’amore. Qui subentra il protagonista per la prima volta, che è triste per
aver subito un rifiuto d’amore.
(9) E’ assente perché è scappato dalla corte
(10) Questo giovane sfoga con il mare la sua sofferenza amorosa
(11)Il dolce strumento è la lira: allude al mito di Arione che era a bordo di una nave il cui capitano lo voleva
uccidere, e lui è costretto a scappare e si butta in mare ma viene salvato dai delfini che erano arrivati da lui
grazie al suono della sua lira, quindi il mare è uno strumento salvifico per questo giovane come la lira lo è
stata per Arione.
(Particolarità: usa un linguaggio un po’ militare, cioè le armi, campeggia ecc..)

(Particolarità 2 Gioca con versi di lunghezza variabile e la rima non è regolare, perché si riferisce alla SELVA,
un bosco disordinato, quindi il componimento si esprime come la cosa che deve descrivere. )

vv. 15-21 Di pino, sempre sulla montagna [opposto] all'inimico Noto(1), un pietoso membro staccato —
breve tavola — non fu piccolo delfino(2) allo sconsiderato pellegrino che aveva confidato il suo cammino a
un deserto di onde(3) e la sua vita a un legno.
Iperbato: spostare i costituenti e così si ripristina l’ordine della frase.
(1) E’ un vento che soffia molto forte, idea del pino che resiste alla forza del vento
(2) Per metonimia: il legno di cui era composta la nave su cui viaggiava il giovane è naufragata, un pezzo di
legno che era rimasto gli ha salvato la vita come i delfini con Arione ( riprende il mito prec.)
(3) Il mare viene designato come una Libia fatto di onde ( come un deserto di onde, per antitesi )
Ganimede, Arione, Zeus sono tutti miti di movimento, quindi c’è un’idea di movimento, come quello del
giovane. Attraverso i suoi pasos c’è dunque movimento ( gioca su un doppio livello di significato)

vv. 22-28 Quindi dall'oceano prima assorbito e poi subito rigurgitato(1), non lontano da uno scoglio
coronato di secchi giunchi e di calde piume, tutto alghe e schiuma — trovò ospitalità dove aveva trovato
nido l'uccello di Giove.
(1)Abbiamo una animalizzazione dell’oceano che inghiotte il giovane e poi lo sputa.

vv.29-33 . Bacia la sabbia e quella poca parte della nave rotta che Io espose sulla spiaggia la dedicò alla
roccia, che anche le rocce si lasciano lusingare dai segni di gratitudine.
In pratica in segno di gratitudine verso questo pezzo di legno che gli ha salvato la vita e lo poggia su di una
roccia. (compaiono sempre elementi di acqua terra e aria)

vv. 34-41 Nudo il giovane, quanto già il vestito ha bevuto di Oceano, lo fa restituire alla sabbia (1), e poi lo
stende al sole che, lambendolo, afferra la sua dolce lingua di temprato fuoco, lento lo investe e con soave
stile succhia la più piccola onda al più piccolo filo.
(1) Nel senso che si asciugano
(2) Immagine che ha di nuovo a che fare con il Toro. Nel complesso intende descrivere il sole che asciuga i
vestiti ma lo fa in questa maniera cioè che il sole con la sua lingua lecca l’acqua dai vestiti

8° Lezione 26-10

GENERI CHE SOPRAVVIVONO DAL MEDIOEVO;


Prosas dialogadas
Novela sentimental.
Libros de caballerias.
GENERI CHE NASCONO NEL CORSO DEL 500 (generi più prolifici e più letti);
Novela picaresca
Novela morisca
Novela bizantina
Novela pastoril
Novela corta

Avviamo il discorso sul Don Quijote che è il paragone letterario di questo periodo.
Dobbiamo ricostruire il panorama dei generi narrativi in cui si iscrive la letteratura di questo periodo.
Sappiamo che uno dei generi più in voga tra 500 e 600 è il genere picaresco.
Parliamo di PROSA DI FINZIONE o narrativa di finzione e non di altri generi altrettanto importanti quali la
poesia e il teatro.
Parliamo di PROSA DI FINZIONE perché esiste la prosa d’idee, la trattatistica dottrinale, filosofica, che è
scritta in prosa ma non è di finzione, quando parliamo di narrativa di finzione ci riferiamo a tutte le
articolazioni e declinazioni interni al genere de la NOVELA cioè del Romanzo.
Lo spagnolo preferisce il termine novel e non romance (inglese), perché il romance in spagnolo è un genere
poetico fondamentale, quindi si sarebbero potuti confondere. Ricopre anche la narrativa breve in senso
stretto, conosciuta come “novela corta”, per noi novelle in italiano.
Il don Quijote nasce
Negli anni 20 del 500 emergono tutta una serie di forme nuove di prosa di finzione, come las prosas
dialogadas, per opere come il Viaje de Turchia, si parla dei dialoghi di Valdez, si tratta di generi incipienti,
nuovi, che non esistevano nella tradizione narrativa autoctona della penisola iberica perché se ci limitiamo
alla letteratura di intrattenimento.
L’età medievale aveva conosciuto soltanto due generi: la novela sentimental (el carcel de amor), e i libros
di caballerias (Amadis) ed erano generi di narrativa, di finzione realizzata all’intrattenimento del pubblico di
lettori.
Nei primi decenni del 500 il panorama si infittisce notevolmente, per la nascita di forme di sperimentazione
che aprono a spazi e contenuti letterari, a messaggi e finalità, completamente nuovi. Non si smettono di
produrre libri di cavalleria e romanzo sentimentale, che in qualche modo si evolvono, ma nascono nuovi
generi in Spagna. Questi generi si radicheranno molto più tardi negli altri paesi europei. L’Italia aveva il
grande vantaggio di aver codificato la novella di tipo breve, codificata e riservata ad una letteratura di un
certo tipo di temi, come argomenti bassi, di tipo “realista” già con Boccaccio.
In Spagna l’incontro fra l’istanza fittizia, di finzione e la realtà dà luogo a sperimentazioni che hanno i frutti
più rappresentativi nella novela picaresca (in Inghilterra il romanzo inglese nasce come imitazione del
romanzo spagnolo ma siamo già nel 700) accompagnata da altre tipologia di narrazione in prosa come las
prosas dialogadas (el dialogo de la lengua, el viaje de turchia ecc) opere strutturate sul dialogo dei
personaggi, non c’è il narratore esterno che invece sarà il contrassegno formale del romanzo moderno
europeo, sono tutti personaggi che dialogano tra di loro (come nel caso di Valdez), parliamo di prosa
dialogata di tipo realista perché nelle loro istanze c’è quella di voler imitare il più possibile la realtà, di
trasporla ed imitarla.
“Retrato de la Losana Andalusa” voleva essere un ritratto e rappresentazione fedele della protagonista che
viene ritratta nelle sue condizioni di prostituta e cortigiana della Roma dei Papi in quel periodo e diventa
specchio fedele di questo ambiente tanto degradato e risponde a questa istanza del tutto nuovo di
prendere la realtà bassa, legata agli istinti meno nobili o al quotidiano, alle passioni più oscure degli
individui e conferire cittadinanza letteraria a questi contenuti e in qualche modo di riscattarli.

Nella picaresca c’era ancora bisogno della copertura e della maschera della comicità, posso parlare
della vita del picaro apparentemente in forme assolutamente serie, però in un modo in cui il
lettore deve sentire il racconto ancora come divertente. L’opera si pone come narrazione seria,
con un messaggio molto forte, però al prezzo che si rida di tutto questo (Come nel caso del
Lazarillo)
E dagli anni 20 del 500 che ci sono queste innovazioni e sperimentazioni nella narrazione (prosas
dialogadas, novela picaresca, novela de caballeria), poi emergono tutta una serie di novità come la
novela morisca (prodotto tutto spagnolo, inevitabilmente spagnolo/iberico) che ovviamente si
diffonde in Spagna perché ha a che vedere con la cultura morisca che si diffonde in Spagna, che ha
come obbiettivo narrare fenomeni di contatto e di integrazione fra le comunità cristiane e le
comunità che vivevano nel territorio di Al-Andalus (nel vecchio califfato) e quindi sono più che
altro romanzi di frontiera, che hanno come oggetto principale l’incontro fra 2 culture, quella
cristiana e musulmana, oppure hanno al loro centro il contatto con quelle comunità di mori
(musulmani) convertiti al cristianesimo, già insieme ai territori cristiani.

Una novela morisca è la “Historia del Abencerraje”, cioè la prima e più nota novela morisca.

Nel 1561 viene pubblicata una seconda edizione della “Diana”, il primo romanzo pastorale che
risale al 1558 di Jorge de Montemayor, che al suo interno ad un certo punto si interrompe la
narrazione della “Diana” e viene inserita l’interpolazione della “Abencerraje”.
Viene interpolata all’interno del romanzo un altro romanzetto, che tratta dell’amore di
Abencerraje e Califa.
E non è altro che la storia di un re moro (Abencerraje) che viene fatto prigioniero dal re cristiano
sulla frontiera tra i due regni. Da prigioniero racconta al suo carceriere, cioè al re, tutta la sua
storia d’amore con la bella Sharifa, infatti stava andando dal padre di Sharifa per chiedere la mano
di sua figlia e quindi praticamente il re cristiano aveva frustato tutti i suoi progetti.
Questa comunicazione tra i due personaggi ha fatto saltare le barriere di tipo religioso-culturale, e
alla fine diventano amici. Il messaggio era quello di voler dare l’idea di un re cristiano magnanimo
e generoso, però dal punto di vista sociologico è un elemento importante che ci consente di
riconoscere che i moriscos, perdono quella connotazione di nemico negativo all’interno dei testi
spagnoli, ma diventa un nuovo personaggio letterario. All’interno dello spazio letterario, inizia a
connotarsi positivamente e a perdere quei tratti di negatività che esercitava prima. L’opera si
conclude con il lieto fine.
I Moriscos non vengono più trattati come tipi letterari negativi (come personaggio letterario) e
all’interno dello spazio letterario il moro inizia a perdere un po' quel alone di negatività che
esercitava prima.
Il romanzo morisco aveva la funzione di messaggio di integrazione pacifica tra i fautori di questa
comunità.

Viene riscoperta un’opera classica della letteratura greca “Le etiopiche di Eliodoro”, però viene
riscoperto a Bisanzio, in Turchia, e vengono tradotte dal greco al latino, e dal latino alle lingue
volgari.
Dal momento in cui si diffondono queste “Etiopiche di Eliodoro” innanzitutto attraverso la versione
latina e poi nei volgari (siamo negli anni 30 del 500) prende piede tutto un genere a imitazione
delle “Etiopiche di Eliodoro”, che così diventa la la cosiddetta novela bizantina (o romanzo greco)
che si chiama romanzo di avventure, perché proprio per rispetto dell’archetipo greco, la
narrazione si articola sul concetto di peripezia, cioè rispetto alla costruzione tipica dell’opera ci
sono degli eventi che vanno contro il progetto iniziale e vanno contro il corso degli eventi.
Es; 2 amanti sono in procinto di incontrarsi e ricongiungersi dopo una lunga attesa, e forse si
sposeranno, e mentre stanno per incontrarsi sulla barca dell’amato si produce una tempesta, dove
l’amato scompare (questo è il classico evento di peripezia).
Quindi il progetto iniziale subisce una deviazione, i protagonisti vivono una serie di avventure, la
narrazione non segue il corso sperato ma subisce una deviazione. Tutti questi eventi/contrattempi
hanno lo scopo di far progredire l’azione perché ovviamente aggiungono materia narrativa alla
narrazione. Si struttura sull’avventura e nel testo si alternano tanti elementi topici caratteristici,
come l’incipit in medias res, in cui non si capisce cosa abbia determinato le vicende, non segue
l’ordine cronologico degli esempi, altro elemento è l’agnizione o l’anagnoisis, quell’espediente per
il quale l’identità di un personaggio viene smascherata o acquisita in virtù dello svelamento che le
circostanze o altri personaggi fanno di quell’identità. Personaggio mascherato/di cui si ignorano
l’origine o l’identità e poi acquisizione di identità improvvisa, elementi di novità che creino
suspance. Dinamica interna ciclica.
Questo genere sarà fiorentissimo a partire da una traduzione francese, le Histoire tragique.

La novela pastoril
Il romanzo pastorale ha una storia delicata, nasce in Spagna con los 7 libros de la “Diana” di Jorge
de Montemayor e siamo a metà secolo 1558/1559 è la data della pubblicazione della princeps,
cioè la prima edizione dell’opera.
Non sappiamo se 58 o 59 perché la princeps andò perduta, però il lavoro dei filologi permette di
riferirci con probabilità il 1558 sembra essere la data più probabile della princeps della Diana con
una redazione materiale del testo che va anticipata un po' 52/54 rispetto alla data delle stampe.
Però se noi pensiamo alla nostra cultura italiana come opera pastorale pensiamo all’Arcadia di
Sannazaro.
Nel 1459 erano finite le prose, nel 1551 erano ormai completate le egloghe di Sannazaro che
inserisce nella sua opera “Arcadia”, pubblicata quindi tra 1551 e 1554 che viene considerata la
prima opera pastorale della modernità.
L’ “Arcadia” però è un prosimetro una combinazione di prosa e verso, infatti alle 12 prose alterna
12 egloghe in versi quindi dal punto di visto formale è un'altra cosa.
Certo Sannazaro si ispira soprattutto alle bucoliche di Virgilio, ma anche alle georgiche, che sono
l’archetipo classico della letteratura pastorale, però nella dimensione della poesia.
Il romanzo pastorale viene ascritto al cosiddetto genere idealistico.
Obiettivo di rappresentare la realtà il più verosimilmente possibile.
Il campo della letteratura per secoli si è sempre suddiviso, polarizzato su 2 poli; da una parte i
generi di tipo idealistico, e da un’altra di tipo realistico:
I generi di tipo realistico sono quelli che si aprono e che si propongono di mostrare la realtà
(novela picaresca, prosas dialogadas, novela breve).
Mentre invece i generi di tipo idealistico (il romanzo cavalleresco, il romanzo pastorale e buona
parte la novela morisca) rifuggono dalla realtà per rappresentare mondi idealizzati, e sono generi
che siccome sono destinati ad un pubblico alto (specialmente il romanzo cavalleresco e pastorale),
presentano un mondo impregnato sui principi dell’aristocrazia, corrispettivo diretto del codice
cortese su cui si imperniava l’alta società, che vede riflessa in queste opere il proprio sistema di
valori e anzi un’idealizzazione della loro stessa società.
Il mondo pastorale non è altro che un mondo ideale dove sceglie un luogo che è quello della
natura, il locus amoenus (spazi verdi, ruscelli, uccellini che cinguettano, eterna primavera, dove il
tempo e lo spazio sono sospesi, non c’è il ciclo delle stagioni) e soprattutto questi pastori vivono in
un rapporto di assoluta armonia con la natura ed il creato che li circonda, e tra di loro, infatti non
esistono conflitti, né le parti oscure dell’anima (gelosia, invidia). Vivono in una società ideale
ispirata ai principi reali della società del tempo, che effettivamente vengono seguiti e messi in
pratica.
Questi pastori sono delle maschere, molto spesso rispondo a trasfigurazioni in termini letterari di
personaggi reali.
C’è una fuga dal reale in un mondo idealizzato che dovrebbe essere il mondo da perseguire
Come se le opere dicessero ai suoi lettori (tutti esponenti delle classi alte) che quello sarebbe
dovuto essere il mondo in cui vivere, questo è il modello ideale di condotta, così dovrebbe vivere
la società perché rappresenta i vostri principi etici-culturali. Ecco perché sono opere idealizzate ed
idealistiche.

Il primo esperimento è di Jorge de Montemayor che era un portoghese che però viene da
Montmorn che però viene naturalizzato spagnolo (scriverà Castigliano perché servì un signore
della provincia di Leon) e lui si ispira all’Arcadia di Sannazaro e lo supera in qualche modo,
proponendo una forma di narrativa assolutamente nuova.
Anche lui utilizza prosa e verso, perché comunque i suoi personaggi, poeti si mettono a cantare e
suonare, musica che rappresenta l’elemento di connubio e unione con la natura. Il momento
dinamico dell’azione è la prosa (è lì dove succedono le cose, trama tipica dei romanzi bucolici), la
componente lirica poetica è il momento della stasi (compianti, epitaffi, pianto per l’amore
perduto). Questa alternanza è studiata apposta proprio per creare nel lettore il piacere di un ritmo
che non è sempre uguale a se stesso.
Sannazaro rispetto a Jorge, aveva elaborato questo sistema di 12 prose, giustapposte fra loro e
alternate poi in un secondo momento da 12 egloghe (c’è proprio un principio di alternanza) dove
in qualche modo le prose sono quasi subalterne alle egloghe, nel senso che le prose sintetizzano il
fatto, ma dove veramente viene fuori l’analisi profonda delle coscienza dei personaggi è nelle
liriche.
Per Jorge de Montemayor è quasi il contrario, ha uno sviluppo lineare, dove le liriche sono messe
al servizio della narrazione in prosa (non si racconta nulla di nuovo nelle liriche). La componente
lirica è una forma di variatio alla prosa. Gli inserti poetici sono messi al servizio della narrazione in
prosa e non viceversa. E’ la stessa cosa che accade in prosa, però per recuperata sul piano della
soggettività dei personaggi.
Cervantes scrive un libro di cavalleria per primo, essendo uno squattrinato scrisse un romanzo
pastorale, la Galatea. L’ultima opera di Cervantes che uscì postuma nel 1616 fu il Persites il
romanzo bizantino.
Cervantes si cimentò in ogni tipo di genere disponibile della narrativa in prosa.

Novela corta;
La novela corta contava già su una tradizione di narrazione breve e contenuta non un romanzo
articolato su 5/7 libri, è un segmento chiuso dove si può narrare solo una vicenda e che
normalmente sposa come contenuti quello che la letteratura idealistica rifiuta e cioè il quotidiano,
il basso della società, le passioni torbide, le istanze più oscure dell’io.
Pensiamo ad esempio ad un archetipo del genere come le novelle di Boccaccio.
E’ il canto dove le pulsioni più basse, quelle che la letteratura idealistica, qui trovano invece
espressione. Fondamentalmente la letteratura tratta delle vere azioni e passioni degli uomini.
La novella nasce in Italia con Boccaccio nel 300 e poi nel 500 Matteo Bandello la riprende e la sua
raccolta fu quella che fecondò maggiormente la novella corta in Spagna.
All’inizio la Spagna semplicemente imita (o traduce) dei modelli italiani, perché il genere
internamente nella penisola iberica non esiste. Quindi o si leggono le traduzioni italiane o le
imitazioni ai testi italiani.
Che cosa esiste invece in Spagna di assimilabile alla novella? il Cuento (il racconto) che proviene
dalla tradizione folclorica spagnola (mentre invece la novella è un prodotto che non viene dal
basso, non ha una trasmissione di tipo orale, ma è di fattura letteraria, è un prodotto artistico,
viene dall’alto. I materiali si sono di natura folcrorica, ma la fattura, cioè la composizione materiale
è letteraria. Il Cuento invece per molto tempo si era diffuso oralmente.
Il Cuento è all’origine della stessa novella.
Questo cuento per una lunga fase ha una trasmissione di tipo orale, non è un prodotto di fattura
artistico, e oltretutto è all’origine della stessa novella.
Tutta la narrazione breve (dietro Boccaccio) c’è un’altra tradizione che si deve al ruolo mediatore
della Spagna.
Dall’Oriente, dalla Siria, dalla Persia, dall’India dove nasce la narrativa a un certo punto arrivano
dall’Oriente attraverso l’Africa in Spagna tutte queste raccolte di racconti come il Sendebar, il
Pancatragma, Le mille e una notte; arrivano attraverso l’Africa perché nessuno in Europa
conosceva quelle lingue (il mesopotamico, l’aramaico, l’arabo). Furono i mori di Spagna, che
conoscevano queste lingue, che misero a disposizione questo sapere attraverso delle vere e
proprie scuole di traduzione, così come per tutti gli altri settori in cui i mori furono importantissimi
per lo sviluppo culturale europeo. Attraverso queste scuole di traduzioni, come quella di Toledo
che era la migliore, dalla penisola iberica si diffondono nel resto d’europa, e così nasce la cultura
europea.
Tutto questo sapere è progresso proprio grazie a loro.
Arrivano così i codici di traduzione prima al latino e poi successivamente in volgare. Queste
raccolte di racconti orientali penetrano dal Nord Africa nella Penisola iberica poi dalla Penisola
iberica in Europa e così nasce la cultura europea.
Queste raccolte di racconti furono assimilate dalla tradizione orale e successivamente anche da
quella scritta.
Il cuento si declina in varie forme, come per esempio quando si appropria della predicazione
religiosa si trasforma nel exemplum, che sfruttava aneddoti, episodi per educare le persone al
messaggio di rilievo religioso cristiano.
Oltre a questo religioso, ci fu ovviamente un uso anche profano di questi exemplum.
Il cuento di solito è una narrazione breve, molto lineare che ha al centro un episodio molto
circoscritto e che non lascia spazio a nessun aspetto di tipo psicologico o introspettivo, è una
narrazione molto più asciutta. Si basa solo sulla facezia, assume la fisionomia della patragna, a
sfondo comico.
Nel 500 tutto questo materiale folclorico locale si incontra con il prodotto artisticamente elaborato
che è la novella. A poco a poco gli autori spagnoli non si accontentano più di tradurre le raccolte di
novelle italiane o di imitarle pedissequamente, ma cercano di creare una forma di novella
autoctona, usando i propri materiali, i propri schemi narrativi. Però i tentativi sono molto
maldestri fino a quando Cervantes non si cimenta nel genere e codifica realmente quelle che sono
le “novelas ejemplares”, che sono la prima raccolta originale di novelle spagnole.
“Fui el primero en novelar en lengua Castellana” lo afferma nel 1613.
Prima di quel momento il patrimonio esistente delle novelle è solo frutto di una copia od
imitaizone pedissequa che si basava su modelli stranieri.
Gli intrecci variano rispetto al modello italiano, ma le funzioni ed il contenuto è volto a
rappresentare la parte oscura degli individui.

30.10.18 9° LEZIONE
MIGUEL DE CERVANTES

Cervantes quando comincia ad operare come scrittore, ha tutto questo panorama letterario alle spalle (vedi
lezione precedente). I libros de caballerias continuano a leggersi moltissimo sebbene il genere stia
conoscendo un declino. E’ un genere molto letto perché l’aristocrazia continua a rispecchiarsi in questi
personaggi, però rispetto alle prime decadi con l’Amadis de Gaula iniziò tutto il processo di imitazioni e
continuazioni, di tutti gli altri eroi che diventano oggetto di pubblicazioni seriali. Rispetto a quella tradizione
seriale, ormai alla fine del 500 si ristampano di nuovo le vecchie opere, quindi non escono titoli nuovi in
sintesi e questo è segno della scarsa produttività del genere, si prolunga l’esistente perché non esistono
nuovi prodotti.
Se non si ristampa si traducono libri di cavalleria di altri autori stranieri in castigliano.
Continuava comunque ad occupare il lavoro editoriale e stessa cosa vale per i romanzi pastorali.
Cervantes per risanare una situazione economica gravosa, si cimenta negli anni 80 in un’opera pastorale
proprio perché spera cavalcando l’onda del successo della Diana de Montemayor, o della Diana
innamorata, infatti la Diana aveva avuto delle continuazioni tutte di successo, quindi Cervantes pensava di
ottenere successo proprio con un romanzo pastorale, anche perché un suo amico aveva avuto discreto
successo con la stesura di un romanzo cavalleresco, quindi insomma ci sperava.

LA VITA DI CERVANTES
Nasce nel 1567 ad Alcalà Denares, una città importantissima, forse ancor più di Madrid durante questi anni
(Madrid si svilupperà tra il 60 e il 66). La città si sviluppò attorno all’università fondata dal cardinal Cisneros
e divenne molto importante.
Si sposta con la famiglia perché il padre aveva avuto diversi incarichi a Madrid, Siviglia e altre zone della
Spagna.
Della sua infanzia si sa ben poco, nasce in una famiglia non benestante, le difficoltà economiche saranno il
contrassegno dell’intera vita dell’autore.
1566-67 lo ritroviamo a tentare di trovare un posto in società e dal punto di vista letterario sappiamo che
era stato al Magistero di un professore erasmista, Lopes de Olio, che effettivamente in uno dei suoi scritti lo
nomina e questo non è un dato privo di interesse, anzi la critica ha costruito ipotesi mirabili. Infatti il fatto
che si fosse formato presso un erasmista potrebbe far pensare che questo avrebbe influenzato sulla sua
vita e pertanto si dovrebbe tener conto per la lettura dell’opera.
Ha dei problemi con la legge per un duello finito male e decide di andare in Italia e diventa maggiordomo
del cardinale Acquaviva.

Per la prima volta mette piede in Italia 1569 fino al 1570, va a servizio presso il Cardinale Giulio Acquaviva a
Roma e qui ha la possibilità di conoscere molti personaggi in vista della Roma dell’epoca e degli ambienti
capitolini. Decide alla fine dopo un anno di affrancarsi da questa posizione e intraprende la carriera
militare.
Gli anni del 65 sono anni di diverse imprese militari in tutta Italia ed entra in contatto con gli ambienti
culturali italiani. Qui conobbe il meglio degli autori del momento ed ebbe occasione di leggere i testi in
volgare italiano.
Ad un certo punto decide di lasciare il cardinale perché vuole provare a migliorare la sua condizione e si
arruola come soldato a seguito dell’esercito capitanato da Marco Antonio Colonna (una delle famiglia più
famose e nobili dell’Italia) quindi fa vita di soldato e a un certo punto lui partecipa anche alla battaglia di
Lepanto nel 1571, una battaglia importantissima perché questi sono i decenni in cui la lega santa sta
combattendo con l’impero ottomano, quindi il pericolo turco era incombente, ma con la battaglia di
Lepanto le truppe alleate riescono a vincere contro i turchi musulmani e tuttavia Cervantes in questa
battaglia si ferisce alla mano e da questo momento in poi si guadagnerà il nominativo il “monco de
Lèpanto”.
Da questa ferita lui tenterà il più possibile di ricavare vantaggi, richiedendo cariche a corte, quindi dei
risarcimenti perché comunque era rimasto ferito servendo la patria, però non riceverà mai la ricompensa
sperata per questo servigio offerto alla Corona.
Lui resta in Italia fino al 1575 con periodi di convalescenza, ritorni in patria ecc. Aspetto fondamentale è che
proprio nel 1575, si trova a Napoli e sta per essere imbarcato con suo fratello Rodrigo su una galera, Sol
perché devono ritornare in patria e a Cervantes erano state date delle lettere di raccomandazioni che lui
avrebbe voluto spendere a corte, di firme importanti.
Durante la traversata, a pochi km dalle rive della penisola, vengono attaccati dai pirati mori e Cervantes e
suo fratello vengono fatti prigionieri e portati ad Algeri, dove i musulmani avevano allestito i cosiddetti
bagnos, le prigioni per i cristiani.
Cervantes è convinto che la cosa durerà poco, invece mentre gli altri suoi compagni riescono a tornare
presto in patria, lui per il fatto che portava con sé le lettere di personaggi illustri, fu scambiato per un
personaggio importante che aveva contatti diretti con la corte e fu trattenuto a lungo. Fu fissato un riscatto
altissimo, che la famiglia di Cervantes non poteva pagare.
Fu trattenuto per 5 anni. Questi anni furono fondamentali per lo sviluppo intellettuale di Cervantes.
Già i 5 anni italiani gli avevano offerto l’occasione di arricchirsi tantissimo, infatti nonostante non partisse
da un livello molto alto, ma la sua curiosità e il piacere della lettura oltre che l’ingresso negli ambienti
cortigiani italiani, aveva conosciuto anche personaggi illustri nella letteratura. Inoltre i 5 anni di prigionia
furono occasione di maggiore arricchimento non tanto dal punto di visto letterario culturale ma di altre
prospettive, infatti il calarsi in quella cultura e vivere da dentro, gli permise di avere un immaginario esotico
che lo segnò profondamente e che si riverbera nella sua opera letteraria. L’elemento esotico della cultura
araba non verrà mai osteggiato come qualcosa di negativo, ma viene valorizzato come qualcosa che offre
un punto di vista diverso, altro rispetto a se stesso. Comincia il perceptivismo cervantino, la capacità di
offrire una lettura del reale che risente di tutte le posizioni possibili. Non condanna mai nessuna realtà e
nessuna situazione, avrà una visione polifonica e da qui possiamo dedurne l’enorme modernità.

Nel 1580 la famiglia riesce finalmente ad accumulare con una colletta ed un prestito ingentissimo, i soldi
per il riscatto e Cervantes ritorna in patria dopo 5 anni di prigionia, sommati agli altri 5 anni dove era stato
in Italia, praticamente torna come straniero, e non riesce a trovare una collocazione nella società che è
diversa da quando era andato via. Torna con i segni della battaglia delle guerre, ferito alla mano, cerca in
tutti i modi di reclamare una carica a corte ma gli danno solo un incarico degradato, come riscossore delle
imposte.
A ciò si aggiunge il problema di restituire queste ingenti somme, in più ha la nipote a carico con sé, riesce
nell’82 a sposarsi con una certa Catalina de Sannazar, figlia di un macellaio.
Addirittura la sua famiglia era accusata di fare i mantenuti, causa di grande disonore per la famiglia.
A un certo punto sono tante e tali le difficoltà, così sceglie la via della scrittura e nell’83/84 decide di
scrivere La Galatea (6 libri) sulla scorta del modello di Montemayor e del Pastor de figli, Galigantes de
Gottaro??? Non ottiene i risultati sperati e riprova la carriera politica, diventa riscossore delle tasse, provò a
chiedere di essere mandato nelle indie ma rimase un sogno frustrato e anche nei primi anni del 600 aveva
chiesto di poter stare al seguito del viceré di Napoli. Dopo di che ci sarà un silenzio, vivrà anni di estrema
difficoltà e dopo 20 anni pubblicando nel 1605 la primera parte de L’ingegnoso idalgo il Don Quijote (la 1°
parte).

Decide di intraprendere la carriera letteraria, si cimenta in un romanzo pastorale, dopo di che non essendo
stato molto capace torna a cercare un incarico per la corte, gli viene offerto di fare l’esattore delle tasse,
oppure di provvedere agli approvvigionamenti per gli eserciti che dovevano partire.
Nella prima decade del 600 chiese di tornare a Napoli al fianco del vicerè. Qualcuno dice che a Napoli
avesse avuto anche un figlio, semplicemente perché scrive un poemetto “il viaje di Parnaso” proprio contro
coloro che non gli avevano permesso di tornare allora scrive questo poemetto contro quelli che non gli
avevano permesso di tornare.
Dice di aver lasciato un figlio chiamato Promontorio, l’utilizzo di questo nome è stato letto come una
confessione autobiografica di avere un figlio illegittimo lasciato a Napoli. Sembra però una cosa assurda,
anche perché Cervantes è ironico dall’inizio alla fine quindi è improbabile.
Non riesce a tornare a Napoli e muore con questo desiderio.
Alla fine del 500 è pronto il secondo cimento narrativo di Cervantes, un libro di cavalleria, il don Quijote de
la Mancha.
Cervantes si cimenta in tutti i generi letterari del momento, novelle “Las novellas ejemplares” che escono
nel 16, poemetti, commedie, quindi ci prova anche nel teatro dove non rivela però il talento che dimostra di
avere con il genere del romanzo. È un romanziere, è il canale più connaturato della sua essenza.
Scrive un romanzo bizantino il Persiles/Tersites, ultima opera che compone e che non riesce a terminare,
infatti viene pubblicato postumo.
Non scrive un romanzo picaresco in senso stretto, ma la picaresca e la materia moresca sono presentissime
all’interno degli altri generi che presenta. Sfrutta intrecci e contesti che richiamano a questo tipo di
composizioni.
Alla fine degli anni 90 finisce il progetto del romanzo Cavalleresco.
Cosa lo spinge a scriverlo? Il successo che arride a questi libros ormai da più di un secolo e la speranza che
anche lui possa avere successo.
Il genere più letto è più fortunato è proprio questo per Cervantes, sebbene come genere stia già
manifestando il suo declino e si stava già spegnendo, infatti si pubblicavano vecchi libri o traduzioni, però si
continuavano a leggere.
Le classi colte ma non solo perché i libros de Cavalleria sono un genere trasversale che veniva letto anche
nelle locande dove si trovavano i viaggiatori era una lettura di gruppo.
La letteratura medievale umanistico/rinascimentale sono letture orali a voce alta perché erano in pochi
quelli che sapevano leggere e scrivere. Spesso anche i tratti di oralità della prosa sono legati al tipo di
esecuzione che deve avere testo.
La scelta del romanzo cavalleresco si spiega sul fatto che lui cavalca l’onda del successo insomma.
Il don Quijote de la Mancha è una parodia del genere cavalleresco.
Perché scrive una parodia del romanzo cavalleresco?
La prima parte del Don Quijote risale al 1605, perché ne scrive una parodia?

In effetti sarebbe stata scritta una versione apocrifa di una continuazione da un altro scrittore Fernande de
Avellaneda, una sorta di prestanome perché non sì è mai venuto a sapere chi fosse in realtà.
Questa continuazione mortifica la prima parte dell’opera, infatti i personaggi vengono trattati come una
coppia di fantocci.
Cervantes come risposta a questa continuazione apocrifa, torna sul testo e scrive lui la continuazione nel
1615, a 10 anni dalla prima parte.
Con elementi caratteristici e asserti testuali completamente diversi dalla prima parte. Come dire che il
decennio che intercorre tra la prima e la seconda parte si fa sentire.

Scrive il romanzo cavalleresco in forma di parodia.


Già in sede di prologo anteposto al don Quijote, ricaviamo informazioni molto importanti.

Il prologo è noto per essere di una modernità particolarmente rara che ovviamente segue la tradizione
della stesura dei prologhi e dei paratesti dell’opera, infatti in seno al paratesto c’era la dedica al nobile di
turno che si provava ad ingraziare in tutti i modi, oppure le firme dei grandi autori dell’epoca, come per
esempio la presenza di piccoli componimenti o un “biglietto da visita” da parte di autori importanti. Questi
elementi quali prologo e paratesto non erano secondari, ma strettamente connessi con il resto dell’opera.
Cervantes che visse tutta una storia di inimicizie con Lope de Vega che all’epoca era il personaggio più in
voga dell’epoca e quindi per un autore che voleva emergere, scontrarsi con un genio di Teatro, narrativa,
poesia era ovviamente molto difficile. Oltre tutto possiamo dire che Cervantes lo ammirava moltissimo,
infatti sono tanti i punti nell’opera in cui loda il lavoro e la straordinarietà indiscussa di Lope de Vega. Dal
canto suo Lope de Vega lo menzionava nelle sue opere ma il più delle volte lo faceva per beffeggiarlo,
soprattutto nel caso della poesia, che non era eccellente come nella narrativa e Lope de Vega non perdeva
occasione di sottolinearlo. Stessa cosa nell’ambito del teatro.
Però Lope sapendo di essere l’autore di maggiore successo del tempo, era l’autore che costruì e curò
moltissimo la sua immagine e la costruiva a tavolino, curava molti dettagli. Tra le tante cose, la prassi di non
aspettare che qualcuno tessesse le lodi delle sue opere ma le commissionava addirittura e come lui anche
altri, era proprio una prassi. Li commissionava e li assemblava. Cervantes che conosceva bene questa
debolezza di Lope de Vega, si prende beffa proprio del fatto che Lope si facesse scrivere questi elementi
paratestuali.

La straordinarietà del prologo deriva da altri elementi.


Cervantes manifesta il suo genio già a questo livello. Nel prologo in prima persona dice che nel momento in
cui si accinge a scrivere quest’opera, il prologo non gli viene. C’è lo sdoppiamento dell’io dell’autore,
Cervantes in prima persona si sdoppia e diventa protagonista di questa vicenda di sdoppiamento ed è
molto bella la visione di sé seduto a tavolino, con il blocco dell’autore e immagina che all’improvviso venga
a fargli visita un “amigo”, una presenza che sopraggiunge e gli chiede che stia succedendo e lui gli risponde
di non saper come fare perché non gli viene niente da scrivere, l’amigo che ovviamente è una specie di
ombra che si materializza e rappresenterebbe il suo alter ego. Cervantes autore racconta di questo
sdoppiamento al quale appare un altro doppio, un alter ego che per soccorrerlo gli dà una serie di istruzioni
e gli dice “ma come non lo sai che per scrivere un prologo devi partire da questo, fare un po’ di quest’altro
ecc.” è un racconto straordinario perché assolutamente moderno e geniale. Mentre el amigo gli suggerisce
come deve essere composto il prologo, sotto gli occhi del lettore il prologo si sta facendo, si sta
strutturando sotto gli occhi effettivamente. Crea una satira di tutte queste pratiche che marcano la
letteratura di successo, prende in giro usi e costumi dell’epoca.
Sulla fine del prologo l’amigo snocciola una serie di commenti e riflessioni relativi al genere di cui fa parte il
libro che sta nascendo e che ci interessa: los libros de caballeria.

Badare ai componimenti proemiali: coloro che dedicano i componimenti a chi Curgando (personaggio dei
libri di cavalleria) Oriana de l’Amadìs sono tutte invenzioni dell’autore. L’Orlando furioso a Don Quijote de
la Mancha, dialogo del cavallo del Cid scrive al cavallo di Don Quijote, presa in giro del genere letterario.
Ovviamente sono tutte invenzioni dell’autore a scopo goliardico.

Lettura da pag. 101


“Procurad tambien…”
El amigo continua a rivolgersi a Cervantes personaggio “Fai in modo che leggendo la vostra storia, il
malinconico si senta indotto al riso, l’allegro che accresca la propria allegria, lo sciocco non se la prenda, che
il discreto resti meravigliato dalle trovate, che il grave non la sprechi né il prudente faccia a meno di
lodarla.” Badate a che il vostro libro piaccia a tutti.
Ponete l’attenzione a far precipitare/a rompere la macchina mal fondata di questi libri cavallereschi,
disprezzati da tanti e lodati da tanti di più, perché se questo riusciste a raggiungere, non avreste ottenuto
poco.
E’ una letteratura di massa, si era creato un vero e proprio mercato dei libri e della letteratura con
l’invenzione della stampa.
“Senza neanche mettere in dubbio per un momento i discorsi (razones=discorsi) del mio amico, li misi in
pratica e con esse volli fare questo prologo, nel quale vedrai, lettore soave
Sempre all’insegna dell’ironia il prologo esordisce con un vocativo: desocupado lector, si rivolge al lettore
ozioso, ma sappiamo che il lettore per eccellenza doveva essere il discreto lector, se invece Cervantes si
rivolge al lettore ozioso, ovviamente lo pone in contrapposizione con il lettore discreto, perché non si
aspetti che tragga un insegnamento, ma addirittura gli attribuisce una caratteristica negativa, l’ozio che era
comunque considerato un peccato.

“Una grande fortuna è stata l’aver trovato un consigliere tale in un momento di “avaria”. Così tu troverai
senza raggiri e senza essere stato modificato troverai in questo testo la storia del famoso don Quijote de la
Mancha, sul quale si opina in tutte le zone del distretto (la Mancha era una zona assolutamente povera,
rurale, spopolata e non una patria illustre come quella dei grandi eroi epici, ROVESCIAMENTO DEL TOPOS
dei grandi romanzi), che fu più casto innamorato, più coraggioso cavaliere, che da molti anni a questa parte
si è visto da queste parti??. Non voglio che tu mi sia grato per la storia del Don Quijotte, ma per la
conoscenza del suo famoso scudiero, Sancho Panza, nel quale concentrate tutte le grazie scuderie che i
libros vanos de caballeria estàn esparecidas.

Ci interessa la parte riferita ai libri di cavalleria definiti “aborrecidos”, perché se da una parte continuava ad
essere un genere molto letto, dagli inizi del 500 si alimentava un dibattito molto acceso attorno al loro
statuto, era un genere dibattuto perché era un genere di finzione, assolutamente irrazionale, perché frutto
della camera immaginativa. In quanto frutto di IMMAGINAZIONE e non di storia, si prestava a tantissime
critiche. Addirittura venivano prodotte tantissime censure, tantissimi problemi.
Citiamo due critiche: una di queste è ricondotta a un testo di Vives che è uno degli umanisti più noti del 500
vicino alla corte del re e autore di un testo, come un trattato di aberrazione femminile, il “De istitutione
foeminae cristianae”, un manuale di condotta per le buone donne cristiane.

La letteratura del 400/500 la letteratura umanistico/rinascimentale si divideva in due “marche”:


-Pensiero laico che si basava sul poter guardare e approcciarsi liberamente alla tradizione pagana
greco/latina.
L’altro segno distintivo è ovviamente la NAZIONALITA’. Spesso gli umanisti disdegnano e aborriscono la
letteratura di funzione, proprio perché la cultura umanistica è finalizzata alla costruzione del nuovo cives,
dell’uomo della modernità, è tutta sbilanciata su un tipo di letture di tipo formativo. L’uomo di cultura deve
essere costruito e basarsi su strutture etiche e sociali e perciò le letture dovevano essere tutte di tipo
formativo (trattati storici, morali), non c’è spazio per la letteratura disimpegnata e la letteratura di finzione
non era ben vista perché fomentava la parte irrazionale dell’individuo, la libera immaginazione.
Una delle cose che ritroviamo nei testi di Vives, sono tutti elementi etici, per esempio riteneva che la
letteratura dovesse essere solo quella latina, quindi letteratura di trattatistica, prosa storia ecc.
Che fanno le donne a leggere i libri di finzione e i libri di cavalleria? Essendo donne non potrebbero essere
interessati all’argomento della guerra e in quanto all’argomento d’amore non dovrebbero leggere questi
libri di cavalleria perché intrisi di storie d’amore che possono essere pericolose perché sviano le donne dal
retto cammino. Spesso le eroine andavano a letto con gli innamorati prima del matrimonio, quindi erano
argomenti scabrosi, però venivano spiegati da una specie di accorgimento, quello della promessa di
matrimonio.
Vives attacca fortemente questo tipo di letteratura perché una letteratura di evasione, che non alleva la
parte razionale del sé, perché non aiutano a costruire la morale per le donne, inoltre i libri di cavalleria
mentono alla realtà storica. Com’è possibile che si faccia riferimento al fatto che il cavaliere operasse in
provincie già cristianizzate, c’è un’incongruenza di tipo storico, non sono fedeli alla storia e perciò dovevano
essere censurati.
Un altro esempio vicino al suo è quello di Juan de Valdez, erasmista vicino a Carlo V, che nel 1524 aveva
composto “El dialogo de la lengua”, ambientato a Napoli. Si tratta di un dialogo dove vengono registrati in
presa diretta i dialoghi/le conversazioni di 4 protagonisti, uno dei quali è proprio Valdez personaggio che
interloquisce con Marzio. Valdez non è rigido come Vives, perché ad un certo punto mentre sta criticando i
libri di cavalleria, Marzio lo incalza e gli chiede perché stia così tanto criticando i libri di cavalleria.
E lui dice che ne aveva letti moltissimi, passava notte e giorno alla lettura dei testi, fino a consumarsi le
falangi delle dita. E’ uno che conosce molto bene il genere e allora qual è il difetto dei libri di cavalleria?
Individua due tipologie di difetti, una di tipo etico e una di tipo estetico.
Di tipo estetico dice che hanno un difetto di stile, cioè si tratta di uno stile arcaico. Il che è vero perché
siccome la cavalleria come fenomeno sociale si sviluppò e consumò nella prima metà del 400, la cavalleria,
come sistema di stile secondo il quale il cavaliere si metteva al servizio del re, offrendo i propri servigi. In
Spagna finito il periodo del vassallaggio, la cavalleria smette di essere una pratica sociale reale e sopravvive
in letteratura, come motivo e genere letterario. In questa operazione si mantengono però tutti i
contrassegni della cavalleria, anche dal punto di vista linguistico, infatti questi personaggi parlano nel
Castigliano del 400, è come se fosse una lingua ferma agli inizi della cavalleria ocme fenomeno sociale,
storico, reale. Infatti uno degli elementi di maggiore comicità del don Quijotte, mentre tutti gli altri parlano
il Castigliano 500esco, lui parla il castigliano del 400 e quindi crea un effetto assolutamente comico e
Quijote risulta un anacronismo come individuo che toppa e si scontra con gli altri.
Sul piano formale condivide che siano avventure che si scontrano con l’etica che il 500 voleva impartire.
Inoltre aggiunge che i testi mancano di coerenza e di coesione testuale, perché questi testi si basano
sull’inverosimiglianza. Ed in effetti Valdez, più che sul contenuto inverosimile che Vives criticava, critica
come vengono scritti, accusandoli di mancanza di coesione e di coerenza testuale. Com’è possibile che lo
stesso re Lione, quando va in camera di Elicena lascia cadere la spada a terra, non solo facendo un grande
rumore (e come è possibile che non ha svegliato tutti quanti), la cosa peggiore è che oltre tutto lascia la
spada da Elicena. Valdez diche che è assolutamente inconcepibile che un cavaliere errante possa
dimenticarsi la spada per giorni e giorni, che è il suo corrispondente oggettivo. Oppure i libri di cavalleria
spesso scadono nel fallo di memoria, viene raccontata una cosa in certi termini, ma dopo si dimentica, e
quindi 20 pagine più tardi riprende la narrazione entrando in contrapposizione con quello che aveva scritto
precedentemente.

Queste sono le critiche alle quali Cervantes si riferisce quando parla di libros “aborrecidos”. Aborrecidos
perché è letteratura di intrattenimento e non ricopre quella funzione di impartire esempi etici soprattutto
per le donne, hanno difetti nello stile, perché lo stile è arcaico, in più difettano sul piano dei contenuti,
perché raccontano cose impossibili quindi inverosimiglianza, e sul piano della modalità della narrazione
mancano di coesione e coerenza narrativa. Sono pieni di difetti e per questo sostenevano che si dovessero
abolire.
Queste sono le critiche che si muovevano già negli anni 20 del 500, ma ancora quando Cervantes si avvicina
a questi testi, ancora queste critiche erano molto forti.
Bisogna prendere sul serio l’affermazione che pronuncia l’amico, cerca di distruggere questa macchina di
scritti vani, criticati da tanti e lodati da tanti di più, continua comunque a fare riferimento all’ambiguità del
genere odiato ma che si continua a leggere così tanto e proprio questa ambiguità consente il rivolgimento
comico-parodico che Cervantes adotta.
E’ fondamentale questo passaggio e altri 2/3 dove Cervantes inserisce per bocca dei suo personaggi quello
che pensa sul genere cavalleresco. Cervantes non scrisse mai saggi di critica letteraria.
Quindi si riferisce al genere ma per bocca dei suoi personaggi.
Sono luoghi delle sue opere assolutamente fondamentali dove emerge il pensiero di Cervantes.

“En lugar de...”


“In un luogo della Mancha, del cui nome non Quiero=riesco a ricordare, non molto tempo fa viveva un
hidalgo, di quelli che hanno la lancia dove si conservavano, con uno scudo vecchio, un ronzino fiacco cioè
magro, il cane da caccia. In che cosa se ne andavano i ¾ delle sue rendite? In un bollito che aveva dentro
più carne di vacca che di vitella (un piatto poverissimo), salvigon (piatto tipico di quella regione), uevos sin
che brantos (battuto di uova con pezzetti di cervello e interiora, frattaglie), le lenticchie il venerdì, un po’ di
carnagione della sua rendita e il resto dei suoi beni era composta da un vestito molto povero e grezzo, calze
di velluto con scarpe dello stesso tessuto, di panno grezzo e nei giorni della settimana si pregiava con il suo
Panuelo de lo mas sonido. Nella sua casa aveva una domestica che aveva più di 40 anni, una nipote che non
ne aveva 20 e un ragazzo (mozo de campos). Sfregava l’età del nostro hidalgo i 50 anni e aveva una
struttura fisica allampanata (magro, allungato), asciutto in volto, smunto, si alzava molto presto la mattina e
amico della caccia. Intendono dire (ma chi è la fonte dell’informazione) Quijada e… (un cognome incerto)
perché su questo punto dell’identità del cognome, esistono delle discrepanze tra gli autori di questa storia”.

Da sottolineare il fatto che la Mancha all’epoca era una regione poverissima, rurale e spopolata quindi
questo già connota fortemente l’identità del nostro eroe che è in realtà un ANTI-EROE. Infatti a differenza di
tuti gli altri eroi che venviano da luoghi straordinari, la Tessaglia, la Gaula ecc. lui invece viene da una zona
poverissima e oltre tutto non si ricorda neanche precisamente da dove. NEGAZIONE DELLA PATRIA
ILLUSTRE è già un’antitesi fortissima di un topos letterario che era fondamentale nei poemi cavallereschi.

Hidalgo: rappresentante della piccola nobiltà, titolata ma povera in canna.


Connotati: lancia che aveva posato, rimanda all’idea che avesse la lancia conservata e che quindi avesse
smesso di praticare l’arte della guerra, lo scudo vecchio, dà l’idea di provenire da un’altra epoca, il cavallo
rinsecchito. Determinano assolutamente un ANTI-EROE. Era vecchio, con vestiti vecchi.
Questo hidalgo ha quasi 50 anni, che per l’epoca era un’età avanzata. Per quanto hidalgo non faceva più la
guerra, però non lavorava e quindi aveva come unica occupazione la caccia.
Il mozo scompare dalla narrazione, come se fosse una di quelle dimenticanze.
Ma chi sono gli auctores di questa storia?

31.10.18 10° LEZIONE

Il personaggio di don Quijote presenta una serie di tratti caratteristici che contribuiscono a delinearne uno
statuto comico-parodico, rispetto agli ideali alti che determinano e sono caratteristici di un romanzo
cavalleresco, il nostro eroe (che non è più un eroe, quanto in realtà un hidalgo dalla patria indistinta che
non si riesce a riconoscere) proviene da una patria indistinta, l’dentità anche è sconosciuta, infatti
nel cognome ci sarebbe un riferimento all’insicurezza per il fatto che non si sapeva quale fosse
effettivamente il suo cognome.
Il testo vacilla attorno a delle macchie identitarie che dovrebbero riferirsi all’eroe ed essere chiarissime,
danno l’idea della comicità del testo e della satira che impervia nella narrazione.
Altri aspetti particolari si riferiscono addirittura alla sua fisionomia, infatti si tratta di un hidalgo che ha circa
50 anni e non ha neanche il fisico del cavaliere errante e si presenta magro alto, con il volto asciutto e
scavato.
Rappresentante dell’hidaldia, cioè di una classe ormai decaduta, tanto che l’hacienda, il capital, il
patrimonio viene consumato per i beni primari, anche il vestiario non erano dei migliori perché i vestiti
erano fatti di panno grezzo, un tessuto non di valore.
Passo relativo al l’identità del personaggio, in cui gli autori direbbero cose (altro elemento che destabilizza
la veridicità della narrazione). Indeterminatezza delle fonti dell’opera che contribuiscino a destabilizzare la
narrazione e la sua veridicità.

Solitamente i libri di cavalleria hanno sempre dicitura “historia/cronica” e rivendicano già nel titolo uno
statuto di verosimiglianza, si assimilano le storie dei cavalieri a storie vere e narrazioni vere, spesso in
correlazione al topos del manoscritto ritrovato (dall’Orlando furioso ai promessi sposi) lo stesso Amadis de
gaula.
È un luogo comune che serviva per accreditare la veridicità della narrazione.
Cervantes all’inizio non sfrutta questo topos, anzi al contrario esordisce con un rinvio a fonti non
determinate, a degli “auctores” che però non si sa chi sono, né a che tipologia di testi richiamano.

“Ma questi dettagli sono poco importanti ai fini della nostra narrazione, l’importante è che la narrazione sia
quanto più veritiera possibile”
Quento/caso parole utilizzate quasi come omaggio ad una narrazione autobiografica che corrisponde al
rovesciamento della tradizione cavalleresca, proprio perché sono elementi che solitamente associamo alla
tradizione picaresca. Non sono termini scelti a caso.
Pretesa della veridicità: l’importante è che quanto narrato sia verosimile.
“È dunque da sapere che il menzionato hidalgo, nel momento in cui stava ozioso, che erano la maggior
parte dell’anno (riferimento giocoso per accrescere la portata satirica del passo e rovesciamento), si
dedicava a leggere i libri di cavalleria con tanta passione e piacere, che quasi si dimenticò dell’esercizio della
caccia e persino dell’amministrazione dei suoi beni” passa così tanto a leggere che si dimentica della sua
vita, delle sue faccende del resto della sua vita che si riferiscono alla caccia e all’hacienda che era ben poca
cosa.
Desatino= contrario del senno, follia
“Ed arrivò a tanto la sua curiosità e la sua follia che arrivò a vendere molti ettari dei suoi campi da semina
per comprare quanti più libri di cavalleria da leggere e così portò a casa tutti quelli che potette.
Collezionava quanti più libri di cavalleria e si impoveriva perché vedendeva i suoi beni per comprare i libri.
Tra questi preferiva quelli di Feliciano da Silva (grande autore del 500) del quale apprezzava i discorsi di
corteggiamento fra gli innamorati e la carta de desafios documento con cui i cavalieri si scontravano a
duello.
Dove in molti luoghi in cui riportava scritto

Fermosura al posto di di hermosura che è in effetti la grafia arcaica di hermosura.


Fa riferimento alle critiche di carattere estetico che si soleva fare ai libri di cavalleria arcaici. Uso satirico del
tratto tipico dei libri di cavalleria, usa il termine fermosura perché stesura arcaica di hermosura, che risale a
prima che la F si lenisse in H, dopo aver perso l’incidenza fonetica.
Era un processo ovviamente consumato ma i libri di cavalleria riproducevano dal punto di vista linguistico
un volgare castigliano arcaico.
Incidendo su questo tratto dell’altisonanza del discorso e della magniloquenza della cavalleria di cui si
prende beffa in questo passo.
“Con questi discorsi il povero cavaliere perdeva il giudizio e non dormiva al fine di comprenderle e di
estrapolarne il significato che neanche Aristotele si sarebbe raccapezzato dal capire quei discorsi”

Una delle raccolte più belle di Pedro Salina è Razon de Amor, ma il termine ragione in effetti è in accezione
classica: ragionamento, discorso in parole e versi.

Narratore onnisciente interno al testo che riferisce la narrazione controllando il testo, gestendolo a suo
piacimento.
La perdita di giudizio porta il personaggio ad avere un dialogo diretto con gli autori e i personaggi delle
opere che legge, il suo mondo finisce per essere popolato dai personaggi di cavalleria e i loro autori.
“En resoluciòn”

Passaggio centrale dell’opera, come se il testo si preoccupasse di spiegare tecnicamente l’eziologia del male
che patisce il protagonista (le origini della sua malattia mentale). “In definitiva passa le notti leggendo
dall’alba all’alba successiva, dalla notte alla notte successiva (costruzione chiastica) e così in ragione del
poco dormire e del troppo leggere, gli si seccò il cervello in maniera tale che gli venne a mancare il
giudizio.”
Un lettore dell’epoca che disponeva di certe nozioni di carattere medico scientifico decodificava facilmente
il tipo di spiegazione che dà Cervantes in questo luogo, noi dobbiamo recuperarle invece.

Tutto il sapere medico-scientifico della cultura occidentale fino al 600 avanzato, quasi 700 riposa sulla
TEORIA DEGLI UMORI.
La lettura del funzionamento dell’organismo passava sempre dall’osservazione
Bile nera e gialla, flegma e sangue devono essere in un rapporto non solo di equilibrio tra di loro
nell’organismo in termini di proporzioni e quindi di quantità, ma ognuno di questi umori è contrassegnato
da proprietà (caldo, secco, umido). Ora se erano compresenti nella stessa misura, nelle giuste proporzioni
l’individuo era sano, se invece si generava una sproporzione o per eccesso o per difetto, di quantità o di
qualità, si generava il carattere atrabiliare che corrispondeva ad un problema, ad una disfunzione.
Eccesso di bile nera: malattia del cervello, melanconia;
Nel caso di don Quisciotte il riposo sarebbe fondamentale perché l’equilibrio fra gli umori solitamente si
rigenera, quindi il fatto che non dormisse e che fosse ossessivamente impegnato nella lettura dei libri di
cavalleria, produce un aumento di secchezza della bile nera.
Perciò dice “Si seccò il cervello” cioè perde il tasso di umidità che dovrebbe avere e siccome non si ripristina
con il riposo, scatena questo problema dovuto all’eccesso di bile nera e gialla (che è quella che provoca
l’ira).
Perché la secchezza del cervello provoca la perdita di giudizio??
Non diventa malinconico o iracondo, ma perde completamente il giudizio.

Facciamo riferimento alle teorie medico-scientifiche sul funzionamento del cervello dell’epoca per
comprendere il funzionamento della follia di don Quijote: intorno al 400 vengono messe insieme diverse
teorie ereditate dalla classicità. Innanzitutto esisteva un testo, summa della medicina del tempo, che era Il
CANON MEDICINAE di Avicenna, medico-filosofo medievale che aveva raccolto al suo interno tutto il sapere
sulla medicina dell’epoca. Aveva fuso insieme varie teorie medico-filosofiche del passato, come la teoria del
medico greco Galeno relativamente all’organizzazione del cervello, infatti aveva stabilito l’organizzazione
del cervello in tre camere: camera frontale, mediana e posteriore.
Avicenna aveva combinato questa teoria a quella dell’anima di Aristotele che aveva tentato di descrivere le
tre parti dell’anima: anima sensitiva, anima vegetativa e razionale.
Anima vegetativa presiede alle funzioni vitali e al funzionamento degli organi legati alla digestione, ai
processi fisici che ci tengono in vita, soprattutto il fegato.
Anima sensitiva si riferisce al funzionamento dei 5 sensi.
Anima razionale è facoltà che presiede l’attività intellettuale e risiede nel cervello e che ci permette di
ragionare e dar vita all’attività intellettuale.
Sono tre facoltà dell’anima (tre attività) che Aristotele tripartisce.
L’anima sensitiva si distingue tra un senso interno ed esterno, (che si riferisce al modo di conoscere la
realtà e apprendere il mondo reale) i cinque sensi mediano il rapporto tra noi e la realtà esterna. I sensi
esterni registrano le proprietà materiali degli oggetti, questi dati registrati passano al senso interno che si
articola a sua volta in diversi livelli. Mediano il rapporto tra la nostra interiorità e il mondo esterno.
Quindi i sensi registrano le proprietà materiali degli oggetti. Questi dati che il senso esterno registra, li passa
al senso interno.
Il senso interno si articola in vari livelli e tipologie.
La fantasia è il primo dei sensi interni, che si serve della vista per percepire i dati esterni, la fantasia
trasferisce i dati alla facoltà immaginativa che si trova un po’ più all’interno della fantasia (immaginazione).
Secondo Avicenna queste sue facoltà risiedono nella cavità anteriore del cervello, cioè la parte frontale.
L’immaginativa percepisce i dati del reale, li trattiene e comincia ad alterarli, li passa nella cavità mediana
alla facoltà estimativa (quella facoltà che attribuisce le qualità non materiali ai soggetti esterni) ecco perché
uno stesso oggetto può piacere o non piacere a persone differenti.
Con il senso esterno registriamo le proprietà materiali, mentre la facoltà estimativa attribuisce le qualità
non materiali: “mi piace/non mi piace, è gradevole/sgradevole” attribuisce qualità non materiali.
La facoltà estimativa lavora in maniera diversa all’interno del nostro cervello. La passa alla facoltà
cogitativa che ha il compito di rielaborare tutto questo nuovo oggetto, lo definiamo nuovo perché da
quando il senso esterno percepisce l’oggetto della realtà e lo possa alle facoltà interne, questo oggetto
subisce un processo di “progressiva denudatio”, che si spoglia progressivamente dei suoi accidenti
materiali, quello che vediamo arriva diversamente alle facoltà interne ed è completamente rielaborato.
La cogitativa rielabora e passa questo nuovo prodotto alla parte inferiore che ha la facoltà del memoriale
che immagazzina l’immagine che ci facciamo di quell’oggetto di partenza nell’intero processo.
Questo spiegava perché fossimo in grado di ricordare e registrare gli oggetti che vedevamo per una volta e
già sapevamo anche se l’oggetto non c’era cosa fosse.

Tutto questo processo attiene alla sola anima sensitiva che elabora e produce le immagini degli oggetti.
È necessario che questo prodotto dall’anima sensitiva passi all’anima razionale, al fine di trasformarsi in
un concetto pronto ad essere razionalizzato. Così apprendiamo dalla realtà.
Attraverso Avicenna che integra la teoria Galenica del cervello a quella Aristotelica dell’anima, spiega tutto
questo fenomeno.

Le immagini degli oggetti che abbiamo dentro di noi, frutto della nostra rielaborazione fatta
dall’immaginazione, oppongono un problema. Cioè le cose che abbiamo rielaborato, quindi queste nuove
immagini, questi nuovi oggetti, non saranno mai più le stesse rispetto a quell’oggetto principale, non
corrisponderanno mai più a quell’oggetto.
In effetti questa teoria si riferisce alla teoria dell’amore, rielabora a tal punto quell’immagine dentro di me
associando certi connotati per cui quando mi immagino quell’oggetto, in realtà sto immaginando il mio
desiderio e l’idea che mi sono fatta per quella cosa. Inseguiamo quello che tecnicamente è un fantasma, il
prodotto della mia immaginazione che effettivamente non esiste nella realtà, non si può dare una
corrispondenza onirica perfetta tra l’oggetto reale e la nostra immaginazione. il desiderio è una dinamica di
appagamento e frustrazione che ci catapulta in un circolo vizioso di desiderio e necessità di appagamento
che non otterremo mai.
Quando ci innamoriamo creiamo dentro di noi un’immagine tratti di gradevolezza, piacevolezza, per cui mi
innamoro e rielaboro a tal punto quel modello dentro di me, quando poi mi trovo a cogitare quell’oggetto,
in realtà mi trovo a desiderare l’oggetto della mia immaginazione e non quell’oggetto reale.
Inseguiamo quello che tecnicamente prende il nome di fantasma, quel prodotto dell’immaginazione che la
nostra mente rielabora.
L’amore in senso tecnico è questo.

Altra teoria da parte di un medico catalano, Arnau de Vilanova scrive un trattato, il De parte operativa, che
si riferisce al cervello dell’essere umano.
Il DE PARTE OPERATIVA è un trattato di medicina che affronta la funzionalità di un organo centrale
dell’individuo, il cervello. È un trattato di medicina che Arnal de Villanova dedica a studiare le patologie del
cervello. Nella sua ricostruzione distingue le varie parti del cervello a seconda dell’area che viene
interessata e del grado di intensità al cervello.
Dedica una parte all’Alienatio mentis, l’alienazione mentale, dedicando diverse parti a questa patologia,
ognuna delle quali si riferisce ad una zona periferica del cervello e non centrale.

Il ragionamento conduceva alla soluzione delle cose, spesso era prediletto il sillogismo (dati A e B devo
ottenere C) che è comunque un metodo speculativo che non si basa sulla verifica.
Quando Arnau de Villanova studia le patologie del cervello e ne individua 5: STULTITIA (stoltizia, ovvero la
stupida Letizia)
Oltretutto studia gli accidenti visibili che accompagnano quella patologia, per la stultitia ritiene che sia una
forma di alienazione di quei soggetti che ridono senza motivo continuamente, gli ebeti.
La MANIA, è la malattia degli inferi è la tendenza all’Ira alla rabbia incontrollata
Poi passa ad analizzare HEROIS è alla base dello studio dell’amore come MALATTIA. L’amore è una forma di
alienazione mentale, è una patologia psichica/mentale che ha come accidente materiale un eccesso di
cogitatio.
Il malato di HEROIS ha la tendenza a cogitare ossessivamente il prodotto della propria immaginazione senza
riuscire a distinguerlo dal soggetto reale.
Questo oggetto dell’immaginazione, il fantasma interiore si forma attraverso un veicolo fondamentale
(ovviamente tutto questo vale con il tipo di follia di cui è affetto don Quisciotte).

MELANCONIA è una specie di patologia media, è un po’ comune a tutti e 5, ha un suo specifico è un tipo di
alienazione che è alla base di tutte e 5 (per il fatto che sia causata da un eccesso di bile nera).
Hanno tutte in comunque questo eccesso di bile nera in correlazione ad altre patologie
La melanconia si manifesta con la chiusura, la perdita di socievolezza e una cogitazione ossessiva.
CICUBUS

Teoria pneumatica elaborata dagli stoici: nel nostro organismo esiste lo pneuma, il soffio vitale, lo spirto. Il
pneuma si produce dalla parte più pura del sangue, il fleugma. Attraverso le arterie che tengono in
movimento il sangue, questo movimento lo fa surriscaldare, principio per il quale con il movimento
aumenta il calore corporeo. Con il surriscaldamento del sangue, dal sangue esala una parte di sangue, un
vapore, un soffio che è a metà tra qualcosa di fisico e spirituale.
Ci sono diversi tipi di pneuma a seconda di dove viene prodotto, mano mano che sale si raffina sempre di
più, diventa sempre più raffinato e si valorizza. Quando dal cuore sale al cervello, dal cervello passerebbe
tra le varie cavità, arriva agli occhi e dagli occhi, il senso esterno della vita, ci sono due teorie: da una parte
si arresta agli occhi e servirebbe ad apprendere i dati esterni, oggetto della realtà, secondo l’altra teoria lo
pneuma fuoriesce dagli occhi e si propaga all’esterno.
Lo pneuma dell’amante va verso la donna amata, l’osserva, torna indietro e fa tutto il percorso opposto.
Secondo la teoria platonica questo sarebbe anche il principio della vita che unisce microcosmo e
macrocosmo che mantiene in vita il creato.
Il pneuma una volta rientrato dagli occhi fa tutto un percorso a ritroso, forma il fantasma e lo deposita nel
memoriale. Il pneuma lo riporta di nuovo dal cervello al cuore. Questo è il sistema attraverso il quale si
arriva a dire “scritto porto impresso nella mia anima il vostro volto” Garcilaso.
Il cuore a questa altezza è già sede dell’anima.
Il pneuma dell’amata e quello dell’amante si incontrano e finiscono per coincidere presso il cuore. Nel caso
di HEROIS l’amante cade in una concezione ossessiva compulsiva perché l’amante richiama costantemente
il fantasma d’amore e nutre un bisogno assurdo di cogitarlo ossessivamente, in assenza dell’amata, che è
necessario che non ci sia perché anche se ci fosse non sarebbe lo stesso. È il fantasma dell’amata che
richiama alla facoltà cogitativa. Da lì l’esperienza di amore di follia e di sofferenza.
Cogitare= desiderare
Andrea cappellano nel De Amore definisce l’amore “amor es patio” l’amore è una passione cioè sofferenza,
che nell’individuo è una cosa innata, connaturata alla natura degli individui che procede dalla visione
dell’oggetto amato (la visione è necessaria per creare) e un’ossessiva cogitazione delle forme e apparenze
dell’altro sesso.
Visio e cogitatio vista e desiderio in correlazione tra di loro.
È nel codice umano di tutti noi
Infatti nella convenzione letteraria si mette fine alla sofferenza d’amore solo in due casi, o muore lei oppure
attraverso il suicidio.
L’amore HEROIS in quanto tale è un’esperienza di frustrazione perché legata a questo disturbo per il quale
si cade nell’inganno di sostituire agli oggetti della realtà i prodotti della propria immaginazione è dovuto ad
uno squilibrio u morale della bile nera, in eccesso è caratterizzata da un’eccessiva secchezza.
Anche don Quijote per la mancanza di sonno produce un eccesso di veleno contrassegnato dalla secchezza
che comporta l’ipertrofia immaginativa cioè che l’immaginazione lavora in maniera ipertrofica, produce
costantemente i propri prodotti senza mai arrestarsi e li sostituisce, fa scadere l’individuo nel difetto del
sovrapporre i prodotti dell’immaginazione alle cose reali.
Vede nella realtà quello che sta sostituendo nella sua immaginazione.

6.11.18 11°LEZIONE
L’autore dà conto del tipo di patologia che patisce il suo protagonista, impazzì fino a perdere il giudizio per
due ragioni: la lettura ossessivo-compulsiva che lo tiene impegnato notte e giorno e la mancanza di riposo
che ha un effetto e cioè che gli si rinsecchì il cervello e questa sarebbe il motivo della malattia di don
Quijote: una ipertrofia immaginativa, dovuta al fatto che la facoltà immaginativa funziona male, per colpa
di quei fantasmi che si sono prodotti nel suo cervello, lui non smette mai di immaginare, ad essere
interessata da questa damnatio mentis, è la facoltà pneumo-fantasmalogica.
Il fatto che non dorme non consente che si stabilisca un equilibrio fra gli umori. Quindi non avendo un
corretto rapporto con la realtà, opera un’azione sostitutiva degli oggetti che diventano fonte di
contemplazione, cogitatio ossessiva: herois.
“Vi si riempì la fantasia” ricorre a termini non casuali, ma termini che si riferiscono al senso di ?? secondo la
dottrina aristotelica “di tutto quanto si diceva nei libri, tanto di incantesimi quanto di battaglie, lotte, sfide,
duelli, ferite, proteste amorose, corteggiamenti, innamoramenti e sciocchezze impossibili e tutto questo si
radicò così fortemente nella sua immaginazione per cui riteneva che fosse verità tutta quella macchina di
sonore sognate menzogne che leggeva, perché per lui non c’era una storia più vera nel mondo. Diceva che il
Cid era stato un buon cavaliere, ma che non aveva niente a che vedere con il cavaliere della cierta ispada,
che con un solo rovescio era riuscito a sconfiggere due fieri e smisurati giganti. Si trovava meglio con
Bernardo del Calle che a Roncesvalle aveva ucciso il padrondan.”

Sono tutti esempi estratti da materia letteraria. I prodotti dell’immaginazione di don Quijote hanno
un’origine. Infatti gli oggetti a partire dai quali si produce la sua immaginazione sono tutti non cavalieri
realmente esistiti, ma sono quelli che lui preleva dai libri di cavalleria. E’ tutto un sistema di immagini che
lui preleva dai libri di cavalleria che ha ormai imparato a memoria e da qui si sviluppano i prodotti della sua
immaginazione.

Pag. 117
“In effetti, ormai compromesso definitivamente il suo giudizio concepì il più bizzarro pensiero che avesse
mai concepito un pazzo nel mondo, gli sembrò opportuno e necessario, tanto per poter accrescere il suo
onore quanto per rendere servigio alla sua Repubblica, diventare un cavaliere errante”
Non è soltanto dalla lettura dei libri che scaturisce la sua pazzia, ma poi vuole diventare lui stesso uno degli
oggetti della sua fantasia, liberarli e materializzarli.
“e di andare per tutto il mondo con le proprie armi e il proprio cavallo a cercare le avventure e di cimentarsi
in tutto ciò che aveva letto nei libri di cavalleria rispetto ai cavalieri erranti, di cercarne i pericoli attraverso i
quali, superandoli, potesse guadagnare eterno nome e fama e incalzato da questo desiderio, la prima cosa
che fece fu recuperare delle armi che erano state dei suoi avi, che macchiate di ruggine e piene di muffa, da
molti secoli erano state riposte e messe in un angolo.”
Quete come principio compulsore della vita del cavaliere, il cavaliere erra perché andava in cerca
dell’avventura.
Iniziano ad emergere gli aspetti anche più teneri di questo folle personaggio.
Recupera le armi vecchie e arrugginite, le ripulisce e rispetto all’armatura si accorge che l’elmo è privo di
celata, quella parte che si abbassa per difendersi, allora decide di rimediare da solo alla mancanza della
celata e la costruisce di cartone.
Don Quijote invesce con la sua follia tutti quelli che conosce, quando torna a casa finalmente rinsavisce e
muore. Scena molto emozionante, straordinaria.

Dopo averlo costruito vuole destarne la resistenza, gli dà due colpi con la spada e lo distrugge. Così insiste,
la rifà e aggiunge un rattoppo attraverso delle barre di ferro dal di dentro.”
Ma il rimedio è il peggio del male, perché una volta messo l’elmo non se lo può più togliere, quindi con la
celata abbassata non può più mangiare e bere.
Addirittura arriverà in una locanda dove per farlo mangiare proveranno ad aiutarlo con una cannuccia.

“Andò subito dopo a provare il suo ronzino (cavallo con una particolarità, non è un cavallo da trotto, ma un
cavallo da tiro) e sebbene avesse più quarti di un reale (i quarti si riferiscono ai quarti dell’animale che
vengono squartati, oppure i quarti si riferiscono ai quarti che formani il real, gioca con questa disemia,
quindi questo cavallo era pronto ad essere macellato) e più tagli del cavallo di Cornella (cornella era un
buffone di corte delle corti italiane, era diventato proverbiale) del quanto si diceva che era pelle e ossa.
Non smetteva di pensare a che nome dovesse dare a questo ronzino, però voleva che fosse altisonante,
almeno quanto il nome il suo padrone e che rispecchiasse perfettamente ciò che era stato prima e quanto
sarebbe successo, così lo chiama Ronzin-ante, quello che per primo era stato ronzino, ma anche perché fa
rifermenti al cavallo che sta davanti a tutti nelle sfilate. “il primo di tutti i ronzini del mondo”.

Adesso si deve “autobattezzare”, sta provvedendo ad ogni singolo dettaglio utile alla costruzione dells sua
nuova identità di cavaliere errante.
“Altri 8 giorni passò per capire come si potesse chiamare e alla fine decide di chiamarsi don Quijote.
Sulla costruzione di questo nome che don Alonso sceglie per sé la critica si è sbizzarrita a ricostruire le
etimologie burlesche del nome:
Alcuni sostengono che banalmente sfrutti il suffisso in –ote di tanti nomi di cavalieri, siccome si rifaceva
chiaramente all’onomastica degli eroi.
Altri, tra cui un ispanista francese, sostengono che ci sia un gioco burlesco dietro questo nome, addirittura
sosterrebbero che si riferisce al termine sciocco neanche dal castigliano, ma dal francese infatti sciocco si
dice “sote” e che il simbolo precedente all’evoluzione della j era lo stesso grafema della s in francese, il
nome sarebbe “don qui? Sote?” “Chi è uno sciocco?”.
Altri ancora sostengono che si riferisce al quijote chè è una parte dell’armatura, che protegge la
sovraccoscia, quindi sarebbe una sineddoche e un gioco di parole “don cosciotto” come una parte per il
tutto.
Non sappiamo a cosa si riferisse, ma sicuramente c’è un tentativo di giocare con qualcosa se non con tutti
questi elementi.
Il fatto che si fosse chiamato don Quijote, convinse ancora di più gli auctores di questa verdadera historia,
ai quali il narratore si riferisce come fonti della storia di cui sta narrando, ma solo fino al 9 capitolo della
prima parte.

“Il fatto che si fosse chiamato don Quijote convinse gli autori di questa storia vera che senza dubbio si
doveva chiamare (il cognome vero) Quijada e non Quisada come molti altri avevano affermato.
“Gli mancava soltanto da aggiungere il nome della sua patria e così onorava la sua patria assumendone il
nome.
Ripulite le armi, fatto del buglione una celata, attribuito il nome al proprio ronzino e battenzandosi egli
stesso, gli mancava una dama di cui innamorarsi, perché il cavaliere…”

Inizia a scervellarsi su chi potesse essere la sua amata. “Oh come si compiacque il nostro cavaliere quando
finì questo discorso e ancor di più quando trovò a chi dare il nome della propria dama e fu per quanto si
crede in un luogo posto vicino a dove viveva lui c’era una giovane contadina, dall’aspetto gradevole, della
quale lui da giovane si era innamorato, sebbene lui non si era mai dichiarato né le aveva chiesto
l’impressione di ciò.”
La musa di un cavaliere ridotta ad una contadinella di Paese, con un nome molto popolare e rustico,
Aldonza Lorenzo, molto connotata dal punto di vista sociale.
Finì per chiamarla Dulcinea del Toboso, (una regione ancora più sfigata della mancha) che lui percepisce
com un nome dolcissimo, definito poco comune e significativo (il suffisso –ea era caratteristico di una
letteratura pastorale/cavalleresca altissima e in più Dulcinea era la protagonista di un’opera di Antonio lo
fratto, Los siete libros de fortuna de amor, che Cervantes conosceva molto bene, quindi forse per
omaggiarlo attribuì questo nome alla protagonista femminile).

CAPITOLO II
Ingegnoso si riferisce proprio al fatto che la facoltà intellettuale investita dalla follia è proprio l’ingegno,
quindi questo aggettivo veicola tutta la narrazione in riferimento alla patologia di don Quijote.
Non vuole perdere tempo perché è convinto che nel mondo c’è bisogno di lui quindi quanto più perde
tempo, tanto più nega i suoi servigi.
Inizia un’enumerazione degli impegni che doveva svolgere il cavaliere “ricomporre le offese o i torti,
raddrizzare i torti, rammendare le follie, gli spropositi, migliorare gli abusi e i debiti.”
Don Quijote prima che faccia giorno, prende e se ne va da casa sua.
“Quando ancora non ha albeggiato, veste la sua armatura, prende lo scudo, imbraccia la sua lancia, sale in
groppa al suo ronzino, nel mese di luglio e in uno dei giorni più caldi del mese di luglio. Tuttavia appena si
vide in mezzo al campo aperto lo assalì un pensiero terribile, a tal punto da farlo vacillare rispetto
all’impresa appena cominciata, que no era armado cavaliero.”
Inizia un problema enorme, la cavalleria era stata una pratica sociale vera, disciplinata già dal re Alfonzo X,
che nel famoso testo “Las siete partidas”, un codice che disciplinava la pratica della cavalleria. Era un codice
di condotta fortemente vincolante e normativo. Oltretutto tutta quella enumerazione di cose che doveva
fare sono riprese da le siete partidas. Bisognava essere armati cavalieri, ricevere l’investitura, senza la quale
non era un “cavaliere legittimo”.
Quindi Quijote si rende conto di non aver ricevuto l’investitura e deve rimediare a questa cosa.

Don Quijote fa tutta una serie di discorsi in pieno stile cavalleresco mentre erra: “con questi discorsi,
andava inanellando altre sciocchezze, tutte al modo che gli avevano insegnato i libri di cavalleria imitando
per quando poteva il loro linguaggio, con ciò camminava tanto lentamente, sotto il sole cocente che
entrava così in fretta e con tanto ardore nel suo cervello che sarebbe stato sufficiente a sciogliergli il
cervello, se ne avesse ancora avuto uno.”

La follia immaginativa di don Quijote è dovuta al rinsecchimento del cervello, quindi il narratore sottolinea
il fatto che facesse caldissimo, proprio perché questo aumenta l’ipertrofia immaginativa.
“Tutto quel giorno camminò senza che succedesse qualcosa degna di nota, cosa che lui disperava perché
avrebbe voluto subito subito qualcuno con cui fare esperienza del valore del suo fortebraccio…
Guardando davanti a sé a vedere se riconosceva qualche castello o qualche rifugio di pastori dove potesse
rifocillarsi e ricoverarsi, vide una venta, che fu come se vedesse … fuori alla venta c’erano delle ragazze di
quelle che chiamano per partito, le quali erano dirette a Siviglia accompagnando dei mulattieri e per quel
giorno si erano fermate alla locanda.”
Ad un certo punto si imbatte in una venta, in una locanda, il luogo della sospensione delle leggi civili e le
sovrastrutture di tipo etico, infatti davanti alla locanda ci sono le prostitute, i ladri ecc. è un codice
completamente sospeso e in quanto tale nella locanda può accadere di tutto.
“Appena vide la venta, gli si rappresentò che era un castello con le sue quattro torri con capitelli di lucente
argento, senza che gli mancasse un ponte levatoio e un solcato, con tutti quegli accessori con i quali si è
soliti dipingere castelli simili.”
Siccome lui vede un castello e non una locanda, si ferma a tre centinaia di metri dal castello, in attesa che
un nano del castello lo intraveda dalla merlatura delle torri del castello e che con un corno annunci il suo
arrivo. Stanco com’è decide di avvicinarsi e si avvicina a queste due ragazze, che sotto la gonna stavano
sollazzando.

Don Quijote si aspetta che il mondo si comporti come crede che siano i suoi libri. La realtà a volte è
complice delle follie di don Quijote.
Infatti fato vuole che dalla locanda esce un porcaio che deve riunire il gruppo di porci, suona il corno per
riportarli nel porcile, e ovviamente don Quijote pensa che sta andando tutto come doveva andare e che il
corno era stato suonato per annunciarlo.
Don Quijote porta addosso un’armatura che non è per niente attuale per quei tempi, ricorreva ad un secolo
e mezzo prima, quindi chi si imbatte in lui vede una figura quasi mostruosa, anacronistica, avvicinarsi ed
infatti le due ragazze si spaventano. Freud spiega questo tipo di reazione come quella dei bambini che
piangono di fronte agli automi, prima che acquisiscano la capacità razionale. Meccanismo del ritorno del
superato, la reazione di incontrare credenze che pensavamo di aver superato nella nostra razionalità.
Il tipo di reazione delle prostitute è simile a questo, una figura quasi inumana che si inanima.
I prodotti del soprannaturale per esempio, inizialmente erano accettati come qualcosa di naturale, con il
superamento della cultura irrazionale, nel corso del 700 e abbiamo gettato nell’inconscio gli elementi
dell’irrazionale e quindi quando accadono eventi di questo tipo in realtà la nostra razionalità subisce
un’aggressione da parte dell’inconscio e riaffiorano tutte quelle cose che credevamo di aver superato, ma
non sapendole più gestire perché ridotte all’irrazionale e rimosse e quindi ci fanno paura.

Descrivendo la paura di queste donzelle, c’è esattamente un meccanismo di questo tipo.


“Don Quijote di fronte alla fuga di queste ragazze, alzandosi questa parte della visiera che però rivela un
volto tutto impolverato, “no fuyan” araismo ca=porque forma arcaica
“Non vi preoccupate, non voglio farvi del male men che meno lo farei mai a donzelle alte come voi”
Ovviamente non vede mozas di partito, ma principesse, dame ecc.
Già risiltava straniante l’immagine del Don Quijote, poi parla in questa forma arcaica, non capivano niente.

“Siccome si videro chiamare donzelle, cosa assolutamente insolita per la loro posizione, non poterono fare
altro che ridere e accadde che don Quijote si arrabbiò –non vi spaventate per il mio aspetto perché io non
voglio fare altro che servirvi-“
Processo di comunicazione su strada: la comunicazione è permettere agli uomini di interagire. L’effetto
comico che proviene dalla lettura di questa scena risiede nel fatto che la funzione comunicativa viene
neutralizzata, si parlano e non si capiscono. Le mozas hanno un linguaggio basso, don Quijote un linguaggio
alto, preso dai libri di cavalleria.
“Più loro ridevano più cresceva l’arrabbiatura in lui.”
Interviene la figura del ventero che è molto importante perché capisce quasi subito la situazione, infatti
dopo aver parlato con don Quijote capisce che sta fuori di testa, allora lo asseconda, infatti anche se erano
quasi analfabeti, i venteros erano le persone più dotte in materia cavalleresca, perché appunto nelle
taverne leggevano libri di cavalleria, quindi conosceva tutto la materia cavalleresca, capisce tutto che
problema ha ma decide di prendersi gioco di Don Quijote. Proprio il ventero diventa quello incaricato di
armarlo come cavaliere. Gli dice di essere titolato cavaliere, organizzano questa messa in scena e la
procedura prevedeva che l’aspirante cavaliere dovesse fare la veglia alle armi per tutta la notte.
Riuniscono le armi nel patio della locanda e il caso vuole che nel corso della notte uno dei mulattieri ha la
malsana idea di uscire per andare a vedere come stanno i suoi animali, don Quijote, convinto che sia un
nemico che voglia portargli via le armi, lo minaccia e alla fine ne riceve di santa ragione.
Le avventure di don Quijote si concluderanno sempre con una sua sconfitta. Il giorno dopo inscenano tutto
questo rituale.
Con la spada ormai consacrata dalla veglia notturna, finita la formula, due colpi di spada simbolici sulle
spalle. Il ventero e tutti gli ospiti della locanda osservano questo pazzo come uno spettacolo ovviamente e il
testo racconta proprio di queste scene come se fosse uno spettacolo. Il ventero per divertirsi lui e far
divertire i presenti, dà due colpi fortissimi sulle spalle di don Quijote. Così lui è convinto di essere diventato
finalmnente un cavaliere. Così da adesso in poi farà valere la sua condizione da adesso in poi. Dal ventero
apprende che non si può ancora sentire cavaliere al 100% perché gli mancano delle cose: per esempio gli
manca uno scudiero, delle camicie pulite da mettere all’occorrenza, la bisaccia con approvvigionamenti e
denaro.
Don Quijote resta un po’ stranito perché nei suoi libri non aveva mai letto di queste caratteristiche, perché
ovviamente parliamo di una letteratura idealista, quindi queste cose naturali come andare in bagno o avere
la biancheria pulita non vengono trattate. Don Quijote vacilla un po’ e poi decide di tornare a casa per
risolvere queste mancanze. Così si conclude la prima sortita in solitario del nostro cavaliere errante che
torna a casa sua e torna una casa messa a soqquadro, la domestica e la nipote che vivevano con lui avevano
dato l’allarme perché don Quijote era scomparso da un momento all’altro.
Il curato e il barbiere apprendono dalla nipote della pazzia di don Quijote che nel frattempo arriva.

Nel capitolo 6, capitolo dello scrutinio della biblioteca di don Quijote, la nipote e il prete lanciano i libri
pensando di rimuovere la causa della follia di don Quijote pensando di eliminare lo stimolo alla sua follia e
lo fanno mentre don Quijote riposa. Mentre loro fanno lo scrutinio della biblioteca, nominando libri e
autori, veniamo a sapere quali erano le sue letture e anche quelle di Cervantes probabilmente.
Dalla tipologia di testi che vengono salvati o mandati a luogo apprendiamo la concezione letteraria del
tempo. Tra quelli salvati anche la Galatea di un certo Cervantes che era l’unica opera pubblicata fino ad
allora.
Viene messo al rogo tutta una serie di libri che fanno riferimento a opere di generi differenti, le opere che
Cervantes ritiene più interessanti e non fuorvianti, li salva.
Quando lo scritunio viene concluso don Quijote si sveglia e va alla ricerca dei propri libri, del proprio mondo
e della sua identità e non li trova. Lo sconcerto di don Quijote di fronte a questo vuoto a cui è stato
condannato è uno shock immane.
Così si inventa un espediente, “dev’essere entrato qualche mal incantatore geloso del fatto che sono
diventato un cavaliere errante e quindi mi ha rubato i libri”.
Questo espediente lo utilizzerà moltissime volte per spiegare eventi che altrimenti sarebbero troppo
dolorosi per la sua fragilità.

12ESIMA LEZIONE 7.11.18


Il capitolo 6° è molto importante perché grazie a quello scrutinio, il processo alla biblioteca di don Quijote si
evincono tante cose, tra cui non soltanto le letture che si attribuiscono al personaggio e che sono quindi
dell’autore, ma anche perché si evince la visione/concezione letteraria dello stesso Cervantes, in quanto i
giudizi dei singoli personaggi, come l’esaltazione del genere epico, alla fine sono giudizi dell’autore.
Siccome Cervantes non scrisse mai di teoria letteraria e critica, quindi gli unici luoghi dai quali possiamo
ricavare la sua concezione poetico-letteraria sono proprio i luoghi sparsi nelle sue opere che ci permettono
di conoscerlo.

Capitolo 7° della prima parte, fondamentale perché si produce l’incontro con l’altro protagonista dell’opera
che non è un personaggio secondario, al contrario, la coppia che Sancho e don Quijote forma da sé il
protagonista dell’opera, questo perché Sancho funge da alter ego al cavaliere don Quijote, quindi
presentando delle caratteristiche complementari e opposte, i due diventano praticamente interdipendenti,
l’uno non può stare senza l’altro e per questo il deuteragonista ha una capacità attanziale (cioè di far
progredire l’azione) almeno tanto quanto il protagonista.
Pag. 163 Furono ben quindici i giorni in cui restò a casa, durante i quali tutti provano a farlo guarire e
rinsavire dalla sua follia. “Senza mostrare di voler assecondare e riprendere i suoi vaneggiamenti iniziali,
durante i quali (giorni), li trascorse divertendosi con raccontini in compagnia dei suoi compatres, il curato e
il barbiere” continua a sostenere che ciò di cui più ha bisogno il mondo erano i cavalieri con i loro valori. Il
curato qualche volta lo contraddiceva, altre invece accondiscendeva ai suoi discorsi, perché altrimenti non
sarebbero mai arrivati all’obiettivo di guarirlo.
“Durante questo periodo, don Quijote chiese di parlare con un contadino, suo vicino di casa, un uomo da
bene, se questo aggettivo si può riferire alle persone povere, ma che aveva poco sale in zucca.” Il tipico
contadinotto ignorante. “Tanto lo persuase, tanto lo impapocchiò, che alla fine ottenne che questo
contadino acconsentisse di accompagnarlo nella sua erranza cavalleresca.
Don Quijote tenta di convincerlo promettendogli che lo farà governatore di una INSULA (termine tipico del
codice cavalleresco, si riferisce ad un territorio non ad un’isola vera e propria).
Sollecitato da questa promessa Sancho Panza decide di andarci. Anche in questo caso abbiamo un nomen
nome: Sancho Panza, è un uomo tarchiato, ciccottello.
Già la fisicità veicola quel senso di interdipendenza di cui parlavamo: cavaliere, alto bello ecc. da
considerare il fatto che in questi anni si andavano diffondendo gli studi caratteriali di tipo fisico: da una
certa fisionomia si fa risalire anche il carattere del soggetto, quindi l’aspetto esteriore è in relazione anche
alla personalità del soggetto. Non è un caso che ci sia questa insistenza sull’aspetto fisico, perché in
strettissimo rapporto con il carattere. SAGGIO SULLA FISIONOMIA di Gianbattista ???
Don Quijote ha il fisico del classico melanconico allampanato, mentre invece sancho panza è tarchiato,
robusto, e soffrirà tantissimo la fame, perché don Quijote dice appunto che i cavalieri non hanno tempo per
mangiare e mangiano ghiande o agli inviti delle feste.
L’onomastica è il primo segnale della portata sovversiva dell’opera.
“Sancho Panza che così si chiamava il laborador lasciò la moglie e i suoi figli e diventò scudiero del suo
vicino”
Biologismo carnevalesco di Sancho Panza, la cui fisiologia assomiglia tantissimo ad alcuni tipi del carnevale
e della commedia dell’arte, diffusasi agli inizi del 500 (anni 40) anche in Spagna. Parliamo di quel tipo di
teatro che si basa sulle maschere e sui tipi fissi, si parlava di commedia all’improvviso perché non esiste la
scenografia o la trama, ma un canovaccio di battute di attori di professione che vivono di questo, i comici
sfruttano questi intrecci e questi canovacci in cui si legge un filo conduttore della trama, la sintesi, mentre il
resto è tutto demandato alla capacità dell’attore di improvvisare in scena. Questi canovacci sono quasi
sempre molto simili e si ripetono nelle varie varianti e giacchè non è la componente testuale ad avere
grande valore, così ciò che acquisisce un valore enorme è la mimica, la gestualità, che porta all’apice,
all’esaltazione massima le maschere che incarnano tratti psicologici tipici: l’avaro, lo stolto, il libertino.
Si lavora molto sulla mimica e sulla prosemica, sulla capacità di muovere il corpo in maniera marcata.
Sancho Panza assomiglia ad un tipo carnevalesco, ne ha proprio tutti i tratti, in particolare sembra
modellato su un buffone della commedia dell’arte, Ganasta, che riproduce il bovo da commedia, cioè lo
sciocco. Sancho Panza a tratti assomiglia al tipo da commedia del bovo.

“Don Quijote dà l’ordine di cercare del denaro, vendendo alcuni dei suoi beni, impegnandone altri e
svendendoli tutti, arrivò ad una certa quantità di denaro. Si procurò anche una rodella, che era un pezzo
dell’armatura che gli mancava, la chiese ad un amico, aggiustò la celada (fissandola ancora meglio) dopo di
che avvisò Sancho Panza del giorno e l’ora in cui se ne sarebbero sovuti andare da casa.
Inizia così la seconda sortita di don Quijote da casa, questa volta accompagnato dal suo scudiero.
Per tre volte sarà riportato a casa, per provare a sanare la sua follia, ma tutto sarà vano.
“Gli raccomandò che portasse delle bisacce e Sancho dice che avrebbe provveduto alle bisacce e che
avrebbe portato con sé un asino, il Rucio (che diventerà un altro personaggio tipico dell’opera) perché non
era abituato a camminare a piedi.

Don Quijote ha come modello di riferimento i libri di cavalleria, quindi quando Sancho gli dice che vuole
portare con sé un asino, don Quijote dice che lo deve verificare nei libri di cavalleria, se si è mai visto che un
cavaliere porti uno scudiero avallarmente o asinamente.

La presenza di Sancho Panza introduce un principio fondamentale nell’opera: il dialogismo.


Nella prima sortita che si consuma in poco tempo, quando si muove solo da casa don Quijote, stava zitto, si
annoiava in attesa di un’avventura e di tanto in tanto faceva dei mono dialoghi con se stesso, invece con
l’incontro con Sancho Panza, introduce il principio comunicativo di dialogo con il suo scudiero e l’opera si
apre con i dialoghi con Sancho Panza e soprattutto si sviluppa con l’incontro/scontro tra le due mentalità:
don Quijote tenterà di convincere Sancho della veridicità della cultura cavalleresca e a farlo aderire a quel
codice, invece Sancho Panza è il depositario di un principio di realtà e si fa portatore di quelle necessità
molto più reali, mangiare bere dormire ecc, è l’incarnazione di un biologismo puro e depositario del senso
comune. Ricopre il polo del senso comune, della saggezza popolare, tanto è vero che si esprime solo con
frasi proverbiali, modi di dire, come accade per le persone non alfabetizzate che prendono in prestito le
espressioni del mondo popolare, invece don Quijote è caratterizzato da un linguaggio e da un modo di
pensare che si riferiscono e sono in linea ai suoi libri.
Quindi IRRAZIONALITA’ DI DON QUIJOTE/RAZIONALITA’ DI SANCHO che vede la realtà per quello che è e di
fronte ai voli e all’esaltazioni di don Quijote, Sancho Panza tenta continuamente di riportarlo a terra.

“Non ti preoccupare perché se anche se non c’è la presenza di asini nei libri di cavalleria, alla prima
possibilità che avrò in una battaglia di prendere un cavallo ad un altro cavaliere, te lo darò”
Si procurò le camicie e le altre cose in ottemperanza ai consigli che gli aveva dato il locandiere, neanche
Sancho Panza si accomiata dalla famiglia, non avvisa nessuno e secondo le direttive di don Quijote si
allontanano di notte senza che nessuno li vedesse.

CAPITOLO 8 PRIMA PARTE

L’IMITAZIONE
Abbiamo visto più e più volte che il desiderio di don Quijote di farsi cavaliere è tutto mediato dalle sue
letture cavalleresche.
Anche nel testo vengono continuamente sottolineate le funzioni emulative del personaggio “a imitacion
de” “en esto imitando” rispetto ai libri di cavalleria secondo la MIMESIS DEL DESIDERIO.
Renee Girard, un critico francese, tra gli anni 50 e 60 del 900 ha elaborato una teoria che ci torna molto
utile per capire le dinamiche che muovono la psiche di don Quijote.
E’ autore di un saggio “Menzogna romantica e verità romanzesca” tradotta nel 63 in italiano.
L’opera ci interessa molto. Secondo la sua teroia il desiderio in noi, funziona sempre in maniera mediata, è
sempre frutto di una mediazione.
Pensiamo spesso che il desiderio fra noi e la cosa desiderata sia lineare e ho una tensione verso l’oggetto
del desiderio.
E’ una menzogna perché il desiderio non è mai concepito naturalmente dentro di noi, ma è sempre frutto di
immaginazione e dà vita ad uno schema triangolare: io, mediatore, oggetto del desiderio.
Questa mediazione può essere interna o esterna.
Girard spiega che tutta la letteratura così come l’abbiamo ricevuta fino al Romanticismo, era portatrice di
questa menzogna, la letteratura ci raccontava di un rapporto di linearità tra soggetto e oggetto desiderato.
Il romanticismo è il momento apicale di questa menzogna, perché si reggeva come punta dell’individualità
dell’io che è spinto verso l’oggetto.
Il romanzo idealista francese di fine 800 ha il grande merito di smascherare questa verità e di rivelare.
Ovviamnete i tempi sono pronti per rivlare questa verità, non lo fa di sua spontanea volontà, ma lo fa
inconsapevolmente, semplicemente la borghesia sceglie come genere il romanzo, che è il genere attraverso
il quale questa realtà della veicolazione triangolare esce fuori.
Elabora una teoria di questo tipo: SOGGETT-OGGETTO-MEDIATORE: DESIDERIO TRIANGOLARE
Il tipo di mediazione può essere esterna o interna:
Nel tipo di mediazione esterna Girard parte con un esempio, quello del Don QUijote. Partiamo di
mediazione esterna perché deve esistere una distanza tra soggetto e mediatore. Don Quijote concepisce il
desiderio di farsi cavaliere errante per mediazione dei libri di cavalleria, non nasce spontaneamente. E’ una
mediazione esterna, perché Amadis non esiste, non rivaleggia con don Quijote. Don Quijote emula questi
cavalieri, ma non entra in competizione con loro.
Quando invece abbiamo il caso tipico che si racconta o nelle novelle esemplari dello stesso Cervantes, o
anche nei romanzi 800, come ad esempio dell’amicizia di due ragazzi che però si innamorano della stessa
donna. Quando l’amico ad un certo punto si è sposato con la giovane ragazza, stia continuamente a lodarla
e ad elogiarla agli occhi dell’amico, tutto questo lavoro funge da mediazione che genera una pulsione,
un’attenzione verso l’oggetto di desiderio dell’altro amico. I due amici entrano in un rapporto di rivalità. La
mediazione è interna.
Il soggetto in questa dinamica della mediazione il soggetto non è realmente interessato all’oggetto, ma al
desiderio del mediatore. Ciò che spinge il soggetto non è conquistare l’oggetto, e questo è sempre stato
così in letteratura: conquistare l’oggetto del desiderio non è mai il fine ultimo, ma la funzione è desiderare
l’oggetto esterno, infatti una volta conquistato, si perde l’attenzione nel conquistare l’oggetto.
Questa tensione verso l’oggetto è sempre frutto di una mediazione, che finchè è esterna, il mediatore è
distante da noi ed è anche una mediazione sana. Quando però la mediazione è interna, il mediatore diventa
un rivale, scatena una dinamica competitiva che si rivolge nell’odio, che è l’altra risultante di un rapporto di
fascinazione. Il rapporto non è più equilibrato e si diventa vittime di quel desiderio.
Sembrano desideri spontanei, ma non lo sono.
Girard lo racconta rispetto alla letteratura e spiega come funzioniamo dentro, ci svela i meccanismi più
profondi e ci sgama, però queste stesse cose sono alla base del consumismo.
E’ una dinamica molto complicata. Quei due migliori amici nel momento in cui si pongono in desiderio dello
stesso elemento diventano mediatore l’uno dell’altro. Spesso accade che l’amico sposato, sollecita il
desiderio dell’amico che si innamori di sua moglie ecc.

Il desiderio funziona nella triangolarità della mediazione esterna, il mediatore è lontano dal soggetto.
Mentre quanto più è vicino il rapporto tra soggetto e mediatore, tanto più aumenta il dramma nelle varie
storie.
Finchè la distanza tra soggetto e mediatore è riconoscibile come nel caso di Don Quijote con i suoi libri, ma
mediazione è pacifica. E’ questa la ragione per la quale nel testo troviamo verbalizzata e contestualizzata
questa dinamica nella quale troviamo un ricorso a questi elementi che gravano attorno al concetto di
EMULAZIONE e di MIMESI.
Il desiderio di don Quijote è un desiderio mediato, dovuto alla mediazione esterna dei libri cavallereschi,
che fanno insorgere in lui il modello cavalleresco e sostengono nel tempo questo desiderio. La funzione del
modello è anche quello di alimentare il desiderio nutrirlo e tenerlo in vita.

EPISODIO FONDAMNTALE: AVVENTURA DEI MULINI A VENTO:


E’ un episodio che è diventato una situazione stigmatizzata “mi sento don Quijote contro i mulini a vento”
Cioè sto combattendo per una causa persa in partenza.
LE INTERPRETAZIONI DELL’OPERA
Ma perché si è radicata nella memoria collettiva proprio questa lettura di don Quijote? Questo ci immerge
in un problema fondamentale, quello esegetico ed interpretativo dell’opera: come è stata letta l’opera nel
corso del tempo e come bisogna interpretarla e come sia giusto che venga interpretata ad oggi?
Come ogni opera letteraria anche il don Quijote è stato interpretato diversamente nei secoli.
Secondo una lettura seria del personaggio e del testo, il don Quijote starebbe vivendo una battaglia per
degli ideali che però è già persa in partenza, ma nonostante questo ci prova, quasi alla stregua di un eroe
romantico.
Ma il don Quijote non è sempre stato così e non può essere letto così. Fino a prova contraria il don Quijote
è un’opera comico-parodica, di questo personaggio si ride alla fine.
La lettura più diffusa del testo solo in chiave seria è comunque erronea perché non tiene conto della
matrice parodica.
Un lettore dell’epoca leggeva il don Quijote come un’opera comica, specialmente se si trattava di un
personaggio appartenente ad una classe alta che conosceva quegli ideali cavallereschi che don Quijote
tenta di reinterpretare parodiandoli.
La lettura del 600 è assolutamente COMICA tanto che si dice che il re Filippo 3° avrebbe sentito sbellicarsi
dalle risate e avrebbe detto alla sua coorte “questo che sta leggendo o è un pazzo o sta leggendo il Don
Quijote”.
Ovviamente arrivando al 700, epoca illuministica con positivismo e razionalismo che si vanno a sviluppare,
l’opera viene recepita in maniera completamente diversa. Ci sarebbe stato un autore Josè de Catarso, che
avrebbe scritto le “Cartas maruecas”, le lettere dal Marocco, un romanzo epistolare scritto sul modello
delle lettere persiane di Montesquieu, un romanzo che si sviluppa su un carteggio tra il protagonista ed un
suo amico che sta in Marocco, così come Montesquieu tenta di straniare lo sguardo sulla città del
momento, non potendo denunciare apertamente la patria fa si che sia un altro, uno straniero la sua visione
straniata della Parigi dell’epoca.
Allo stesso modo Catarso fotografa la Spagna del momento elogiandone pregi e difetti, in una di queste
lettere in effetti il protagonista scrive al suo interlocutore di una storia straordinaria che fa ridere tutti come
dei pazzi, ma che sebbene faccia ridere nasconde elementi di gravità. Quindi lo stesso Catarso percepisce
che la lettura comica sia troppo parziale e che invece si debba leggere su vari livelli, però si ferma lì, non
dichiara o esplicita quale sia l’elemento serio.
Nell’800, pieno romanticismo caratterizzato dall’esaltazione della ricerca dell’ideale e dell’individualità, i
grandi filosofi si impossessano del capolavoro Cervantino e ne danno una lettura che sarà quella che poi si
diffonde.
Il fratelli Shleger, Shelling ecc ne danno una lettura di un eroe che ovviamente incalza l’eroe romantico per
eccellenza, disposto a tutto pur di difendere il suo ideale cavalleresco. Ovviamente questa lettura grave,
drammatica perfino tragica di un eroe che non riesce ad integrarsi nella società, che insegue l’ideale e non
si abbassa alla condizione del reale, l’eroe tragico è solo. Vive ai margini perché impegnato nella sua lotta.
E’ qeusta la lettura che si forma e si volgarizza del don Quijote.
Eroe tragico perché non potrà raggiungere il suo ideale.
Ovviamente è una lettura filosofica che investirà la letteratura e le arti.
Nel 900, ci sarà un recupero della seconda componente, in direzione di una lettura più equilibrata del testo.
Francisco Rico scrisse un articolo in cui difende la necessità di leggere il don Quijote in doppia chiave, quella
comica e quella seria.
Il problema è come sia possibile integrare queste due letture.

Secondo Rico le interpretazioni del romanticismo sono distorte perché Cervantes scrive l’opera per far
ridere non con una visione così tragica, però Rico non riesce a spiegare come le due componenti,
contestualmente presenti all’interno del testo però non spiega come sia possibile che l’opera sia allo stesso
tempo seria e comica.
Lo scopriremo leggendo.
Questa avventura ha un valore straordinario per noi: è un testo condensato piuttosto breve, occupa una
posizione forte nel testo perché è la prima avventura che don Quijote ha in compagnia di Sancho. Questa è
la prima avventura e occupa una posizione forte nel testo. A queste si aggiunge anche il fatto che lo
svolgimento interno dell’avventura dei mulini a vento è paradigmatica di tutta l’opera. La dinamica interna
di quest’avventura è speculare a tutte le altre avventure che don Quijote vivrà.
L’avventura ha uno svolgimento interno che si ripete.

En esto: inizia in medias res


“Stando in ciò” crea continuità con il capitolo precedente.
La suddivisione in capotoli che conosciamo noi sarebbe stata fatta dallo stampatore e non dallo stesso
Cervantes.

“Scoprirono 30 o 40 mulini a vento che sono presenti in quel campo e appena don Quijote li vide disse allo
scudiero: -L’avventura guida i nostri passi meglio di quanto potessimo riuscire a desiderare perché vedi lì,
amico Sancho panza, fin dove si intravedono 30 o poco più smisurati giganti con i quali io penso di
intraprendere una battaglia e sottrarre a tutti loro la vita, con le cui spoglie cominceremo ad arricchirci
perché è rendere un grande servizio a Dio togliere dalla terra un’ erba così cattiva- -ma quali giganti?-
chiese Sancho panza –Quelli, quelli che vedi lì dalle braccia lunghe, perché alcuni sono soliti tenere le
braccia così lunghe che misurano quasi due leghe“ Sancho Panza reagisce secondo la realtà e secondo un
principio di razionalità. Sancho discerne tra l’essere e l’apparire
“Badi vossignoria, che quelli che sembrano non sono giganti bensì mulini a vento e ciò che in essi sembrano
essere le braccia, sono le aspe che fatte volteggiare dal vento, fanno andare la pietra del mulino”
Sancho da una spiegazione quasi tecnica.
Sottolinea la contrapposizione tra ser e parecer.
L’entrata di sancho panza il principio di dealogismo, si evince ancora di più: doppio punto di vista rispetto
alle avventure.
“Si capisce bene sancho panza che tu non hai alcuna esperienza di avventure, quelli SONO giganti” il folle
insiste sul verbo essere, quello che lui solo vede ma che non è per lui è invece quello che è nella realtà
sembra a don Quijote.
“Ma se hai paura, togliti da lì e mettiti a pregare per tutto il tempo che io sarò impegnato a intraprendere
una fiera e impari battaglia. Dicendo questo speronò ronzinante affinchè intraprendesse la corsa, senza dar
ocnto al suo scudiero che gli diceva che senza dubbio alcuni erano mulini e non giganti, ma lui era così
convinto che erano giganti, che né sentiva la voce di Sancho né riusciva a vedere (la verità) sebbene fosse
arrivato vicino ai mulini, piuttosto diceva a voce alta – non scappate, vili e codarde creature che io sono
solo un cavaliere a combattere contro di voi. In quel momento si alzò un po’ il vento, le grandi aspe
iniziarono a muoversi”
Né sentiva, né riusciva a vedere.
Sospensione dei sensi: completamente immerso nella sua immaginazione.
“La qual cosa vista da don Quijote disse:- sebbene muoviate più braccia di quelle che aveva il gigante
Briareo (figlio di Urano e Terra, mito dei giganti che stavano sotto l’Etna e furono puniti perché avevano la
pretesa di arrivare all’Olimpo, era uno dei Titani), me la pagherete. Dicendo questo e raccomandandosi con
tutto il suo cuore a Dulcinea e chiedendole che lo soccorresse in una tale occasione, coperto dalla sua
novela (l’elmo che era stato integrato dalla novela che lo copre per intero) con la lancia e il ristre (la fodera
della lancia).
Ingroppa Razinante, corre contro il mulino, il vento fa girare le aspe, don Quijote è convinto che questo sia
un attacco da parte del gigante, corre con il cavallo contro il mulino e rompe la lancia, ma l’aspa li colpisce e
cadono a terra.
“Sancho panza accorse con tutta la forza che poteva il suo asino e come arrivò si accorse che non si poteva
muovere tanto era il colpo che aveva preso Racinante.
“no eran sino” “ve l’avevo detto che nno erano giganti ma mulini a vento e QUESTA REALTA’ SOLO LA
POTEVA IGNORARE CHI NE AVEVA ALTRETTANTI (giganti) NELLA TESTA.
Sancho Panza sottolinea il tipo di problematica che don Quijotte vive, vede i giganti che sono il prodotto
della sua fantasia che ha sostituito agli oggetti reali.
“Taci amico Sancho, perché le cose della guerra più che altre sono assoggettate a cambiamento continuo,
perché
Don Quijote di fronte all’insuccesso e al fallimento della sua prima impresa non ammette che sancho avesse
ragione, ma dà come spiegazione la magia, l’espediente. “E’ intervenuto il mago incantatore che mi ha fatto
perdere la battaglia contro questi giganti trasformandoli in mulini a vento se sono mulini a vento” per lui è
una possibilità di fuga dalla sconfitta che gli riserva il reale. Se dovesse ammettere la realtà per com’è
dovrebbe ammettere la pazzia.
Il paragone che opera don Quijote tra un elemento architettonico, il mulino, e i giganti è in effetti un topos
della tradizione cavalleresca. Infatti i giganti venivano sempre comparati ad argomenti architettonici, le
torri che ovviamente avevano come somiglianza il tratto delle dimensioni.
Notiamo che la tradizione già testimonia questo paragone.
Nella tradizione cavalleresca ricorre, ma anche nell’opera di Cervantes. Al cap. 5 della prima parte, la
sobrina che racconta che da tempo vedeva don quijote immerso nelle letture “molte volte accadeva al mio
signore di stare immerso nella lettura di queste avventure due giorni e due notti, alla fine dei quali li
poneva, metteva mano alla spada e iniziava a combattere a destra e manca e quando si era stancato diceva
che aveva sconfitto 4 giganti come torri. Comparazione tipica del genere cavalleresco, giganti come torri.
Cap. 47 della prima parte il dialogo di don Quijote con il curato e il canonico, ad un certo punto passano a
parlare dei libri di cavalleria (uno di quei luoghi in cui Cervantes esprime il suo parere sui vari generi): “Ma
che bellezza ci può essere in questi libri o di proporzione delle parti con il tutto o del tutto con una parte in
dei libri in cui un ragazzino di 16 anni da una coltellata ad un gigante come una torre e lo divide in due metà
come se fosse di sughero.
Cap. 1 seconda parte il barbiere chiede a don Quijote come doveva essere il gigante Morgante e don
Quijote ricorda che sono una presenza che provengono dalle sacre scritture. “Grandi come le torri”.

you’re the hero of this story


go get it
again and again

13° LEZIONE 09.11.18


Capitolo 8 – I giganti contro Don Quijote

Varie interpretazioni dell’opera nel corso dei secoli prima da parte dei contemporanei come opera comica,
poi con una mentalità positivistica era stato accolto un contenuto più grave e serio, es di Catarso con le sue
cartas maruecas esplicita l’idea che ci sia un qualcosa di oscuro, di misterioso e serio nell’opera senza saper
dire cosa.
Qualcosa di più specifico arriva nell’800.
Scherring: Filosofia dell’arte parlava di don Quijote + il Llegermaister di Goete, interpretava il don Quijote
come l’incarnazione dell’eroe romantico che persegue il suo ideale e vive la condizione di emarginazione
dalla società perché aspira all’ideale rifiutando il reale.
Questo ovviamente ci immette in una dimensione problematica, perfino tragica.
Nel corso del 900 viene recuperata la dimensione comica, con un libro del 69 “Don Quijote as a funny book”
e ancor prima in un articolo di Francisco Rico nel 48, questi rivendica la natura comica dell’opera
parallelamente all’elemento serioso.

Questo proposito era quello che ci muoveva alla lettura dell’opera.

Questa avventura ci permette di addentrarci nell’interpretazione del don Quijote.

Alla vista di questi mulini, si attiva l’ipertrofia immaginativa di don Quijote, che non vede mulini ma giganti.

Questa comparazione tra giganti e elementi architettonici in effetti è un topos consolidato nella letteratura
cavalleresc e non solo, questa comparazione si ritrova stabilmente nello stesso don Quijote, rintracciando
ben altri 3 luoghi: capitolo 1 prima parte, 47 prima parte, 1 seconda parte.

Qui troviamo quella comparazione di giganti come torri. Lo stesso don Quijote si riferisce alle sacre
scritture: questa comparazione non si ritrova solo nel don Quijote e nella tradizione cavalleresca, isotopia
del genere, ma addirittura fuori, anche nelle sacre scritture, dove gli giganti godono di una posizione
privilegiata ocme rappresentazione del male, che deve essere sconfitto e anche lì si trova questa
comparazione con le torri. E’ un topos connotato di prestigio nella tradizione che lo accredita.

Don Quijote/Cervantes fa un’operazione di questo tipo

L’elemento della tradizione alta che sono le torre, viene già parodizzata come mulini.

La torre è un elemento prestigioso dal punto di vista della tradizione, perché protegge le città, sono torri
difensive o di edifici nobiliari, perché esemplificativo di castelli, eroi e palazzi, quindi diventa la prima
vittima della trasformazione comico/parodica che compie Cervantes. Qui troviamo un mulino,
un’architettura povera che rinvia al mondo delle campagne.

Il testo compie un primo atteggiamento comico/parodico già qui: le torri vengono degradate in mulini.

Abbiamo parlato più volte di comparazione: giganti come torri, una comparazione. Però don Quijote tutte
le volte quando Sancho lo incalza per tentare di riportarlo alla razionalità. Non si riferisce ad una
comparazione ma dice “son” vale a dire dopo aver operato lo slittamento su questo versante da torri a
mulini, ma anche sull’altro elemento. Quella che è una mera comparazione nella letteratura, per Cervantes
diventa una UGUAGLIANZA, vengono assolutamente assimilate. Questo produce delle conseguenze sul
piano esegetico interpretativo.

La tradizione accredita questo tentativo di paragonare torri e giganti. Ma nella tradizione letteraria
precedente al Don Quijote, non c’è mai stata una completa assimilazione tra l’elemento architettonico e i
giganti, se non in un solo caso che risale a Dante, alla divina commedia e all’Inferno.

Canto XXI dell’Inferno:

Dante sta per uscire dalle Malebolge nel 9° cerchio, ad un certo punto intorno all’altezza del verso 10

Stanno uscendo dalle Malebolge senza parlare.

Non era né giorno né notte, non sa riconoscere bene che momento fosse, tanto che non riuscivo a ben
vedere davanti a me. All’improvviso sentii il suono di un corno così forte che al confronto un tuono sarebbe
risultato fioco. Con i suoi occhi fa un percorso contrario a quello del suono per ritrovare l’origine del suono,
da dove provenisse. Mi girai e mi sembrò di vedere molte alte torri, e chiede a Vigilio dove si trovassero e
lui a me: “Però che siccome ti trovi nell’oscurità fendendo l’aria troppo da lontano, succede che nella tua
immaginazione commetti un errore, cioè le condizioni ambientali influiscono sulla tua facoltà
immaginativa.”
Ancora una volta la facoltà amministrativa viene investita dalla tua immaginazione e i prodotti della tua
immaginazione sono sbagliati perché li sostituisci alle cose/agli oggetti reali.
“Tanto più ti avvicini ti rendi conto quanto i tuoi sensi sono ingannati dalla lontananza” i sensi vengono
implicati e così come i sensi anche tutte le altre facoltà vengono ingannate.
Spingi te stessi e ti accorgi di quanto sbagli. Virgilio è preoccupato dell’effetto che la realtà può suscitare su
dante che vede delle torri e quindi lo prende per mano per rassicurarlo “prima che arriviamo più avanti,
affinchè il fatto non ti risulti strano ed estraniante/sinistro/ affichè nno ti perturbi, sappi che non son torri
ma giganti (sepas vuestra merced que no son gigantes sino torres) immersi dalla cintola in su nell’lago del
Cogito.
Siamo esattamente nella stessa situazione di don Quijote, sebbene, siamo in una situazione inversa. Dante
prende i giganti per torri, mentre il contrario avviene con don Quijote che prende i mulini per giganti.
“Come quando la nebbia si dissipa per cui la nebbia si dilata e lo sguardo a poco a poco recupera la vista,
così a mano a mano che ci avviciniamo correggevo l’errore, ma accrescevo la paura”
Man mano che le condizioni ambientali migliorino, riesce a vedere meglio è come se fendesse l’aria.
In proporzione accresce la sua paura a mano a mano che riconosce la realtà.
Rispetto all’idea delle torri che potessero prendere vita e alienarsi in giganti diventano delle figure
minacciose: RITORNO DEL SUPERATO DI FREUD.
I giganti torreggiavano (giganti come torri), qui minaccia Giove nel cielo ancora quando tuona.
Siamo esattamente in una situazione molto simile a quella di Quijote, sebbene rovesciata.

Le condizioni ambientali cooperano con la distanza tanto che non riesce a vedere bene, infatti quando le
condizioni ambientali cambiano riesce a vedere. In Dante i sensi sono alterati dall’esterno e il suo rapporto
con il reale è corrotto, quando si ripristinano le condizioni normali, allora vede esattamente le cose per
come sono. Nel caso di Don Quijote i suoi sensi sono alterati, quasi annullati non riusciva a vedere e sentire,
sebbene fosse ormai molto vicino. Nel suo caso quanto più si avvicina ai mulini tanto più vede i giganti, è
assolutamente il contrario, non c’è nessuna sospensione della facoltà razionale che passa attraverso i sensi
dovute alle condizioni ambientali, che invece sono favorevoli affinché vedesse la realtà, anzi era così
prigioniero della sua follia, quindi dei prodotti della sua immaginazione scatenati dall’alienazione mentale,
che anche se si avvicina vede comunque i giganti. Il problema è legato all’ alienatio mentis, cioè al fatto che
la sua immaginazione è corrotta dal di dentro.
Dante: inganno dei sensi, quanto più si avvicina vede la realtà e riconosce che sono giganti.
Don Quijote: alienatio mentis, follia inganna i sensi, quindi quanto più si avvicina tanto più vede i giganti e
non i mulini.

Ad essere investiti sono due concetti, quello dell’analogia, cioè della somiglianza che ci permette di
comparare e paragonare i giganti alle torri per quell’elemento di somiglianza legato alle dimensioni e
proporzioni tra giganti e torri/mulini. Si tratta di una comparazione.
Analogia/Somigliannza e identità
In questo caso l’analogia è stata spinta all’eccesso, le due cose vengono assimilate come identiche, quindi
come se fossero la stessa cosa perciò vengono riconosciute come assolutamente identiche.
Questo è il principio che afferma don Quijote, la sua pretesa e la sua follia che si rivela proprio nella pretesa
per far passare per identiche due cose, due oggetti che sul piano della realtà sono solo simili e analoghe.
Questo è il nucleo della follia di don Quijote, perché la sua mente funziona così e soprattutto perché per lui
questo è il principio con cui si relaziona alla verità: il principio di identità che stabilisce tra le cose quando
sono soltanto simili.

STORIA DELLE IDEE ED EVOLUZIONE CULTURALE DELLA NOSTRA CIVILTA’


La civiltà occidentale sin dalle sue origini, dal mondo greco in poi, si è approcciata alla realtà e alla
conoscenza secondo quello che il filosofo francese, storico delle idee, Michelle Fourgot definisce EPISTEME,
cioè quel complesso delle condizioni che in una determinata cultura o congiuntura storico culturale
presiedono alla conoscenza, cioè quelle coordinate attraverso le quali una civiltà si approccia alla realtà e
da questa acquisisce la conoscenza.
Per esempio per alcuni il 500 e altri il 700 come svolta epistemologica forte e l’800.
Relativamente alle condizioni epistemologiche in cui si muove son Quijote, sono condizioni che si regolano
ancora sul principio di ANALOGIA.
Per tutto il corso della civiltà occidentale, dal mondo greco al 600, l’uomo si appropriava di un certo sapere
andando ad indagare i rapporti di somiglianza fra le cose, quindi secondo un principio di analogia.
Per esempio nello studio della composizione degli occhi, si andava a studiare la composizione della
mandorla, infatti si pensava che per curare malattie degli occhi si potesse ricorrere alle manifestazioni che
parallelamente si davano in un altro ordine, quello vegetale, analogico a quello naturale dell’occhio, quindi
la mandorla.
Per risolvere i problemi si andavano a ricercare i rapporti di corrispondenza negli altri ordini (umano,
naturale, vegetale ecc.). Alle malattie di natura vegetale, si dava come consiglio quello di mangiare delle
noci, che secondo il tempo aveva delle proprietà utili a curare le patologie del cervello, che assomigliava
alla noce.
Era tutto pensato come se la realtà si costruisse su rapporti di corrispondenza tra le cose o di empatia.
Esempio della corrispondenza tra il volto umano e l’universo.
Il volto era la trasposizione del sistema solare, questo per fare degli esempi.
Trattati medico-filosofici del medioevo e della classicità esplicitano continuamente il sapere come
realizzazione della ricerca tra analogie e corrispondenze. Erano questi gli studi e gli esperimenti. Non è un
elemento secondario, questo tipo di episteme basato sul principio di analogia, per la parte più lunga della
nostra società, per 1700 anni è stato quello il nostro approccio alla scienza e alla conoscenza.

All’interno di un trattato di cosmologia analogica di Cronlius sfrutta le analogie fra il cosmo, quindi l’ordine
celeste, e il corpo umano. Addirittura descrive una crisi apoplettica, riferendosi ad una tempesta in cielo, le
nubi che si addensano, l’aria che si infittisce e parallelamente nell’individuo i pensieri diventano pesanti ed
inquieti, i lampi fulminano mentre gli occhi brillano di un colore terribile, i fulmini si scatenano mentre gli gli
spiriti fanno scoppiare la pelle, ma ecco che il tempo torna sereno perché la ragione torna nel malato.
Per spiegare quello che avviene nel corpo umano si usa un esempio della natura.

L’episteme così costruita e descritta, all’epoca di Cervantes sta già diventando qualcosa di superato.
Infatti tra gli anni 30 del 500 e i primi anni del 600 si consuma una vera e propria rivoluzione scientifica,
infatti all’inizio del 500 sul piano scientifico si acquisisce la teoria copernicana, quella eliocentrica e poco
alla volta si afferma che non è la terra a stare al centro del sistema solare, ma il sole, si abbandona l’errore
della teoria geocentrica. La terra non è più il centro del cosmo, ma è assieme ad altri pianeti che gira
attorno al Sole.
Si acquisiscono altre nozioni come il fatto che gli altri pianeti del sistema solare, non disegnano dei cerchi
concentrici, ma delle ellissi. Queplero aggiunge il nuovo dato che i pianeti in realtà disegnano delle ellissi.
Dalla concezione geocentrica della terra al centro del sistema, e tutto il resto subalterna ad essa, si basava
anche il complesso dottrinale e sociale su cui si era costruita la società occidentale.
Dio ha creato il proprio alter ego in carne e ossa e l’ha fatto a sua immagine e somiglianza,
quindi finché c’era il geocentrismo, tutto tornava con l’uomo che era trashunto de diòs.
Finchè è così le cose vanno bene perché da questo dipende che tutta la società si basi su un principio di
questo tipo, secondo principi di gerarchia con una base, un centro e una sfera superiore, così la società
rispetta una gerarchia di questo tipo. Nel momento in cui questa corrispondenza perfetta tra microcosmo e
macrocosmo viene sovvertita, l’uomo si scopre soltanto un piccolo granello in un mondo che non è quello
al centro dell’universo, ma uno dei tanti che orbitano attorno al sole, non disegnano delle orbite
concentriche perfette, ma addirittura si disegnano delle ellissi, non esiste il centro, cade l’idea del centro
della creazione di Dio.
Così cominciano a crollare i valori, le certezze sulle quali si era basata la società dell’epoca. Ovviamente le
cose non cambieranno da un momento all’altro, ad esempio Giordano Bruno aveva affermato nella sua
opera “i mondi infiniti”, aveva affermato che i mondi possibili sono tantissimi e possono essere abitati, che
esistono tantissimi universi come quello solare e per questo venne arso vivo. Galileo Galilei scopre la verità,
ma è costretto a dire “eppur si move” e rimangiarsi le proprie idee.
Ovviamente tutte queste innovazioni si scoprono grazie alle varie invenzioni.
La categoria dell’infinito che per noi è naturale, per loro non esisteva, tutto era finito, quindi quando con il
telescopio si scopre ciò che è infinitamente grande vuol dire che l’uomo non può conoscere tutto quello che
vede.
Gli olandesi mettono appunto il microscopio, quindi non solo si scopre l’infinitamente grande, ma anche
l’infinitamente piccolo.
Ovviamente queste sono cose che sul piano di come correggere la mente a queste acquisizioni, mettono a
repentaglio i singoli e i criteri sociali, da qui la prima vittima sarà la chiesa perché si poggiava su un certo
tipo di concezione gerarchica e cosmologica errata, e da qui tutte le varie eresie.

14° LEZIONE 13.11


Abbiamo affrontato una questione centrale, per la lettura complessiva e la comprensione generale del don
Quijote.

Dal commento del capitolo 8 della prima parte, l’incontro/scontro con i giganti si dava come cifra essenziale
del discorso che la follia di don Qijote si manifesta nella pretesa che quel semplice rapporto di analogia tra
mulini e giganti, sia in realtà una uguaglianza.

Don Quijote stabilisce una identità tra elementi che si assomigliano semplicemente. Un altro esempio
importantissimo è quello di Dante, che commette un errore di termini di far cadere nell’uguaglianza fosse
semplicemente simile, sebbene il rapporto fra gli elementi fosse opposto.

Questo esempio ci è utile per iniziare una questione: in dante l’errore era dovuto agli elementi
dell’atmosfera che non gli consentivano di vedere bene, quindi dante riesce a sfuggire all’errore.

Nel parlare del canto XXI dell’Inferno, non dobbiamo riferisci a Dante come un modello per Cervantes,
perché non sappiamo se quest’ultimo si sia ispirato a Dante per la scena dei mulini, quidi non si tratta di
una fonte per il libro 8avo, ma semplicemente una fonte importante che ci permette di spiegare l’episodio
dei mulini a vento.

Questo livello dell’analogia/identità ci porta ad affrontare un’altra questione, quella riferita alle idee,
all’episteme dell’epoca che si basava proprio su un rapporto di analogia, dalle origini fino ai tempi in cui sta
operando Cervantes.

L’episteme si basa proprio sui rapporti di analogia tra i diversi ordini del creato, come chiave di accesso alla
conoscenza. Proprio nelle decadi in cui matura un prodotto artistico come quello del Don Quijote, questo
principio di analogia viene superato dall’acquisizione di nuove conoscenze che portano con sé una nuova
costruzione epistemologica che scalcia il principio di analogia e afferma come criterio di conoscenza il
principio di identità.

Se nella concezione precedente si poggiavano su un principio di ANALOGIA e somiglianza fra le identità del
creato introdotto da Arisotele e che questo rapporto di A=B (CERVELLO=NOCE), faceva sì che il cervello
fosse uguale alla noce nel microcosmo dell’uomo rispetto al microcosmo della natura, con il progresso sul
versante delle scienze questa concezione viene sostituita sul piano epistemologico il principio di IDENTITA’
cioè A=A ed è solo uguale ad A, B=B e solo B.

Due cose simili dal punto di vista estetico, non possono essere sovrapposte e ritenute come la stessa cosa.

Una concezione di questo tipo ovviamente si impone con tanti sacrifici e molto tempo, anche perché sul
principio di analogia si basava anche il sistea di tipo socio-culturale, legato all’organizzazione della società.

Nel caso della Chiesa innanzitutto che nel suo sistema gerarchico aveva tentato di riprodurre quel sistema
del macrocosmo della natura, allo stesso modo nel caso di una monarchia assoluta.
Dare affermazioni di questo genere, significava distruggere tutto l’edificio culturale su cui si basava la
società.

Cervantes ha avuto una capacità incredibile di trovarsi al passo con i tempi. Cervantes riporta un tipo di
mentalità che si sta superando in questo momento, è come se dicesse che chi crede che l’analogia sia la
chiave di accesso alla conoscenza, è un pazzo ed è quello che succede proprio a don Quijote.

Don Quijote è il difensore più estremo e agguerrito di una visione della realtà che ormai è stata scalzata
dalle nuove acquisizioni, si fa portatore di una mentalità che non è più attuale.

Il fatto che lui affermi che l’aristocrazia del modello cavalleresco, sia il modello perfetto per la
organizzazione sociale, anche in questo caso dimostra che non è vero, perché nel frattempo ci sono le classi
sociali basse che cercano di scardinare quel principio di predominazione di un’aristocrazia che non ha la
stessa importanza del medioevo, e addirittura di un sistema cavalleresco che non esiste più.

La mentalità del protagonista è attardata sui tempi, basata sulla rappresentazione di un mondo, ideale, che
non ha più senso a quel tempo. Continuare a perpetrare la superiorità dell’aristocrazia basata sul modello
cavalleresco è una menzogna che va denunciata per la sua cifra anacronistica.

Il mondo si stava trasformando tra 500/600, affermare quel mondo superato come rappresentazione del
modello a cui ispirarsi era una menzogna che andava denunciata, chi ancora afferma questi ideali è un folle,
non sta al passo coi tempi, da qui il tentativo di Cervantes di denunciare questa realtà nelle forme che gli
sono disponibili, non può scrivere un trattato sociale, dottrinale o che, ma scrive un romanzo che si
inserisce nel filone più in voga dell’epoca, che però ha la funzione di esprimere tutto quello che pensa, da
qui il rovesciamento parodico, la parodia, che mette in luce tutta la sua inabitabilità. Questa operazione è di
un’acutezza e di una modernità assoluta. E’ questa capacità di smascheramento dei falsi ideali, delle false
realtà, la messa in crisi e discussione, è la cifra che lo rende imperituro. Ancora oggi lo leggiamo
apprezzandolo sulla scorta delle nostre condizioni attuali e apprezziamo proprio la capacità eversiva e il
tratto di sovvertimento dell’ordine.

Mette in crisi il mondo costituiti, però siamo ancora in un periodo in cui per denunciare il reale, devono
ancora servirsi della maschera/della copertura ironica.

Questo schema sta alla base del funzionamento della comicità come ci è stata spiegata da Freud e la
psicanalisi.

Partiti dall’interrogativo “com’è possibile dar conto contestualmente da una lettura seria ad una comica del
Quijote?” Anche chi arrivava a riconoscerla come un’opera divertente e parodica, non si era spinto a
spiegare come l’opera riuscisse a fare questo. Così possiamo servirci della teoria Freudiana della comicità,
l’unica che ci permette di capire il lavoro di Cervantes e come sia possibile che questo contenuto serio
aggressivo, questa messa in discussione sia inserita in un’opera divertente.

Freud scrive un libro sulla comicità, dove teorizza sulla comicità “Il motto di spirito e la sua relazione con
l’inconscio”.

Secondo Freud esistono 3 tipi di comicità:

1) una risata senza ulteriori conseguenze, la comicità in senso puro


2) il motto di spirito, la battuta sagace
3) l’umorismo, che prende piede in un orizzonte culturale della comicità nel 900.

Comicità in senso puro e il motto di spirito sono quelle che ci interessano.


Freud dice che la comicità si basa su un’esperienza di comparazione e di confronto tra me e l’altro.
Da qui una premessa: per Freud la comicità come fatto psichico e la manifestazione fisica attraverso la
comicità si ha attraverso la presenza di un surplus energetico (una riserva) che scarichiamo in
determinate circostanze attraverso il riso (che è quindi un momento di liberazione di un accumulo di
energia).
Si produce l’eccesso di energia fisico che scarichiamo con una risata, perché frutto di esperienza di
comparazione, tra me e l’altro, dopo che si ha un esito di una mancata identificazione. Da qui si genera
lo scarto di energia che si manifesta con una risata.
Parlando della comicità più banale Freud fa l’esempio del clown, che ci fanno ridere perché
nell’operazione di confronto, se ad esempio il clown cammina facendo un sforzo, investendo più
energia fisica di quanto richiederebbe, questo paragone ci permette di pensare “non sono io”, non mi
immedesimo in quell’individuo. Questa mancata identità provoca la risata.
Anche quando qualcuno scivola, cade, quell’azione comporta una quantità di energia superiore rispetto
a quella che richiederebbe, quindi non è quello che farei io: comparazione, mancata identificazione:
risata.
Stesso modo quando osserviamo i bambini che scrivono per la prima volta e ci mettono un sacco di
tempo, noi ridiamo benevolmente. Il fatto di osservare quel gesto che comporta un eccesso di energia,
nel quale io non mi riconosco, ma me ne devo liberare, non mi identifico ma me ne libero con una
risata.

Lo stesso può accadere quando l’investimento di energia non è fisico, ma psicologico/mentale.


Per esempio quando abbiamo i lapsus, ho una carenza in questo caso, non un surplus, non ho investito
sufficienza energia mentale che ho sbagliato nome.
Quel soggetto ha investito troppe poche energie mentali
La comicità può investire operazioni di tipo fisico, ma anche di tipo mentale.

Passando al pitz, al motto di spirito: tutto quello che abbiamo detto finora alla mancata identificazione
soprattutto in relazione ad un episodio.
La comicità tendenziosa: fino a questo punto abbiamo parlato della comicità superficiale che investe
soltanto il livello razionale dell’individuo (non sono io, troppa energia/troppa poca energia e rido).
La comicità tendenziosa si riferisce anche ad un investimento della parte irrazionale.
Freud la risolve con una frazione: il pitz, la sua prerogativa investe contemporaneamente la parte
cosciente e quella non cosciente, il subconscio dell’individuo.
Non sono io/sono io identificazione/non identificazione, lo specifico del pitz è che sono
contestualmente investite nel processo comico la parte cosciente e quella non cosciente.
Matura una non identificazione: non sono io, ma contestualmente nello stesso momento si produce
anche una identificazione: sono proprio io.
A livello conscio non ci identifichiamo, ma a livello inconscio che è quella che sfugge alla ragione, si
identifica esattamente con quei contenuti che la parte razionale rifiuta e censura.

Il caso più evidente di questo meccanismo è quello che definisce come la nozione di FORMAZIONE DI
COMPROMESSO, quello che regola tutte le nostre manifestazioni, il frutto di una iterazione tra la sfera
razionale e la sfera inconscia, è la risultanza di due spinte contrarie fra di loro, che in qualche modo devono
essere verbalizzate e manifestate e in questo tentativo di mettere insieme due pulsioni contrarie si cerca di
trovare un compromesso.

Freud studiò una formazione di compromesso, che è la negazione: NON. Noi verbalizziamo dei contenuti
psichici, quello che noi esprimiamo verbalmente dice quello che accade nella nostra psiche, quello che è
conscio e inconscio. Freud rielaborava le sue teorie sulla base dello studio dei pazienti clinici.
Racconta che un suo paziente, omosessuale, aveva sognato di copulare con sua madre, un contenuto
psichico aberrante, che ovviamente la coscienza non può autorizzare e legittimare, nel raccontare il ragazzo
diceva sempre “non sono io”, quindi non si identificava con il protagonista del sogno, perché la coscienza
vigila in maniera tale che lui non si potesse immedesimare con il protagonista di un sogno aberrante.

Da una parte sta leggendo il rifiuto, mentre nega in realtà sta affermando, nel dire che non era lui, sta
verbalizzando quello che la parte cosciente censura e che però affiora inevitabilmente dall’inconscio.

Quel non sono io è la formazione di compromesso, la negoziazione che conscio e subconscio trovano per
manifestare questo contenuto psichico.

Come negoziazione a livello verbale, senza il quale non ci sarebbe formazione di compromesso, sfrutta lo
stesso principio delle marachelle che fanno i bambini “non sono stato io” affermano quello che per la parte
razionale cercano di negare.

Questo stesso principio della FORMAZIONE DI COMPROMESSO sta alla base del funzionamento del pitz,
cioè una forma di comicità che si struttura su una formazione di compromesso che prevede
contestualmente una negazione di tipo conscio, ma allo stesso tempo di una identificazione a livello
inconscio.

Nell’atto I della Celestina si produce quel lungo colloquio tra Calisto e Sempronio, che ad un certo punto si
spinge un po’ troppo oltre nella relazione con il proprio signore e inizia ad essere irriverente e a dire una
serie di cose che in linea di principio dovrebbero offendere il padrone come quando dice che la nonna è una
scimmia, poi si aggiunge la famosa battuta su Sodoma. Calisto professa questa sorta di religione nei
confronti di Melibea, assunta a suo dio e ad un certo punto Sempronio dice “nno si può sentire una tale
blasfemia” lo incalza dicendo che dire quello che sta dicendo commette peccato peggiore di quello che
commisero a Sodoma, dove gli abitanti volevano copulare con gli angeli inviati da Dio, ignorando la loro
natura divina. “Commetti un peccato peggiore di quello consumato a Sodoma, perché tu non vuoi copulare
con gli angeli, ma direttamente con Dio” perché secondo un ragionamento sillogistico se Melibea è il tuo
Dio e tu vuoi copulare con lei è come se volessi copulare con Dio.

In quel momento Calisto avrebbe dovuto adirarsi fortemente con Sempronio, o comunque è quello che ci
aspettiamo, invece Calisto ride. In questa risata risiede la non identificazione da una parte, perché il
ragionamento di Sempronio si basa su un errore, cioè che lui in nessun momento ha detto di voler copulare
con Melibea, quindi la battuta di Sempronio che si struttura su uno scarso investimento di energia mentale,
cioè fa un sillogismo basandosi su una affermazione che Calisto non aveva fatto. Si basa su un errore. Non
identificazione, però il plitz, la comicità di tipo tendenzioso (aggressiva nei riguardi id un valore/principio
etico o sociale) ha questo specifico, è qualcosa che aggredisce il contenuto, questo contenuto può essere
un principio. In questo caso la tendenziosità di Sempronio investe il codice di amor cortese (ricordiamo che
per sempronio non ha alcun senso la concezione della donna angelicata), la sua battuta è un attacco al
codice cortese per cui la donna non può essere oggetto di desiderio carnale. Dal canto suo Calisto,
emblema dell’amante cortese per eccellenza, dovrebbe arrabbiarsi di fronte ad un attacco di questo tipo in
cui il suo sistema di condotta viene deriso in questo modo. Ride perché Calisto vede verbalizzato il suo
sentimento inconscio di copulare con Melibea (obiettivo che raggiunge nel 12esimo capitolo) il plitz è
proprio questo: Calisto non si identifica in quelle parole, ma si identifica fortemente con il contenuto
scabroso veicolato dalla battuta di Sempronio.

Tutta questa teoria deve essere applicata al don Quijote. Se ci mettiamo nei panni di un lettore dell’epoca,
come già accadeva per la picaresca, condividono questo tipo di dinamica e di sistema. Quando per Lazaro
parlavamo di tutte queste battute e riferimenti divertenti, il lettore ride, ma contestualmente al livello
dell’inconscio, si identifica fortemente con Lazaro, quello al quale ci riferiamo come empatia.
Non mi identifico io lettore del 500 delle classi alte con le pretese di ascesa sociale di questo picaro, però mi
identifico perché se io fossi nelle sue stesse condizioni, farei esattamente così, quello sono io.

Quell’opera è comica, ma non si ride soltanto perché riesce a veicolare un contenuto tendenzioso
fortissimo: attacco alla società dell’epoca.

Lo stesso accade nel don Quijote, nessuno si identifica con un vecchio pazzo che crede di essere un
cavaliere errante. Nessuno ad un livello superficiale, di coscienza, si identifica con un pazzo, però se io
avessi l’esigenza di difendermi da un mondo che non mi dà più certezze, che mi sottrae le certezze sulle
quali ho sempre costruito il mio edificio mentale, allora si io farei esattamente come lui. Di fronte al
presente, ad un mondo che non è come voleva che fosse, si rifugia in un mondo che non c’è più o che sta
finendo. Ridiamo di don Quijote ma ci identifichiamo completamente con lui, perché se fossimo al suo
posto ci aggrapperemmo con le unghie ad un passato che era l’unico che conosceva e nel quale si
identificava e riconosceva, che è esattamente quello che accade al lettore del don Quijote.

Tutte le opere del 500, come l’Orlando furioso, a diverse latitudini hanno saputo veicolare questo bisogno
profondo di trasmettere un disagio. Quello di don Quijote è un disagio esistenziale, nel quale ci
identifichiamo e non ci identifichiamo contestualmente.

La nostra lettura e analisi dell’episodio dei mulini a vento.

Questa avventura è paradigmatica per tutta l’opera, infatti ci è servita per avviare tutto questo percorso
interpretativo. Don Quijote non si libera della follia, ma ricorre all’espediente del mago che aveva
trasformati i giganti in mulini.

Don Quijote non parla dell’episodio dei mulini a vento, vede arrivare dei frati, vestiti di nero che stanno su
dei carro e dice “guarda che bella avventura si sta svelando ai nostri occhi, guarda quei maghi incantatori
che hanno rapito una principessa”, si convince che nella carrozza che trasportavano, ci fosse una donzella
che avevano rapito. I frati provano a spiegargli la verità, ma don Quijote parte all’attacco e li fa cadere, dei
giovani che stavano al seguito della carrozza intervengono per difendere i frati e ne danno di santa ragione
a don Quijote. Ad osservare la scena c’era uno scudiero vizcaino di Pistaya, una zona dei paesi baschi,
questa figura è molto ricorrente nelle opere spagnole.

Pag. 174

Venìa pues..

Stanno per cominciare il duello, con le lance sguainate e le braccia in alto e succede che.. “ma la cosa
peggiore, risiede nel fatto che su questo punto e arrivati a questo termine l’autore lascia in sospeso il
racconto di questa battaglia, scusandosi del fatto di non aver trovato niente di più scritto di queste imprese
di don Quijote riferite fino a questo momento”

Fino a questo momento il narratore interno all’opera aveva fatto riferimento agli autori degli annali della
Mancia, ora parla di un unico autore, sconosciuto, che arrivato a questo punto sospende l’azione del
combattimento e sostiene di non aver trovato nulla più, qui si interrompe la storia che stava maneggiando.
Quindi immaginiamo che l’autore stava maneggiando o riscrivendo un altro testo, come la vita del
personaggio.

“Ma è pur vero che questo secondo autore di questa opera, non potè credere che questa storia fosse stata
consegnata alle leggi dell’oblio, né che fossero stati così poco curiosi gli ingegni della Mancha che non
disponessero sui loro archivi il seguito di questa storia, per cui con questa fantasia, l’autor (il primo) non
disperò di trovare finale di questa gradevole storia, la quale continuazione se ce ne sarà modo, sarà
raccontata nella seconda parte.
15ESIMA LEZIONE 14.11
L’avventura dei mulini a vento ci permette di farne un’esegesi per la lettura dell’intera opera.

Dopo l’avventura de los fraides de san Benito, nella quale allo stesso modo non vede la realtà per come è
ma vede degli incantatori al posto dei frati, vestiti di nero, con una principessa che tengono prigioniera, da
lì la nuova battaglia si conclude con un’altra misfatta dal punto di vista fisico, finisce sempre apaleado.

Uno degli scudieri che erano al seguito della carrozza interviene, stanno per intraprendere una nuova
battaglia ma la narrazione si interrompe con una specie di scena plastica, un fermo immagine, sospesa.

Il narratore interviene a spiegare che la narrazione si interrompe perché l’auctor non aveva rinvenuto altro
materiale che spiegasse la vicenda, quindi un secondo auctor si era preoccupato di scovare il seguito della
narrazione.

CAPITOLO 9 PRIMA PARTE

Lasciammo la prima parte di questa storia con il coraggioso vizcaino e il famoso don Quijote, in guisa di
scagliare addosso due furibondi fendenti, tali che se si fossero presi in pieno, perlomeno si sarebbero divisi
dall’altro in basso e si sarebbero aperti come un melograno e dicemmo poi che in quel punto così dubbioso
si arrestò tronca questa gradevole storia senza che il suo autore ci desse notizia di dove trovare il seguito.

“Causome” mi procurò, usa la prima persona all’improvviso. Ma chi è che parla da narratore esterno
onnisciente e si trasforma in prima persona? “Ciò mi causò una grande preoccupazione perché il piacere di
aver letto così poco si traduceva in un dispiacere soprattutto a pensare che il cammino da percorrere per
ritrovare quanto mancava di un racconto così gustoso era duro, mi sembrò una cosa impossibile, esterna
all’abitudine tradizionale di qualsiasi cavaliere che fosse mancato qualche buon saggio che prendesse a
carico il compito di scrivere queste imprese mai visti, cosa che non era mai mancata a nessuno dei cavalieri
erranti.

“Trovandomi io un giorno nell’Alcalà di Toledo (una strada di commerci) arrivò un ragazzo a vendere delle
carte vecchie ad un venditore di seta e siccome io sono così tanto appassionato da leggere persino i foglietti
rotti che posso ritrovare per la strada (è un altro lettore ossessivo/compulsivo), spinto da questa mia
inclinazione naturale, presi tra le mani uno scatafascio tra quelli che vendeva il ragazzo e lo riconobbi scritto
da caratteri che dovevano essere arabi.”

Fino al capitolo 8 avevamo un narratore che di tanto in tanto per richiamare le sue fonti faceva sempre
riferimento agli autores dell’opera, che dovevano essere conservati negli annali della Mancha, cosa che ci
faceva pensare che questi autores fossero dei cronisti, dopo di che compare questa figura singola che parla
in prima persona, come se non ci fosse più un collettivo, ma un autore singolo al quale si sovrappone
questo segundo autor che non si rassegna che il primo autore abbia lasciato tronca l’opera e decide di
rintracciare il seguito della storia. E’ lui che interviene in prima persona nel capitolo 9. Non c’è più
narrazione onnisciente, ma c’è quest’io che dovrebbe coincidere al segundo autor/narratore del capitolo 9.

Questi racconta un’esperienza personale. Si imbatte in un ragazzino con cartapacci con papeles viejos che
cercava di vendere ad un venditore di seta, però essendo un patito della lettura..

Questo aneddoto ci autorizza a pensare che questo yo, che è diventato una figura interna all’opera sarebbe
l’alter ego all’interno del testo del nostro autore, Cervantes. Infatti è proprio lui un lettore ossessivo
compulsivo che aveva l’abitudine di leggere qualsiasi cosa gli capitasse davanti, perciò questo autore
potrebbe corrispondere allo stesso Cervantes, che però si maschera all’interno del testo da questo
personaggio. Prendendo uno di questi cartapacci, di questi fascicoli di manoscritti, si rende conto che è
scritto in arabo.
“E sebbene io conoscessi l’arabo, non lo sapevo leggere (Cervantes era stato 5 anni in Africa, quindi
probabilmente aveva familiarizzato con la grafia araba ma non aveva la facoltà di leggerlo da solo), mi
guardai attorno per vedere se ci fosse quale morisco alhamiado (quei moriscos che parlavano l’arabo
contaminato dal romance castigliano che poteva facilmente mediare tra castigliani e mori) e non mi fu
difficile trovare un simile interprete, poiché se anche se ne avessi cercato uno di una lingua più antica
dell’arabo, lo avrei trovato facilmente (allude al fatto che Toledo era un crocevia di culture ed era anche un
enclave di judios e mori).

Insomma la fortuna me ne riservò uno che, raccontatogli il mio desiderio e mettendogli il libro tra le mani,
lo aprì nel mezzo e si mise a ridere. Gli chiesi di che cosa ridesse, e lui rispose che rideva del contenuto di
un’annotazione posta al margine di questo testo manoscritto. Gli chiesi che me lo dicesse e lui, senza
smettere di ridere (continua a ridere, ricezione dell’opera per i contemporanei), rispose –come ti ho detto
qui al margine c’è scritto quanto segue: “di questa Dulcinea del toposo di cui si è parlato tante volte in
questa storia, dicono che è la migliore mano per sanare i porci, che qualsiasi altra donna risulta la Mancha”
(la base che sfidò la dulcinea del toposo di Don Quijote era la ragazzina, la contadina di cui don Quijote era
innamorato da giovane).

Nell’apprendere questo si emoziona perché si rende conto che questo manoscritto contiene il seguito della
storia del don Quijote, esattamente quello che mancava e che lui sperava di trovare.

“Lo sollecitai affinchè leggesse dal principio e traducendo all’impronta dall’arabo al castigliano diceva – il
titolo recita così: Storia di don quijote de la mancha scritta da…. Storico dell’arabia”.

Si complica il problema dell’attribuzione autoriale dell’opera. Infatti questo secondo autor che va in cerca
della seconda parte, la trova e scopriamo questa volta un testo che non ha più una collettività, ma che si
tratta di un historiador arabico.

Ma in realtà con ogni evidenza, riconosciamo che siamo di fronte al topos letterario del manoscritto
ritrovato di accreditatissima tradizione, soprattutto in relazione ai libri di cavalleria. Già l’Orlando furioso lo
sfruttava, o anche l’Amadis de Gaula di Rodriz de Montaula, l’opera sarebbe stata ritrovata sotto una pietra
che copriva le tombe di costantinopoli e che l’autore si sarebbe impegnato ad arricchire con la storia del
figlio di Amadis, oppure ancora i Promessi Sposi ecc.

Si tratta di un topos di lunga e prestigiosa tradizione. Un po’ si cerca di inserire il testo all’interso di una
traiettoria letteraria riconoscibile al lettore, ma anche di deresponsabilizzare l’autore da ciò che c’è scritto
nel testo. Una funzione importante è questa che si aggiunge al desiderio di aumentare il tasso di
verosimiglianza, accredita sul piano della realtà la storia, si cui esiste la testimonianza del manoscritto che è
stato fortunosamente ritrovato. E’ un espediente che accresce il quoziente di verosimiglianza.

Ci troviamo di fronte ad un topos, ma dall’altro lato questa pretesa verosimiglianza ricercata nel testo,
viene screditata dal fatto che l’autore citato sia in realtà un semplice gioco onomastico Sid= termine di
origine araba passato al castigliano vuol dire “signore”, Amete= traslitterazione del nome arabo più usato,
Hammed, Benenjeli è un caso di paronomasia (annominatio) benè in arabo vuol dire “figlio di”, ma per
antonomasia richiama il termine spagnolo “melanzana” nera perché richiama i mori, per di più c’è un’altra
connotazione comico-parodica: i musulmani avevano la fama di essere dei mentitori incalliti, per cui non ci
si può fidare. Historeador antiguo/arabico aumenta il carattere parodico, è una contraddizione in termini
quella di associare l’essere storico, quindi narratore di verità per eccellenza, un arabo, menzognere da
tradizione. Questa associazione aumenta il fattore comico/parodico. Quindi in nessun caso ci possiamo
fidare perché non può essere uno storico.

“Fu necessaria tutta la mia capacità dissimulatoria per nascondere il mio interesse per quello scritto,
soprattutto davanti al severo che era interessato all’acquisto di quel manoscritto, quindi decide di comprare
in blocco tutto l’ammontare dei manoscritti che il ragazzo aveva con sé. Quindi per questa nuova figura
quel libro si è convertito per questo personaggio un feticcio.

Se il ragazzo fosse stato sveglio e avesse avuto cortezza di quanto fossi interessato, si sarebbe potuto
accaparrare molto di più. Dopo di che con il morisco mi misi nel chiostro della cattedrale di Toledo.

Desiderio affannoso di impossessarsi di questo oggetto

Ancora altra materia per aumentare il cortocircuito di questo passaggio testuale. Chiede al traduttore di
tradurre tutta la storia dall’inizio alla fine senza sottrarre niente, “si accontentò di due manciate di uva
passa e due fanegas di grano e promise di tradurre fedelmente e rapidamente, però io gli proposi di andare
ad alloggiare a casa sua in modo tale da sollecitarlo, così nell’arco di un mese e mezzo la traduzione viene
messa a disposizione di questo autore”.

Così lui e tutti noi possiamo leggere il seguito del don Quijote e della seconda parte.

Come comincia questa narrazione? Non dall’inizio che siamo abituati a leggere noi ma riprendeva proprio
con la scena del vizcaino. E’ una soluzione geniale, perché così non se ne esce.

MA CHI L’HA SCRITTO IL DON QUIJOTE?

Dagli autores, siamo arrivati agli autores degli annales della Mancha, poi autore antiguo, segundo autore,
autore arabico, traduttore.

Si sovrappongono tantissimi livelli, la storia sarebbe il frutto di una stratificazione di mani che sarebbero
intervenute nel testo, fa parte di quella spirale tutta barocca di cui avevamo parlato.

Cesare Segre scrive il saggio “rette e spirali del don Quisciotte della mancha”, tutto il sistema lineare cede il
passo alla struttura a spirale dove tutto si complica, gira su se stesso ecc.

Basta questo ocme esempio per dare conto della evoluzione a spirale dell’opera in tutte le sue
componente.

Ma allora l’arabo è autore solo della seconda parte, o anche della prima?

Buona parte della critica Cervantina ha speso molto tempo per risolvere questa questione che però si
conclude semplicemente come un gioco che Cervantes adotta per complicare il testo, creare legami con la
tradizione ecc.

Tra i vari filologi, un filologo romanzo, Baldìn Beriguer era uno di coloro che affermava che cervantes
all’inizio non aveva concepito un’idea così amplia dell’opera. Nelle sue intenzioni c’era quella di scrivere un
racconto più o meno breve su un personaggio impazzisce ecc. dopo l’episodio dei mulini a vento si sarebbe
dovuta interrompere la tradizione e solo in un secondo momento avrebbe concepito l’idea di scrivere un
romanzo cavalleresco così amplio, perché si nota che nei primi otto capitoli abbiamo un sistema conchiuso
e che poi nella seconda parte l’opera riparte nuovamente. Il progetto originario doveva essere contenuto
negli spazi di una novella anche perché circolava una narrazione legata al racconto di una persona giovane
che sarebbe impazzito dopo la lettura dei romances, e sarebbe andato in giro a scrivere e raccontare altri
romances. Quindi secondo Beriguer, Cervantes avrebbe ripreso quest’opera e l’avrebbe voluta riprendere,
ma poi il progetto si sarebbe ingrossato.

Se è vero che Cervantes avrebbe scritto l’opera tra la fine degli anni 80 e nel corso degli anni 90, interrotto
da un altro imprigionamento in Spagna, sarebbe stato nell’ozio della vita carceraria che compose questa
storia, però non lo sappiamo.

Cervantes è l’autore che gioca con questa spirale delle varie voci all’interno del testo.
L’io ritorna sul fondo della scrittura, scompare e il narratore in 3° persona riprende la narrazione.

I due protagonisti vivono una serie di nuove avventure.

In realtà l’opera non opera soltanto le vicende che ruotano attorno al don Quijote e a Sancho, ma una
porzione importante si riferisce a storie esterne, di altri personaggi e questo attiene al tipo di DIEGESI (cioè
della disposizione della materia narrata all’interno del testo).

La DIEGESI PRIMARIA è quella corrispondente alla storia di don Quijote e Sancho e al complesso di
avventure che marcano e distinguono la loro avventura.

Esiste una DIEGESI SECONDARIA (un secondo livello della narrazione) che ospita storie aliene, strane, spurie
dalla materia cavalleresca. Questa Diegesi secondaria, anche a livello strutturale e dispositivo è un’altra
delle spirali che il capolavoro cervantino dimostra. Questa seconda diegesi si correla al primo in due
modalità diverse. O si tratta di storie completamente esterne alla diegesi primaria, NARRAZIONI EXTRA
DIEGETICHE, come ai capitoli 33-35 una serie di personaggi si ritrovano nella venta di Paroveque (Don
Quijote viene portato a dormire) e il locandiere dice che un vecchio cliente ha lasciato una valigia all’interno
della quale ci sarebbe un manoscritto con una storia, una novella a tutti gli effetti, “la novella del curioso
impertinente”, che ha per protagonisti due amici che si innamorano della stessa donna.

Questa storia è totalmente extradiegetica, si tratta di un testo scritto, i cui protagonisti non si possono
integrare all’interno della storia, è l’unica di carattere extradiegetica.

Gli altri inserti sono tutti intradiegetici, cioè partono come narrazioni esterne al testo, però arriva sempre
un momento in cui vengono ad integrarsi con la narrazione delle avventure di don Quijote e Sancho,
finiscono per integrarsi all’interno della narrazione primaria e quindi sono intradiegetiche.

Sono quasi tutte concentrate nella prima parte dell’opera mentre nella seconda parte si riducono
notevolmente ed in effetti nella seconda parte è lo stesso testo a chiarirlo, infatti loro stesso chiedono cosa
si dicesse sul loro conto, Sancho carrasco due “tutto bene” però è stato criticato il fatto che all’interno del
testo ci sono tante digressioni che fanno perdere il filo del discorso e non si concentrano sul personaggio
principale.

Uno di questi inserti intradiegetici è la STORIA DELL’AMORE TRA CRISOSTOMO E MARCELA

Crisostomo è un pastore innamorato perso di Marcela, la tipica pastorella che ha fatto voto di castità e non
vuole cedere agli inganni dell’amore, e così Crisostomo si suicida e apprendiamo la storia perché quello che
ci viene raccontato in diretta è il funerale di Cristosomo, infatti don Quijote e Sancho arrivano in questa
zona di pastori e vedono questo funerale, ma la storia d’amore non c’entra niente con loro.

Don Quijote ad un certo punto decide di dover fare penitenza alal stregua di Amadis, perché sottoposto ad
una serie di prove, la notizia di questa sua penitenza sarebbe arrivata ad Oriana e Oriana in virtù di questo
sacrificio lo avrebbe perdonato per quella congiura che le era stata detta ecc.

In tutti i libri di cavalleria c’è. Don Quijote, emulando i libri di cavalleria decide di ritirarsi in Sierra Morena,
subire ogni tipo di penitenza, così che Dulcinea quando avrebbe saputo della sua prode impresa, i sacrifici
ecc. lo avrebbe accolto e gli avrebbe concesso i suoi favori.

Immaginiamo nel frattempo l’alterco con Sancho che dice “ma come la penitenza la devo fa pure io ecc.”

In Sierra Morena si imbattono in un selvaggio vestito di pelle animale e niente più che fa cose strane,
ovviamente accresce la curiosità di don Quijote di capire chi fosse questo selvaggio e si imbatte in una serie
di personaggi che gli dicono che si tratta di Cardelio, un folle per amore, che si è rifugiato in Sierra Morena
al seguito di un rifiuto d’amore.
Da quel momento don Quijote cerca in tutti i modi di incontrare questo Cardelio ed effettivamente ad un
certo punto finalmente riescono a vincere le ritrosie di questo selvaggio che aveva sempre reagito male ai
tentativi di don Quijote di parlargli e alla fine Cardenio gli racconta la sua storia.

Questo momento in cui Cardenio che nel presente della narrazione è il selvaggio della Selva Morena come
lo incontriamo nella storia, inizia a raccontare tutto l’antefatto della sua vita, cioè tutte le ragioni per le
quali lui si trova in questa condizione. Tutta questa estesa narrazione che sospende la narrazione della
Diegesi primaria, rappresenta una diegesi secondaria, una digressione sulla storia di Cardenio e Lucinda.

Tutta questa digressione in narratologia prende il nome di ANALESSI COMPLETIVA: è un’analessi perché si
svolge in anacronismo, cioè non si svolge nel tempo della narrazione, ma in un tempo altro rispetto a quello
della narrazione primaria, sebbene rispetto a se stesso la racconta al presente perché è il presente della
storia nel passato. Si chiama analessi perché altera lo sviluppo del tempo nella narrazione. Completiva
perché integra l’informazione mancante, completa la narrazione della storia di Cardenio. Al lettore manca
la quota di informazione relativa alla sua vita e alla sua storia pregressa e soddisfa l’esigenza del lettore la
narrazione completiva del personaggio.

L’esigenza del lettore viene completata dal racconto della storia del personaggio.

Cardenio non ha niente a che vedere rispetto alla diegesi primaria, però una volta che Cardenio ha
terminato di spiegare la sua storia, quindi una volta interrotta la analessi completiva

Cardenio è innamorata di Lucinda e il suo migliore amico, Fernando riesce a sottrargliela facendo in modo
di organizzare il matrimonio con Lucinda ad insaputa di Cardenio che si ritrova a spiare il matrimonio di
Lucinda con Fernando, però mentre Lucinda sta per pronunciareil sì, Cardenio non potendo sopportare
oltre il dispiacere se ne scappa, ma in realtà Lucinda non lo tradisce, anzi da sotto il vestito caccia un
coltello e minaccia Fernando affinchè il matrimonio non continui e poi sviene, ma questo Cardenio non lo sa
perché se n’è andato via prima. Così per il trauma che aveva vissuto decide di dedicarsi alla vita selvatica in
Sierra morena. Torniamo da qui al presente della narrazione, da extradiegetica passiamo ad una storia
intradiegetica perché don Quijote e Sancho gli dicono di andare con loro, che lo avrebbero aiutato. Nel
frattempo a don Quijote e Sancho si erano aggiunti anche il barbiere e il curato che avevano deciso di
andare all’inseguimento di don Quijote per riacciuffarli e riportarli indietro perché ormai il paese è a
soqquadro visto che anche Sancho panza aveva abbandonato la moglie e i figli. Questi convincono don
Quijote di ritornare ad Ardea con un espediente perché lui non ne voleva sapere niente.

Dopo che si era chiarita la vicenda di cardenio, si imbattono in una ragazza travestita in abiti maschili e che
dopo un po’ vengono a sapere che si chiama Dorotea, che racconta in analessi completiva tutta la storia che
la riguarda prima di essere arrivata in Sierra Morena. Ovviamente era necessario che raccontasse la sua
storia se no non si spiegava la sua presenza nella diegesi primaria.

Dal racconto di Dorotea apprendiamo che è una ragazza che è stata sedotta e abbandonata da Fernando,
l’amico di Cardenio, che prima l’aveva convinta e sedotta con la promessa del matrimonio e poi l’aveva
abbandonata per Lucinda. Si intrecciano tutte le storie dei personaggi in Sierra Morena. Così il curato e il
barbiere chiedono a Dorotea di fingersi da principessa Picomicone che era stata rapita da un gigante che
don Quijote doveva salvare, così che lo avrebbero fatto allontanare dalla sierra morena.

Nel viaggio di ritorno si fermano nella venta di Palomeque dove si leggerà la storia del curioso
impertinente.

Si chiude quindi un altro inserto, poi ci sarà la storia del prigioniero, innamorato di Zolaina, figlia del re
moro che lo teneva imprigionato.
Tutta una serie di inserti alieni alla diegesi primaria che partono come storie extradiegetiche, ma che poi
acquisiscono valore intradiegetico ed essere integrate, si tratta di una serie di casi che devono essere risolti
praticamente. Si aprono come drammi esistenziali che farciscono la narrazione e che attendono una
risposta che ottengono sempre a livello di diegesi primaria, grazie alle azioni di don Quijote. Le loro storie si
integrano con quella di don Quijote e le loro vicende vengono risolte.

Non si tratta di un dispositivo assolutamente originale, ma parte di questo dispositivo narrativo era già
presente all’interno dei libri di cavalleria.

Questi avevano come motore il modello della Quete, il cavaliere era mosso dal desiderio di avventura che
lo induce a ricercare continuamente il modello di avventura. Già nei libri di cavalleria esisteva questo
meccanismo digressivo, una tecnica che nell’epica francese prendeva il nome di entrellacement, cioè i libri
di cavalleria non solo raccontavano le avventure del cavaliere principale, ma anche quelle degli altri
cavalieri. La storia si divideva e per via digressiva dava valore alle vicende degli altri personaggi, che ad un
certo punto si interrompeva e si tornava alla vicenda della diegesi primaria.

Diegesi secondaria che torna alla diegesi primaria. Nell’entrallecement epico, le storie secondarie sono
sempre subalterne a questa gerarchia dell’azione primaria, invece nel don Quijote gli altri personaggi
acquisiscono un protagonisti assolutamente pari a quelle di don Quijote, la loro storia acquisisce signità pari
a quella della diegesi primaria e tutto questo crea un disegno a spirale, a schiglionata.

E’ fondamentale perché parliamo di quegli stratagemmi che servono come propulsori della narrazione.

Arrivati all’altezza del capitolo XV, don Quijote e Sancho decidono di riposarsi un poco e si ritirano in una
zona appartata, un boschetto per riposare.

“Sancho non si era preoccupato di legare le briglie di Rozinante, perché lo conosceva di essere a modo,
mansueto e poco attaccabrighe, se non fosse che in quel momento era arrivato un branco di cavalle
Galiziane di mulattieri (di una zona molto nota) che avevano deciso pure loro di sostare lì con le loro
cavalle. Succede che Rozinante, vede le cavalle, si ringalluzzisce un momento e gli venne il desiderio di
rifocillarsi (in spagnolo vuol dire copulare) con le cavalle e appena le annusò (e quindi fu risvegliato e
accresciuto il desiderio dai sensi), uscendo dal suo passo, senza chiedere permesso andò a comunicare il
proprio desiderio alle cavalle. Ma esse che dovevano avere più voglia di pascolare che di altro, risposero
con la dentatura e a calci Rozinante tanto che restò in mutande, si ruppero le ciglie, perse la sella e tutto ma
ciò che più gli dovette dolere fu che i mulattieri vedendo che le loro cavalle venivano importunate presero i
loro bastoni e lo fecero cadere a terra”

Don Quijote intraprende la battaglia contro i pastori che ovviamente lo bastonano duramente.

Sancho trasporta don Quijte sul loro asino, è messo di traverso sull’asino, pieno di ferite, con le costole
rotte e pieno di lividi per le percosse subite.

CAPITOLO XVI

Sancho mente al ventero che gli chiede cosa sia successo. Sancho per difendere la dignità del suo signore,
mente e non vuole dire che è stato bastonato e che per l’ennesima volta ha perso e dice che è scivolato da
una roccia.

Dell’episodio precedente dobbiamo tener conto del refocilarse, e soprattutto del fatto che in un animale si
qualifica un tipo di desiderio quale quello di rifocillarsi, è un istinto animale e non lo può controllare.

Ora invece ci troviamo nel contesto della venta.


Il ventero aveva per moglie una di quelle che non era condizione che sono solite avere le locandiere, era
generosa e caritatevole, fuori dall’uso comune e così curò don Quijote e disse che una sua figlia (donsella
età da matrimonio ma non ancor sposata), una ragazza bella e avvenente, alla quale sua madre ordinò di
andare a curare il suo ospite.

Serviva nella locanda allo stesso tempo una ragazza asturiana

Ritratto che ne fa è un topos, si diceva delle asturiane, di faccia grossa, con il collo corto, col naso
schiacciato, con un occhio storto e l’altro non molto sano. Verdad es: formula concessiva. E’ pur vero che la
bellezza del corpo compensava le fattezze del viso (le altre carenze).

Ci aspettiamo un corpo stupendo: non misurava più di sette palmi dalla testa ai piedi e quindi le spalle che
aveva la obbligavano a farla guardare a terra più di quanto volesse (aveva la gobba).

Il testo decide di intrattenersi sulla descrizione della locandiera.

Questa “gentil” ironico moza, aiutò la fanciulla e la verdera, fecero una muy mala cama a don Quijote,
perché gli fanno un letto cattivo, mal strutturato e mal costituito in un camarancion (rapporto di
derivazione con la cama) che in altri tempi dava molti indizi di essere servito in altri tempi da pagliaio.

Praticamente era un vecchio pagliaio che era stato trasformato in una specie di dormitorio.

16 LEZIONE

Capitolo 16 prima parte don Quijote

Dopo l’avventura con i mulattieri che avevano difeso le proprie cavalle dall’attacco di Rocinante che voleva
refocilarse con loro, ne era seguita una battaglia dalla quale don Quijte ne era uscito come sempre mal
pagato.

Sancho lo trasporta fino ad una venta dove sperano di avere solidarietà e soccorso, con don Quijote messo
di traverso sul cavallo. Sancho mente sulla vicenda accaduta al suo padrone e il testo a questo punto mente
rispetto alle cause di quello stato di don Quijote dopo di che il testo passa a dare conto una serie di
questioni, in primo conto ci fornisce un ritratto non dell’avvenente donzella figlia dei locandieri, quanto
della moza asturiana, la serva che riproduce un tipo etnico preciso, con la faccia tonda, grossa, ampia, con il
collo corto, ricurva, per cui è costretta a guardare a terra.

Riferimento parodico alle donzellas che nell’alta società devono sempre guardare per terra in modo tale da
manifestare decenza e castità, mentre l’asturiana non può fare altrimenti obbligata dalla sua gobba.

La seconda parte di quel testo ci mette in correlazione con un oggetto, il letto, fondamentale per la
comprensione del testo. Viene allestito in un camaranciòn che in altri tempi era stato usato come fienile e
che adesso era utilizzato per accogliere gli avventori.

C’è un altro ospite nella locanda, un mulattiere il cui letto è stato preparato vicino a quello di don quijote.

Sebbene il letto del mulattiere fosse stato allestito con coperte e stuoie, evidentemente questo arriero le
utilizzava di notte come giaciglio per dormire.

Ovviamente dobbiamo entrare nell’ordine delle idee che a quell’epoca il letto ocs’ come lo intendiamo moi
non esisteva, nelle case dell’epoca il letto era sempre preparato alla buona e solo nelle case nobiliari c’èera
effettivamente il letto molto vicino alla nostra concezione del letto, quindi nno è strano che in una locanda
si dorma su giacigli improvvisati.
Il letto dell’arriero era di qualità superiore a quello che era stato destinato a don Quijote.

“Le coperte che coprivano i muri che erano considerati di migliore qualità.

Il letto di don Quijote: descrizione dettagliatissima

Moza arturiana e letto sono i due oggetti/soggetti sui quali si sofferma la narrazione

Il letto di don Quijote che solo conteneva 4 tavole di legno non livellate fra di loro (a dislivello) sormontate
su due sostegni anche questi disuguali e un materasso che per quanto era sottile sembrava una coperta, i
ciottoli (della lana erano così duri da sembrare dei ciottoli) al tempo che non avrebbero mostrato di essere
fatti di lana se non ci fossero stati delle fenditure/dei tagli nel materasso che mi avrebbero svelato la
natura, al tatto per la loro durezza sembravano essere di pietra (pietre per le catapulte) e due lenzuola fatte
di cuoio di scudo e una coperta i cui fili, se si fossero dovuti contarli, non se ne sarebbe perso neanche uno
nel conto.

Il materasso da colciòn diventa colcia (degradazione)

Le lenzuola erano dure come se fossero state di cuoio e una coperta che era ormai ridotta a qualcosa di così
sottile che si contavano i fili, il letto fatto di quattro tavole sormontate di due sostegni anche questi non in
equilibrio, quindi un letto non letto praticamente.

La muy mala cama di don quijote, questo stato di consunsione e di precareità è veicolato già a livello
retorico secondo la tecnica che usa il testo per portare avanti questa descrizione. “Non molto assestati”
non dice mai le cose in termini positivi ma usa delle formule attenuative, gestisce la descrizione per ritorno,
una strategia discorsiva ispirata alla litote, una figura retorica che va per sottrazione.

Già da questa descrizione capiamo che il letto è contrassegnato da un meno, è un letto non letto.

“non un cuor di leone”: è un coniglio, formula attenuativa LITOTE diversa, ma molto simile dalla
PRETERIZIONE che viene dal latino “senza”, fingere di non dire quando si sta dicendo. “Tralascio i dettagli
ma ti devo dire che e dici tutto nei dettagli” quindi affermi di non dire ma in realtà dici.

E’ la strategia che usa il testo per descrivere questo letto.

“maldita cama” “muy mala cama” sottolinea continuamente anche a livello dell’allitterazione sottolinea il
carattere negativo del letto.

Don Quijote riceve esattamente il tipo di cure che normalmente riceveva l’eroe cavalleresco quando
vinceva una battaglia oppure veniva fuori da uno scontro che si era rivelato particolarmente duro, veniva
accolto, per il dovere di ospitalità (era buona norma ospitare il cavaliere e soccorrerlo quindi solitamente le
fanciulle spalmavano delle creme con poteri curativi sulle ferite e si lasciava fino a quando fosse guarito).

Don Quijote è ridotto in queste condizioni perché le ha prese di santa ragione, però il trattamento che
riceve è lo stesso, ovviamente ripreso in chiave parodica.

Fino a questo momento don Quijote è rimasto zitto e ha parlato solo Sancho.

“Don Quijote stava ascoltando con grande attenzione tutti questi discorsi e sedutosi sul letto così come
potè perché era dolorante, prendendo per mano la locandiera disse - Dovete ritenervi fortunata per aver
alloggiato nel vostro castello la mia persona e se io non mi muovo è perché non ci riesco, non è buona cosa
accomodarsi.

C’è un riferimento nel testo che ci fa capire che don Quijote riceve un grande piacere quando la figlia del
locandiere lo massaggia, insomma gli si attivano i sensi e prova piacere nonostante le ferite.Il testo ci ha già
anticipato quanto fosse avvenente la donzella e ora finalmente don Quijote prende la parola e si rivolge alla
madre della fanciulla e la ringrazia di averlo ospitato e conclude dicendo “e piacesse a dio che l’amore non
mi tenesse così arreso e così vincolato (asspggettato) alle proprie leggi e gli occhi di quella bella ingrata il
cui nome io pronuncio a denti stretti (e cioè Dulcinea)”

Cioè è vincolato per le leggi dell’amore a Dulcinea, secondo il prototipo dell’amor cortese il nome
dell’amata non può essere pronunciato, vige il principio della segretezza, non si può rendere pubblica
l’identità dell’amata perché se no mette a rischio la sua onorabilità. Quindi fa un riferimento ironico
all’amor cortese.

Se non fosse per il rispetto che devo alla mia bella ingrata “che gli occhi di questa bella donzella, sarebbero i
signori della mia libertà”

Don Quijote non solo la sta fissando da quando è entrato nella locanda, ma si dichiara addirittura, dichiara
la sua attrazione.

Già dall’episodio precedente quando va nell’altra venta, l’effetto del contrasto del registro linguistico porta
che il parlato magniloquente di don Quijote non viene inteso dagli abitanti della venta e questo provoca un
corto circuito che ha come effetto l’impossibilità di comunicare. Ovviamente da questo scontro di registri
linguistici, deriva la comicità del testo.

“Parlò così bene come se parlasse in greco (cioè non si capiva niente), e tuttavia compresero che tutti quei
discorsi erano finalizzati ad una cosa, cioè al corteggiamento. All’offerta di sé ai corteggiamenti e poiché
non erano abituati ad un linguaggio simile, osservavano e continuavano a guardarlo avendo l’impressione
che fosse un uomo di altri tempi rispetto a quelli comuni.”

Vedono don Quijote come un anacronismo vivente.

Il discorso di don Quijote è caratterizzato da tratti magniloquenti mentre loro rispondono con discorsi allo
stile della locanda “venteril” da opporre a quello di tipo cavalleresco.

Il mulattiere aveva fissato un appuntamento con Mari Tormes (la moza, la serva), cioè che quella sera
avrebbero giaciuto insieme.

Ma refocilarse era stato utilizzato per la scena dei cavalli, quindi ci rimanda ad un tipo di esperienza
amorosa, ad un tipo di concezione che vede l’amore solo come esperienza erotica di tipo sensuale, ferina,
bestiale. L’amore che fanno le serve e i mulattieri è uguale al tipo di amore che Rocinante voleva fare con le
cavalle. Il testo usa lo stesso termine.

“E lei aveva promesso che appena fossero stati in silenzio la venta e tutti fossero andati a dormire, sarebbe
andata a cercarlo nel caramanciòn dove aveva allestito il giaciglio e soddisfare i suoi piaceri quanto lui
avrebbe desiderato.”

Attenzione al nome, MARI TORMES allude a Maria rovesciata, quindi al rovesciamento della Vergine Maria,
quindi il contrario della purezza, della verginità ecc.

“E si racconta di questa buona serva (buena moza era un termine che si utilizzava per le prostitute) che non
ci fosse parola che una volta data lei non ottemperasse.” E lei si pregiava del fatto che mantenesse la parola
come se accondiscendere ai clienti fosse motivo di vanto che poi è tipico degli asturiani, quello di essere
fieri e orgogliosi.

Il testo mostra una concentrazione ossessiva su questi oggetti, soprattutto sul letto che a volte chiama
“cama” altre volte “leccho”. In effetti ancra a quell’altezza leccho e cama si utilizzavano indistintamente,
non che derivassero da registri linguistici differenti, quale quello di don Quijote, ma leccho non era un
termine più arcaico. Cama vuol dire “gamba” quindi sarebbe stato usato per definire il letto per metonimia.
Cama o lecho indicano la stessa cosa. Ciò che ci interessa è come si presentano questi letti e il fatto che
tutto gira intorno alla presenza di tre letti nel camaranciòn.

In questo spazio i letti occupano ognuno una posizione particolare, quasi triangolare.

Il primo è quello di Don Quisciotte, poi Sancho e poi quello dell’arriero sul fondo, quasi ad occupare tutto lo
spazio del camaranciòn.

Il testo aggiunge un’ulteriore valorazione del letto di don Quijote, con una climax: “il duro, stretto, apocado
è intraducibile in italiano, nessuna traduzione soddisfa questo termine vuol dire qualcosa che è diventato
poco non solo “rimpicciolito” perché ridotto ma apocado non si riferisce solo alle dimensioni.
LENITO/MISERO/MISEREVOLE/PUSILLANIME

Fementido è la versione arcaica con la f iniziale: vuol dire menzoniero/ingannevole nel senso che mente
sulla sua statura, è un letto falso.

“estrellado establo” perché questo forse aveva delle rotture del tetto dal quale si vedeva il cielo. Anche in
questo caso è un rovesciamento parodico di un altro topos letterario o comunque di una moda del tempo:
si riferisce ai palazzi nobiliari che nel Rinascimento era fatto uso di dipingere sulle porte delle case, paesaggi
stellari o il sistema solare con tutti i pianeti, la porta celeste. E’ il rovesciamento di quei topos. Questa non è
una casa nobiliare con le volte affrescate, ma è un tetto con delle rifiniture che lascia intravedere
direttamente le stelle.

“E subito dopo accanto al suo fece il proprio Sancho che sono conteneva una stuoia di paglia e una coperta,
che mostrava piuttosto di essere di una lana grezza, dura, prima che di lana. Succedeva a questi due quello
dell’arriero fabbricato, come si è detto, con le stuoie e tutti gli accessori di due dei suoi migliori muli
sebbene fossero 12 in totale, brillanti, grassi e famosi, perché lui era uno dei ricchi mulattieri di Alepanto,
stando a quello che dice l’autore di questa storia che fa particolare menzione di questo mulattiero perché lo
conosceva molto bene e persino qualcuno dicesse che fosse parente suo.”

L’autore mostra di conoscere questo arriero di Arepalo, forse perché entrambi erano moriscos.

“e’ l’insistenza di De Berenjeri che non vuole saltare questi passaggi ecc.”

“Dopo aver visitato il mulattiere la sua mandria e avergli dato il secondo pasto, si stese sulle sue stuoie in
attesa che arrivasse puntualmente Mari Tormes. Sancho stava unto e “perché anche lui aveva messo
l’unguento” perché nel dialogo che abbiamo saltato, solo nel vedere la caduta di don Quisciotte si sente
anche lui tutto frastornato e fatto male quindi chiede anche per sé il balsamo unguento.

Con il dolore delle sue costole, don Quijote aveva gli occhi aperti come una lepre. In questo camaranciòn
don quijote non riesce a dormire. La lepre per la simbologia dell’epoca significava la lussuria.

Infatti don quijote è attratto dalla donzella, non riesce a dormire e sta vigile, seduto su questo letto, non
disteso.

Notte: sospensione dei sensi. Atmosfera rarefatta, quasi incantata.

“C’era solo la voce di una lampada che proveniva dal patio. Questa meravigliosa (incantata/sovrannaturale)
quiete e le riflessioni

ATTIVAZIONE dell’ipertrofia immaginativa, sta dando conto del fatto che è l’immaginazione ad essere
impegnata nell’alterare la realtà, infatti sostituisce i prodotti della sua immaginazione agli oggetti reali.

Il testo reitera il riferimento all’immaginazione: “Immaginò di essere arrivato a un famoso castello, perché
castelli come abbiamo già detto erano tutte le locande dove si alloggiava e che la figlia del locandiere era la
figlia del signore del castello, la quale, vinta dalla sua gentilezza, aveva promesso che avrebbe passato la
notte con lui, di nascosto dai suoi genitori, e che sarebbe venuta a giacere con lui a lungo”.

IACER VERSUS REFOCILLARSE: Iacer ovviamente è un eufemismo rispetto a fare l’amore copulare e tutte le
varianti colloquiali, il termine giacere è sinonimo di questa attività in termini eufemistici e ricopre
l’accezione di copulare.

Quindi don Quijote immagina lo stesso atto che Mari Tormes e il mulattiere fanno, in quel caso però in
riferimento a due personaggi della sfera sociale bassa, vengono trattati alla stregua di animali, che vogliono
solo fornicare, mentre nel caso di personaggi della tradizione alta dice “giacere” e non “rifocillarsi” quindi
rinvia ad una condizione più elevata, usa un filtro retorico per indicare lo stesso atto ma in un linguaggio più
alto. I due verbi finiscono per riferirsi a due concezioni differenti dell’amore, ad una opposizione di visioni e
di concezioni amorose.

“E avendo nella testa tutta questa fantasia che lui si era fabbricato ritenendola ferma e veritiera, cominciò
ad agitarsi”. Don Quijote seduto sul letto si agita, incalzato dalla pulsione erotica, è vittima del desiderio.

Arriviamo al centro della questione: inizia ad agitarsi e comincia a pensare alla pericolosa circostanza nella
quale la sua onestà aveva sottoposto e propose di mantenere fede alla sua Dulcinea se anche la stessa
Ginevra in persona gli si fosse presentata davanti.

Il desiderio di Don Quijote viene sollecitato e si accresce nel corso della notte per la sua ipertrofia
immaginativa, dopo che la figlia del locandiere gli aveva massaggiato le ferite.

A partire da questa sua fantasia, viene sopraffatto dal terrore di venir meno al suo dovere di cavaliere e
impone a se stesso di reprimere questo desiderio, in virtù dell’adesione e della fedeltà al codice cortese a
cui si sente vincolato e quindi non avrebbe mai potuto tradire Dulcinea, se anche gli si fosse presentata
davanti la regina Ginevra in carne ed ossa.

Ginevra era la moglie di Artù ovviamente, romanzo Francese che nasce in francia e si divide in due grandi
aree, il ciclo carolingio che si radica poco nell’epica francese ed italiana, ed il ciclo bretone che ha come
protagonista la materia di Bretagna, re Artù, i cavalieri della tavola rotonda ecc. Il fedelissimo Lancillotto si
innamora di Ginevra.

20.11.18
Il testo sembra manifestare una concentrazione ossessiva o comunque molto insistente sull’oggetto
costituito dal letto e si attarda in descrizioni dettagliate sulla composizione dei letti sottolineando la
differenza tra il letto di don Quijote dell’arriero e di Sancho. Tutto questo in cooperazione con lo stato
particolare di don Quijote che arriva ferito alla venta, però al contatto con la giovane donzella figlia della
ventera che le fa un massaggio per stendere il balsamo e stimola la sua libido, quando arriva la notte ci
troviamo con un don Quijote erotizzato che sta seduto sul letto.
“Gli occhi aperti come la lepre” in uno stato di alterazione caratterizzato dal l’attivazione della libido.

Lettura del passo di Pag. 242

Si attiva la sua pazzia, la sua immaginazione.

“L’oscurità, la notte, l’assenza di sonno” che riattivano la sua immaginazione e l’ipertrofia immaginativa.

Iaser come termine chiave per dare conto di una tipologia di esperienza amorosa che si contrapponeva a
quella del termine refocillarse. Nell’orizzonte culturale e referenziale di don Quijote che corrisponde ai libri
di cavalleria, l’incontro tra l’amante e L’amata si realizza nel termine eufemistico di Iaser. Sul letto si stanno
fronteggiando due condizioni amorose contrapposte e antitetiche.
DESCRIZIONE DEL LETTO: Richiama Ginevra come referente diretto di don Quijote per questo tipo di
esperienza come refente quindi richiama alla materia arturiana.

Non è casuale che il narratore indugia tantissimo sui dettagli che strutturano questo letto, che è un non
letto perché si presenta consunto, instabile, precario, quasi in disuso. Non c’è elemento che integri il don
Quijote che non sia un proposito ironico-parodico o satirico.

Lettura di un passo del trattato 3 del Lazarillo de Tormes, quando Lazaro è in casa dello scudiero e lo
scudiero lo convince che la cena non era una cosa necessaria, che si poteva saltare, ad un certo punto gli
dice “vieni prepariamo il letto”. Più allestiscono il letto più dalla descrizione viene fuori una mostruosità che
non è un letto, fino al punto di zoomorfizzarlo fino al punto che scrive “si vedevano le aste del letto come se
fossero state costole di un maiale”, un letto che Lazaro era stato obbligato a fare con lo scudiero, l’uno
posto ad un capo, l’altro all’altro.

“Mi misi io a una estremità e lui all’altra è così realizzammo il nero letto sul quale non c’era molto da fare
perché aveva su delle panche delle cannucce fatte di canna (tipo una stuoia), sulle quali erano distesi i
vestiti. Per il fatto che non fossero molto abituati a essere lavati.” I vestiti dello scudiero facevano da
materasso.

Strategie retoriche che richiamano la descrizione del letto di don Quijote

“Non sembrava un materasso sebbene servisse da materasso, con molta meno lana di quella che serviva.
Stavando attento a farlo ammorbidire, ma era impossibile perché era così duro che non si poteva
ammorbidure. Lo spirito indiavolato della stuoia che era distesa sul materasso.

Era MALDITA come la cama di don Quijote, usa lo stesso aggettivo

“Una volta posto sul carniccio tute le canne si distinguevano e rivelavano la propria spina dorsale come se
fosse di un magrissimo porco e su quell’affamato colciòn una coperta dello stesso genere (conferisce un
tratto umano al letto come se fosse affamato), il cui colore io non riuscivo a riconoscere” Esattamente come
il colore delle lenzuola di don Quijote.

Non è identica la descrizione di Cervantes, ma molti elementi che contrassegnano il letto del Lazarillo,
suggeriscono a Cervantes la descrizione del letto di don Quijote.

Non è un caso questa scelta, perché il letto di Quijote si trova in una venta, il luogo tipico del picaresco
quindi prende il materiale dalla tradizione bassa della picaresca giustificato proprio dal contesto che è lo
stesso. Prende il materiale per la descrizione di questo 16esimo capitolo dalla picaresca giustificato dal fatto
che il contesto è lo stesso.

Non esiste una grandissima descrizione dell’oggetto letto.

C’è un rapporto di interdipendenza tra le descrizioni di questi due letti che fanno riferimento allo stesso
orizzonte ideologico/letterario, però don Quijote rappresenta un altro orizzonte ideologico e letterario, cioè
quello epico cavalleresco.

Quel tipo di letto così consunto e precario assomiglia ai letti dei contesti picareschi, però visto che Don
Quijote sta in una locanda ma è legato al mondo cavalleresco e la relazione con quel mondo è
esplicitamente messa a testo perché lui assimila la sua vicenda in quel momento con l’antecedente
arturiano di Ginevra e Lancillotto.

Il genere cavalleresco nasce con Cretien de Trois in Francia, un’autore che fa un’operazione
interessantissima. In effetti la concezione d’amore che imperava all’epoca, l’amore cortese, era quella
trobadorica caratterizzato da un rapporto di vassallaggio dall’amore dell’amante per l’amata e ripropone
esattamente il sistema sociale feudale.
Questo schema di tipo sociale viene proposto nello schema erotico sentimentale. La concezione d’amore
dei trovatori richiama il rapporto vassallatico di gerarchia tra l’amante e l’amata che è di condizione sociale
superiore al suo ed è un rapporto di tipo fedifrago perché la dama/madonna/donna è sposata con il signore
che è il vassallo. Essendo sposata è un rapporto fedifrago che deve essere tenuto segreto ovviamente. Da
qui nasce la concezione dell’amore cortese e segreto che viene codificato per tutta la letteratura.

All’inizio ha uno statuto di tipo feudale, basato su uno schema triangolare, che obbliga alla segretezza
perché se si venisse a sapere di questo sentimento, non solo da donna perderebbe la sua dignità, ma
l’amante rischierebbe la vita. Da qui la tradizione dei Lausengiers, gli spioni che minacciano di dire la verità.

Il trovatore che è un poeta deve amare segretamente, in maniera criptica la sua dama, e utilizza così un
linguaggio criptico per non far riconoscere la donna. Soprattutto è un tipo di amore che non si può
realizzare, non prevede realzizzazione. Si ama per amare perché questo amore stimola nell’amante una
serie di virtù che cooperano per migliorarlo moralmente, mentre la finalità non è la realizzazione del
desiderio erotico almeno fino ad un certo punto.

Quando poi nel 1000/1100 nel corso del 12* secolo si pone un problema perché tutta questa materia
letteraria doveva uscire dalle corti feudali, quindi si manifesta il problema di combinarla con la dottrina
Cristiano cattolica che sicuramente non poteva accettare un tipo di visione d’amore fedifrago basata su un
rapporto triangolare.

Colui che rende spendibile sul piano ideologico e dottrinale l’amore cortese sarà proprio Cretien de trois
che veicola l’amor cortese e quindi la tradizione letteraria all’istituto civile del matrimonio.

Nel codice trovadorico è inesistente il matrimonio perché ovviamente la donna è già sposata. Quello che
doveva fare la dama era non ricambiare ma magari concedere un’occhiata, un oggetto, per rinnovare il
desiderio dell’amante, ma certo non può concedersi.

Nel caso di Cretien de trois, questi trasferisce questo codice della materia cavalleresca ed elimina la
triangolarità, il triangolo si riduce ad una coppia di amanti e vincola l’amor cortese allo scioglimento
dell’aspetto fedifrago perché lo veicola al matrimonio come finalità. Questo legittima la relazione
sentimentale.

In Amadis di Gaula, l’amore è legittimato dalla richiesta di matrimonio concordata tra i due amanti per cui
questa meta del matrimonio giustifica il rapporto. Oriana si concede sotto promessa di matrimonio. Il
desiderio erotico è soddisfatto perché ricondotto all’istituto civile e religioso del matrimonio che legittima
per intero la relazione.

Viene meno la triangolarità perché non c’è un rivale, viene meno l’amore fedifrago, resta il problema
dell’attrazione e del desiderio erotico che in questo caso può essere soddisfatto. Molto spesso se all’inizio si
percepisce una disparità sociale perché il cavaliere quasi mai è alla pari della donna, alla fine si neutralizza
perché si scopre sempre che lui era figlio di re quindi ritorniamo ad una parità sociale e quindi
legittimizzazione dell’unione.

Tutti quegli elementi che nel codice trobadorico veicolavano gli elementi ad una situazione di frustrazione e
impossibile realizzazione, adesso grazie agli accorgimenti di Cretien de troyes la materia cavalleresca trova
un altro tipo di svolgimento e di sviluppo e di conclusione. Tutto è finalizzato all’unione matrimoniale tra i
due amanti. Questa combinazione rende meno scabroso su piano etico e sociale.

Cretien era un grande autore di romanzi in versi, ne scrive 5 romanzi che codificano la materia arturiana
che poi si sviluppa, si diffonde e si mantiene in tutta Europa.
Per arrivare a quanto ci interessa trattare del romanzo de “il cavaliere della carretta” ispirato alla leggenda
della materia di Bretagna. Ovviamente non lo inventa lui ma riceve questo materiale leggendario e lo
trasferisce nei suoi romanzi.

Artù una volta diventato re dopo aver estratto la spada dalla roccia, e quindi riconosciuto come il re
designato di Camelot si converte in un re importantissimo, fonda i cavalieri della tavola rotonda tra i quali
c’è Lancillotto, suo fedele cavaliere, che però si innamora di Ginevra, dopo che Artù si è liberato dei malefici
di Morgana e finalmente sposare Ginevra. Torniamo un po’ alla triangolarità.

In questo romanzo il protagonista è Lancillotto anche se la sua identità non era ancora conosciuta, lui è
noto come il cavaliere della carretta, si scoprirà più tardi che era Lancillotto.

Mentre si trovano alla corte di Artù, un nemico storico del re si presenta e lo minaccia durante un
banchetto dove sono presenti tutti i cavalieri. Si presenta e lancia una sfida, dichiarando che tutto quello
che appartiene ad Artù ora non gli appartiene, neanche Ginevra. È tutto mio e dovrai sfidarmi se lo rivuoi
indietro, aspetto che tu o uno dei cavalieri venga a riscattare la figura di Ginevra. Prende e se ne va.

È un’opera un po’ meccanicistica nella definizione dell’evoluzione del romanzo non ci sono elementi che
spiegano i passaggi tra le varie cose. Procede per blocchi meccanici.

Uno dei cavalieri storici di Artù, Keu, abbandona la corte rifiutando di essere il suo fedele scudiero e Artù,
che sorpreso dalla reazione del cavaliere, che fa seguito all’irruzione del nemico, prova a trattenerlo e
siccome sa che Ginevra ha un ascendente superiore al suo sui cavalieri le chiede di aiutarlo e convincere
Keu a non abbandonare la corte, ma neanche lei riesce a convincerlo.

Keu le dice di andare nel bosco, sarebbe stato lui a sfidare il cavaliere che voleva sottrarre tutto ad Artù.
Così se ne vanno e all’inseguimento di Keu, si mette Dalvan, un altro cavaliere di Artù e decide di inseguirli
perché secondo lui Artù non doveva dargli quella fiducia perché sospetta che Keu voglia trattenere Ginevra
con sé. Dalvan si mette appresso a Ginevra e si imbatte nel cavaliere della carretta che viene trasportato
sulla carretta da un nano che non vuole spiegare perché questo cavaliere sta sulla carretta. Per un cavaliere
salire sulla carretta rappresentava perdere la dignità di cavaliere perché la carretta rappresentava la gogna
pubblica sulla quale venivano trasportati ladri, assassini, per cui essere trasportati su quella carretta voleva
dire perdere l’onore per un cavaliere.

Lettura del passo pag.

Lancillotto è reduce da un combattimento, dove era stato ferito, gli avevano sottratto le armi e aveva perso
il cavallo, trovatosi a piedi, innamorato di Ginevra, non aveva avuto altra scelta pur sapendo quello che
avrebbe comportato, per rincorrerla decide comunque di salire sulla carretta nonostante questo gli sarebbe
costato l’onore. Dalvan e Lancillotto cavaliere della carretta, si incontrano e fanno il percorso insieme.

Una damigella li accoglie nella sua torre, come tipico dal codice cortese.

Galvano e il cavaliere della carretta vengono accolti dalla fanciulla nella torre.

Vengono preparati due letti alti e lunghi, accanto ai quali ce n’era un terzo ancora più bello e ricco. Quel
giaciglio offriva tutti i piaceri che si potrebbero immaginare. Quel letto era volto al soddisfacimento dei
piaceri erotici. Giunto il tempo di coricarsi la damigella accompagna gli ospiti. Mostra loro i due letti più
spaziosi.

Giacere/IACER è il termine che ricorre al codice epico cavalleresco. Il cavaliere sulla carretta chiede il
motivo per cui a lui è vietato. La damigella cerca di provocare i due, fa parte del genere letterario, offre le
sue beltà al cavaliere, fa parte dell’etica cavalleresca del genere letterario.
È un letto rovesciato rispetto a quello di don Quijote. Nella venta abbiamo la compresenza dell’epica
cavalleresca-don Quijote e la picaresca con i letti della picaresca, ma anche i letti della tradizione alta della
tradizione epica, perché questo letto è soprattutto destinato ai piaceri, cioè quello che immagina don
Quijote che immagina proprio la donzella che gli va incontro di rango altolocato con i letti destinati al
soddisfacimento del piacere erotico. Siamo di fronte ad un ritratto così come era un ritratto la descrizione
di don Quijote.

Nella logica del sovvertimento parodico quel letto alto lungo morbido, spazioso e ricamato è destinato ai
piaceri. Nella sua locura don Quijote non vede il letto com’è ma si percepisce in un contesto come quello
dell’opera di Cretien.

I letti sarebbero destinati al soddisfacimento del piacere erotico che in qualche modo gli fanno pensare a
quella ragazza.

Il ritratto è quello di un letto completamente rovesciato.


Il cavaliere della carretta insiste e sfida la donzella, arriva il momento di minaccia, spegne il fuoco e torna a
dormire lì.
Galvano e Lancillotto riprendono il cammino alla ricerca di Ginevra.

Pag.325
Incontrano una damigella che li ospita solo a condizione che giacciano con lei.
Si dovevano offrire per forza.
Il cavaliere non poteva rifiutare.

Descrizione realistica che rinvia ad una realtà sontuosa, tutto questo dovrebbe essere un elemento di
preparazione all’accoppiamento tra cavaliere e damigella, preludio al rapporto.
Il vino dovrebbe preludere l’accoppiamento.

Fine pag.327

Non avendo ricevuto rassicurazioni sul fatto che lui giacerà con lei la damigella organizza una messa in
scena, finge che dei suoi servi facciano irruzione nella sua camera e vogliano violentarla in modo tale che
Lancillotto accorra per lei e scelga di giacere con lei.
La damigella sperava che Lancillotto si ingelosisse e la facesse propria, invece il testo è molto sintetico: non
era mosso né da desiderio né da gelosia.
Davanti alla soglia della porta il cavaliere della carretta non sa cosa fare: se interviene viene meno agli
obblighi che ha maturato nei confronti di Ginevra e si dibatte fra queste due prospettive però prende la
decisione e accetta di giacere con lei perché non può venire meno alle leggi dell’ospitalità.
Pag. 329
Alla fine Lancillotto decide di restare perché deve attenersi al codice cortese.
Il narratore omodiegetico sottolinea l’assenza del desiderio del cavaliere della carretta.
Le azioni che intraprende sono in direzione del rispetto del codice etico.
Descrizione del letto.
Anche qui c’è un’insistenza descrittiva del letto e di sottolineare l’adeguatezza del giaciglio al
soddisfacimento del piacere.
Lancillotto è vittima della parola data, sta vivendo una situazione molto difficile.
Dunque se accede al desiderio sarà solo perché si sente forzato?
Dà conto alle reazioni psico-fisiche del personaggio l’opera appare molto attuale.
Il dramma del povero Lancillotto pur di non accoppiarsi.
Non pronuncia neanche una parola.
Lancillotto non ha che un cuore è quello non e più suo, ama Ginevra e non può che non amare lei.
L’anima appartiene a Ginevra.
Aderisce al principio su cui si innerva l’amor cortese, l’anima dell’amante non è più su di sé ma risiede
presso l’amata attraverso il pneuma, attraverso il quale l’anima dell’amante esce dai suoi occhi ed entra nel
pneuma dell’amata.
Amore governa il cuore solo di coloro che apprezza: al cor gentil rempaia sempre amore.
Solo il cor gentile può provare questo sentimento e apportare a sé il codice dell’amore cortese.

Lancillotto ormai riconosciuto come Lancillotto libererà Ginevra dal suo rapitore e finalmente giacciono
insieme. Prima di quel momento Lancillotto è il prototipo dell’amante fedele e cortese.

Don Quijote è tutto immerso nel sogno di incontrare questa ragazza ma lei deve rifocillarsi con l’arriero
Mari Tormes cammina a tentoni per non imbrogliarsi.

La realtà è responsabile della follia di don Quijote, mentre è tutto impegnato a pensare alla figlia del
castellano ecc. Mari Tormes entra per l’appuntamento che aveva con il mulattiere per refocillarse con lui.
“Essendo immerso in queste sciocchezze arrivò il tempo e l’ora che fu sempre troppo corta per lui,
dell’arrivo dell’asturiana la quale in camicia da notte e scalza, con i capelli raccolti in una rete, con silenziosi
e attentati passi” andava a tentoni per non sbagliare “entrò nell’alloggiamento dove alloggiavano in tre alla
ricerca del mulattiere, ma appena sente i passi di Mari Tormes alla porta, quando don Quijote la sentì e si
mette seduto sul letto, questo gli fa credere che ha immaginato bene e allunga le braccia per accogliere la
donzella, Mari Tormes inciampò nelle sue braccia (non è che si diresse tra le sue braccia, ma si imbattè tra
le sue braccia, perché essendo seduto sul letto centrale la intercetta nel suo percorso). Don Quijote afferra
la donna e la trascina a sé facendo sedere mari tormes in braccio a lui.”
Don quijote è in uno stato di eccitazione, di libido all’eccesso. IL fatto che una volta sta seduta accanto a lui
inizia ad accarezzare la camicia che era di tessuto molto grezzo e questo aumenta la libido.
Terzo ritratto che intercorre nell’episodio: ritratto di Mari Tormes, ritratto del letto e un terzo ritratto che è
da una parte complementare al primo ritratto ma speculare al primo ritratto perché descrive una Mari
Tormes che non è lei perché costruito su effetti retorici.

“Le cascò la camicia e sebbene fosse di panno grezzo a lui sembrava di seta, portava ai polsi un braccialetto
di vetro, ma a lui diedero l’impressione che si trattassero di preziose perle orientali, i capelli che
sembravano le crine del cavallo tanto erano ispidi e increspati, lui invece le vide come trecce, fili di lucente
oro d’Arabia il cui splendore sarebbe stato in grado di oscurare lo stesso sole e l’alito che senza dubbio
profumava di insalata persa e marcia, a lui sembrò che buttasse fuori dalla bocca un odore soave e
aromatico, insomma finalmente (alla fine) lui la dipinse nella sua immaginazione nello stesso modo di
quanto aveva letto nei suoi libri rispetto all’altra principessa che venne a fare visita al ferito cavaliere vinta
dai suoi amori con tutti los adornos che in quella narrazione vengono richiamati” si riferisce all’episodio
della donzella che fa visita ai cavalieri feriti.
Strategia di allestimento della descrizione: due serie di termini, enumerazione, da una parte di termini della
bassa e povera civiltà e dall’altra quelli ricchi, gli oggetti poveri vengono convertiti nei loro referenti
opposti. Nei fatti c’è Mari Tormes ma quella che viene definita è il rovescio di mari tormes.
In più strategia espositiva: enumerazione + forme polisindetiche “e..e..e…” sottolinea il carattere
demiurgico della follia di don Quijote che è lui a creare l’immagine che sta descrivendo.

IL ritratto in termini ironico-parodici si pone in rapporto di complementarietà e specularità con la vera Mari
Tormes, in più si nota la capacità demiurgica della follia di don Quijote.
“Era tanta la cecità del povero hidalgo che né il tatto, né l’alito, né il resto riuscirino a disingannarlo, le quali
avrebbero fatto vomitare chiunque non fosse stato mulattiero. Piuttosto gli sembrava che avesse fra le sue
braccia la stessa idea della bellezza. Tenendola così afferrata, cominciò a dirle:-Io voglio comportarmi
diversamente, ma la fortuna che non si stanca di perseguitare i buoni, mi ha messo in questo letto così
malandato e malconcio che pur volendo io non posso rendervi omagigo come meritereste.”
Don Quijote pensa che lei lo sia andato a cercare ma non “e c’è di più, si aggiunge come ostacolo la
promessa che ho fatto alla mia Dulcinea del Toposo che è la donan a cui devo rendere fedeltà, ma se non ci
fosse questo di mezzo, cioè il fatto che io sono costretto a rinunciare al mio desiderio e cioè che è
malconcio non ce la fa e per il voto di fedeltà, non sarei così scoccio da lasciare andare in bianco una tale
occasione che la vostra bontà mi ha riservato”
Mari Tormes è nel panico perché don Quijote continua a trattenerla pronunciandole parole incomprensibili,
mentre lei vuole andare dal mulattiere, che nel frattempo è stato svegliato dal rumore di questo discrso fra
i due e vedendo che Don Quijote trattiene la propria preda nel letto, arriva e lo picchia.
18 LEZIONE

La descrizione del letto all’interno dell’episodio cervantino risponde all’impulso che riceve dal lazarillo de
tormes per cui nell’opera è presente un letto pressoché identico a quello di Lazaro e descritto secondo una
tecnica analoga.

In effetti il rapporto più vincolante lo ritroviamo con un altro testo che ha al centro una serie di letti,
protagonisti di descrizioni dettagliate, sebbene corrispettivo capovolto di quello cervantino, perché
abbondantissimi e opulenti.

Il tipo di condizione psicologica che il cavaliere don Quijote è proprio quella di Lancillotto nei confronti di
Ginevra, vale a dire lo sbandieramento di una fedeltà amorosa all’amata che gli impedisce di tradire la
donna. Se nel caso di Lancillotto c’è un’assenza completa del desiderio, don Quijote problematizza
attraverso la sua condotta il codice d’amor cortese.

In effetti da una parte materializza l’obbligo di realtà che lo lega a Dulcinea, però allo stesso tempo è
incalzato dalla libido, cioè dalla pulsione, dal desiderio nei confronti della figlia della ventera fino a quando
Mari Tormes gli si fa incontro.

In effetti nel testo abbiamo tanti riferimenti all’erotizzazione di don Quijote.

Quindi si fa allo stesso tempo portavoce degli impulsi fisici della società più bassa, però dall’altro lato
pretende di essere il portavoce di un codice di ideali assolutamente alti che reprime il desiderio erotico per
adempiere ai suoi obblighi di cavaliere.

Era fisicamente impossibilitato a soddisfare il proprio desiderio erotico e quello della fanciulla al quale si
aggiunge il codice etico e la fedeltà verso Dulcinea.

Mari Tormes era angosciatissima, perché don Quijote la tratteneva per il polso “e senza capire senza dare
conto ai discorsi che lui faceva, cercava di liberarsi senza parlare. Il buon mulattiere che era tenuto sveglio
dai suoi cattivi desideri, dal punto che (koima: prostituta)

Siamo di fronte al solito problema dell’incomunicabilità tra i due registri comunicativi, quello di don Quijote
e quello della donna.

L’arriero si mette a spiare la scena erotica che pensa che si sta consumando, viene incalzato dalla gelosia
perché crede che la sua preda sta per essere goduta da un rivale, si avvicina sempre di più, si mette in
agguato a spiare e ascolta i discorsi di don Quijote, non capisce niente, ma questo scatena in lui una
reazione aggressiva: l’arriero non capendo niente dei discorsi, solo quando vede la reazione di Mari Tormes
che tenta di sottrarsi, gli dà un pugno e gli spacca la faccia, don Quijote si ritrova con il volto bagnato di
sangue. Non contento di questo sale sulle sue costole e comincia a passeggiare sul suo corpo da capo a
capo nel tentativo di fracassarlo.” Questa passeggiata si sta consumando sul letto che piuttosto che essere
luogo preludio di piacere, ma in luogo di sofferenze.

Il protagonista dell’episodio è la cama che ritorna tutte le volte in momenti chiave che assolve funzioni
importanti per la narrativa. “Il letto che era un po’ debole e dalle fondamenta non troppo ferme, non
potendo sopportare l’aggiunta del peso del mulattiere, precipitò al suolo. Al cui grande rumore si svegliò il
locandiere e immediatamente immaginò che dovevano essere scaramucce di Mari Tormes, perché
avendola chiamata più volte non aveva risposto la ragazza. Accese una fiaccola e andò nel caramanciòn,
luogo dal quale proveniva il frastuono.”

Il locandiere entra “dove sei puta?”

LETTURE CRITICHE DELL’EPISODIO: era sfuggito il doppio rapporto tra la materia picaresca e quella
cavalleresca, ma si erano soffermati sulla fine dell’episodio, perché questa sequenza finale ha la dinamica
interna della farsa teatrale, da questo momento in poi si ha l’accellerazione di ritmo della vicenda, sta per
iniziare la rissa, dovuta al fatto che i soggetti si spostano da un letto all’altro.

Perché da lì si scatena la rissa. Triangolarità della posizione dei letti, infatti l’articolarsi delle vicende deriva
dal fatto che si spostino di letto in letto. Mari tormes stava andando nel letto del mulattiere ma sbaglia letto
e finisce in quello di don Quijote, poi si sposa in quello di Sancho, Sancho che era l’unico che continuava a
dormire, si sveglia di sobbalzo e ne dà di santa ragione a Mari Tormes, che perde la sua timidezza e anche
lei picchia Sancho, Sancho scappa dal suo letto e passa a quello di don Quijote. Tutto questi spostamenti
fanno scivolare la vicenda alla farsa teatrale.

Il momento apicale della scena corrisponde alla funzione simbolica che svolge il letto con la sua caduta, che
ha di per sé un valore simbolico allegorico ovunque compaia all’interno del testo.

Siamo frutto di una caduta per cui nella nostra cultura la caduta ricopre sempre la funzione di castigo
(caduta di Lucifero). Il letto cade dal peso di don Quijote e l’arriero che sono i portavoce di due visioni
dell’amore completamente opposte. Tutto questo per noi al di là dell’effetto comico che sortisce il letto in
superficie, il contenuto tendenzioso della scena comica si rivela nell’avversione che quella caduta svela nei
confronti dell’amor cortese: la pretesa di don Quijote di far valere nella venta la propria visione dell’amore,
cioè di qualcosa che sospende il desiderio fino a negarlo e vuole imporre la sua visione delle cose su quella
dell’arriero che invece vuole realizzare il desiderio amoroso come soddisfacimento del desiderio e quindi
mero accoppiamento sessuale.

Don Quijote è smentito dal suo stesso desiderio sessuale. Pretende di passare come novello Lancillotto ma
lui stesso vive la pulsione d’amore, in secondo luogo tutta quella serietà del modello cortese di Chretien de
Tois, perde la propria forza perché l’obbligo di fedeltà che don Quijote sbandiera, in realtà lo fa nei
confronti di un’amata che non esiste, quindi quest’obbligo cade di per sé. Nei fatti non è tenuto a rispettare
quel codice perché di fatto Dulcinea non esiste. E’ impossibile che quella realtà si imponga nel contesto
della locanda, dove vivono prostitute mulattieri e gente di basso conto era impossibile imporre quel tipo di
mentalità. Tutta la scena finale del crollo del letto e delle bastonate che riceve, sono il castigo per il tipo di
messaggio di cui si fa portavoce in uno spazio che non glielo consente.

La presentazione della scena è assolutamente comica in superficie, ma seria nel senso di situazione
dottrinale.

Si spegne la fiaccola del mulattiere per cui se ne danno ancora di più di santa ragione.

Il poliziotto che fa irruzione, nel tastare don Quijote che è il primo corpo con il quale ha a che fare, sente
che è tramortito e denuncia un assassinio L’intervento della giustizia cioè dell’ordine che pone rimedio al
caos fa in modo che ci sia un ritorno all’ordine, quindi per non incappare nelle pene della giustizia tutti si
ritirano e soltanto sancho e don Quijote restano nella stanza.

Il fatto che il quadrigliero torna ad accendere la lampada, torna la luce la giustizia, lì dove l’irrazionale e il
caos imperniava.

Così si conclude questo episodio della mancata affermazione del proprio codice d’amore.
Don Quijote viene smentito ed esautorato perché questo tipo di mentalità di cui si fa portavoce, perché si
tratta comunque di un sistema di valori che ormai è assolutamente superato. La realtà è un’altra. Il
desiderio può essere anche di tipo ferino.

SECONDA PARTE DEL DON QUIJOTE:

Don Quijote apprende di essere oggetto della continuazione apocrifa del testo. La scoperta di essere
narrato da altri, si riverbera su tutta la seconda parte dell’opera e in effetti don Quijote diventa quasi il
soggetto che vede la realtà per come è e tuttavia tutte le persone che lo circondano costruiscono realtà
farse rispetto alle altre lui vive lo stesso sconcerto che gli altri vivevano nei suoi confronti.

Nella seconda parte si incaponisce un elemento di teatralità, infatti quando la fama della follia di don
Quijote si diffonde per ogni dove e quando arriva nei luoghi in cui la sua fama lo precede, fa in modo che i
suoi interlocutori costruiscano delle vere e proprie beffe ai suoi danni (delle vere e proprie messe in scena)
come quando a Zaragoza i duchi fanno finta che un paggio vestito da donna si innamori di don Quijote, lo
prendono in giro insomma.

Quindi abbiamo come risultato la teatralità delle burle che vengono presentate ai suoi danni a cui si
aggiunge la follia di coloro che inventano queste burle, ciò investe anche il rapporto tra don Quijote e
Sancho che si evolve. Si parla di Sanchizzazione di don Quijote e Quijotizazione di Sancho, sancho acquisisce
il linguaggio e molte delle idee di don Quijote e don Quijote acquisisce la visione delle cose di Sancho. E’
una progressiva assimilizzazione tra i due, raggiungono un livello di interdipendenza molto forte tra i due.

CAPITOLO X SECODA PARTE

Evento fondamentale: Dulcinea del Toposo non esiste, ha un origine naturale, cioè la contadinotta di cui
don Quijote si era innamorato da giovane, ma questo personaggio non si materializza mai nello spazio
narrativo successivo, mentre invece Dulcinea del Toposo è una funzione attiva nel racconto, ma non esiste
in carne ed ossa, salvo nell’episodio che stiamo per leggere.

Nella prima parte ad un certo punto don Quijote aveva detto a Sancho di consegnare una lettere a
Dulcinea, in cui le chiedeva l’autorizzazione a presentarsi al suo cospetto una volta superate una serie di
prove. Sancho ovviamente nell’imbarazzo di consegnare questa lettera, nella paura che possa essere
rimproverato perché non è riuscito nell’intento ricorre ad una bugia, mente spudoratamente (Sancho non
sapeva dove fosse Dulcinea). Alle domande di don Quijote, Sancho si inventa una risposta da parte di
Dulcinea.

Quando adesso all’altezza della seconda parte si ritrovano in un bosco e all’orizzonte si intravede un
villaggio, don Quijote è pronto a visitare Dulcinea e invia Sancho a presentarlo. Sancho ha il senso di colpa
della menzogna pregressa e non sa come uscirne, è imbarazzato.

Don Quijote pretende di incontrare Dulcinea

Sancho fa un monodialogo con sé stesso molto divertente perché non sa come fare.

Continua questo soliloquio di Sancho: si interroga su come uscire dalla difficoltà in cui lui stesso si è messo,
si dimena in questa condizione di incertezza, ma sta lì tutto il tempo che per lui poteva essere quello che
avrebbe fatto dal palazzo del Toposo.

Quando è passato un tempo congruo, mentre sta salendo in groppa al suo asino, vede arrivare 3
contadinotte in groppa a loro volta a un asino/asina non sa specificare il sesso, comunque erano degli asini.
Don Quijote vede tornare Sancho correndo e gli chiede che è successo. Fa riferimento ad una usanza
antica, quella delle pietre bianche o nere per definire le buone o cattive notizie.

Sarà meglio che dai dei segnali con quel tipo di segnali con cui era tipico per gli studenti chiudere i
documenti.

“Quindi ho ragione di credere che mi porti buone notizie” Alla menzogna pregressa Sancho aggiunge una
nuova menzogna, perché addita a don Quijote le tre contadine, facendogli credere che sia Dulcinea con due
sue ancelle. “Non mi vorrai rallegrare con false allegrie le mie reali tristezze” è esattamente quello che fa
Sancho.

“Che ci ricaverei ad ingannarvi?”

Ritratto che Sancho fa delle tre donzellas che gli vanno incontro. Sancho lo prende in giro usando gli stessi
espedienti di don Quijote, è una di quelle manifestazioni del fatto che Sancho abbia interiorizzato il sistema
di ipertrofizzazione di don Quijote, quindi ritrae la realtà con il linguaggio di don Quijote.

Fa tutto un ritratto che sembra da don Quijote non da Sancho. La differenza sostanziale è che mentre don
Quijote si può giustificare dalla sua follia, nel caso di Sancho è tutto un motivo pretestuoso, opportunistico
perché non vuole incappare nelle conseguenze della sua bugia, ricorre ad un’ulteriore menzogna.

Sancho storpia i termini perché ovviamente non sa usare quei termini.

“Ti prometto che ti darò il bottino che otterò dalla prima avventura che supererò, ti prometto che ti
regalerò i puledri che nasceranno dalle mie migliori cavalle”

Escono da questo anfratto di bosco dove si erano riparati. “Don Quijote distende lo sguardo su tutto il
cammino che porta fino al toposo, vede anche le tre contadine ma il suo sguardo va oltre e come non vide
nulla se non le tre contadine chiede a sancho se le ha lasciate fuori dalla città” “non sarà che hai gli occhi
dietro la nuca, perché sono queste che vengono a mezzogiorno” “Io non vedo se non tre contadine sopra i
loro asini” è usata la stessa formula basata su un principio di razionalità, don Quijote vede la realtà.

Sancho sta giocando con la capacità di don Quijote di vedere la realtà gli chiede com’è possibile che vede
solo tre contadine “ma sono contadine come io sono don Quijote e tu sei Sancho, o perlomeno così
sembrano” dialettica tra ser e parecer. Qui è don Quijote che lo dice. Per la prima volta vede la realtà per
come è e Sancho lo fa vacillare.

“Strani questi occhi, venga a rendere omaggio la signora dei suoi pensieri, che si avvicina.”

Sancho presenta le tre donzellas a don Quijote:

Le tre contadinotte vengono bloccati da questi due con don Quijote emozionatissimo al cospetto di quella
che gli dicono essere la sua Dulcinea. Questo è il primo incontro di fatto con Dulcinea.

L’organo della vista “con occhi fuori dalle orbite e la vista alterata” non aveva neanche un viso troppo
gradevole, con la faccia rotonda ecc.

E’ scioccato da questa vista e non riesce a parlare. Ancora più attonite le tre contadine.

Delle tre hanno bloccato quella centrale, le altre due provano ad aiutare l’altra.

Tutta sgraziata e alterata con un linguaggio rustico “Che ti credi vieni a prenderci in giro pensando che non
sappiamo difenderci” e lo minaccia.

Scontro fortissimo tra i due registri linguistici, quello di Sancho tutto elevato e quello della parlata delle
contadine.
Il tentativo disperato di don Quijote per spiegare la realtà “già vedo che la mia sfortuna è tale che i maghi
incantatori hanno messo davanti ai miei occhi un velo per cui non riesco a vedere la tua bellezza, io però
non so se a te è successo lo stesso al mio viso, sia quel che sia cerca di guardarmi con chiarezza. Io mi
inginocchio alla tua contraffatta bellezza”

Si rende conto della differenza tra la realtà e quello che dice Sancho quindi trova un motivo, una
spiegazione a quello che sta vivendo. Di fronte a questo discorso, la reazione di Dulcinea “Mo mi metto a
sentire i corteggiamenti” Sancho è l’unico che è contento

Appena si sentì libera la contadina che aveva preso il ruolo di Dulcinea e si sentiva spronato dalla punta di
questo palo che con fretta la contadina stava mettendo sull’asino. Pur di scappare comincia a dare dei salti
fino a far cascare Dulcinea al suolo

Quando sta per avvicinarsi, la contadina prende la rincora, fa un enorme salto e se ne va.

Contrasto tra l’immagine di Dulcinea del Toposo tutta aggraziata e la contadina tarchiata, muscolosa che fa
quest’impresa ginnica di scapparsene in groppa all’asino. Ovviamente si chiude il passaggio con la tristezza
di don Quijote che ancora una volta viene tradito nel suo rapporto con il reale. L’episodio si chiude con una
delusione che vive don Quijote in virtù dello stratagemma di Sancho perché in realtà la realtà gli viene
cambiata sotto gli occhi da Sancho perché è lui che gli dice che quella è Dulcinea. La follia di don Quijote è a
intermittenza, non è sempre pazzo e proprio in questo passo non lo era. E’ sancho che trasforma la realtà.

Questo episodio è un facile esempio che ci dà conto di come cambia la dinamica tra locura e corduras.

Ma anche una ragione estrinseca: Mimesis di Henrick Hauerback, che tratta dell’analisi del rapporto tra
creazione artistica e reale, quindi sulla realizzazione del reale, un capitolo di Mimesis è legato proprio a
questo episodio. Rapporto fra don quijote e il realismo.

Lo studio di Hauerback è molto amplio e segue l’esempio dei campo, secondo una campionatura di casi
perché si pone il problema di affrontare il realismo in letteratura. Non come lo conosciamo noi.

Campionatura dei grandi classici attraverso i quali cerca di costruire il reale.

Hauerback quando scrive Mimesis, è dovuto scappare a Costantinopoli perché Ebreo, non ha neanche un
libro a disposizione, quindi il tipo di ricostruzione che fa è una biblioteca della memoria e scrive questo
grande capolavoro.

27.11
Lettura capitolo 10 seconda parte
APPROFONDIMENTO SUL PIANO DELLA TEORIA DEL ROMANZO
Questo episodio ci torna molto utile per una riflessione di teoria del romanzo. Questo episodio si incentra
sull’incontro materialmente realizzato ma paradossalmente non realizzato tra don Quijote e Dulcinea del
Toloso, frutto di un inganno che per motivi utilitaristici interpreta Sancho per evitare che che si scoprisse la
bugia che aveva detto al suo padrone.
Sancho addita le tre contadinelle, dicendo che si trattasse di Dulcinea e due ancelle sue e don Quijote vede
la realtà per quella che è e non riesce ad immaginare che quella figura rude, rozza e sgraziata così contraria
all’ideale femminile che ha nella testa, possa realmente corrispondere alla sua dulcinea, rispetto all’ideale
che aveva costruito nella sua immaginazione, quella realizzazione era la più sconcertante possibile.
Nonostante ciò lui accede alla proposta di Sancho, la sua anima cede all’inganno e si convince che quella sia
Dulcinea del Toposo e pensa che siano stati i maghi a corrompere la sua idea della fanciulla.
Inizia da questo momento un dialogo che si innerva su un contrasto di registro tra il linguaggio altisonante
di Aan ho prima, tra Sancho e le tre pulzelle: scontro comunicativo tra i registri linguistici far il linguaggio
altisonante ed intriso di retorica cortese da parte di Sancho e poi dopo di don Quijote e il
Linguaggio altisonante tutto intriso dalla retorica popolare, realistico e colloquiale, delle tre pulzelle. Da
questo scontro fra registri nasce un effetto di mancata comunicazione per cui questi parlano ma non
comunicano effettivamente, che ottiene un effetto sul piano estetico di tipo comico.
Don Quijote fa una Supplicatio a Dulcinea, chiedendole di non smettere di guardarlo e porre su di lui gli
occhi benevoli.
Supplicatio più invocatio conformano quel breve discorso che don Quijote rivolge a Dulcinea.
Questa supplica non subisce alcun effetto anzi le tre contadine so arrabbiano perché si sentono prese in
giro e decidono di scacciarli e se ne vanno via loro. Azione molto risentita quando invece don Quijote è
serissimo nella sua richiesta.
Dulcinea sale in groppa alla sua borrica, non si capisce bene quale sia la cavalcatura della donna, mentre sta
per scappare cade dalla sua cavalcatura, don Quijote tenta di aiutarla e soccorre alla sua dama, ma neanche
questa iniziativa va bene perché lei sale in groppa all’asina e va via e la conclusione è nello stile tipico della
reazione psicologica di don Quijote che crede che siano stati i maghi incantatori a non consentirgli di
tornare dalla sua Dulcinea.

Episodio comico rispetto alla facciata, alla superficie del testo, dal significato profondo.

Arrivati a questo punto abbiamo richiamato alla memoria la lettura dell’episodio da parte di Hauerback,
autore di un capolavoro di opera della critica letteraria riferito allo stile e alla natura stilistica delle opere
che fa all’interno di Mimesis, che è la sua riflessione sul realismo letterario.
Anzi eravamo stati accorti a definire la mimesis indaga il realismo da Omero all’800.
Osservava come al realismo identificato come una forma di romanzo che è quella moderna/ottocentesca
andasse giustapposta una forma di realizzazione del reale.
Hauerback tiene conto di quei termini come riferimento alla scuola narrativa.
In effetti fa risalire una seconda modernità a partire dall’800, sebbene ci sia una prima modernità tra
500/600 quando ci liberiamo di una forma arcaica, che è quella medievale.

Hauerback si riferisce al realismo come forma narrativa con gli autori dell’800, però la realtà era sempre
stata oggetto di rappresentazione e di mimesis letteraria, tanto è vero che il sottotitolo con cui è tradotta la
sua opera
“Il realismo della letteratura occidentale” è sbagliata perché lui parla di mimesis come rappresentazione del
reale, da non far coincidere con il realismo 800esco.
Fa una sorta di indagine a campione di opere tratte da diverse letterature nazionali, alla quale unisce una
critica dal punto di vista stilistico. Fa dipendere molto la nascita del realismo in senso stretto
dall’abbandono della teoria degli stili.
Il romanzo realista nasce quando si abbandona definitivamente la teoria degli stili, che da diversi secoli
aveva obbligato a rappresentare la realtà in forme vincolate.
La teoria degli stili che vincola la nota Virgilii al sistema ciceroniano che afferma che ci sta uno stile alto, uno
medio è uno umile a seconda degli oggetti trattati nell’opera, quindi se l’opera deve rappresentare un
oggetto del basso deve abbinare uno stile umile.
Questa teoria vincola la tradizione letteraria per secoli.
La regola oraziano-ciceroniana era legata al concetto che la materia dovesse avere il proprio stile, però
tutto questo si fonde al concetto aristotelico di Mimesis, cioè alla capacità mimetica dell’opera che deve
rappresentare la realtà è che anche per Aristotele è vincolata dal tipo di realtà fatta oggetto di
rappresentazione che associa ai tre tipi di rappresentazioni teatrali: tragedia, commedia ed epopea.
Per Aristotele lo stile è vincolato al tipo di realtà che riguarda:
Tragedia, azioni sublimi
Epopea, azioni di eroi
Commedia, azioni di uomini umili
La tradizione del racconto del reale, in letteratura per buona parte della letteratura.
In letteratura quando il quotidiano entra nell’opera letteraria viene subordinato ad un trattamento di tipo
comico e questo è il vincolo che si mantiene fino a quando ci si libera di tutto questo sistema, che viene
sostituito da una nuova convenzione che prevede un nuovo genere del romanzo, della tradizione lirica e
della poesia, quindi la rappresentazione del reale c’è sempre stata ma subordinata ad un sistema che
obbligava a trattare il quotidiano in determinati modi.

Hauerback dice che la rappresentazione del reale era soggiogata da questo sistema, la poetica, che
obbligava a trattare il quotidiano in determinati modi.
La differenza discrimine fondamentale è che con il Realismo (cioè dell’800) per la prima volta con il
romanzo 800esco il quotidiano acquisisce cittadinanza letteraria ma riceve un trattamento in termini seri,
problematici e persino tragici. Il romanzo realista moderno, parliamo dalla Francia in avanti, tutta questa
grande stagione che parte dalla proposta del naturalismo con l’applicazione del metodo scientifico, è legato
ad una modalità
di rappresentazione del reale che deve avvenire in termini seri, problematici e persino tragici.

Quando esce la prima edizione di Mimesis, dove si passa da Omero a Dante ecc, Hauerback non tratta
minimamente del don Quijote perché il don Quijote è un’ opera comica, forse se ne dimentica un po’
perché da Benedetto Croce era stata tenuta da parte ecc. la letteratura spagnola aveva venuto una specie
di interdizione, comunque
negli anni 40 la prima versione e un paio di anni dopo viene pubblicata la seconda edizione di Mimesis,
all’interno della quale compare il capitolo di “Dulcinea incantata”, probabilmente perché ricezione della
prima edizione era stata criticata proprio per l’assenza del don Quijote o forse perché ci era arrivato da
solo, ma è difficile.
Fatto sta che nella seconda edizione compare Cervantes.
La riflessione di Hauerback sul don Quijote: dice di cercare la rappresentazione della vita quotidiana,la
mimesis, il modo in cui l’opera letteraria espone il reale, in cui vengono esposti con serietà”
È un problema anche di forme, ma anche di modi perché questo oggetto deve essere rappresentato in
modo serio.
Non soltanto Sancho ma anche don Auinote compaiono come persone della vita del tempo, da questo
punto di vista è un romanzo sociale tutto, non solamente perché ci sono personaggi tipici, ma anche la
stessa presenza del don Quijote perché rientra nel prototipo di persona della vita del tempo, quindi si tratta
comunque della rappresentazione della vita reale. Quindi non un romanzo con ingredienti di realismo, ma
tutto è un romanzo sociale.
Sancho è un contadino della mancha e don Quijote è un hidalgo del tempo che ha perso il cervello.
Molto più difficile rappresentare il livello del romanzo di genere tra tragico e comico. Hauerback non si
riferisce al pitz Freudiano. Noi sappiamo invece che c’è un doppio effetto di compresenza tra tragico e
comico.
L’idea di far incontrare don Quijote con la Dulcinea reale.
Secondo lui recupera la figura del don Quijote secondo la sua costruzione de romanzo al livello di Mimesis e
lo riconosce come tale ma ne fa tutta un’analisi, però il risultato del mettere alla prova il suo don Quijote
rispetto al reale, gli da dei risultati negativi: si tratta di una farsa e in quanto tale fa ridere, è un’opera
comica e non può assurgere a romanzo realista.
Secondo Hauerback il fatto che il don quijote non superi mai la comicità in via definitiva è un ostacolo che
impedisce che passi ad essere una testimonianza pre ottocentesca del romanzo realista.
Tra lo scontro linguistico dei due livelli dei personaggi, ne nasce un effetto comico. Quella scena è una farsa
e fa ridere però dice qualcosa di piu, cioè lui vede in quell’episodio la possibilità che il don Quijote
diventasse effettivamente un romanzo realista, ma fallisce perché don quijote fallisce dal tentativo di
perdere la follia, in quel momento si gioca tutto. Quando sancho lo inganna lui non si rende conto della
verità. Ha la possibilità o di rimanere folle o di affrancarsi dalla sua follia, bastava che insistesse rispetto a
quello che lui vedeva e sarebbe diventato un grande eroe del romanzo realista, sarebbe rinsavito dalla sua
follia.
Hauerback dice che è una farsa e non può assurgere al livello del romanzo realista.
Tutta l’opera non supera mai la comicità in via definitiva e questo è l’ostacolo che impedisce che passi come
una testimonianza del romanzo realista pre 800esco.
Quell’episodio è da farsa.
Io vedo la possibilità che il don Quijote aveva avuto di diventare un romanzo realista anche tempo però lo
ha perso perché di fronte la possibilità di rimanere folle o di riscattarsi dalla sua follia, bastava che
insistesse rispetto a quello che lui vedeva e sarebbe diventato un grande eroe di un romanzo realista
perché sarebbe rinsavito e avrebbe ricominciato a rapportarsi alla realtà. Qui è quando secondo Hauerback
si perde l’occasione.
Don Quijote per l’ennesima volta decide di rifugiarsi in una dimensione che non è reale.
Perciò bisognerà aspettare 200 anni che nasca il vero romanzo realista.
Conclude dicendo che non c’è minima possibilità che questa scena assurga all’ ideale del genere tragico.
l’opera rientri nel romanzo tragico.
Non è vero, perché lui vede la comicità che possa rappresentare qualcosa di serio, ma resta un effetto di
comicità ed è vero perché elimina la possibilità della tragedia, però la serietà e la problematicità non c’è la
può negare.
È vero non è un romanzo 800esco in cui la realtà è trattata in maniera tragica, però problematiche e
sommamente problematiche, infatti attraverso la pazzia del personaggio è la comicità dell’opera scaturisce
tutta la cultura e l’episteme dell’epoca.
Lo fa in maniera comica, certo però parliamo di un’opera seria.

È con le avventure dei mulini a vento che si scopre tutta la tragedia del personaggio.
Vede nell’episodio che legge come campione delle cose giuste, cioè che l’episodio si traduce in un conflitto
linguistico tra personaggi e la frustrazione della comunicazione, ne deriva la risata e basta. Ma non è finita
qua perché lì sotto naviga lo smascheramento dell’istituto fallace di vedere Dulcinea e tutta la cultura
cortese che don Quijote prova a riportare ma che si risulta insufficiente per il tipo di società dell’epoca.
Questo continua ad essere il grimaldello interpretativo dell’opera.
CAPITOLO 29 seconda PARTE
Don Quijote è Sancho si stanno dirigendo verso Zaragoza e decidono però di non andarci più, questo è un
espediente di Cervantes per screditare la versione apocrifa di Saraveza che li aveva fatti arrivare a Zaragoza.
Così percorrono il fiume Ebro e lungo il fiume
Ad un certo punto si imbattono in un relitto: una barca senza le corde che i marinai solitamente usano.
Il fatto che si presenti legato ad delle corde, consunto ecc. è un relitto, cioè un oggetto che ha perso la sua
funzionalità primaria infatti non funziona più come barca da pesca, ma acquisisce una funzionalità
secondaria che è tutta di tipo letterario.
Questo oggetto che ha perso la sua funzione ne acquisisce una nuova.
“Era legato all’altra riva da un tronco che si trovava sulla riva. Don Quijote inizio a guardarsi intorno, non
c’era nessuno. Senza attendere scese subito da Rocinante, dice a Sancho di fare la stessa cosa e gli chiede di
legare entrambe le bestie ad un saggio o ad un salice, che si trova lì vicino.
-devi sapere Sancho che questa barca mi sta chiamando per salire su di lei in aiuto a quanche cavaliere o a
qualche donzella che ha bisogno di me.”
Don Quijote gli dà una nuova funzione.
Lo prende in prestito dai libri di cavalleria dove si legge che di tanto in tanto quando un cavaliere è in
difficoltà appaia una barca che volando lo salva dalla difficoltà.
Sta richiamando questo materiale libresco dove esiste effettivamente il motivo della barca incantata.
Questo è così vero come è vero che è giorno.
Comincia la nostra avventura.
La solita ratifica della realtà che offre lo scudiero, Sancho lega il suo rapporto con la realtà al principio di
razionalità.
Va bene siccome vi devo servire verrò con voi su questa barca ma a me sembra che questa barca è una di
quelle che usano i pescatori per pescare le salamandre?”
Don Quijote gli disse che non si dispiacesse per l’abbandono di quegli animali perché colui che li avrebbe
portati loro per cammini così lontani, si preoccuperanno anche dei cavalli, non ti preoccupare.
Usa una locuzione calcata dal latino, formula dei libri di cavalleria e della letteratura cartografica legata alla
navigazione.

Non ci resta che farci il segno della croce e levare l’ancora.


Mentre la barca si allontana sancho comuncia ad innervosirsi, ha un legame fortissimo con il suo Rucio. Si
rende conto che gli animali che sono stati legati all’albero sono estremamente sofferenti perché vogliono
andare con i padroni. È una scena di commiato perché abbandonano la terra da cui partono.

“Oh carissimi amici restare in pace e questa follia che ci separa da voi, convertita in disinganno che possa
riportarci alla vostra presenza” espressione di commiato che sancho pronuncia nei confronti degli animali
che ha tutte le caratteristiche di un’anticipazione
Inizia a piangere e don Quijote infastidito e collerico: “pusillanime perché piangi?”
Don Quijote sta navigando negli oceani “ma da quel che vedo abbiamo sicuramente già attraversato 7/800
miglia e se io avessi qui un austronauta che può misurare, ti direi quante ne abbiamo percorse, sebbene io
ne capisco poco p che credo che stiamo superando la linea equinoziale.
Statuto del linguaggio di don Quijote

Don Quijote continua ad esprimersi con questo linguaggio tecnico della navigazione, ma al di là della varietà
linguistica che sta usando, i dettagli che restituisce dal punto di vista della cosmografia sono tutti ispirati
alla visione cosmografica e cosmologica tolemaica, quindi pre-copernicana, secondo la quale la terra è
piatta e al centro del cosmo. Ancora una visione geocentrica pre-copernicana.
Visione geocentrica pre copernicana.
Secondo don Quijote avendo acquisito queste nozioni dai suoi libri arcaici incentrati e nutriti su quella
visione retrograda, la ripropone tale e quale.
Sancho si spaventa al sentire la parola Tolomeo.

Finora abbiamo parlato al grande riferimento di don Auijote ai libri di cavalleria da dove prende gli elementi
dei quali parla e tratta.
Subentra un nuovo referente libresco e letterario, la letteratura legata alla conquista delle indie. È tutto
messo a testo.
Il metodo che usa don Auijote è tutto legato ad una tecnica, ad un parlare è un agire molto tecnico, adesso
è ispirato a quello che secondo lui è il metodo empirico.
Ti spiego come siamo arrivati al punto che congiunge i due emisferi.
Quando gli spagnoli che vanno nelle indie devono capire come sono arrivati all’equatore, “devi sapere
Sancho che gli spagnoli quando partono per le indie (parla al presente ma sta nel 600 mentre le conquiste
erano del 400, parla dal presente già superato), facciamo la prova, quando superano la linea equinoziale,
verificano se hanno ancora addosso i pidocchi p meno, se sono morti l’hanno superata allora Sancho passati
una mano sulla coscia e se compare ancora qualcosa di vivo, se invece dovessero essere tutti morti
l’abbiamo superata.”
Perché al confine finiscono tutte le correnti
Al metodo empirico si contrappone la vista di Sancho “io vedo con i miei occhi che non ci siamo allontanati
dalla riva del fiume neanche per cinque palmi anche perché vedo ancora Rozinante e l’asino che si stanno
ancora disperando, quindi non ci siamo mossi per niente e andiamo alla velocità di una formica”
“FAI quello che ti ho ordinato e tu lo sai che cosa sono paralleli, colluri e astri solstizi, equinozi di cui si
compone la sfera celeste e terreste, sapresti che abbiamo superato la sfera celeste e ti ripeto che ti devi
tastare perché io scommetto che tu hai la pelle più liscia di un foglio di carta liscio e bianco.”
Tutti i pidocchi stanno ancora là e scuotendo le dita si lavò la mano nel fiume.
Eh esto.. formula tipica del romanzo
Avvistano dei mulini ad acqua e non a vento perché stanno sul fiume dove si macina il grano.
Inizia la seconda sequenza dell’episodio: la prima parte corrisponde alla navigazione, là seconda coincide
con l’avvistamento e l’approdo nella nuova terra.
Ovviamente si tratta di un rovesciamento parodico della letteratura di conquista, che raccontava proprio
dell’esperienza del viaggio, dell’incontro con le civiltà ecc.
Ovviamente è assolutamente comico ma di fondo c’è tutto un intento satirico di sovversione della
letteratura di conquista.
Don Quijote si fa portatore di un paradigma scientifico basato sulla concezione tolemaica che in realtà è
una scienza che è già stata superata in quel secondo, dall’altro lato il metodo empirico di Sancho che è
effettivamente quello che vale, infatti quel tentativo di don Quijote di affermare le proprie conoscenze
viene smentito dal principio di razionalità di cui si fa portavoce Sancho.
La navigazione non c’è stata.

Elementi di tipo culturale in contrasto, scontri fra concezioni e visioni della realtà completamente differenti
e che vengono convocati al centri di questo terreno di prova che è il don Quijote.

Seconda parte dell’episodio:


Naturalmente per don Quijote il mulino è un castello: “vedi qui Sancho un castello, un palazzo o fortezza,
dove deve essere rinchiuso un cavaliere o regina, o infanta o principessa, per il cui soccorso io sono stato
portato qui” la barca ha avuto la funzione di portarlo qui.
“Non si rende conto che quelli sono mulini ad acqua dove si macina il grano”
Ancora un tipo di dialettica a cui siamo abituati “quelli sembrano mulini ma sono castelli, già ti ho detto che
l’apparenza di tutte le cose nascondono degli incantesimi” quelli sono castelli o fortezze ma per l’intervento
del mago incantatore tu vedi un mulino.

I mugnai che ci lavorano si vedono venire incontro, per forza della corrente del fiume che effettivamente
aumenta, quindi la barca si muove e sta andando incontro al mulino, i mugnai la vedono e ovviamente
provano a evitare che vada a scontrarsi al mulino. I mugnai appaiono ricoperti di farina, quindi si
manifestano come delle figure aliene, completamente estranee all’esperienza che Sancho e don Quijote
avevano, esattamente come i conquistatori con le popolazioni autoctone di indigeni, è questo il
riferimento.
Molti di questi mugnai fuoriescono rapidamente con dei pali perché volevano evitare che la barca finisse tra
le ruote del mulino, rappresentavano una “mala vista” una visione sinistra. E più gridavano e venivano tutti
impolverati, vestiti di bianco con questi bastoni in mano. “Sciagurati dove andate? Volete finire a pezzi fra
queste ruote?”
Tutto conferma la follia di don Quijote “vedi Sancho, non ti ho detto che tutto questo è finalizzato
all’impresa che devo compiere?” Ovviamente don Quijote va incontro a quelli che sono i suoi nemici per lui
e vive la sua battaglia. Sancho ovviamente comincia a tremare, si mette in ginocchio nella barca. Nel
tentativo di impedire la folle corsa contro le ruote del mulino e i mugnai che tentano di fermarla con queste
pale, per la loro forza sommata a quella della corrente, la barca si capovolge e don Quijote e Sancho
finiscono sott’acqua.
Scena che richiama la dinamica della conquista: si baciava la nuova terra e si pregava per rendere grazie a
Dio. Sancho fa la stessa cosa e ringrazia di essere sopravvissuto a questa nuova avventura.
Don Quijote è un po’ spossato da questa sorta di annegamento.
Don Quijote quando si riprende vuole la barca e chiede il prezzo della barca e così è costretto a pagarli, i
pescatori e mugnai erano ammirati osservando quelle due figure così poco comuni e simili agli altri uomini
e non riuscivano a capire a cosa fossero finalizzate le domande e i discorsi che don Quijote faceva loro, e
prendendolo per pazzo, li salutarono e tornarono ai loro mulini, dall’altra parte i pescatori ai loro ranchos.
Vengono riportati dalle loro amici, riferimento al commiato di Sancho, riconosciuta la loro pazzia possono
fare ritorno alle loro bestie e ad “essere bestie”.
Tornano nel luogo di quella missione che è pre-umanistica e razionalistica, tornano alla condizione di esseri
irrazionali, tornano alla condizione da cui erano partiti, don Quijote torna a prendere per verità qualcosa
che non è vero. Tornano all’irrazionale. Dietro tutti quei discorsi scientifici che fa don Quijote e che si
riferiscono ad una irrazionalità assoluta, tutto richiama all’irrazionale e quindi alle bestie.
Questo è il senso che acquisisce questo nuovo ed ultimo episodio.
28-11
Il siglo de oro si caratterizza soprattutto per il teatro, ma anche la poesia è fondamentale, parliamo di
poesia aurisecolare, sono gli anni in cui la Spagna fa da traino per il resto dell’Europa in termini di gusti e di
tendenza.
Status della poesia nel corso del 500:
La lirica spagnola che nelle sue origini non conosce una poesia in castigliano, ma la poesia era quella in
galaico-portoghese. Nel Medioevo la poesia non si scriveva in castigliano, ma in gaelico portoghese per
tradizione, che si mescola con quella provenzale e confluisce nella lirica catalana, Siasmark (più grande
esponente della lirica in Valenciano) scriveva in catalano occidentale.

Quindi fino alla metà del 400 la poesia in Spagna è frutto di questo tipo di confluenza di tradizioni, quella
trobadorico/provenzale francese che ha già influenzato altre correnti europee come nel caso in Italia della
poesia siciliana che richiama quella trobadorica, poi lo stilnovo con Petrarca, Dante ecc.

Lirica delle origini in italiano che beve dalla lirica provenzale.

In terra autoctona iberica abbiamo la lirica in gaelico portoghese.

La unica manifestazione autoctona in terra iberica, la lirica gaelico portoghese. A fine 400 il castigliano si
attesta come lingua principale, si afferma anche una lirica autoctona in castigliano. Sono soprattutto generi
legati al romancelo, villancicos, coplas ecc. che nel corso del 500 sarà nota come poesia cancioneril.

Villancico e romances come forme più tradizionali, sono forme di poesia tradizionali che provengono dal
fatto che la lirica orale, ad un certo punto quando il castigliano si afferma come lingua poetica, questi
componimenti che per tutta una questione di storia nazionale erano soltanto orali, cominciano ad essere
trascritti e nascono come generi poetici in senso stretto.

Esiste anche una poesia di tipo aulico cortigiano non tradizionale di tradizione cortigiana, che è la poesia
legata al genere della cancion che sarebbe la poesia castigliana di tipo aulico cortigiano che è il frutto di
evoluzione della lirica trobadoresco-provenzale.

Le canciones erano formate da tre strofe: Cabeza, mudanza e vuelta, nel verso minor, cioè l’ottosillabo.

Riprendiamo dall’inizio:

Ci interessa la lirica italianistica che investe Garcilaso e Boscan.

Negli anni 20 del 500 nasce la nuova lirica di stampo italianista, ma nuova rispetto a che?

Si è soliti utilizzare la carta alla duchessa de Soma di Boscan come dedica del suo canzoniere, perché in
quella lettera che premette al suo canzoniere, spiega le ragioni per cui sceglie di sperimentare nuove forme
poetiche e nel fare questo, costruisce una sorta di carrellata delle forme tradizionali antiche, come nascita
della lirica nuova perché spiega le ragioni per le quali ha deciso di ispirarsi a nuove dinamiche poetiche,
facendo un excursus sulla lirica precedente.

Non dimenticate che le opere di Boscan con Garcilaso furono pubblicate nell’edizione a stampa del 1543
quando la vedova di Boscan porta a termine il processo del marito, con l’aggiunta delle opere di Garcilaso.

Garcilaso della Vega era morto nel 36 e la sua opera era stata pubblicata solo dalla vedova di Boscan nel 43,
questa data non ci interessa più di tanto, perché comunque la pubblicazione dell’opera è postuma al
periodo in cui era stata scritta. Infatti Boscan si riferisce al 26, quando al matrimonio di Carlo V con Isabelle
de Portugal e dobbiamo prenderla come una cosa retorica quella dell’incontro con Andrea Navagero.

Questa attività era iniziata molto prima, ma non soltanto in riferimento all’opera di Boscan.

C’è il canzoniere di Boscan.


La data del 43 è riferita però al 26 questa forma di innovazione non arriva nel 43 ma molto prima però è
ancora presto che il sonetto come endecasillabo possa essere accreditata come prassi poetica iberica, non è
ancora naturale, ma perché veniva piegato alla logica del verso de Arte Mayor locale di 14 sillabe che era
stato sostituito dall’8 sillabo de arte minor.

Questa rivoluzione non nasce dalla sera alla mattina, ma ha le sue origini in tutta la metà del 400.
Fino a che Boscan e Garcilaso su ispirazione dell’amico iniziassero a trattare della lirica di stampo italianista,

Prima che accade tutto questo che tipo di poesia si faceva in Spagna?

Abbiamo come testimonianza di quello che era il gusto e la pratica poetica del tempo è nella lirica
cancioneril, era una partica poetica del tempo, di cui si parla principalmente del Cancionero general di
Hernando del castillo, che è definito come una summa esemplificativa delle tendenze poetiche dell’epoca.
Hernando del Castillo organizza il canzoniere per sezioni tematiche e generi poetici, a queste sezioni
tematiche si accompagnano le sezioni riferite al genere metrico.

Nella lirica cancioneril confluisce la doppia tendenza: da una parte i generi di provenienza tradizionali, come
villancicos e romances che fino al 400 sebbene rientrassero nella tradizione popolare, non avevano ancora
raggiunto una forma scritta, mentre sono i poeti cortigiani che li mettono per iscritto e cominciano a
comparire nei canzonieri.
In una prima fase questi generi della lirica tradizionale popolare sono frutto di questa iniziativa, quella di
raccogliere il patrimonio letterale per non perderlo, a questa fase segue una seconda fase di
sperimentazione su questi generi, gli autori contemporanei decidono di comporre romances o villancicos
con tutte le caratteristiche della lirica antica popolare e tradizionale che risente moltissimo dell’oralità,
infatti vengono addirittura chiamate contraffaciuras, proprio perché quel poeta camuffa il testo ed è difficile
distinguere un romance antico della tradizione orale e quello scritto dal poeta contemporaneo.

Accanto a questi generi che confluiscono nella lirica cancioneril si aggiungono dei generi che i poeti fanno di
per sé e sono l’eredità e l’evoluzione della poesia provenzale che in Spagna è passata già nel corso del
200/300 nella tradizione letteraria catalana (cioè provenzale) e gaelico portoghese.

Questi generi aulico/cortigiani sono caratterizzati principalmente dalla cancion: un tipo di componimento
articolato sulle tre quartine (cabeza, mudanza e vuelta) di ottonari con rime variabili.
Più che alla forma del componimento che si presenta secondo 3 fasi:
cabeza: oggetto della cancion presentando il tema in maniera concettosa
mudanza: il concetto espresso nella cabeza riceve una specie di svolgimento o sviluppo
vuelta: torna a riferirsi alla cabeza rendendo chiaro il messaggio del componimento e di solito si ricollega
alla cabeza anche dal punto di vista concettuale
La vuelta chiarisce il senso, il tema del componimento e di solito si ricorreva alla cabeza anche da un punto
di vista formale e non concettuale.
Si crea una circolarità tra cabeza, mudanza e vuelta.
Questa la cancion che si articola per coblas.
A questa si aggiunge la poesia religiosa.

La poesia spagnola di questo periodo è articolata con il VERSO IN OTTONARI

Forma prevalente: redondillas, cioè quartine di ottonari che si possono articolare in varie forme, oltre alla
cancion (tre quartine di ottonari) si aggiunge il genere della glosas per cui si prende un ritornello già fatto,
che può essere prelevato anche da un villancico, e il poeta aulico lo glossa scrivendo una serie di strofe.

Possono essere glosas de villancicos, glozas de mozas, distici o tristici legati alla pratica amorosa medievale,
in cui il poeta aveva il proprio motto in cui racchiudeva il riferimento all’amata che non doveva essere
riconosciuta.
Tutto questo forma il bacino della lirica cancioneril che confluisce materialmente nei libri di questa
tradizione e cioè i cancioneros. Questa è la lirica tradizionale.

All’inizio del 500 in maniera più massiccia si evince l’avvicinamento alla lirica italiana e dobbiamo tener
conto del fatto che in Italia la poesia fu caratterizzata dalla presenza di Petrarca che aveva perfezionato al
massimo la lirica che proveniva dallo stilnovismo. Nasce nel 1304 e muore nel 1374.

Nell’ultimo secolo, quindi Petrarca era stato consacrato a modello della lirica amorosa e a differenza di altri
poeti ha lasciato un canzoniere che lui ha scritto e organizzato, intessuto e costruito, cosa rarissima perché
solitamente in ambito poetico, i canzonieri non erano mai frutto di operazioni autorizzate dagli autori,
invece nel caso di Petrarca è lui che ad un certo punto della sua vita decide di lasciare una testimonianza
diretta della sua esperienza amorosa sebbene sempre in trasfigurazione in un io lirico, secondo le sezioni in
vita e morte di Laura.

Prima parla dell’esperienza amorosa giovanile, il giovanil errore, vive l’esperienza amorosa come un errore
dal quale si affranca alla morte di Laura. La seconda parte del canzoniere è il canzoniere in morte di Laura in
cui tenta di liberarsi del dolore per la perdita di Laura e il fatto che avesse sprecato la sua gioventù
nell’amore di laura, attraverso una spiritualizzazione della poesia, quindi tenta di utilizzare la sua esperienza
per ottenere il ricongiungimento con il vero Dio, che non è la donna amata, attraverso quelle liriche. Sente
l’esigenza sul piano morale.
E quindi abbiamo un ragionamento con momento di svolta di esperienza personale con poesie che
sanciscono delle esperienze ben precise e i momenti di svolta della sua vita e nel canzoniere. È una storia
d’amore ma in versi, con una sua logica interna ed è questo che lo consacra come grande modello della
lirica amorosa assieme alla Vita nuova di Dante.

Petrarca viene preso come modello dalla Spagna, anche perché inventa e modifica tantissimi generi poetici.

D’ora in poi non dobbiamo confondere la Cancion, interna alla tradizione spagnola (in ottonari), con la
canzone di matrice petrarchesca, all’ italiana composta da una sfilza di versi di solito settenari e ottonari e
formata da due parti (7 e 7), cioè fronte e sigma.

Nelle tre egloghe di Garcilaso, che si caratterizzano per varietà non solo di temi, ma anche metrica e
strofica. E nello stesso tempo sonetti, madrigali, canzoni.
In questi anni ci sono altri autori che mettono a nuovo nuove metrico-strofica che è l’ottava real di Ariosto
che verrà utilizzato in Spagna per tutta la lirica epico-cavalleresca.

Boscan e Garcilaso avevano dei contratti strettissimi con l’Italia e così come loro tantissimi altri
familiarizzano con la lirica italiana e hanno il desiderio di innovare la lirica importando questi generi.

Gli spagnoli che familiarizzano con la lirica italiana vogliono importare queste esperienze metriche e anche
di forme letterarie, sono gli inauguratori della svolta rivoluzionaria del panorama lirico spagnolo, parliamo
di svolta nella sperimentazione di nuovi generi che non è solo un fatto di forme, ma la lirica 500esca porta
con sè tutto un bagaglio dottrinale che era sconosciuto alla tradizione spagnola, soprattutto il
NEOPLATONISMO, la visione neoplatonica dell’amore che soppianta la visione feudale dell’amore.

Le nuove forme metriche portano con loro una nuova visione in termini dottrinali dell’amore a partire da
Marsilio Ficino, un grande filosofo del 400 con il De Amore, regala il platonismo rivisitato in chiave
umanistica-rinascimentale all’Europa, fino a quando a fine 500 ci sarà una decadenza di questa dottrina.

Boscan inizia a sperimentare ma chi riesce a portare ad un livello di perfezione il sonetto e tutta la lirica
italianistica è certamente Garcilaso che ha dalla sua diversi viaggi e conoscenze soprattutto a Napoli con il
circolo di Pontano e Sannazzaro, conobbe Petrarca.
Garcilaso non fu un imitatore passivo, ottiene l’impulso da questi modelli ma cerca sempre di superarli,
spesso facendo un lavoro combinatorio tra i vari generi e autori.
Supera il modello Sannazariano e si mette a confronto con Virgilio, che era il modello d’ispirazione di
Sannazaro.
Questo è il sistema imitativo, d’altra parte in questo secolo in termini di poetica tutte queste operazioni
imitative sono legittimate sul fatto che il precetto in termini teorici è proprio quello dell’imitatio, anzi un
poeta che non dimostra di sapere imitare non è un buon poeta. Nel Rinascimento, cultura che imita la
classicità, l’imitatio è il principio estetico che opera su tutto.
Per la cultura Umanistico-rinascimentale, l’imitatio è un principio estetico a cui bisogna aderire, ovviamente
si devono scegliere dei modelli adeguati. Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua stabilisce il modello
ottimo, al quale riferirsi: Boccaccio nella prosa, Virgilio nella poesia di tipo classico, Petrarca per il volgare.

Petrarca è modello ottimo dell’imitatio. Infatti lo stesso Bembo, non pago della proposta teorica, si mette
lui stesso a modello di una poesia amorosa in volgare di stampo petrarchesco.

Infatti quando parliamo di Petrarchismo 500esco non è quello del 300, ma si tratta del petrarchismo
rivisitato dall lezione di Bembo, che corregge, arricchisce e modifica il modello petrarchesco, infatti
amalgama la dottrina platonica al petrarchismo e questo lo fa Bembo.
Dopo Garcilaso che grazie al suo genio arriva a questo modello di poesia somma, nonostante scriva poche
opere. 3 egloghe, die elegie, qualche canzone, si tratta di un corpus molto piccolo, dalla qualità eccelsa.
A lui seguono una scia di autori, modelli epigoni che mutuano dall’Italia tutta la poesia amorosa di stampo
petrarchesco e neoplatonica.
C’è una sorta di divaricazione: poeti che continuano a produrre poesia sullo stile del Cancionerli: battaglia di
Cristobal de Castillejo contro i modelli estranei, preferndo modelli e temi spagnoli.
Si crea la cosiddetta scuola tradizionalista che procrastina il modello di poesia locale a cui si contrappone la
schiera di poeti di poesia moraleggiante.
Lo stesso Garcilaso aveva cominciato con le coplas, quindi pratica poetica Cancioneril.

Verso la fine del 500 tutta questa estetica rinascimentale inizia a debilitarsi, ad esaurire le sue funzioni e a
perdere di portata e di slancio anche sul piano degli stimoli psicologici, che diventano degli schemi
convenzionali e si trasformano in semplice convenzione, tanto è vero che si parla di Manierismo, non c’è
nulla di sincero o spontaneo ma solo l’esercizio compositivo che ripropone una convenzione che non
veicola più l’interiorità dell’essere.
Mentre per Garcilaso si avverte una sincerità di fondo, che manifesta veramente un problema psicologico
dell’io legato all’amore. Tutto questo si impoverisce quando verso la fine del 500 tutto questo diventa
semplicemente Maniera.

Si avverte l’inquietudine e il desiderio di conoscere vie nuove e sperimentare forme creative che
rispondano a idee diverse rispetto a quelle del passato.
Arriviamo progressivamente al barocco.
Stagione di mezzo dei poeti degli anni 80 che vengono chiamati la Generazione de “los segundos
petrarchistas” (i primi petrarchisti sono tutti attivi intorno alla metà degli anni 30-60 del 500 poi comincia il
declino e poi a ridosso degli anni 80 molti di questi poeti provano a mettere a punto un codice nuovo)
ovviamente non dobbiamo pensare a forme completamente nuove, ma mentre si sta dentro il codice
rinascimentale si avvertono delle spie testuali che ci dicono che qualcosa sta cambiando.
Il poeta caposcuola di questa seconda generazione è Fernando de Herrera, sivigliano.
Sono tutti poeti Garcilacisti.
Garcilaso diventa subito un classico, a pochi anni dalla pubblicazione della sua poesia.
Muore nel 36, l’opera viene pubblicata del 43 con Boscan e nel 74 Fernando Sanchez de las Brosa ripubblica
la versione di Garcilaso aggiungendo testi e modificando delle cose nel tentativo di offrire un canone più
schematizzato.
HERRERA NELL’84 pubblica le anotaziones cioè un commento a piedi pagine, e questo vuol dire che
Garcilaso è stato consacrato a classico e offre un’interpretazione a Garcilaso.
Garcilaso si converte nello stesso secolo in cui è vissuto, è consacrato a fondatore e modello della lirica
spagnola e non ci sono dubbi.

Media fra il lettore e la poesia di Garcilaso, nell’85 pubblica la sua raccolta di poesie, è lui il mediatore della
poesia di Garcilaso all’epoca. Media fra il lettore e la poesia.
Herrera era del Sud, sempre un po’ inquieto rispetto a quelli del nord, e nascono dal sud dei fermenti.
Che cosa accade? Si ha una specie di postulato critico che vede la lirica del secondo 500 organizzata in due
cori:
Scuola sevigliana che fa capo ad Herrera, aperto a nuove istanze e al gusto barocco.
Scuola salmantina che si addensa attorno alla figura di Fra Louis de Leon: scuola classicista che sceglie di
rimanere ancorata ai modelli classici ai quali si rifaceva Garcilaso, Orazio, Virgilio e legato ad un tipo di
modello molto classicista. Parte da Garcilaso, ma resta ancorata ai modelli classici di Garcilaso. Torna ad
Orazio, a Virgilio e si eleva ad un tipo di gusto che è molto classicista.
Herrera invece apporta un gusto per le soluzioni inattese, l’incidere effetto dei sensi, tutto questo è più.
21* lezione 30.11
Evoluzione della poesia lirica tra fine 400 e tutto il corso del 500 ed eravamo arrivati al momento di svolta
segnato da FERNANDO D’HERRERA che introduce elementi di innovazione rispetto agli schemi
petrarcheschi che vanno già verso il barocco.
Ci troviamo negli anni 80, con la seconda generazione dei petrarchisti circolo di epigoni sivigliani che
alimentano la ricerca di forme di espressione nuove che inducono a porre l’accento sulla dimensione
affettiva e sensoriale, ed emotiva dell’esperienza dell’io.
Sul fronte opposto la scuola salmantina che si raccoglie attorno al modello di fra Luis De Leon, per quanto le
pratiche siano differenziate tra una scuola e l’altra, che si ancora ad un modello più razionale di poesia e
soprattutto ad un concetto più spirituale di esperienza dell’io che guarda molto da vicino ai modelli classici
di Orazio e Virgilio.
Il petrarchismo continua ad essere il codice più produttivo della poesia del 500 ma quando parliamo di
petrarchismo del 500 non parliamo più della lezione pura di Francesco Petrarca del canzoniere del 300, ma
un petrarchismo rivisitato dall’esperienza rinascimentale e dall’incontro di questo modello medievale con la
dottrina filosofica del neoplatonismo (dottrina filosofica di cui si alimenta la dottrina rinascimentale) e
soprattutto nella pratica rielaborata dalle rilettura di Bembo.
Il Petrarca quindi non è più quello originale del canzoniere.

Garcilaso è il migliore dei petrarchisti 500eschi e costituisce assieme a Petrarca l’altro modello che impernia
in tutta la poesia successiva.

Esempio molto utile che ci racconta molto chiaramente che un testo si possa presentare
problematicamente inscrivibile al modello petrarchesco ma che già presenta degli elementi che ci fanno
capire che il gusto poetico del momento si sposta verso altre soluzioni. Testo chiarificatore della
convergenza di questa doppia tendenza verso altri obiettivi

DISPENSA: morales sacros vadios di LUIS DE GONGORA

SONETTO 149
2 quartine 2 terzine 14 endecasillabi
mientras: avverbio di tempo, corrisponde a FINO A QUANDO
por: complemento di causa d’agente

“Fino a quando per voler competere con i tuoi capelli, l’oro annerito dal sole riluce invano
Fino a quando con disprezzo in mezzo alla pianura il giglio bello osserva la tua bianca fronte”
Descrizione di una donna e contemporaneamente degli elementi naturali.
Il TEMA DEL SONETTO: COMPETIZIONE tra la bellezza dell’amata e quella della natura
Fino a quando in mezzo alla natura con disprezzo la tua fronte guarda al giglio bello
Il suo splendore non potrà mai competere con il colore oro dei tuoi capelli.
Elementi della fisionomia dell’amata e gli elementi della natura vengono messi in competizione dal verbo
competir.
La tua fronte di un bianco diafano trasparente disprezza il giglio bianco
Bellezza sprezzante, altezzosa della donna.

“Fino a quando al fine di cogliere ognuna delle due labbra più occhi seguono quelle labbra piuttosto che il
garofano temprano (appena sbocciato) e fino a quando con disdegno aggraziato il tuo gentile collo trionfa
del lucente cristallo”
Gli occhi dei passanti sono attratti più dalla sua bocca che dal garofano

Scena molto sensuale

ANALOGIA prima del giallo oro che pone in correlazione i capelli e l’oro
Bianco fronte dell’amata e il giglio
Rosso del garofano alle labbra dell’amata
Metafora assolutamente sensuale perché si riferisce ad un labbro alla volta.
I passanti sono attratti più da queste labbra che dal garofano.

“E fino a quando con disdegno aggraziato il gentil collo trionfa sul lucente cristallo

Cristallo su cui si impone la diafanicità del collo dell’amata che è più trasparente del cristallo.
Tutti gli elementi si riferiscono ad una bellezza disdegnosa che sottolinea la propria superiorità rispetto agli
elementi del creato.

Le due quartine dal punto di vista concettuale svolgono questa serie di paragoni su cui si si struttura la
competizione, secondo uno schema tipico petrarchesco della descritio dell’amata e del canone breve, cioè
quella tecnica descrittiva tipica che va dalla fronte alle labbra ai capelli, ed è una descrizione che riguarda
solo pochi elementi e concettualmente si svolge mantenendo insieme la doppia serie degli elementi.
Dal punto di vista formale cioè dell’organizzazione stilistica e sintattica, tutto è scansionato dall’anafora del
mientras che appare in posizione forte cioè ad inizio di verso e nella stessa posizione ad ogni verso.
Ripresa anaforica che fa andare avanti la descrizione.

Deviazione con le due terzine: goza, un imperativo

“Godi del collo dei capelli delle labbra della fronte prima che ciò che della tua età dorata (cioè gioventù,
sintagma con il quale si designa la gioventù) era stato oro giglio garofano e cristallo lucente, si trasformi (si
riduca) non solo in argento oppure in Viola troncata/recisa prima che tu e loro prontamente insieme vi
trasformiate in terra in fumo in polvere in ombra in nulla.

Degenerazione dall’oro all’argento, metafora dell’invecchiamento del corpo.


Ha usato due aree della natura, le pietre o materiali e poi i fiori quindi questa doppia serie viene
rappresentata solo da questa coppia.
La Viola se viene recisa marcisce.
Ello si riferisce alla serie di elementi naturale
Se uelva si deve usare due volte, ma viene enunciata una sola volta.
Termina con una climax ascendente di elementi. L’endecasillabo è ipermetro ma l’autore non se ne frega
proprio perché costituisce un climax meraviglioso quindi dà ancora più forza alle immagini che costruisce.

Il fatto che sia ipermetrico dà ancora più forza al significato.


Il sonettò risale al 1582, agli anni giovanili di Gongora e appare non altro che come l’ennesima versione o
manifestazione del Topos del carpe diem, tipico della tradizione poetica di tutti i secoli specialmente in
classicità e nel rinascimento. Approfittare del presente e della gioventù prima che sfiorisca.
Tuttavia nell’esito finale del componimento emerge l’accento originale che Gongora attribuisce a questo
tema, innovando la progressione proprio in virtù di quella propensione finale che insiste molto sul tema
della morte incombente, del tempo fugace, della degenerazione che già si materializza già nel presente e
del fatto che ci riduciamo a niente. Il climax dà conto a una perdita progressiva di materialità. Non lascia
scampo rispetto alla possibilità di procrastinare il presente oltre quello che siamo destinati a vivere.

Il tema non è originale e potrebbe essere che siccome nei primi anni del suo magistero Gongora si muove
nei canali del petrarchismo 500esco quindi si può leggere come una variante e una tendenza iniziale di
Gongora a trattare più componimenti sullo stesso tema.

NELLA DISPENSA SUBITO DOPO DANTE


Stesso sonetto con riferimenti
Sonetto di Garcilaso:

Fino a quando il vostro volto mostra il colore della rosa e del giglio (classico incarnato dell’amata stilnovista)
e che il vostro sguardo pudíco e onesto che accende il desiderio e nel contempo lo placa pure (è uno
sguardo onesto che accende il desiderio, ma dall’altro lato non alimenta le aspettative dell’amante)
Immagine molto sensuale dei capelli raccolti e poi disciolti con la chioma che si posano sul collo ma il vento
li fa muovere:
E mentre il capello intessuto con i fili prescelti di oro immediatamente che il vento muove sparge
confusamente e disordina.
E’ un’immagine dinamica con il vento che muove, sparge e disordina i capelli, con un incremento semantico
di senso, sempre più forte.
Climax ascendente

Passaggio dalle quartine alle terzine anche in Garcilaso inizia con un imperativo, che si aggiunge all’anafora
en tanto en tanto:
“Cogliete della dolce primavera il dolce frutto prima che (stessa scelta perifrastica) il tempo adirato (perché
invidioso della bellezza dell’amata) si preoccupi di coprire di neve la bella cima.
Il vento gelido farà marcire La Rosa, l’età leggera sarà trasformata completamente per non cambiare le sue
abitudini”.
Il tempo non può non passare e siccome non può non trascorrere non può non far degenerare le cose.
Il tema, il topos è lo stesso con l’impiego di una serie di spie testuali che promuovono il sonetto a fonte
diretto del testo di Gongora: anafora tanto che tanto che, goza imperativo ed imposizione forte ad aprire la
terzina finale, Antes que nel verso di svolta.
Garcilaso a sua volta aveva il suo ipotesto cioè la sua fonte diretta, che è il sonetto di Bernardo Tasso.

Bernardo Tasso: petrarchismo allo stile bembiano


Anafora di “mentre” testimonianza del fatto che Gongora parte da Garcilaso, ma torna indietro
direttamente a Tasso e adotta una serie di soluzioni che sono in comune a Garcilaso e a Tasso.
“Mentre, mentre”
L’idea della chioma che ondeggia attorno al collo della figura amata la riprende da Garcilaso.
Garcilaso segue più da vicino Tasso.
Proprio negli elementi che distaccano Garcilaso da Tasso, sono quelli che recupera Gongora.
Garcilaso e Tasso usano lo stesso verbo “coged”, invece Gongora usa “goza”, però il goza di Gongora
compare esattamente nella stessa posizione in cui compare il coged di Garcilaso ad apertura di terzine
mentre in Tasso non compare nella stessa posizione, ma ad apertura di quartina.
Su questo elemento Gongora sceglie la soluzione di Garcilaso che è più forte.
Si aggiunge un altro elemento che rifiutano sia Gongora che Garcilaso: rifiutano l’inserimento delle
“giovinette”, destinatario plurale e collettivo, destinato alla categoria delle giovani tutte, un invito a non
sciuparsi, che invece inserisce Tasso, mentre Garcilaso si riferisce al soggetto unico dell’amata, così come
Gongora.
“Verrà poi il tempo” valore di futuro che condividono Garcilaso e Tasso e invece Gongora non impiega verbi
al futuro apertamente.
Prima che si trasformi ha valore di futuro ma non è esplicitamente al futuro, veicola una specie di
predizione.

Con questa riflessione sul tempo che è quella che condivide anche il finale di Garcilaso.
Dal punto di vista concettuale Garcilaso e Tasso sono molto simili, sfruttano le stesse immagini e
tematizzano la stessa questione. Gongora ci permette di capire, l’evoluzione che il materiale petrarchesco
vive nel corso del tempo. Infatti negli altri autori abbiamo l’invito al carpe diem, ma non abbiamo quella
indigenza sulle immagini quasi di putrefazione, in Gongora tutto si chiude in una coloritura assolutamente
nera, fatta di fumo e polvere, assolutamente estranea agli altri due ipotesti, cioè precedenti, e non può
essere diversamente, è con il gusto barocco che si impongono elementi di questo tipo.
Tanto in Tasso come Garcilaso il passaggio del tempo è inteso con il bianco della neve, cioè con una
coloritura chiara, il gusto barocco invece veicola l’ancoraggio ad immagini di morte vincolate da immagini
scure. La viola recisa, troncata, non marcita.
Colori che veicolano il senso del disfacimento che diventano ancora più espliciti con il climax finale.
Questo tipo di soluzione è tipicamente barocca, prima sarebbe risultata stridente con un certo tipo di gusto.
È così che vediamo evolvere un testo assolutamente in chiave petrarchista che però ingloba al suo interno
sia elementi e lessemi, soluzioni, sia in termini concettuali che stilistici, pienamente rispondenti al gusto
600esco e cioè quello di rompere la misura e dilatare, questa soluzione poteva essere solo di questi anni.
Per restare in tema invece di fare un discorso per autori facciamo un discorso di tipologia testuale.

RILEVANZA per il tempo e la morte che incombe per inaugurare questa categoria metafisica della morte in
vita. Per l’uomo del 600 la concezione sulla morte è diversa dalla nostra, la morte è inglobata già nella vita,
nel senso che quando nasciamo e stiamo destinati a vivere 70 anni per esempio, in realtà stiamo vivendo 70
-1 giorno, -2 giorni ecc. moriamo un poco di più ogni giorno.
L’esperienza della morte è un fenomeno iscritto dentro la vita, è il consumarsi dei giorni.

Francisco de Quevedo DISPENSA


“Ahi della vita nessuno mi risponde?
(Sta immaginando idealmente di interrogare la vita) Vengan qui i tempi passati che io ho vissuto, la fortuna
ha morso i miei animi, la mia pazzia (perché non riesce ad accettare questa realtà) nasconde le mie ore, e
non riesco a sapere come e quando e dove la salute e l’età sono fuggite, manca la vita, quello che mi resta è
quanto già vissuto (il passato che si fa presente) e non c’è calamita che non mi minacci (la vecchiaia è
accerchiata dalla minaccia della morte)
(Si sente accerchiato dalla minaccia della morte)
Ieri se n’è andato ma il domani ancora non è arrivato, ma il presente un istante dopo l’altro se ne sta
andando senza poterlo arrestare.
Sono un fui, un sarò e un è stanco, (albergo in me stesso tutta la dimensione temporale)
Crea un eterno presente dentro di sè che si materializza non con effetti benefici (ho perso in partenza), né
l’oggi, né il domani né ieri, tutto viene a confluire in questo presente dove confluiscono i pannolini dei
bambini e il mortaio della Morte, la nascita e la morte, tutto convocato nell’istante presente ma come forza
minacciosa e incombente.
Sono ridotto a presenti successioni di defunto.”
Mentre passa il presente è già morto.

Nel mio presente sono una successione di presenti ma defunto perché mentre passa è già morto, concetto
della morte in vita, del presente che è già passato e tutti siamo ridotti a presenti successioni di defunto.
Immagine fortissima che riporta alla concezione che il barocco ha del tempo.
Quevedo non si interessò molto di dare alle stampe le proprie opere perché circolavano molto i manoscritti.
La sua opera fu pubblicata in un’opera chiamata il “Parnaso” in cui le sue opere vengono divise a seconda
dei temi, e quindi della musa ispiratrice. Questo progetto fu effettivamente ideato da Quevedo, ma a
pubblicarlo fu Gonzales de Salas che si interessò a ideare la pubblicazione delle opere poetiche di Quevedo
secondo le muse del Parnaso e pubblica le prime sei muse e poi dopo molti anni negli anni ‘70 il nipote di
Quevedo, Pedro de Aldrete decide di pubblicare le ultime tre muse sfruttando la popolarità dello zio e fa
una serie di operazioni non molto legittime infatti non siamo sicuri che siano le versioni pure così come le
aveva concepite Quevedo.
La stessa cosa fa De Salas.
Sicuramente inserisce le rubriche che vediamo, che in testa ai componimento sono farina di Gonzales de
Salas e non di Quevedo.
Anche scelte come l’inserimento delle maiuscole ad esempio potrebbero essere già presenti nel
manoscritto di Quevedo, oppure sono state inserite dopo per opera di Gonzales de Salas o di altri copisti,
oppure potrebbero essere dovute ad un lavoro della stamperia. Forse Gonzales li usa perché vuole dare
risalto ai due concetti di Fortuna e Ora. Cronos nella mitologia divora i propri figli.

SALMO XVII troviamo questa indicazione perché aveva scritto una raccolta di poesia di tipo metafisico e
spirituale legata alla preoccupazione per la trascendenza. Questa raccolta prende il nome di “Heraclito
Cristiano”, raccolta di poemi di Francisco de Quevedo e i componimenti prendono il nome di Salmo.

Titolarità dell’esperienza narrata: IO


L’io racconta la propria esperienza.
“Osservai le mura della mia patria (su questo termine “patria” si sono scontrate diverse voci critiche perché
alcuni danno un’interpretazione in chiave ideologica/politica del sonetto riferita alla monarchia ispanica
fotografata in pieno decadimento, altri la pratria in generale, altri intendono la Patria Chica, cioè la corte di
Madrid come riflessione di vita sulla patria di quel tempo che sarebbe Madrid, si tratta sempre di una
visione politica; contro questa chiave interpretativa sé n’è legata in alta e legge il componimento in chiave
soggettiva, legata all’esperienza soggettiva dell’io poetico che ha questo incontro/scontro con l’esperienza
della morte e del disfacimento) se un tempo forti, ormai sgretolate, rese stanche (le mura) dal correre del
tempo.”
valentía: rigore
Por: complemento di causa
“a causa della quale caduca/fugge il loro (su si riferisce a muros, il possessivo concorda con l’oggetto)
vigore, si perde il loro vigore”. Le mura sono stanche e sgetolate dal tempo.
Cansados è un aggettivo che non ci aspetteremmo di trovare in relazione a delle mura ma solitamente si
riferisce ad un referente umano, quindi ci fa pensare ad un’umanizzazione e quindi alla lettura personale
dell’opera.

Oltre le mura ci stava solitamente una zona verde che precedeva le case, quindi abbiamo un avvicinamento
progressivo reso dai verbi in posizione forte e che danno conto di un avvicinamento progressivo,
“Uscii dal campo e vidi che il sole beveva i ruscelli disciolti dal gelo ” i fiumi riprendevano il corso
Il sole non beve invece lo personalizza, umanizzazione degli elementi.

“E le greggi si lamentano della montagna perché con la propria ombra rubava la luce al giorno.”

Le greggi si lamentano del fatto che la montagna mano a mano che il sole declinava verso il tramonto fa
ombra verso la campagna e quando c’è l’ombra non pascolano, quando arriva l’ombra non possono più
pascolare.
Immagine del tramonto della vita.
Ombra e luce in contrapposizione, rapporto antitetico.
Tutti i verbi vanno in direzione dell’avvicinamento verso una meta, che è “mi casa”.
“Entrai in casa mia” l’io arriva a casa sua “vidi che” verso organizzato come il primo verso della seconda
quartina parallelismo sintattico “macchiata con le pareti (sulle quali il tempo si manifesta con le macchie di
umidità muffa ecc.) era ridotta a spoglie di una vecchia abitazione (è ridotta ad un cadavere, allo stesso
tempo ci sembra che si riferisca ad un soggetto). Il mio bastone più curvo e meno forte”.
Torna l’antitesi e torna l’immagine che in termini di figura retorica si chiama ipallage o enallage cioè quando
una qualità di un oggetto viene trasferita su un suo referente, sul suo correlato oppure quando la carica
semantica maggiore cade sull’aggettivo, sull’epiteto, anziché sul soggetto.
Il mio bastone più ricurvo e meno forte (cioè della sua figura incurvata dal tempo e dalla vecchiaia, il
bastone è lui) vinta dall’età/dal tempo percepii la mia spada (spada come lettura politica dell’opera
secondo cui si parla della decadenza della monarchia spagnola) e non trovai cosa su cui poggiare lo sguardo
che non fosse per me ricordo della morte.” Che non valesse da monito rispetto alla morte incombente.

È evidente che il componimento che svolge il tema delle rovine partendo dall’osservazione di un paesaggio
di rovine, mura sgretolate e casa in disfacimento sono metafora del corpo, dell’io lirico ridotto a bastone
ricurvo. È da questa visita che l’io fa nella propria casa, ma una visita introspettiva ovviamente. È metafora
e allegoria dell’introspezione che fa il poeta sentendo l’incombenza della morte che avanza.
Il barocco si basa sull’idea che il trascendente si trasforma in immanente. La grande cifra è che
apparentemente tematizza il rapporto con l’immateriale. Tutto ciò che sta oltre la vita è immanente ed
esercita i propri effetti su di noi e sulla materia.
Il barocco indaga che non ci sia tutta questa distanza tra trascendenza e immanenza.
Questa è la verità, la bugia è quella di contemplare il divino ma non contemplano il divino, si preoccupano
che si manifestino i segni della distruzione interiore.

LOPE DE VEGA SONETO 126


LOPE era un donnaiolo di prima categoria.
Si tratta di sonetti di definizioni che si fanno con serie enumerative, o di termini a tre a quattro o con
perifrasi, le serie di termini sono in rapporto antitetico tra di loro.

“Svenire, azzardarsi, star furioso, sgradevole, tenero, generoso, schivo, coraggioso, mortale, defunto, vivo
leale, traditore, codardo o coraggioso” dalla serie enumerativa non compare nessun verbo, mentre ora lo
scrive.
“Non trovare riposo fuori dal bene (cioè il sommo bene cioè l’amata, lontano dall’amata), mostrarsi umile
allegro triste altezzoso, arrabbiato, coraggioso, fuggitivo, soddisfatto, offeso, sospettoso.
Fuggire dal disinganno girandogli la faccia, sottrarre il volto al chiaro disinganno, bere veleno per liquore
soave.
Dimenticarsi del profitto di ciò che è più utile, amar il mio male.
Credere che il cielo/il paradiso possa stare in un inferno, dare la vita è l’anima ad un disinganno
Questo è amore, chi lo ha provato lo sa già.”
4.12.18
Evoluzione che la poesia moderna spagnola realizza nel corso del 500: si passa da un petrarchismo delle
origini a un petrarchismo di maniera che è quello dell’ultima fase del 500 con gli anni 80 con i poeti che
tentano di rinnovare la poesia spagnola e la traghettano dai codici estetici del rinascimento ai codici
barocchi, utilizzammo come esemplificazione l’opera di Gongora che ci dà l’idea di come sopravvivessero le
caratteristiche e le convenzioni cinquecentesche ispirate ai modi del petrarchismo con tratti che già
anticipavano tendenze barocche.
Quevedo fu un poligrafo capace di passare da un più schietto gusto burlesco prendendosi beffa dei vari tipi
sociali a poesia riflessiva, metafisica, quella dei Salmos, opposto del Quevedo beffardo del Buscon che si
prende gioco di tutti i tipi sociali del tempo.
Questa è una caratteristica non solo di Quevedo: quasi tutti i poeti spagnoli sono capaci di scrivere poesia di
tipo etico morale, religiosa, burlesca, satirica. Non disdegnano nessun argomento. Quevedo può parlare di
qualsiasi argomento.
Questa capacità di muoversi tra codici poetici caratterizza tutti gli autori del tempo.
136
Sonetto di tema amoroso.
“Chiudere potrà i miei occhi l’ombra estrema”
Perifrasi disposta in enjambement (cavalcamiento) della morte,
Quevedo inizia il verso con una sorta di concessiva.
“Che mi porterà il bianco giorno” contrapposizione/antitesi con l’anima scura ed estrema.
Il bianco giorno corrisponde alla vita.
È un’altra perifrasi, infatti non offrono il nome per la cosa ma la sua definizione perché non esprimono mai
il nome, usano questo espediente.
Llevare è presente congiuntivo con valore di futuro.
Esprime l’idea che la morte è qualcosa di inscritto all’interno della vita, nella vita alberga la morte.
“E potrà sciogliere questa anima mia l’ora lusinghiera nei confronti del suo desiderio ansioso”
Ora è una metonimia “L’ora estrema= morte” è il soggetto del verbo. L’anima mia potrà sciogliere l’ora.
L’idea che l’anima è imprigionata all’interno del corpo e dopo la morte ambisce a sciogliersi dalla prigione
del corpo.
L’ora è lusinghiera nei confronti del desiderio ansioso dell’anima di separarsi dal corpo.
L’anima vuole ricongiungersi con l’amata naturalmente.
La morte compare due volte, come soggetto nella prima frase nell’iperbato.
Su= dell’alma
Tematizzazione del mito delle anime dei defunti che venivano accompagnate fino alle rive del fiume Lete o
della laguna Stigia. In seguito attraversavano il fiume e l’acqua fredda faceva perdere loro il ricordo della
vita terrestre, di tutto ciò che erano stati quando vivevano, venivano ripuliti dai ricordi e dalle esperienze
vissute. Quindi quando leggiamo nella seconda quartina, si riferisce a questo mito.
Il protagonista della seconda quartina è l’anima “(l’anima) ma non da quest’altra parte della riva lascerà la
propria memoria lì dove ardeva”. Là mai anima porterà con sé il ricordo di quello che era quando l’ha
vissuta, non si priverà del ricordo dell’amore vissuto. Attraverserà le acque sfidando/trasgredendo la legge
severa cioè la morte che impone questo tipo di denudatio, di spoliazione.

Lì dove ardeva vuol dire che la memoria del mio ardore non resterà lì dove ardeva e cioè presso l’amata, ma
me lo porterò fino alla morte.
Rende con l’immagine “non resterà la memoria del mio amore lì dove ardeva” cioè presso l’amata ma me lo
porterò dall’altra parte
“Ma la mia anima sa nuotare l’acqua fredda”
Uso improprio del verbo Nadar che è un verbo di movimento e quindi intransitivo, qui è usato
transitivamente e crea un oggetto diretto.
La mia anima sa attraversare l’acqua fredda. Quest’uso è chiamato CATACRESI che corrisponde ad un uso
estensivo della metafora spinta al suo eccesso semantico, è l’uso estremo del valore metaforico
dell’espressione. Cerca di coprire significati che non si possono dire letteralmente e quindi per
somiglianza/per analogia diamo il nome di un’altra cosa “collo della bottiglia” la bottiglia non ha collo ma
estendiamo il termine collo a quella parte della bottiglia per analogia.
All’inizio veniva percepito l’uso metaforico ma per noi non percepiamo più la metafora del termine. “Piede
del tavolo” la catacresi crea il referente quando non esiste.
Nadar l’acqua fredda: non si può nuotare l’acqua fredda però lo fa.

Veicola tutto il senso di sfida che lancia al tempo l’anima che va al di là della sua legge.
Una volta morto il corpo non muore tutta l’esperienza dei sensi, vado al di lá della tua legge.
“Anima a cui tutto un Dio è stato prigione”
C’è una duplice spiegazione:
Anima prigione di un Dio che alberga Eros in se stessa oppure anima che è imprigionata nel cuore e
nell’amore. Doppia dialettica di anima o come prigioniera o come prigione.
“L’anima vede che hanno dispensato umore a tanto fuoco, midollo che ha tanto gloriosamente ardito”.
Allusione alla dottrina pneumatica: lo pneuma che si forma nelle vene nel midollo ecc. gli pneuma, lo
spirito, il soffio vitale, che è il principio che ci tiene in vita e tiene in vita tutto l’edere.
Secondo i platonici tutto l’universo è formato da pneuma.
Si riferisce al soffio vitale che circolando attraverso il corpo alimenta la fiamma d’amore, richiama alla
contemplazione il fantasma che richiama alla memoria.
Esperienza d’amore erotico-sentimentale che alimenta il desiderio.
“Il proprio corpo abbandonerà ma non le pene (cuidado) d’amore. “ l’amore in sè
“Saranno cenere ma continueranno ad ardere/ad avere senso”. Sentido si riferisce al senso. Quando si
muore, si perdono le capacità dei sensi, invece Quevedo, l’io lirico, io amante che ci sta raccontando questa
esperienza, dice che l’anima continuerà ad avere sentido, cioè ad ardere. Il corpo sarà cenere ma
continuerà ad ardere.
“Polvere sarà ma polvere innamorata”.

Terzine vanno lette costruite come incastrate le une nelle altre: primo verso della prima con primo della
seconda è così via si intrecciano come quest’anima si intreccia al proprio desiderio e lancia il senso di sfida
nei confronti della legge inesorabile del tempo e della morte che prescriverebbe l’amore morto come il
corpo invece va avanti, continua ad ardere anche dopo la morte.
È l’evoluzione ultima di un discorso dottrinario, quello dell’amore cortese che ovviamente si basa sull’idea
che l’amore è desiderio, desiderio è sofferenza perché legato ad una prospettiva di non soddisfacimento e
l’amante non può sottrarsi a questa condizione di sofferenza anzi era condannato ad accrescere questo
dolore dal quale ci si liberava solo con la morte. Leriano (carcel d’amor) si suicida per liberarsi da questo
desiderio.

Sempre in ambito medievale morivano le donne e gli autori scoprivano l’amore spirituale, perfezionamento
morale ecc.

Già nel rinascimento con il platonismo le cose cambiano un poco, nel senso che continua ad essere questa
la visione dell’amore cortese ovvero abbandonata ormai la visione vassallaggio feudale,il codice d’amor
cortese continua ad essere imperativo. Il fatto che si coniughi alla dottrina neoplatonica dell’amore e quindi
da una possibilità di trascendenza dell’amore ha il suo perché.

Il concetto che dall’amore ci si libera solo con la morte è che l’amore dopo la morte non può sopravvivere,
viene contrastato proprio da una lettura di Garcilaso de la Vega. Nell’egloga I Salicio, Nemoroso, Galatea
ecc
Salicio perde l’oggetto d’amore però è ancora vivo, infatti galatea è morta mentre nel caso di Nemoroso
non è possibile il ricongiungimento tra i due perché Elisa è morta.
Nemoroso si riferisce direttamente all’anima di Elicia, divina perché morta, che non corsa con piedi mortali
il cielo, le chiede di intercedere presso Dio affinché gli venga concesso che l’anima rompa e squarci il corpo
che rappresenta il velo dell’anima. Le chiede di arrivare al tempo in cui lui rompa il velo del corpo e
finalmente ricongiungersi e tornare a stare insieme come anime, in un’altra natura che non sia quella
terrena.
Con una forma di invocatio le chiede di accelerare il tempo della sua morte. Prefigura la possibilità di
recuperare l’oggetto se desiderio e di ricongiungere amante e amata in una dimensione altra. Che può
avvenire solo al prezzo della morte, è pronto a rinunciare alla morte.

Quevedo un secolo più tardi fa un altro passo avanti.


“Quando la morte verrà a visitarmi (naturale ma forse procurata dal desiderio), non mi libererà dalla
passione amorosa perché il mio desiderio morirà con me.”
La morte può ridurre la materia al niente, alla polvere, ma l’anima porterà per sempre con se questo
desiderio. Non solo la fiamma d’amore rappresentata dall’anima continuerà ad amare, ma il corpo
continuerà a vivere.
Quevedo non prevede nessuna disgiunzione dal corpo, quindi il sentimento resta nel corpo, l’amore non
smetterà di essere un’esperienza dei sensi, del corpo.
Proposta radicalmente nuova di Quevedo rispetto al passato.
Il corpo resta in vita attraverso i sensi, muore il corpo ma i sensi se li porta con sé, rimarranno vivi. L’amore
come passione nel senso corporale, materiale, e l’amore come senso di trascendenza restano inscindibili,
uniti, per Quevedo. La fiamma non si spegne.

Il Quevedo che abbiamo appena letto è capace di passare da una modalità poetica ad un’ altra.
SONETTO A un hombre de una gran Nariz.
Quevedo è insistente nella beffa contro i Judios, già altamente villeggiati nella Spagna dell’epoca. In questo
sonetto satirico si scaglia contro il fototipo tipico del Judio.
“Era un uomo a un naso attaccato
Era un naso superlativo
Era un’alchitana medioviva” cioè come se fosse un oggetto animato.
Gioca sulla struttura di questo naso.
Ottiene l’effetto caricaturale del soggetto attraverso la ripresa anaforica. Vuole essere un sonetto
definitorio, che definisce che cos’è quest’uomo.
“Era un pesce spada mal barbato,
era un’orologio da sole mal orientato
Era un elefante a pancia in su cioè con la
proboscide verso l’alto,
Era un naso da scrivano e da prelato” (gli amanuensi) era come la penna degli amanuensi
“Un nasone mal nasato”
Crea dei neologismi, usa figura etimologica
“Era la prua di una galera
Era una piramide d’Egitto
Anzi le dodici tribù dei nasi, era”
La terzina si apre e si chiude con lo stesso termine, quindi si tratta di un’ Epanadiplosi: il verso si chiude con
un termine è quello successivo si apre con lo stesso si chiama anadiplosi, quando di crea circolarità quando
una strofa o un verso si apre e finisce con la stessa parola, allora epanadiplosi.
“Era un naricismo infinito,
Frizon era un tipo di cavallo
Arcinarice
Caraturela una maschera
Una specie vegetale, violaceo e fritto.”

È lo stesso autore che da una parte descrive l’amore è dall’altra la nariz.

Quevedo sonetto 71
“Nella crespa tempesta nell’oro ondoso”
è un CONCEPTO che rimanda alla chioma dell’amata.
Crespa tempesta allude ai capelli ricci
Oro ondoso: ondulata e bionda
“Nuota golfo di luce ardente e pura il mio cuore assetato di bellezza
Certamente sciogli generoso”
L’immagine su cui si intesse il sonetto è definita sulla base di un Topos tipico del tempo, introdotto dalla
poesia italiana, la dama che si pettina, con l’io amante che osserva questa scena è ai suoi occhi ha un che di
sensuale, osservarla scatena nell’amante il desiderio, per questo usa la metafora nautica del proprio cuore
che come se fosse una barca, nuota all’interno ecc.
Ovviamente è una scena che l’io amante non può realizzare, allora l’incremento dal punto di vista del tema
va in una direzione. Nella tradizione italiana l’io si identifica con il pettine che che si unisce all’amata. In
questo caso Quevedo adotta un’altra soluzione: identifica il cuore con la barca che attraversa queste onde
crespate. Non si nomina nè il pettine nè la sua personificazione con la barca, ma parla direttamente del mi
corazon che è metonimia dell’io amante.
Il mio cuore nuota golfi di luce ardente e pura: catacresi
Leggere la quartina a sequenza invertita
“Se il capello sciogli generosa, il mio cuore assetato di bellezza nuoto golfi di luce ardente e pura nella
crespa tempesta dell’oro ondosa”
Donna che si pettina e l’io si identifica con il pettine anche se non lo nomina con questa personificazione
nautica. L’io penetra e si unisce all’amata.
Diventa una specie di periodo ipotetico
“Leandro

Mediazione immediata dal tema del movimento che devia direttamente verso la materia mitologica, non
prosegue con lo scioglimento della prima quartina ma devia sulla materia mitologica. Qui abbiamo una
quartina iniziale e una decima 4+10.
Le due unità non sono così irrelate tra di loro, ci sono dei nessi interni.
Leandro: mito di Era e Leandro
Leandro ogni sera per andare dalla sua ero attraversava l’Ellesponto guidato dal faro che era gli metteva a
disposizione per arrivare da lei, una volta si spegne la luce e Leandro annega.
“Leandro in un mare di fuoco agitato/increspato ostenta il proprio amore il suo vivere/ la propria vita porta
a termine” chiasmo
L’atto di Leandro di attraversare il mare è definito un errore e la morte è la punizione per il suo errore per
aver ostentato la sua ambizione non commisurata alle proprie forze e superbia (Ubris)
Stessa cosa per Icaro, anche lui castigato per il suo desiderio eccessivo
Tematizzazioni di miti famosi
“Icaro in un sentiero di oro insicuro brucia le proprie ali a causa (por) del desiderio di morte gloriosa”
Desiderio di morte gloriosa, ricerca della fama
“Con la pretesa di essere una fenice accendi le sue esperienze, che defunte io piango”
Fenice rinasce dalle sue ceneri, allusione al fatto che il desiderio non muore mai
Usa l’io nel testo e queste speranze che defunte io piango
“Intentano che la propria morte generi vite” e quindi quelle speranze defunte, che io piangevo, si
rigenerano
“Avaro è ricco e Piero nel tesoro il castigo e la fame tocca a Mida”
Re Mida prima chiese che tutto ciò che toccasse venisse trasformato in oro senza pensare che così sarebbe
morto.
Mida e Tantalo rinviano all’idea del desiderio come un bisogno primario.
Il desiderio amoroso attivato dalla fame sessuale rinvia a Midas
Imita si riferisce a Tantalo
“Imíta a Tantalo fuggitiva fonte di oro”
Due miti di morte e due miti di frustrazione che sono Mida e Tantalo.
Il componimento presenta un tema nella prima quartina che poi abbandona per trattare di elementi
mitologico quindi sembra che le due parti non sarebbero collegate. Invece i nessi sono tanti e tali da
garantire unità complessiva.
Concettualmente il desiderio di unirsi all’amata è avvicinato a desideri altrettanto impossibili.
Con la fenice non fa che alimentare le speranze, con l’idea di poter possedere l’amante.
Ma come può essere legittimato?
Riprendendo la prima quartina la metafora nautica si rifà ad un mito alto: l’oro, l’aria la crespa tempesta.
In Leandro abbiamo il mito dell’acqua e El mar de fuego quella capigliatura viene rimaneggiata con
l’immagine di Leandro che attraversa il mare di fuoco procelloso. Leandro lo attraversa come mi corazon
attraversa la crespa tempesta.
Usa gli stessi nessi e gli stessi referenti.
Re Mida oro, Tantalo pur essendo circondato di acqua non riesce a soddisfare la sete
Recupera il nesso con la quartina iniziale e perché il suo desiderio è o destinato al castigo della morte o alla
frustrazione.
SONETTO 131
Quando stette in Italia Quevedo svolgeva attività diplomatica ed era al servizio del viceré di Sicilia e del
viceré di Napoli. Ad un certo punto fu accusato di aver partecipato alla congiura contro Venezia, cioè contro
la Lega Santa nel 1517. In realtà la sua partecipazione non è accertata, ma le conseguenze furono notevoli.
Il duca di usura perse il suo potere e la legittimità politica però Quevedo fu proprio esiliato nella Torre de
Juan Abbate dove lui aveva ereditato dei terreni dalla madre, ma per ben 20 anni aveva fatto una causa
perché i feudatari del luogo non gli accettarono il fatto che fosse Signore del luogo. Quindi aveva questo
possedimento e fu confinato in questi suoi possedimenti.
Questo sonetto viene scritto proprio mentre sta rinchiuso nella torre.

Yo sottinteso ritirato nella pace di questo deserto cioè nella zona spopolata dove vivev lui
Con pochi ma dotti libri (unica compagnia)
Io vivo in conversazione con i morti ma li ascolto con i miei occhi (sinestesia gli autori del passato gli parlano
attraverso i libri)
Se non sempre comprese (le letture) sempre aperti, o mi correggono o fecondano le mie questioni (i miei
pensieri) e in questi contrappunto musicali ma anche silenziosi (coppia aggettivale per antitesi) defunti che
parlano ai vivi
Si crea un paradosso perché la vita viene accomunata ad un sogno. Si dà l’idea che gli autori del passato
vivessero il presente mentre noi viviamo un’illusione.

Le grandi anime che la morte rende assenti, vendicatrice delle ingiurie degli anni, libera oh gran don Josef!
Omaggio all’arte della stampa che nel riprodurre i volumi, libera questa voci.
La fuga irrevocabile fugge l’ora,
Però quella i suoi migliori calcoli che da risiede nel fatto che negli studi e nei libri ci migliora.

Le letture ci liberano dalla minaccia de tempo che corre perché ci rendono proprietari di un tempo molto
più dilatato, molto più amplio è molto più grande di tutte le letture che facciamo, che ci inseriscono
nell’eternità.

23 lezione 5.12.18
Questi poeti frequentano varie modalità poetiche differenti, per esempio satirico burleschi basati su
espedienti caricaturali (satira di vizi sociali con finalità reprimenda rispetto a condotte sociali censurabili
oppure contro tipi sociali specifici) con finalità reprimienda quindi di reprimere un certo comportamento
sociale, altre volte aderisce a moduli più banalmente burleschi dove la finalità è quella di divertire.

Abbiamo visto Quevedo autore di poesia erotico sentimentale, oppure metafisica, oppure altri
componimenti con cui riflette sulla fugacità della vita e la necessità di difendersi dal destino di morte che ci
attende, spesso con il supporto dell’uso dei libri che per Quevedo diventano uno strumento salvifico, il
modo per superare il male di vivere.

Anche LOPE de Vega e gli altri poeti dell’ultima stagione del 500, inizio del 600, la cui produzione si
materializza nelle decadi del 600.

Questione del disinganno: All’ottimismo che nel corso del 500 proveniva dalla familiarizzazione con la
dottrina neoplatonica ispirata ad un principio del tutto ottimistico, che ispira fiducia nell’uomo, a questo si
contrappone una filosofia di vita e mentalità che si ancora allo stoicismo.

La stoà preconizza un atteggiamento di resilienza e resistenza rispetto agli avvenimenti, ambendo


all’atarassia, cioè un’anima in cui sono neutralizzate tutte le passioni, un’anima che non deve soffrire ma
depurarsi da tutte le passioni e sofferenze.
Lo stoicismo così come il platonismo viene rivisitato e mediato dalle operazioni di recupero e rinnovamento
che si fanno nel ‘600. Colui che propaga il nuovo stoicismo riprendendo il modello Senecano che aiuta a
superare il disinganno del presente è Justo Lipsio i cui trattati circolavano tantissimo e influenzarono
tantissimo gli autori, tra cui Quevedo che era anche suo amico, ovviamente si confrontavano sui grandi
temi dell’esistenza. Raccolta di epistole in cui vediamo le disquisizioni sul senso della vita.

Questi autori sono così affascinanti per la capacità di dare voce alle pulsioni più variegate.

Lope De Vega diventa l’autore più acclamato del tempo, donnaiolo.


Lope eccedeva al fascino femminile. Si narra che ancora giovane, quando comincia ad entrare negli
ambienti dei teatri dell’epoca lavora presso una compagnia teatrale e si innamora della figlia del direttore
della compagnia, Elena Iosorio ma dopo un po’ a lui viene favorito un altro. Lope inizia a scrivere dei livelli
satirici contro Elena e la sua famiglia, cosa che gli varrà come condanna al destierro (perché comunque si
trattava di una famiglia importante) quindi all’esilio fuori dalla corte così viene mandato a Valencia, luogo
tra i più prolifici sul piano teatrale. Impara con il contatto diretto con quegli ambienti a fare teatro ed
elaborerà quello che sarà la teoria della commedia nueva. Di tutto quel lungo esilio trascorse ben poco
tempo a Valencia, perché non perdeva occasione di andare a Madrid per le sue scorribande.

Nel frattempo sposa una giovane fanciulla, poi tante altre.

Tutte queste donne si trasformeranno in una musa letteraria e riceveranno una copertura di pseudonimi
per le sue opere.

Una raccolta di novelle, per esempio è dedicata a Marcia, che in realtà è Marta de nevares, l’amore della
fase finale della sia vita, che si dice che impazzì alla fine della sua vita e lui dovette farsi carico di questa
compagna con questi problemi.

Prima di Marta de nevares e dopo la lunga collezione di amori, intorno ai 50 anni vive una crisi spirituale
che lo toccò profondamente, forse scatenata da due eventi: la morte di uno dei suoi figli Carlos Felix di 9
anni che morì e la sua morte improvvisa segnò l’autore fortemente fino al punto da scatenare questa crisi
spirituale. Questo lo avvicinò alla religione fino al punto da prendere i voti. Sacerdote e buono alla fine vive
con Marta de Nevares.

L’altro grande dolore arriva alla fine della sua vita, al di là della morte di Marta: sua figlia Clara scappa di
casa per un amore clandestino, motivo di disonore per l’autore. Questi eventi contrassegnano una
vecchiaia di Lope non del tutto serena.

RIMAS SACRAS I SONETO

Come Cervantes frequentò e fecondò tutti i generi scrive “El peregrino en su patria” romanzo pastorale,
raccolta di novelle, quindi narrativa breve, tantissime commedie ma è anche autore di poesia burlesca dove
si inventa la sua identità con lo pseudonimo (alter ego) di Tomè de Burghillos che diventa l’io interlocutore
di questa raccolta di stampo burlesco, e in più autore di una vasta raccolta di poesia di varia natura.

Questo sonetto è al centro della sua crisi esistenziale più che spirituale, anche lui come tutte le anime de
siglo de oro conosce la crudezza del disinganno esistenziale e va alla ricerca dei sistemi di difesa contro
questo disinganno.
Ripresa e calco evidentissimo dei primi due versi del sonetto conosciuto come quello proemiale di
Garcilaso:

Garcilaso si leggeva tantissimo quindi Lope si ispira a quel testo perché nelle sue percezioni un testo di
apertura di un ciclo.

Il sonetto di Garcilaso è un sonetto d’amore che rientra nel genere lirico-amoroso, mentre questo è un
sonetto spirituale.

Assistiamo ad una tecnica molto radicata nella tradizione spagnola, quella della vuelta a los agrado: il
sonetto viene trasferito in un codice diverso, in questo caso nel codice della poesia sacra e non dello stesso
tema di Garcilaso.

“Quando mi fermo a riflettere sul cammino percorso fino a questo momento e osservo i passi che ho
percorso finora, mi spavento/mi terrorizzo di fronte al fatto che un uomo così perso sia arrivato a
conoscere il proprio errore”

Alterità: parla in prima persona ma vede un altro uomo che ha acquisito consapevolezza del suo errore.

Per Garcilaso era un errore amoroso, ricalcato sul modello petrarchesco del giovenil errore, e si pentiva di
aver amato sebbene non potesse superare quella condizione ma era condannato a patire la lotta tra
ragione e sentimento.

Per Lope de Vega l’errore è morale-spirituale non amoroso per quanto queste esperienze amorose abbiano
contribuito ad una vita efferata.

Ripresa anaforica abbinata al parallelismo sintattico: “nella vita passata la divina ragione quindi una ragione
ispirata alla divinità era stata dimenticata, conosco” verso de decollare prende coscienza di quanto vive.
Prende coscienza di quanto vive. Si pone in relazione con me espanto

Parallelismo sintattico tra prima e seconda quartina: subordinata temporale + verbo principale

“Riconosco che è stato un gesto di generosità quella di Dio, di non avermi fatto precipitare definitivamente
nell’abiezione”

E’ caduto e ha commesso l’errore, ma dio ha interrotto la sua caduta.

Idea della vita come labirinto, è una metafora tipica del barocco: spazio articolato dal quale non si può
uscire, che imprigiona e riduce ad una vertigine continua ogni volta prendiamo una strada pensando che sia
l’uscita ma scopriamo l’inganno. Il labirinto è il modo in cui la mente del soggetto 600esco percepisce
l’esistenza.

Estrano: alieno da sé ma anche curioso, bizarro-inusitato.

“affidando il fragile filo della vita al disinganno conosciuto troppo tardi”

Il verbo conocer di manifesta in modi diversi, Prende coscienza del disinganno

“Ma la mia oscurità vinta dalla tua luce nell’oscurità di questo labirinto” tu cioè Dio

L’anima prigioniera del labirinti viene visitata soccorsa è salvata dalla luce divina.

Antitesi tra luce e oscurità

Allitterazione della M “il mostro morto del mio cieco inganno, restituisce alla propria patria la ragione
perduta”
Dio come patria, il conforto religioso è la patria dell’anima.

Sonetto del disinganno dietro cui si nasconde un’anima sensibilissima.

Riesce a far comprendere le pulsioni profonde della sua anima.

La poesia del 600 è di convenzione, però alcuni autori riescono a far fuoriuscire dagli schemi prefissati la
loro sensibilità. La poesia di Quevedo è di una qualità eccelsa ma non tocca le corde della sincerità come
questa di Lope.

Di tema analogo il sonetto 18

Interroga Dio chiedendogli


“Che meriti ho io affinché tu mi conceda la tua amicizia? Com’è che ricerchi la mia amicizia presso di me che
non sono meritevole di niente?
Oh quando tu bussasti, Gesù, alla mia porta bagnata di rugiada io non ti aprii perché furono così dure le mie
viscere da non aprirti.” Non ti riconobbi
“Anima affacciati subito alla finestra, vedrai con quanto amore il chiamare insiste”
L’attesa di Gesù insiste nell’attesa che si aprano le porte di questa casa dell’anima.
“Domani le apriremo rispondeva per tornare a rispondere ogni volta domani”
Manana manana epanadiplosi. Chiusa del componimento molto efficace.

SONETTO de repente: sonetto all’improvviso, composto estemporaneamente


Dà conto di come il sonetto di faccia da sé
La situazione è metasituazionale cioè tipo metapoetico
“Violante mi ordino di comporre un sonetto per lei come facevano le dame dell’epoca che per mettere alla
prova l’ingegno degli autori dell’epoca gli chiedevano di comporre sul momento.
“Un sonetto mi chiese di comporre Violante che mai nella mia vita mi sono visto in una situazione tanto
oppressiva,
Dicono che il sonetto si componga di 14 versi, scherzando scherzando già sono composti i primi tre.
Pensavo di non trovare nessuna rima consonante, mentre invece sono già alla metà di un’altra quartina e
quando sarò arrivato alla prima terzina, non ci sarà nulla delle quartine che mi possa spaventare perché le
avrò già superate.
Sono entrato nella prima terzina e sembra che lo sto facendo bene poiché a questa prima terzina io do fine
in questo verso, sono nella seconda terzina.

Genere completamente diverso rispetto alle rime sacre.

A APOLO SEGUENDO A DAFNE SONETTO 545

Mito di Apollo e Dafne

Quevedo gioca molto con la mitologia che diventa un codice espressivo attraverso il quale esprimersi
specialmente durante il siglo de oro, molto spesso per esprimere le cose si usava il codice della mitologia.
Questo è un componimento burlesco volto al divertimento.
“Vermigliaccio argentiere delle cime” perifrasi per Apollo che è il Sole che rende con la sua luce argentee le
cime dei monti
Già dalla suffissazione si tratta di un gioco parodico.
“Alla cui luce si spulcia la canaglia” Si fa giorno e le canaglie si tolgono i pidocchi.
“La ninfa Dafne che fa la leziosa e poi zittisce” prima fa la moina e poi zittisce
Se vuoi godere di lei paga” Dafne viene convertita in una prostituta, Dafne che era l’amante casta disposta
a perdere la vita pur di non perdere la verginità. È trasformata nel suo contrario.
“Occhio del cielo prova a comprarla”
Riferimento a Marte e Venere che aveva tradito Vulcano accoppiandosi con Marte e li intrappolò in una
maglia per vendicarsi.
“Marte sprecò i suoi averi nella maglia comprando dolciumi e la sua spada ha sprecato le sue doti militari in
dolci e belletti regalati alla sua amata”
“Giove severo si è trasformato in bosa” Mito di Giove trasformato in pioggia d’oro.
Si alzò la gonna la donzella per raccogliere la pioggia d’oro.
L’amata che non si faceva conquistare da Giove, piuttosto che essere coerente con la sua natura si alza la
gonna.
“Tutto questo fu astuzia di una stella padrona che non sarebbe possibile inserire da una stella che non
abbia padrone”
Gioco di rimandi
“Febo siccome sei sole, serviti di lei”
Dafne viene ridotta al suo contrario. E’ un sonetto parodico che parodizza il mito di Apollo e Dafne.

SONETTO 850 QUEVEDO

Contra El mesmo Gongora cioè contro lo stesso Gongora.

L’unica cosa che deve emergere è che si tratta di un’invettiva nei riguardi di Gongora e del suo stile.

Perché Quevedo contro Gongora e lo stile Gongorino?


Gongora si muove all’interno della scuola petrarchista di maniera e produce vari componimenti degli anni
82/84 che rientrano nella modalità compositiva ispirata a Petrarca anche se risente già di tutta la scuola
italianista e di Herrera, Garcilaso ecc.

Almeno nella critica si è solito parlare di un Gongora de las luces cioè quello della produzione poetica in
metri brevi di sonetto e romances, ancora riconducibili al modello poetico petrarchista.

Da un certo momento in poi matura una svolta di gusto che imprime alla tradizione spagnola della sua
contemporaneità marcando uno spartiacque tra un prima e un dopo.

È lui lo spartiacque della poesia spagnola del tempo. Il Gongora della stagione matura risalente alla seconda
decade del 600 viene etichettato come il Gongora delle tenebre perché abbandona i moduli brevi ispirati al
modello petrarchista e italianista i anche i modelli della tradizione spagnola e passa a comporre poemas
largos, quindi lunghi: favole mitologiche, come quella di Polifemo e Galatea, la Circe ma soprattutto tra
1612 e 1613 finisce di comporre e pubblica le Soledades, più specificamente la soledad primera.

Le soledades gongorine dovevano essere 4 ma ne scrive una e la seconda è incompleta.

Ognuna delle soledades doveva corrispondere ad una stagione della vita simboleggiati da 4 ambienti: la
selva, il campo, la Marina, e il gierno.

4 ambienti che corrispondono alle 4 stagioni della vita.

Non lo riesce a fare se non concludere la prima per intero e parte della seconda.

E’ la prima opera con il quale si manifesta il cambiamento del gusto di Gongora, già Herrera aveva
manifestato quell’inquietudine rispetto alla tendenza manieristica dell’epoca.

La soledad primera è il resto con il quale si materializza questo gusto di Gongora. Già Herrera aveva
maturato una inquietudine per la poesia di maniera e Gongora è cordobese quindi sente quell’impulso di
rinnovare la poesia del momento, chi ci riesce è Gongora.
Nel 14 favola di galatea è da lì da scuola però immediatamente comincia a circolare la soledad primera, si
iniziano a diffondere delle reazioni è una forte polemica letteraria che coinvolgerà vastissime schiere di
autori fino a essere definita come “la battaglia intorno a Gongora” dalla quale deriveranno una serie di
inimicizie addirittura personali, non ultima quella con Quevedo.

Francisco de Quevedo fu uno dei detrattori Gongora, infatti le critiche per sintetizzare la situazione fanno sì
che ci siano due schiere, una che fa capo a Quevedo (quella dei detrattori di Gongora) mentre gli epigoni lo
consacrano come massimo modello. Ovviamente la situazione non è così semplice.

Questa polemica si consuma sulle scelte di carattere stilistico che adotta Gongora che ha una visione elitaria
della poesia. La poesia deve essere oscura, non deve essere subito intellegibile, non deve essere accessibile
a tutti, ma bisogna essere dotati di una serie di strumenti che permettono di accedere alla poesia.

Così per renderla oscura gioca su un livello lessicale ispirato a termini eruditi e colti, predilige anche i
forestierismi, cioè prestiti e calchi da altre lingue perché questo ovviamente arricchisce e complica il
linguaggio espressivo.

Si sforza di innovare ed inaugurare forme nuove sul piano sintattico.

Rompe con lo schema SVO e ricorre a figure retoriche che alterano la sintassi come l’operato. Fa un uso
abbondantissimo della mitologia, ricorre ai miti ma senza nominarlo con l’uso di perifrasi allusive,
accusativo alla greca e preleva una serie di caratteristiche strutturali grecolatine e le applica al castigliano
della sua epoca. Indulge agli espedienti di tipo fonico che possano arricchire il verso, forme della
paronomasia e annominatio; parlando di gongoliamo ci riferiamo a un linguaggio innovativo ma non a
concetti e contenuti innovativi.

Studia e mette a punto un codice espressivo nuovo che viene etichettato dai suoi detrattori come
culteranesimo, per la tendenza alla lingua colta, in senso dispregiativo come “eretici della lingua”.

In opposizione ai culterani c’è il modello del CONCEPTISMO ascrivibile alla figura di Quevedo, i conceptistas.

CONCEPTISTAS VS CULTERANOS

In effetti le cose non stanno in questi termini così netti. Infatti le due cose non si escludono.

Nel 1642 Baldazar Gracian scrive una summa di retorica, Arte de ingenio, tratado de l’agudeza poi in
seguito, dopo 6 anni scrive un’altra versione ampliata: agudeza o arte de ingenio che è la versione ampliata
con più esempi.
Si interessa di fare un’opera per riassumere la summa conceptista, summa retorica dell’arte dell’ignegno,
cioè del concettismo.
Gracian cita Gongora negli esempi della summa conceptista tanto che sono labili i confini ed è poco
veritiera questa separazione e polarizzazione tra i due gruppi.

La differenza tra queste due modalità risiede nell’opposizione tra gli oggetti su cui si concentra il poeta.

Nel caso di Gongora cioè dei culteranos si dice che non sono concentrati sulla trasfigurazione degli oggetti,
della res, ma investono il loro ingegno sul piano dei verba, dell’espressione, mentre i concettisti si
mantengono su un piano dei verba in maniera abbastanza trasparente e diafano, agirebbero sul piano della
cosa, si concentrano sulla res, sull’oggetto.
Gli oggetti che quel linguaggio trasfigura non sono riconoscibili, quindi sono gli oggetti ad essere occultati,
ma la lingua non è difficile.
È il principio della metafora.
Il concepto è una metafora più articolata “la nariz entre Roma i Francia” modalità di occultamento del
referente reale.
Ma sul piano verbale non è nulla di complicato mentre sul piano semantico l’oggetto di paragone è
occultato.
I concettisti lavorano sulla cosa e la trasfigurano, i culturanos usano termini difficili.

Gongora finisce di comporre la soledad primera e inizia ad inviarle ai suoi amici letterati chiedendo un
parere, da qui inizia questa disquisizione.
Pedro de Valencia apprezza l’innovatività però gli dà dei consigli su cose che secondo lui non funzionano.
Anche L’abbat de rute gli dà dei consigli utili.

Ed in effetti abbia diverse versioni della soledad primera frutto dei rimaneggiamenti della soledad seguiti ai
riscontri delle persone interpellate però nel frattempo cominciano a circolare come manoscritti del poema
e si diffondono ed emergono le reazioni. Iniziano i carteggi più avvelenati tra i vari eruditi dell’epoca fino al
punto che questa polemica che travalica il privato e diventano questioni pubbliche, prese di posizioni.

Uno dei maggiori nemici di Gongora fu Juan de Aregui che scrive “Antidoto contro la pestilente poesia del
las Soledades” addirittura un’opera scritta contro la velenosità della poesia gongorina, di conseguenza
coloro che erano a favore si scatenano e da qui si apre tutta la discussione.

Resta il fatto che certamente, anche se osteggiato, Gongora si conferma come il poeta più innovativo di
questa stagione spagnola. Molto scriveranno la poesia alla maniera id Gongora, si oppongono a Quevedo
ecc.

Il sonetto che abbiamo letto è una delle manifestazioni di Quevedo contro lo stile cultista di Gongora.
“Che canti, notturnale delle tue canzoni, Gongora sciocco con i crepuscolari quando aneli maggiori
garcivolallas” crepusculallas fa riferimento ad un sintagma delle soledades
Si ispira a Garcilaso però secondo Quevedo lo rovina
“La rettilizzi più che sovrapponi il microcosmo di te”
E’ intraducibile perché unisce una serie di cultisti con una serie di figure retoriche che richiamano il tipico
componimento Gongorino.

DEDICA AL DUCA DE BEJAS è lo stesso destinatario di don Quijote

Iperbato con dislocazione della struttura normale dell’ordine delle parole


“Sono i passi di un pellegrino errante quelli che mi ispirò quanti versi mi dettò la dolce musa in una
solitudine confusa, perduti gli uni, ispirati gli altri
Assimilazione tra versi e passi: i versi ispirati dalla dolce musa sono quelli che fa il pellegrino.
Chiasmo interno 4 verso.
Gioca sulla dilogia (doppio significato dei termini) i passi sono del giovane pellegrino che vien salvato da un
naufragio e si ritrova sulle rive di una spiaggia che è alla base di un promontorio e comincia a risalire la cima
del promontonio. Tutta la soledad è la narrazione dell’erranza del giovane pellegrino in questo bosco,
quindi i passos è una dilogia, cioè i passi che rimandano alla storia interna, ma sono anche i passos dei versi
che compongono l’opera.
Un’altra dilogia investe il termine SOLEDAD: vuol dire certamente solitudine dal latino, ma vuol dire anche
una zona spopolata, desertica, disabitata, quindi indica perlomeno 3 significati.
Soledad come viaggio solitario del pellegrino, in uno spazio che è una soledad, ma soledad vale anche per
selva, cioè un luogo disabitato contrassegnato da una vegetazione non ordinata. Ma selva è il luogo dove si
svolge l’azione, ma è anche il metro di cui si compone l’opera, che è scritta in silvas.
E’ una forma strofa che prevede l’alternanza di versi di lunghezza diversa, in un ordine confuso. Non
aderisce a uno schema di tipi fissi. Non rinuncia alla rima, ma la rima può ricomparire anche dopo molti
versi. Quindi richiama la selva ambiente nel testo.
Il poema è scritto in silvas perché ha come oggetto una serva. Corrispondenza perfetta dello schema
formale del componimento con l’argomento di cui tratta.

24 LEZIONE 7.12.18
La polemica attorno alle Soledades scoppia prima della loro effettiva pubblicazione, ma con l’apparizione
dei manoscritti dei poemas largos Gongorini.

Queste opere rappresentano uno spartiacque della produzione poetica dell’epoca, possiamo dire che in
qualche modo esplode il Barocco in Spagna.

Luis de Gongora per buona parte della sua vita aveva composto poesia in vari metri, tradizionali o italianisti,
senza mai preoccuparsi di pubblicarla o di conservarla, infatti non curava la pubblicazione delle sue opere,
semplicemente compone e questo provoca il problema delle versioni multiple o delle versioni apocrife.

A stampa erano usciti i Romances inclusi nel Romancelio general del 1600 e quella del 1604.

Il Romancelio general è una della più grande pubblicazione di romances che vivono un vero e proprio
revival in questo periodo. A parte l’accoglienza all’interno di queste raccolte, non esisteva una vera e
propria raccolta delle opere di Luis de Gongora. Queste opere pur senza cure dell’autore continuavano a
circolare, infatti quando Gongora (intorno ai 40 anni, 1610) dà inizio alla seconda “fase” delle sue
produzioni, è già stato consacrato ad uno dei poeti maggiori di questi tempi, sebbene non si fosse mai
dedicato all’attività letteraria come interesse primario e specifico. Quindi quando mette mano ai primi
esperimenti di poesia nueva, l’attenzione su di lui è massima perché già è un poeta che viene seguito da
vicino.

Si tratta di un periodo delicato perché a questa svolta ricollega il desiderio e l’aspettativa di ricavare dei
proventi dall’attività letteraria.

Per una parte perché era povero in canna, infatti viveva come cavildo della Cattedrale di Gongora e viveva
dei proventi ecclesiastici, di cui parte ne aveva trasferito ad uno dei suoi nipoti (di cui si era fatto carico). La
famiglia non navigava nell’oro e quindi ovviamente dovendo far fronte alle esigenze di tutta la famiglia, non
gli bastavano più queste entrate, in più parte di queste le aveva trasferite al nipote e quindi non ce la
faceva. Nel frattempo tentava di ottenere dei lavori per la corte.

Nel 1605 un giovane nipote 20enne era morto per una zuffa abbastanza sciocca, siccome la madre non si
rassegnava e pretendeva giustizia, Luis de Gongora inizia una causa contro gli assassini di suo nipote,
questo ovviamente ebbe dei costi che andarono a gravare sulla situazione già abbastanza grave della
famiglia, ma questo fu anche motivo di un firtissimo desinganno per Gongora e la sua famiglia, perché non
riuscirono mai ad ottenere giustizia per il giovane ragazzo, tanto è vero Gongora maturò un vero e proprio
desprecio nei confronti della corte, tanto era deluso e amareggiato per questa situazione.

Il progetto delle Soledades maturano proprio i questo contesto vitale dell’autore. Nel 1610 cominciano
come un’opera teatrale, nel 12 conclude la favola di Polifemo e Galatea e già inizia a scrivere la Soledad
primera, che sarebbe stata conclusa già a Maggio, perché l’11 maggio scrive la famosa lettera a pedro de
Valera, che nel frattempo era diventato un personaggio di grande rilivevo (tipo scrittore di corte), manda
questa lettera a Pedro de Valera ed ebbe un riscontro.

Allo stesso tempo mentre gli arriva il riscontro di Valeda, lo continua a modificare e invia l’opera all’abbat
de Rute. Anche questi gli invia un parecer.

Tutti questi testi di risposta lo inducono tutte le volte a correggere, modificare e migliorare la soledad.

Tanto è vero che si pensa che perlomeno fino al 1619 è intervenuto 7 volte sull’opera.
La parte iniziale non corrisponde all’incipit che l’autore gli aveva dato inizialmente.

Poi in un secondo momento scoppia una vera e propria polemica attorno alla sua opera.

Una serie di testi che prendono posizione su questa proposta estetica assolutamente rivoluzionaria e
innovativa.

Le Soledad si presentano come un processo elitario. Nell’autunno del 12 inizia a scrivere la seconda
soledad, ma proprio in quei mesi iniziano le polemiche e forse proprio quel clamore lo porta ad
interrompere il progetto.

La prima parte è composta da una lettera al duca de Dejar. Ci interessa la prima parte che contiene una
serie di chiavi che ci spiegano la natura dell’opera.

I primi versi condensano tutto il senso della Soledad: dal punto di vista stilistico-retorico, l’iperbato richiama
a tutta quella serie di figure retoriche tipiche del testo, i versi inoltre rinviano sia all’attività letteraria del
poeta che sono equiparati ai passi del pellegrino errante, che vorrebbe ricondurre l’opera ai suoi passi cioè
al duca di Dejar che accolga le sue parole, ma i passi sono anche quelli del protagonista che viene colto in
una certa erranza. Il termine importante è “soledad confusa” nel quale veicola perlomeno tre significati:
Soledad che rinvia allo spazio della vegetazione, solitudine del protagonista, oppure alla forma del poema.
La soledad corrisponde alla selva, la selva è il contenuto ma è anche la forma del poema che è scritto in
silvas.

DEDICA AL DUCA DI BEJAR che è il membro di una delle famiglie più in vista dell’Andalucia, soprattutto la
zona di Uelva, la zona atlantica al confine con il portogallo, da Aliamonte e dintorni. Gongora aveva dei suoi
possedimenti che confinavano con quelli del duca di Bejar, vicino Gongora, quindi aveva interesse ad
entrare nell’orbita del duca.

Lo immagina in una battuta di caccia in montagna, durante l’inverno (quindi innevate). Si rivolge
direttamente al duca
“Oh tu che venablos= dardi usati per uccidere i cinghiali, impedido significa carico di dardi da lanciare. E’ un
latinismo, una delle caratteristiche formali che investe l’opera. Fa riferimento alla voce latina che fa
riferimento al piede ostacolato e quindi carico.
“Tu che vai carico di queste armi per cacciare le tue prede, batti i monti che sono muri di abeti (fila di alberi
funge da muro) almenas de diamante (merlature, conia concettuosamente, quindi è un CONCEPTO,
merlature di diamanti, perché sulla cima sono bianchi e rinviano alla trasparenza del diamante.) Entrambe
le metafore (o conceptos) sono perifrasi di MONTES quindi anticipano quello che verrà dopo.
“Monti che, armati di neve” armatos rinvia alla pratica della caccia
Sono talmente alti questi monti da far pensare a dei giganti da minacciare il cielo che ha paura della
vicinanza di questi giganti.
“Dove il corno ripetuto dall’eco, conduce verso di lui le prede, le attira”
expone: latinismo porre fuori, mostrare.
Il suolo tinto (di sangue)
CONCEPTO
Il sangue di queste prede nell’arrivare al Tormes (stiamo a Nord quindi nelle zone originarie del duca), il
sangue per arrivare al fiume mescolandosi con la neve, rosso si mescola al bianco e diventa rosato, quindi
dà luogo ad una specie di spuma che fa pensare al corallo.
Terminos: allude al fatto che tutto questo scorrere del sangue degli animali altera i confini del fiume e li
rende non conformi al corso abituale.
“Avvicina un frassino all’altro frassino” frassino: metonimia del dardo
“Il cui acciaio trasudando sangue, in un tempo breve, molto presto, farà purpurear la neve” che entra in
contatto con il sangue.
“e appena il montanaro dava al duro rovere al pino, emuli i venti delle rocce, le formidabili spoglie dell’orso
che ancora baciava l’asta della tua lucente cavallina”
Così come il montanaro cacciava gli orsi tra i pini e gli alberi di rovere, così tu riuscirai a cacciare il cavallino
con la tua asta, il montero lo fa con pali di rovere, tu lo fai con la tua cavallina.
Continua l’elogio del duca.

Comincia il componimento in Silvas.


Periodo lungissimo vv.1-14 Questa prima parte del poema risponde ad una CRONOGRAFIA descrizione del
tempo e dell’ambiente in cui si svolge l’azione che in effetti comincia in medias res, infatti l’opera inizia
senza darci informazioni se non queste coordinate spazio-temporali.
“Era dell’anno la stagione fiorita in cui il falso rapitore d’Europa, (mezzaluna le armi della sua fronte, con il
suo pelo fatto di tutti i raggi del sole), lucente onore del cielo pascola stelle in campi di zaffiri, quando colui
che poteva somministrare la coppa a Giove meglio di quanto facesse il garzone di Ida, naufrago e
disdegnato oltre che assente, lacrime d’amore e dolci lamenti dà al mare, che compassionevole consegnò
alle onde, consegnò al vento il misero gemito dolce strumento secondo Arione”.
La protasi è la conseguenza di versi fino a QUANDO vv 1-8 è un’orazione temporale che ripercorre i 14 versi,
specificato da quel quando. Dà al mar: principale.

Era la PRIMAVERA iperbato ovviamente: era la stagione fiorita dell’anno, quindi perifrasi di primavera.
In cui il menzoniero rapitore d’Europa: allude al ratto di Europa, Zeus vedeva sulle spiagge della Libia,
Europa, la figlia del re di Libia. Zeus per poterne godere si trasforma in toro, raggiunge la spiaggia dove sta
passeggiando Europa, la saluta, la induce a salire in groppa, la ragazza si fida e il toro la rapisce, si tuffa al
mare, con questa povera fanciulla attaccata alle corna del toro, dal mare, inizia a salire verso il cielo, ma
viene punito per quello che ha fatto, quindi si verifica un CATASTERISMO cioè una trasformazione in astro e
il toro viene trasformato nella costellazione del Toro.
Toro entra nello zodiaco il 20 Aprile, quindi rappresenta il segno della primavera.
Sta semplicemente dicendo che tutto quello che racconta accade in primavera.
Il riferimento al ratto d’Europa, quindi ad un mito (che nel barocco diventa un filtro linguistico per parlare di
altro), pausa parentetica della descrizione del Toto (mezzaluna sono le armi della sua fronte, cioè le corna;
fa riferimento alla rappresentazione del segno zodiacale del Toro)
Mentido allude al travestimento, perché è Zeus trasformato in toro, ladro di Europa
“Era la stagione fiorita dell’anno in cui il contraffatto rapitore d’Europa, mezzaluna le armi della sua fronte e
il suo pelo (allude all’immagine del pelo lucente), come se tutti i raggi del sole fossero confluiti sul suo pelo
per dargli lucentezza, (sta alludendo al Toro della costellazione).”
Luciente honor del cielo: che splende nel cielo con onore
Insiste molto sul liguaggio lessico di tipo militare (armi, onor) legato al fatto che c’è un dio, Zeus, che
campeggia nel cielo.
Il testo allude contemporaneamente sia al mito che alla trasformazione in astro (catasterismo), prima parla
della costellazione, poi di nuovo del toro che pascola, ma in effetti pascola nel cielo.
E’ un’ immagine tratta dall’Eneide, trattando delle stelle.
“che pascola le stelle in campi di zaffiro”
La cronografia ci vincola un’altra informazione: si tratta di un cielo notturno e diurno insieme, perché allude
al sole e contemporaneamente alle stelle. Ci sta dando la coordinata cronologica (cioè stiamo in Aprile),
mentre dal punto di vista ambientale siamo al crepuscolo (luce diurna e notturna insieme).
“Quando colui che poteva somministrare a Giove la coppa meglio del garzone (ragazzo) di Ida”, si tratta di
Ganimede, il cocchiere degli dei, a cui allude sempre per mezzo di una perifrasi allusiva (è la sua tecnica).
Ganimede era il cocchiere bellissimo degli dei che somministrava le bevande agli dei, Ganimede era stato
abbandonato sul monte Ida e di lui si era innamorato Zeus.
“Colui che” allude al protagonista: vuole dire che il giovane protagonista è più bello di Ganimede.
“Quando il protagonista (che non è ancora apparso e compare adesso sulla scena, giovane bello) naufrago e
disdegnato (il naufragio è conseguenza del fatto che lui ha subito un rifiuto, quindi un disdegno d’amore. E’
una prolessi che ci anticipa la vicenda. Infatti il giovane abbandona la corte nel tentativo di liberarsi
dall’amore non corrisposto, decide di abbandonare la corte e subisce un naufragio, dal quale si salva, arriva
su un promontorio e inizia la sua peregrinazione).
Si allontana dalla corte perché avremo dei riferimenti che ci rinviano ad una persona aristocratica, quindi si
capisce che si tratta di un giovane cortigiano.
Naufrago, disdegnato, oltre che assente. Assente perché è scappato dalla corte.
Ci dà tutti i riferimenti connotativi, del tempo, del momento del giorno, del protagonista.
“Dà al mar” verbo principale “offre al mare dolci lamenti lacrimevoli d’amore” rinvia all’idea di questo
ragazzo che pronuncia i suoi lamenti d’amore
“che” è il relativo di mare che diede alle onde, diede al vento (parallelismo) il dolce strumento secondo di
Arione (cioè la lira). Allude al terzo mito del testo: Arione era a bordo di una nave, il capitano lo voleva
uccidere e lui è costretto a scappare dalla nave e una volta in mare viene soccorso dai delfini che lo salvano
e viene restituito alla terra e alla vita.
Il mare si trasforma in una specie di strumento attraverso il quale il giovane può cantare i suoi lamenti, così
come Arione era stato in grado con la sua lira di attirare i delfini, che lo avrebbero salvato una volta che si
fosse gettato in mare.
La lira è dulce perché richiama i delfini, ma anche perché placa il mare, lo rende meno procelloso. Si chuide
così l’incipit.
L’alternanza dei versi nella loro lunghezza: endecasillabi, settenari, ottonari è il modello della SILVA che dà
l’idea di un andamento selvatico. Per di più dà l’idea di un bosco disordinato sul piano del significato, è
l’argomento dell’opera, anche dal punto di vista strutturale segue lo stesso schema.

Forte iperbato
“Nella montagna dal pino sempre opposto al nemico Noto, pietoso membro rotto, breve tavola non fu un
delfino piccolo”
Il Noto è un vento molto forte. Dal pino che nella montagna contrasta il vento Noto (gli è nemico perché il
vento minaccia gli alberi e il pino sulla montagna resiste al vento).
Per metonimia, “un solo pezzo di questo pino” si riferisce al legno della nave su cui viaggia il povero
naufrago.
Questi riesce a salvarsi perché la “breve tavola” cioè un pezzo di legno della nave lo ha condotto a terra.
La tempesta ha distrutto la barca e lui si aggrappa ad un pezzo di legno che veniva da un pino. E’ piadoso,
cioè pietoso perché grazie alla sua pietà il naufrago si salva.
Questa tavola di legno ha funto per lui da delfino, così come i delfini salvarono Arione, allo stesso modo il
pezzo di legno salva il naufrago. Quindi riprende il mito di cui aveva parlato in precedenza, per giustificarne
l’uso. Il mito di Arione viene prolungato nella seconda sequenza per mezzo del riferimento al delfino.
Chiasmo breve tabla e delfin pequeno (agg-sost; sost-agg)
Il ragazzo è imprudente perché si è gettato senza avere esperienza alla navigazione.
“A una Libia de ondas” perifrasi per il mare
“Questo sconsiderato peregrino, che aveva affidato la propria vita (il proprio cammino) ad una Libia di
ondas” è un deserto fatto di onde, è un concepto per antitesti (e sinestesia) ricorre alla definizione
mettendoci dentro un’efficacissima antitesi.
“e affidò la sua vita a un legno” sineddoche di legno per barca
Tutti i miti di cui ha trattato, sono tutti miti di trasporto, di movimento, che vengono messi al servizio di
questo concetto del trasporto quindi del peregrinaggio del giovane in mare; allo stesso tempo fa
riferimento a tutta l’esperienza di composizione lirica che lui fa attraverso i suoi passos, quindi al trasporto
poetico. Lavora sul doppio piano.
L’investimento di ingegno è sul versante espressivo.
“Dall’Oceano prima travolto/risucchiato e poi vomitato non lontano da uno scoglio coronato di secchi
giunchi e di calde piume e di spuma” animalizzazione dell’oceano che risucchia/assorbe il giovane e poi lo
rivomita su uno scoglio su cui confluiscono insieme sia i secchi giunchi che la spuma quindi è secco e umido
allo stesso tempo.
Allusione ai 4 elementi sempre compresenti, che erano simbolo di ordine, contrapposizione al caos.
Vuole dire che parte dalla corte che è il caos e arriva a questo approdo che è un cosmo ordinato in cui tutti
gli elementi sono in equilibrio tra di loro.
L’opera è un testo satirico e lo capiremo molto più chiaramente più avanti.
“Trovò ospitalità dove l’uccello di Giove trovò il nido”
Nuovo riferimento al mito di Ganimede. Gongora reitera e prolunga i miti all’interno del verso perché era
stato trasportato sul monte Ida.
“Bacia la spiaggia” è il gesto del giovane che esprime ringraziamento alla terra per essersi salvato e bacia la
sabbia. “e quella piccola parte della nave rotta” riferimento al pezzo di legno che lo ha salvato, che assume
quasi le connotazioni di una reliquia. Il verbo compare alla fine.
“Baciò la spiaggia e poggiò sulla roccia quella piccola parte della nave rotta che lo consegnò/lo diresse alla
spiaggia” in segno di gratitudine per il salvataggio che ha ottenuto.
Commistione di vari elementi: per ogni mito compaiono 4 elementi. Arione, delfini: acqua, Toro: aria, il
viaggio di Giove Toro termina in cielo
“Perché ancora si lasciano sedurre le rocce dai segni di gratitudine.” Le rocce sono contente della
gratitudine espressa dal giovane.

“Nudo ormai il giovane quanto già l’oceano aveva bevuto, restituì che ciò che Oceano ha bevuto, la
restituisce alla sabbia” si denuda per mettere ad asciugare i vestiti, e li asciuga alla sabbia.
“E al sole lo distende immediatamente
Il sole estrae ciò che non assorbe l’oceano
Immagine che ha a che vedere ancora una volta con il Toro, fa riferimento al fatto che ciò che non
restituisce all’acqua la restituisce al sole, il sole lento lo investe come un toro.
Il termine investire dà l’idea di come il sole asciuga i vestiti in maniera progressiva.
L’azione viene resa con una nuova animalizzazione: il sole è assimilato ad un toro che carica leccandolo
appena, come se il sole leccasse l’acqua dai vestiti, “dulce lengua del templato fuego” chiasmo antitetico
Con la sua lingua lo investe lentamente e con un fare soave, risucchia la più piccola onda al minor filo”
toglie tutta l’acqua fino al più piccolo filo.
25 LEZIONE 11.12.18
Soledad primera di Gongora.
Il giovane peregrino si salva dal naufragio e arriva sulla battigia dalla quale si staglia il promontonio che lui
risale e una volta risalito, inizia a scendere verso un villaggio. Si era preoccupato di asciugare i vestiti.
Sappiamo che il peregrino corrisponde a un giovane innamorato proveniente dagli ambienti della corte:
giovane perché mansejo vuol dire ragazzo, invece ausente cioè assente dalla corte, desdenado rimanda alla
condizione di essere stato rifiutato dall’amante e questa sembra essere la causa che lo ha fatto scappare
dalla corte.
Parliamo di un cortigiano perché gli abiti che indossa sembrano essere di alta fattura.

42. Periodi assolutamente voluti nel spiegare i testi del Barocco.


Si riferisce al fatto che la luce dell’orizzonte non si percepisce bene. L’azione comincia in medias res, al
crepuscolo, con una luce incerta.
Non bien: luce che non lascia intravedere bene all’orizzonte.
Doppio emistichio con epanadiplosi che contiene diversi ossimori che rendono un’immagine molto efficace:
per dare conto del fatto che non si capisce da dove inizi il mare e dove finiscano le montagne visto che la
luce non fa comprendere l’orizzonte “sono monti di acqua e i mari di monti?” è proprio questa accoppiata
dove difficilmente si riescono a distinguere i due ambienti, rendono indecifrabile l’orizzonte.
Nel guardare lontano non si mette a fuoco correttamente il paesaggio.
Desdorados: privi di sole perché la luce non è sufficiente quindi le cime dei monti non vengono illuminate
correttamente, quindi prive della luce del sole.
Retoricamente dobbiamo riconoscere l’assimoro doppio e l’ipallage, perché l’attribuzione della qualità
marina ai monti e quella montuosa alle onde.
Non bene quindi rendevano confusamente non livellati le luci dell’orizzonte, desdorado il soggetto che sta
osservando questo paesaggio, quando consegnato il misero straniero (straniero perché non appartiene a
quello spazio) a ciò che dal mare riscattò fiero, tra i rovi di spine calpestando crepuscoli”
Dobbiamo immaginare un ragazzo che nella difficoltà di vedere si muore tra rovi di spine, la stessa luce che
non gli consente di vedere bene diventa quei rovi che calpesta.
“Rocce che arriverebbe perfino a scalare a fatica (farebbero fatica a scalare questo promontorio perfino gli
uccelli)”
Il verbo della principale ricompare solo alla fine “il ragazzo scala queste rocce, meno stanco che confuso
queste rocce che farebbero fatica a scalare anche gli uccelli” ovviamente si sente confuso perché le
condizioni ambientali non gli consentono di scalare bene la montagna, quindi è confuso
“vinta finalmente la cima (arrivato in cima), dal mare sempre sonante (mano a mano che si allontana dal
mare sente il rumore delle onde) alla silenziosa campagna (che funge da barriera, di muro inespugnabile
che però con il piede ormai più sicuro lui riesce a superare. Ha il piede sicuro perché ormai è arrivato alla
cima) arbitro igual, deve attraversare la zona pianeggiante quindi il piede è uguale all’altro e quindi
comincia a declinare. Comincia la discesa guidato da una luce che fa fatica a distinguere, perché in
lontananza e perché si trova al crepuscolo, ma comunque la segue.”
Assimilazione dello spazio terrestre con quello marino “questa luce in lontananza che gli provoca
stordimento (perché non può muoversi in sicurezza 1 perché non lo conosce 2 perché non è in sicurezza)
non riesce a capire se è una fiaccola della campagna o se è il faro di una nave nel porto (contesto
marino/contesto campestre che si intrecciano).
Il faro di una capanna che sta sopra il ferro (metonimia di una nave), ma quell’incerto golfo di ombre che lui
vede è aperta campagna, non c’è il mare. La campagna da questa percezione alterata dalla luce, gli sembra
un mare dove c’è un porto sicuro.

La prima volta che il protagonista prende la parola, primo monologo.


“Raggi, rivolgendosi ai lampioni (non sa ancora che cosa sono) ellissi del verbo essere, giacchè non siete i
figli tremanti di Leda (i Dioscuri che furono partoriti da Leda, tremanti perché la luce si muove e vacilla),
siate della mia tempesta termine luminoso (mettete fine con la vostra luce alla mia tempesta, alla mia
fortuna in vox media).
La schiera di alberi lo separa dal luogo di origine della luce, cioè quella che sapremo essere la capanna dei
caprai.
Questa schiera è invidiosa: etimologia latina: gli impedisce di vedere oltre. Latinismo

Temendo sia la interposizione della barbara (vegetazione inordinata, è una selva) schiera che gli impedisce
di vedere, quando=oppure è un’apposizione che aggiunge elementi rispetto alla frase che ha pronunciato.
Temendo l’arboreta che impedisce di vedere, oppure dai venti dei quali teme la congiura (teme che
possano soffiare venti contrari rispetto al cammino che sta percorrendo, perché dovrebbe temerli? Perché
si spegnerebbe la luce che lo sta guidando così come si alza il vento.
“Temendo sia la barriera costituita fra gli alberi, ma anche la possibilità che si possano alzare i venti, così
come percorrendo il villano la fragosa (difficile) montagna diventa una facile pianura perché la segue
attentamente (quindi riesce a farsi guidare dalla luce perché la segue attentamente). Quella è riferito a
luce.
Parte parentetica, pausa che allunga la comparazione e complica il discorso: “quella luce che nonostante le
tenebre e nonostante le stelle risulta chiara” tenebras e estrellas in rapporto antitetico fra di loro. La luce è
più forte delle tenebre e più chiara perché si riesce a vedere nonostante le stelle.
La luce in questa comparazione si trasforma in una pietra, il carbonio in italiano che corrisponde all’occhio
della lince, famosa per avere una vista straordinaria e soprattutto c’è dietro un racconto di tipo favolistico.
Plinio il vecchio racconta di questo animale, la lince, che avrebbe nella fronte questa pietra brillante che si
vede particolarmente nella notte. In realtà l’animale a cui si riferisce la leggenda è il lupo, però nella
versione di Plinio questo animale diventa lince, i cui occhi particolarmente capaci, diventano come questa
pietra scura ma luccicante che farebbe da guida.
Siamo ancora all’interno del primo termine di paragone “così come il villano riesce a fare in modo che la
montagna diventi una pianura perché segue questa luce chiara e visibile come la pietra sulla fronte
dell’animale (quindi la pietra è tiara perché si trova sulla fronte). E’ tutta una metaforizzazione, conferma
del fatto che gongora non sia meno concettista di Quevedo.
“Sempre che il racconto tramandato dalla tradizione non sia menzoniero, dell’animale notturno (la lince) la
cui fronte è il capo brillante del notturno giorno” è notte ma viene fatta luce in questa notte, quindi la
pietra che splende come una tiara sulla fronte dell’animale funge la funzione del sole durante la notte.
Così come il contadino riesce a superare le difficoltà della montagna e fare in modo che diventi un
paesaggio pianeggiante, facendosi guidare dalla luce e a uscire dalle tenebre, “COSI (secondo termine di
paragone) dirigente il passo, il giovane affretta il passo perché usa la luce della lampada così come il villano
usa la luce della lince per farsi guidare nella notte misurando la vegetazione con un piede pari rispetto al
suolo (cioè può camminare in pianura) “con un piede pari alla pianura” con lo sguardo fisso (si riferisce allo
sguardo, non si distoglie dalle luci) a dispetto della nebbia fredda e nella pietra della lince, nord della sua
bussola (gli indica la direzione che deve seguire), sia che il vento astrale soffi, sia che l’albereto scricchioli”.
Si sente sicuro perché non teme che si sollevi il vento.
Estesissima comparazione dal v 64 a 83.
Finalmente guidato dalla luce si avvicina a questa capanna e dice che il cane da guardia, visto che non lo
conosce, all’avvicinarsi della figura “lo accoglie abbaiandogli” perché non lo conosce, ossimoro “e quella
che sembrò una scarsa luce deviata, da vicino si trasforma in una grande luce. Gioca sull’antitesi tra poca e
tanta.

“Poiché sembrava essere un lampione, ma è in realtà un fuoco che arde di arbusta quercia disparsa in
cenere come se fosse una farfalla” le farfalle, simbolo della delicatezza, sono attratte dalla luce, ma così
come si avvicinano alla luce, vanno incontro alla morte perché vengono ridotte in cenere. Quindi la quercia
così robusta, si consuma come se fosse una farfalla che si incenerisce.
“Quindi arrivò il ragazzo, si avvicina a questo fuoco, fu salutato dai caprai
Intende sottolineare il fatto che i caprai lo acoclgono benevolmente da subito, senza ambizione e senza
pompa di parole.
In questo punto inizia una tirata satirica di Gongora contro la corte.
La vera natura del testo che si presenta semplicemente come un’opera di argomento rurale, in realtà
nasconde dietro la materia narrativa è piuttosto scarna,
Il giovane fa questa passeggiata verso i pastori, poi assiste a delle nozze, saluta e se ne va e dopo comincia
la seconda soledad, quindi la materia narrativa è poca cosa, quello che invece va sottolineato è il
travestimento formale di questo giovane.
Il poeta investe tutto sul piano espressivo, fattura una versione stilistica e testuale assolutamente oscura
ma gli oggetti sono semplici. Si tratta di giochi formali ed espressivi.
Per di più la finalità del componimento è questa tirata satirica contro la corte, attraverso la
contrapposizione tra il contesto rurale e la corte. Tutti i valori positivi sono posseduti dai contadini, mentre
tutti gli aspetti negativi sono contenuti all’interno della corte.
Si tratta di una tipizzazione del beatus ille di Orazio che in spagna assume come nome “Menosprecio della
corte y alavancia de ardea” (dote della campagna) topos tipico.
93: il fumo viene definito direttamente con il termine vulcano.
I caprai si sono posti in cerchio attorno al fuoco, quindi hanno coronato il vulcano.

Secondo discorso diretto del pellegrino il pellegrino pronuncia una sorta di canto in lode al luogo che lo
accoglie “la dimora fortunata” è la capanna che lo accoglie “o ben avventurato albergo a qualsiasi ora”
bienaventurado allude al canto di graditudine che si soleva pronunciare, quindi un genere greco codificato,
il “MAKARISMOS”canto di gratitudine per l’accoglienza che gli danno.
Si tratta di un discorso, un genere, un canto di gratitudine che si era soliti pronunciare per augurare una
buona fortuna, un elogio pronunciato nei riguardi di qualcosa.
Per esempio Claudiano, è un autore classico che Gongora imita moltissimo scrive sempre con makarismos
“beati coloro che..”.
Coincide con questa tipologia discorsiva
All’interno del makarismos, ritroviamo una descrizione della capanna
“tempio di Pales (dea delle greggi) fattoria di Flora” crea un’IPALLAGE perché dovrebbe essere tempio di
Flora e fattoria di Pales, che è la dea degli animali, quindi più adatto al termine fattoria.
“adeguando il sublime edificio al concavo delle bestie” la capanna ha una forma concava, rimanda all’idea
che la forma convessa della capanna sia conforme rispetto alla forma concava del cielo, perché allora si
pensava che il cielo fosse concavo.
“sublime edificio” rispetto ad un’umile capanna è ovviamente un tentativo di innalzamento, di
sublimazione di una cosa umile come la capanna.
Adegua la cupola della capanna ad un edificio moderno
Nessun edificio dell’arte moderna, nessuna architettura moderna è paragonabile alla perfezione di questa
capanna
Nessun moderno artificio riuscì a cancellare progetti né abbozzò modelli equiparabili a questo sublime
edificio” perché nessuno di questi riesce a combaciare perfettamente con il cielo.
Artificio gioca sul fatto che le costruzioni del contesto urbano sono frutto di una tecnica, mentre la capanna
quasi di una produzione naturale, quindi nessun edificio articolato abbozzò progetto non riuscendo ad
uniformare la cupola dell’edificio ad una volta celeste, come fa la capanna.
“La ginestra, la tua fattura è povera, dove fa la guardia, piuttosto che l’acciaio (quindi non c’è la guardia
delle corti), l’innocenza, è sufficiente che faccia la guardia il capraio attraverso il suo fischio.
Il capraio richiama le greggi ed è sufficiente quello, non c’è bisogno di altre guardie a vigilare, basta quello.

“Dove cioè che vigila è l’innocenza”


Tirata satirica molto più esplicita: “non dimora in te l’ambizione (cioè uno dei vizi ascrivibili allo spazio della
corte)
Vengono richiamate una serie di immagini che corrispondono alle
E’ un’epoca in cui si era diffusa una raccolta di emblemi, di immagini simboliche con un motto che
riassumesse il significato delle immagini. Si diffondono tantissimo e siccome la poesia del 600 gioca
moltissimo sui sensi, si avvale moltissimo degli strumenti che si avvalgono delle immagini, perché quella del
600 è una poesia visiva, perché tende alla costruzioni di immagini che sollecitano la vista, è una poesia
iconica, quasi plastica perché crea delle immagini quasi toccabili.
Al Chado fece una racoclta di emblemi, che suscitò moltissimo l’immaginazione di Gongora che ne usa ben
8 nei suoi attacchi alla corte.
Svolge la funzione satirica secondo un procedimento ex contrario, elogia lo spazio campestre per denigrare
la corte, per deduzione si capisce che allude alla corte.
8 allegorie dei vizi, l’ambizione viene rappresentata come colei che si alimenta di vento, perché è
inconsistente.
“Non presso di te dimora l’ambizione idropica di vento” è un cultismo: la idropsia è una malattia legata al
fatto che il soggetto non potesse soddisfare la propria sete, nno trattiene i liquidi e si disidrata.
L’ambizione è assetata di vento, crea una sinestesia tra acqua e vento
“Né dimora presso di te colei per la quale il suo alimento è l’aspide gitano” si riferisce al secondo vizio,
l’invidia, viene rappresentata come l’aspide, un serpente gitano perché si rifà agli egizi, alla morte di
Cleopatra. “gitano” cioè egizio
Questi caprai non sono neanche invidiosi.
Anafora ni no ne ecc. sta dando per sottinteso la presenza del verbo mora
“Non dimora il volto cominciando umano, finisce come fiera mortale” la sfinge: volto umano e corpo di
animale
La sfinge non dimora verso di te la sfinge. Allude al vizio della calunnia, della maldicenza, infatti a corte si
sparla di tutti.
E’ rappresentata nella tradizione allegorico-emblematica come la sfinge, è un paradosso perché la sfinge è
muta, non parla mai e nasconde il segreto dentro di sé, invece qua è una sfinge “chiacchierona”, “colei che
fa oggi a Narciso sollecitare Eti e disdegnare fonti” allude al mito di Narciso che viene caratterizzato dal
fatto che lui si fosse invaghito del riflesso di se stesso e quindi si lanciò alla fonte, ma allo stesso tempo è
legato al mito di Eco che lo perseguitava, fino ad essere trasformata in eco.
“Colei che essendo sfinge chiacchierona, fa produrre echi e disdegnare le fonti a Narciso” c’è un’inversione
mitologica perché Narciso disegnava Eco e ricercava la fonte.
Sintassi voluta che ha Gongora, riconoscendo qualche mutismo, ripristinando i referenti correnti,
snocciolando i miti, fatto questo è facile.
Continua la ripresa anaforica “né abita qui colei che spreca in salde (senza risultati, spara) impertinente
(cioè sprecato) inopportunamente, la cumbre del tempo più necessario” cioè l’ozio, rappresentato come
una caccia sprecata.
Immagine della caccia, terminoligia della caccia
Carattere cerimoniale ipocrita, quindi IPOCRISIA DELLA CORTE
“La sincerità del villano (ipallage) si fa burle del carattere cerimonioso delle pratiche di corte”
Spontaneità contro ipocrisia della corte
“Le cui soglie ignorano la vocazione, che fungono come canto ingannatore delle sirene come palazzi reali, le
cui spiagge, la cui sabbia ha già baciato tanto legno” i palazzi sono stati baciati fin troppe volte, è molto
meglio baciare il tuo spazio.
I legni alludono ai resti delle barche naufragate “i legni sono profeti dolci di un dolce sogno” perché in
realtà quello che lo attende è un naufragio perché spesso gli spazi della corte erano stati agognati come un
dolce porto in cui ritrovarsi, ma in realtà non è così, non trovi pace, ma naufraghi nella corte.
“Non presso di te abita la superbia a cui la menzogna che sta dorando i piedi dorati della superbia”
Il simbolo della superbia è il pavone, perché ovviamente è pieno di sé, si mostra però nel tempo è passato a
simboleggiare la superbia.
“In quanto appena gira la sfera delle sue piume”
Parte più esplicita di tema politico, “né presso di te vivono quelli che come Icaro pensano di arrivare fino al
cielo e poi precipitano” si riferisce al problema dei Validos, quei favoriti del re che godevano dei favori del
re, ma solo fino a quando il re lo consentiva, infatti arrivava sempre un momento in cui persi i favori si
precipitava in picchiata.
Si chiudono le 8 allegorie, tutte introdotte da delle negative.
“La gente che appariva (che arrivava) non veniva da quella zona montagnosa generatrice più di bestie che
di cortesia, che ospitò il fosteriero, con una generosità pari a quella dell’età dell’oro” riferimento ad un
momento, l’età dell’oro dove tutti vivevano in pace, quindi dice che questa gente sono come dei
rappresentanti dell’età dell’oro “che si accontentavano nell’età dell’oro di ricevere un riparo dal frassino e
alimento dal rovere” si accontentavano dei beni della natura
“el quadrado pino” perifrasi descrittiva per la tavola
Lì per quella tavola era sufficiente una tovaglia bianca, sebbene non fosse di lino bianco pregiato (che si
usava presso la corte)
Bosso è un tipo di legno, è sempre una metonimia: materia per la cosa, fa riferimento al recipiente, alla
ciotola che usano i caprai per versare del latte fresco appena munto.
Questa ciotola è stata fabbricata da mani alle quali non è stato necessario fare i ghirigori come per gli
oggetti artificiosi fatti dalla corte e lì dentro mettono il latte che ha visto mungere l’alba quel giorno, mentre
al confronto con essa perdevano
“I bianchi gigli che porta l’alba sulla fronte, non possono competere con il chiarore del latte appena munto”
Gli danno latte spesso quasi come formaggio e freddo, quasi paragonabile al cucchiaio che fu invenzione di
Alcimedon” che fu l’inventore del cucchiaio, riferimento a Virgilio.
26 LEZIONE
Continuare tutta la Soledad primera. Interessa che comprendiamo quello che c’è scritto e fissiamo gli
espedienti formali, retorico/stilistici sui quali il testo continua a giocare. Maggiore livello di attenzione sulla
porzione di poema che abbiamo condiviso.

L’ultimo segmento che investe la manifestazione più carattestica del signo de oro aurisecolare è il TEATRO
che caratterizza il 500 e il 600.

Secondo Josè Antonio Maravall il teatro spagnolo barocco fu il primo fenomeno culturale di massa. Fino a
questo punto la cultura era stata appannaggio dell’elite. La cultura era appannaggio esclusivo delle classi
alte. Con il teatro, invece diventa un fenomeno culturale esteso e trasversale che investe ogni classe e
tessuto sociale.

IL TEATRO SPAGNOLO:

Fino agli inizi del 500, il teatro non esisteva così come lo conosciamo noi. Infatti per tutto il Medioevo non
esiste se non in forme piuttosto primitive: le rappresentazioni erano legate ad occasioni e circostanze
vincolate al calendario liturgico, come ad esempio la cellebrazione del Corpus Cristi era uno degli eventi che
stimolava maggiormente le rappresentazioni di carattere religioso. Gli spazi erano degli spazi improvvisati,
presi a prestto per accogliere l’evento ed erano legati alla disponibilità delle persone che facevano altri
mestieri e in quella circostanza prendevano i panni del personaggio di turno.

Non era una teatro professionale.

Fuori dalle manifestazioni legate al teatro liturgico, c’era il teatro di strada, quello del giullare che si
muoveva di corte in corte e improvvisava la rappresentazione in piazza. L’apparato scenografico si limitava
ad un carretto ribaltato sul quale il giullare declamava racconti antichi o piccole scenette e poi c’erano
rappresentazioni appena più raffinate che aveva come spazio i palazzi dei signori: il teatro di palazzo che
corrispondeva all’EGLOGA DRAMMATICA.

Jorge Verzina era autore del 400, del tardo medioevo, di egloghe rappresentate nei palazzi dei signori, che
si basavano su una trama di tipo pastorale, basata su scenette di pastori che si prendono in giro tra di loro,
che si lamentano sempre dell’amore non ricambiato. Carattere popolare che si evidenzia nell’uso del
Saiavez, proveniente dal Nord della Spagna, un dialetto con tratti rustici molto marcati, si trasforma nella
parlata dei pastori dell’egloga drammatica. Si tratta di un teatro comico.

Parliamo di teatro delle origini: teatro di tipo religioso, teatro di strada del giullare e altra rappresentazione
di carattere privato, quale l’egloga drammatica.

In questo panorama che abbiamo considerato del teatro delle origini, si aggiunge ancora un’altra tipologia,
quella della commedia umanistica, che però non è destinata alla rappresentazione. Si produce e viene fruita
negli ambienti universitari, dove gli studenti si esercitavano nella composizione delle commedie. Erano
finalizzati alla lettura. Erano commedie in Latino, infatti rappresentavano un esercizio per l’apprendimento
del latino.

Tra l’altro la Celestina è una commedia umanistica che nasce dalla confluenza di due diverse tendenze e
tradizioni. Da una parte la riscoperta dei classici latini, in particolare Terenzio e Plauto, anche se di Plauto si
conoscevano solo 4 commedie, e soltanto verso la fine del 400, Nicolò Cusano ritrovò il codice manoscritto
all’interno del quale erano state ritrovate 16 commedie di Plauto sconosciute. Dal quel momento in poi
esplose la moda di mettere in scena Plauto. Così le varie corti italiane chiedevano agli attori italiani (in Italia
esiste già il teatro di professione) di metterlo in scena, soprattutto i Menecmi.

Terenzio invece era già conosciuto.

Dalla commedia latina, la Celestina prende tantissimi elementi, per esempio accoppiare i personaggi a due
a due (i servi: Parmeno e Sempronio), i nomi parlanti: Calisto, Melibea, Celestina: infernale.

La Celestina non è solo un modello di commedia classica evoluta, ma tanti altri elementi provengono dalla
commedia elegiaca medievale.

Così la commedia umanistica, nasce dall’unione della commedia classica latina e la commedia elegiaca
medievale a cavallo tra 12esimo e 14esimo secolo. Si tratta di commedie in versi elegiaci, ma soprattutto
prevale un certo tipo di argomento ed intreccio, legato a storie di amori sfortunati e dalla presenza di
mediatori. Per esempio una delle commedie elegiache più famose del medioeva è il De Metula (la vecchia
mezzana che interviene per conciliare i due amanti che fingono di non volersi, antecedente di Celestina), il
Panfilo d’amore ecc. La commedia elegiaca si basa su argomento erotico perché guarda a Ovidio come
modello. Ovidio autore di opere amorose: Ars Amandi, gli Amores ecc.

Altra caratteristica: l’estensione. La commedia latina non era divisa in atti, ma in scene. Tuttavia la
commedia classica latina prevedeva non più di 5 giornate (cioè atti), invece la commedia elegiaca aveva
un’estensione molto più elevata. Quindi non ci dobbiamo sconvolgere che la Celestina preveda 21 atti,
perché non era destinata alla rappresentazione, ma alla lettura.

Nel corso del 500, ci sarà l’esperienza di contatto con l’Italia, Juan de Venzina e Bartolomè de Tormes Narro
che andò a Napoli e che scrive la Probataria, il cui prologo costituisce il primo manifesto teorico del teatro
moderno spagnolo. Infatti prova a fare una specie di ricostruzione dell’origine commedie.

Gli autori spagnoli viaggiavano in Italia e entravano in contatto con quello che accadeva in Italia, dove in
effetti gli spettatori dell’arretrata Spagna scoprirono le nuove tendenze Italiane.

In Italia esisteva già la commedia erudita che preleva i suoi intrecci da varie fonti: o dal bacino delle favole
classiche dalla mitologia o Esopo o da fonti folclorico/popolari, come le novelle (tra cui quelle di Boccaccio).

Parliamo di commedia erudita perché rappresentata negli spazi chiudi della corsa però in VOLGARE.

Rojas vantava il primato della Celestina come commedia in volgare castigliano.

In Italia era già stato fatto. La commedia latina classica viene ripristinata in Italia, in un primo momento si
rappresentavano quelle in Latino, poi vengono scritte commedie a imitazione di quelle latine, ma in volgare.

Ovviamente tutto questo fermento è realizzato dalla riscoperta dei classici, che ovviamente i Signori
volevano che si rappresentassero in Italia. Inoltre nella seconda metà del 400 circolava il DE RE
AEDIFICATORIA di Vitruvio, di cui una parte è dedicata all’arte della costruzione dei teatri a Roma al tempo.

Così i principi italiani iniziano ad avvertire la necessità e la volontà di ricostruire gli scenari così come
venivano allestiti anticamente, così comincia un vero e proprio investimento in termini di attenzione anche
economica affinchè nascesse un vero e proprio teatro.

Il primo fu proprio Ariosto che scrisse la prima commedia erudita italiana. Parliamo però di un teatro che è
di esclusiva fruizione delle classi alte, anche se in italia nel 500 si stava sviluppando già la nascita della
Commedia dell’arte, la prima forma di teatro professionalizzato. Nascono attori di professione. La
commedia dell’arte è un teatro itinerante formato da persone che si dedicano esclusivamente all’arte
drammatica. E’ un vero e proprio mestiere. Ha la caratteristica di non basarsi su testi articolati, ma è anche
conosciuta come teatro all’improvviso, infatti avevano dei canovacci che ricevevano le indicazioni essenziali
dell’intreccio che andavano a mettere in scena, senza una vera e propria trama. Tutta l’azione doveva
essere improvvisata dagli attori. Quando questa prassi si consolida ovviamente si tratterà di tutti sketch che
si consolidano e inizierà a sfruttare la componente folcloristico popolare legata alle maschere e al
carnevale, dove la corporeità delle maschere diventerà molto marcata. Ovviamente si tratta di un teatro
popolare di matrice comica.

Quando Juan de Venzina va in Italia e vede la commedia erudita, decide di portarla in Spagna per fare un
tipo di teatro più evoluto e allora provano a mettere a punto soluzioni che possano creare un teatro
nazionale anche in Spagna. Ci prova anche Tormes Navarro che scrive 5 commedie a imitaizone di quelle
italiane, ma che comunque sono di carattere elevato.

Soltanto con l’incontro con la commedia dell’arte, cioè con il tipo di teatro più dinamico che stimola un
certo tipo di evoluzione del teatro spagnolo.

Nei primi decenni del 500 il teatro aveva degli spazi che non erano del teatro: il sagrado della chiesa, la
piazza, il comune ecc. che prevedeva un rapporto di orizzontalità, un rapporto molto diretto, che si
consuma su un piano orizzontale, senza una distanza tra attore e pubblico. Nel momento in cui si adotta
l’espediente di creare un distanziamento verticale, quindi creare un palco.
In quel momento in cui si genera la verticalità, il distanziamento, in cui il pubblico ha la percezione di
assistere a qualcosa di diverso rispetto ad un elemento prossimo a sé, nasce il Teatro, che crea la
percezione di una rappresentazione. Si sancisce un principio di distanziamento.

Ciò avviene quando nascono dei luoghi deputati solo alla rappresentazione teatrale. Anche nell’ambito
religioso, si intensifica il calendario delle rappresentazioni quindi c’è bisogno degli spazi ad hoc.

Case private tipo a forma di cortile semichiuso che diventa uno spazio messo al servizio delle
rappresentazioni. All’inizio sono gratuite, man mano che aumentano e diventa una pratica più diffusa e la
gente comincia ad andare a teatro, fino a quando questi spazi non sono più spazi rudimentali, ma iniziano
ad attezzarsi con espedienti banalissimi: all’inizio c’è solo un piccolo scenario fatto di legno e la gente
assisteva in piedi, a volte si mettevano delle scalinate dove si potevano sedere le persone oppure i
proprietari delle case ospitavano gli spettatori. Diventando più numerosi cambiano le esigenze: iniziano a
mettere il telone rudimentale che copriva la scena, lo scenario si arricchisce, iniziano a comparire le prime
scenografie, comincia a svilupparsi il teatro de corrales che ovviamente inizia a fruire denaro e ad acquisire
anche un valore commerciale.

La gente ci andava, le rappresentazioni costavano e si comincia a pagare e ovviamente si affinano anche i


ruoli degli attori, dei direttori ecc, nel momento in cui il pubblico paga ha anche un’aspettativa.

E così comincia con il teatro de corrales la nascita di professionisti del mestiere. Attori, direttori di
compagnia e autori. Spesso, però grazie all’esempio delle compagnie della commedia dell’arte da cui
acquisiscono tantissime caratteristiche. Gli attori della commedia dell’arte, iniziano ad essere chiamati in
Spagna e anche tutti gli specialisti italiani. Così anche il teatro spagnolo conosce un suo sviluppo
rapidissimo.

I teatri de corral iniziano ad essere non più spazi improvvisati, ma vengono costruiti dei veri e propri
corrales ad hoc.

Stiamo già negli anni 30/40 del 500. Professionalizzazione delle figure implicate nelle rappresentazioni e la
commercializzazione della fruizione del teatro sono i due elementi che sanciscono la nascita vera e propria
del teatro spagnolo.

Il commediografo viene pagato per le commedie che scrive; direttore di compagnia che acquista gli attori e
fissa il presto della rappresentazione per i gestori dei corrales. All’inizio i corrales vengono gestiti dalle
Hermandades, dalle confraternite che ci vedono grande possibilità economiche.

Nei primi anni erano i privati che ricevevano la gente, quando si intuisce che questo fenomeno si sta
allargando e sta diventando un costume sociale, ovviamente cosiddetti hospitales, coloro che avevano le
grandi corti e le confraternite ecclesiastiche, sono quelli che si accaparrano la gestione dei corrales. Quando
vengono costruiti di nuovi, i gestori dei corrales si accordano con i produttori.

Ovviamente comincia anche ad essere disciplinata l’attività, tipo della durata delle rappresentazioni, dei
giorni prima solo domenica poi altri giorni ecc.

Chi assiste a queste commedie? Tutti, anche perché il prezzo era basso. Ovviamente non si sedevano
mescolatamente tra di loro, ma ovviamente il corrales era costituito da diversi elementi: palchi, gallerie,
platea ecc. le classi più alte stavano nei palchetti (uomini e donne divisi). La casuela era la parte più alta
chiusa con delle grate dove ci andavano le dame dell’alta nobiltà oppure i prelati, in platea i maschi del
popolo comune che spesso si sedevano nei tabuletes (gli sgabelli), nelle prime file c’erano i mosquetteros
(che venivano pagate dalle compagnie rivali rispetto a quella che faceva la rappresentazione, incaricati di
fischiare, di tirare frutta ecc.) pur con queste segregazioni dei vari gruppi sociali, comunque è vero che è un
fenomeno democratico perché tutti possono assistere all’opera e fruire di un prodotto artistico.
Si mette in moto anche la tramoia, la macchina teatrale, quel complesso di espedienti per realizzare la
macchina teatrale, cioè ad un certo punto evolvono tutti quegli espedienti legati alla creazione degli “effetti
speciali” botole ecc.

Il testo teatrale:

Proprio perché a teatro andavano tutti, si codifica un tipo opera teatrale che è quello dell’entremès cioè
l’inframmezzo che veniva inserito tra un atto e un altro, una piccola trama accessoria come momento
distensorio tra i vari atti della commedia classica. Entremes viene dal catalano: messo in mezzo.

Poco a poco questo componimento, atto unico di carattere comico in prosa, acquisisce sempre più
autonomia e diventa il tipo di rappresentazione tipica delle corrales. Atto comico che sfrutta intrecci di
matrice popolare, sfruttando soprattutto figure e tipi della tradizione folclorica carnevalesca, come la presa
in giro della schiava nera che parla in un castigliano improprio, oppure lo zoticone delle zone
dell’entroterra, intrecci legati a storie di tradimenti ecc. si schiaccia tutto verso il basso perché attira le
masse e quindi si fanno i soldi.

Uno dei maggiori esponenti del teatro de corral, quindi degli entremeses è Lope de Ruega che canonizza
l’entremes, chiamandolo PASO.

Nel corso del 500 questo teatro vede come tipologia media i PASOS allo stile di Lope de Rueda.

Lope de Vega, che come sappiamo negli anni giovanili entra immediatamente in contatto con gli ambienti
del teatro e quando viene mandato a Valencia, ricordiamo che insieme a Madrid e Siviglia, era una delle
città in cui si sviluppa principalmnete il teatro. Lope de Vega entra nell’ambiente dei corrales, anche se già a
Madrid lo aveva fatto. Ovviamente era anche un erudita e sente un certo tipo di inquietudine e sente che
per gli ambienti colti di certo questi entremeses spingono troppo al piacere del pubblico basso, mentre
prodotti di valore erudita più alto, commedie più elevate erano relegate nei palazzi.

Per non parlare della tragedia, che non ebbe grande fortuna fuori dai palazzi.

Lope de Vega si fa come connettore dell’istanza di rinnovamente del teatro dei corrales provando a
conferire maggiore dignità al prodotto teatrale, innanzitutto passando ad una regolamentazione della
commedia. Così nel 1609 scrive l’Arte Nuevo de Hacer Commedias, una poetica scritta in versi che è un
tentativo di disciplinare quella che deve diventare la commedia nueva rispetta a quella che è diventata
ormai la commedia di stato, cioè l’entremes allo stile di Lope de Rueda.

Proprio perché lui frequenta tutti i generi della letteratura elveta, sa bene che esistono dei generi in grado
di veicolare presoo il pubblico anche dei valori e significati più elevati.

Arte nuevo rispetto alla degenerazione dei corales. Il gusto del pubblico deve essere educato.

Finge nel trattatello di aver ottenuto una sorta di mandato da parte degli accademici “mi ordinano dei
nobili ingegni

Excusatio non petita: topos. Finge che questo trattato gli sia stato richiesto. “Mi avete chiesto nobili
ingegni, fior fiore della Spagna, che io scriva un’arte della commedia (cioè un’arte intesa come insieme di
regole e normatiche che definiscano la commedia spagnola)” digressione parentetica: sferzata contro gli
accademici che lui detestava “(che in questa riunione e accademia insigne, in breve tempo supererete non
solo le accademie italiane che invidiando la Grecia Cicerone rese illustre allo stesso modo vicino all’Averno
riferimento al circolo di cicerone nella sua casa, bensì sarebbe superiore anche ad Atene dove Liceo si vide
tanto superiore da formare un’accademia di filosofi).”

“che venga scritta allo stile del volgo”. “Sembra facile la materia e sarebbe facile per qualcuno di voi”
Lope ha già scritto moltissime commedie, fu un bambino prodigio però lui stesso confessa di essere in
difetto perché è stato il primo a scrivere commedie senza rispettare le regole “non perché io non conoscessi
quali fossero le regole previste, perché grazie a Dio, attraverso le letture fatte (Tirone) lessi i libri prima che
il sole trascorse dieci volte dall’Ariete ai Pesci (prima dei 10 anni) (porque: esplicita la vera causa per cui
scrive l’opera) “ma perché io mi ritrovo che ormai si introducono commedie assolutamente fuori dalle
regole, perché si persegue il gusto del pubblico senza educarlo”

Per Lope è fondamentale che il gusto del pubblico venga educato. Il pubblico deve assistere a opere
qualitativamente migliori perché è compito di chi fa teatro quello di EDUCARE il pubblico.

Chi scrive per il volgo ma senza arte, “la situazione è tale per cui chi oggi vuole scrivere una commedia con
dei principi è destinato a morire di fame e senza ricompense”

“E’ pur vero che io stesso in qualche occasione ne ho scritte alcune seguendo i precetti che conoscono in
pochi ma subito dopo quando io vedo rappresentare queste commedie mostruose piene di figure che
cercano di meravigliare lo spettatore”

Riconosce che il volgo ha voce in capitolo e proprio in virtù del fatto che paghi devono dare conto al
pubblico di quello che va in scena.

Il fine della commedia era stato definito da Aristotele: MIMESIS cioè rappresentare la realtà oppure
perlomeno il verosimile. La commedia deve imitare le azioni degli uomini. La tragedia deve imitare azioni
illustri di uomoni illustri mentre la commedia deve rappresentare azioni umili di uomini umili e di
rappresentare i costumi dell’epoca. Acto: azione compiuta

Lope de Rueda diventa il prodotto medio del teatro spagnolo che deve essere riqualificato perché per lui
non va più bene. I suoi versi sono troppo volgari.

27 LEZIONE
Ragioni per le quali Lope de Vega si ritrova a comporre un trattato conformativo, l’Arte Nuevo, che contiene
la canonizzazione della commedia nueva, che corrisponde al tentativo di canonizzare e nobilitare il teatro
dei corales, per riportarlo ad un livello di unità letteraria, posto che era scaduto ad un genere che non
aveva nessuna perizia formale.
Scrive questo trattato in versi cominciando a prendere le distanze dai modelli principali del teatro classico e
poi dichiara esplicitamente l’obiettivo polemico della sua opera, cioè quella tipologia di commedia che vede
impersonata in Lope de Rueda, i passos, piccole commedie di atto unico che sfruttano materia comico-
volgare, finalizzata a divertire il pubblico e che non si interessa minimamente di educare il pubblico e oltre
tutto è un tipo di teatro che non ha la sua disciplina neanche nell’ambito della struttura interna.
Offre una serie di norme: 1. Lo tragico y comico mescolati (commedia e tragedia insieme), la commedia
nueva parte da una compresenza delle due componenti, andando contro la definizione classica della
poetica di Aristotele, che aveva stabilito “azioni lustri uomini lustri” tragedia con effetto catartico, mentre la
commedia avendo a soggetto azioni basse di uomini bassi non poteva accogliere elementi di tragedia che
appartenevano alla tragedia, mentre invece per Lope de Vega il principio alla base della commedia Nueva
era tragico e comico mescolati. In effetti la Spagna aveva già una tradizione tragicomica alle spalle di cui
sicuramente la Celestina è l’esempio più famoso, però la Celestina può già essere asserita ad un genere
umanistico e non un prodotto realizzato all’ambito dei corrales, ma dedicato alla diffusione in ambito
universitario, però non esistevano testi che sancissero il rapporto tra commedia e tragedia che invece Lope
decide di canonizzare e definire.
Fino a questo punto ha fatto un escursus sull’arte greca, fino ai giorni suoi.
vv. 128 si rivolge direttamente ai suoi destinatari che come destinatari interni sarebbero i letterati che gli
hanno commissionato l’opera, ma ovviamente si rivolge al lettore.
Mi sembra che starete dicendo che questo consiste tradurre i libri e stancarvi di dirigervi la macchina
confusa, cioè il teatro così com’è stato fatto finora.
Mi chiedete di fare l’arte della commedia perché quando si scrive in Spagna è contro l’arte, ma l’unico
modo di rispondervi su questa richiesta, è rispondervi sulla base della mia esperienza, perché sebbene
l’arte dica la verità, proprio quelli di contenuto letterario non è apprezzato dal popolo.
Cerca quindi una soluzione di compromesso: non si possono seguire solo i precetti di tipo retorico perché
non vanno troppo incontro al gusto del pubblico, ma non possiamo neanche andare troppo incontro al
pubblico, perché così alimentiamo questa macchina confusa, quindi decide di porre un termine medio tra
l’arte e il volgo.

Personaggio molto importante per il nostro studio


Aristotele era famosissimo per la sua produzione nel corso di tutto il Medioevo, però la poetica venne
ritrovato durante il Rinascimento e questa riscoperta segnerà lo spartiacque della letteratura, perché nel
500 tutto sarà gestito e organizzato in rapporto alla Poetica di Aristotele e ai suoi precetti.
Oltre tutto la Poetica di Aristotele ha dei problemi enormi, infatti dei 3 libri di cui si componeva l’opera,
durante il Rinascimento si diffuse la versione manchevole del 2 libro che trattava proprio della commedia.
Allora nel corso del 500 tutti gli intellettuali e umanisti tentano di colmare questa laguna tentando di capire
che cosa Aristotele avesse scritto sulla commedia.
Si apre un dibattito che si può sintetizzare secondo due polarizzazioni:
Francesco lo Portedo aveva scritto due commenti alle opere di Aristotele, in latino di cui una parte era
dedicata alla commedia, tentando di ricavare dal verso della produzione aristotelica tutto quello che
Aristotele avrebbe potuto dire anche in altre opere in modo tale da ricostruire il suo pensiero nel libro 2°.
Tutto questo lo aveva fatto anche Vincenzo Maggi, però procede metodologicamente in maniera diversa,
anche lui scrive delle annotazioni su Aristotele, ma lo fa in maniera deduttiva, pensando che tutto ciò che
Aristotele ha detto sulla tragedia, si devono rovesciare per la commedia.
Il contrasto tra i due nasce sull’elemento del RISO.
Nella tragedia Aristotele aveva parlato ovvaimente della funzione CATARTICA, cioè era finalizzata alla
purificazione dell’anima e anche ad una funzione educativa, in un certo senso.
Lo Portedo non riconosce rispetto alla commedia nessun elemento catartico, perché Aristotele non ne parla
da nessuna parte, ciò che discrimina è solo quello che abbiamo detto, cioè l’oggetto della MIMESIS, cioè
cosa viene realizzato in scena. Uomini umili-azioni umili
Maggi invece dice che esiste il corrispettivo della catarsi anche nella commedia, e cioè il riso che deve avere
sullo spettatore un effetto paragonabile a quello della catarsi tragica.
Il fatto che la commedia faccia ridere non è secondario, ma si deve ridere perché la risata serve a purificare
l’anima dello spettatore, almeno quanto la catarsi tragica nella tragedia. Queste due teorie si scontrano e
hanno una scia a livello intellettuale nell’ambito del 500 ci sono diversi punti di pensiero.
Fatto sta che la commedia nel momento in cui esplode, è orfana della sua canonizzazione, a differenza della
tragedia che invece era codificata.
Ed in effetti Lope de Vega si mette nella traiettoria di Lo Portedo, anzi tutta la parte iniziale è una parafrasi
di Lo Portedo, che pone ad autorità come colui che ha effettivamente dato una sorta di canonizzazione al
genere.
Si cerca la materia e non si badi al fatto che sia di re o non di re. Per la visione che ha Lope della commedia,
mentre nel caso della tragedia si rappresentavano vicende di uomini illustri, non si poteva rappresentare la
figura di un re in una commedia, invece Lope non la pensa così, ma anche i reali possono essere oggetto di
rappresentazione nell’ambito della commedia, certo nel rispetto della sua figura e del suo ruolo.
Salvaguardato il decoro, può essere oggetto di rappresentazione.
Filippo il prudente è Filippo II
Il precetto più importante è l’unione dei due generi che confluiscono l’uno nell’altro: Terenzio e Seneca
(commedia e tragedia) che paragona a Minosse.
Questa varietà piace al pubblico.
Rinvia all’idea che l’opera d’arte se veramente vuole rappresentare la realtà così com’è, deve rappresentare
le mescolanze del reale, l’opera d’arte deve tener conto delle varietà che caratterizzano il reale, se no è una
finzione.
Lope se la vede con le unità Aristoteliche: rispetto all’unità di luogo e tempo, Lope non ne riconosce
nessuna validità, si può prescindere da queste, mentre non si può prescindere dall’unità d’azione.
Ci possono essere delle digressioni secondarie in un’opera, ma appunto devono essere secondarie e
subordinate all’azione principale. Non possono esserci più azioni autonome nella stessa commedia.
Non c’è bisogno che si stia dentro l’unità di tempo della giornata, ma anzi l’azione può riguardare anche un
arco di tempo più ampio.
Non più di 3 atti al fronte dei 5 in precedenza. Ognuno di questi atti deve corrispondere a una hornada, cioè
a una giornata, ma tra l’uno e l’altro ci può essere uno spazio di tempo più ampio. Già Virues aveva
introdotto questo cambiamento di 3 atti nella commedia.
Il pliegos era il quadernetto piegato a 4 a 4 tipo il libretto, ogni commedia non doveva durare più di un
pliego (che corrisponde a 2 ore/2 ore e mezzo) oltre il quale lo spettatore spagnolo non riesce a sostenere.
Riducendo il numero di atti si riduce il numero di intermezzi. Infatti la commedia era solita essere composta
da diversi intermezzi.
Comico e serio insieme, la durata, ecc.
Quando l’opera finiva si chiudeva sempre con un baile che vedeva irrompere in scena tutti personaggi che
facevano questi bailes che potevano essere anche molto scabrosi, servivano per intrattenere e canalizzare
le energie che la commedia aveva attivato nello spettatore, per portarle via, a fini terapeutici, si dovevano
scatenare prima di tornare a casa.
Intreccio lungo il testo: deve essere esposto e preparato nel primo atto e presentata, dopo di che deve
proseguire progressivamente senza che lo spettatore riesca a presagire il finale, perché se a metà capisce
come va a finire, la commedia è un fiasco, perciò deve giovare su un sistema di suspance, ma anche di
attese e disattese. Deve arrivare un elemento che devia il finale e riattiva la suspance.
Poche volte deve rimanere la scena muta senza alcun personaggio.
Il teatro del 600 è un teatro di parola, non possono esserci scene vuote o momenti di silenzio.

Principio del decoro: il linguaggio si deve adeguare alle cose trattate, non si può parlare in maniera
altisonante di situazioni quotidiane, ma un parlare sentenzioso non è adeguato, ma se doveva tentare di
convincere o avere uno scopo particolare di persuasione ovviamente era consentito e necessario.
A seconda dell’uso del discorso, cambia lo stile.

Si può parlare anche del linguaggio mistico ma sempre secondo il decoro oppure i vocaboli mistici devono
avere un senso.
I soliloqui devono essere capaci di creare un’empatia con lo spettatore.
Anche il travestimento deve corrispondere ad un certo tipo di decoro.
Tutto ciò che è soprannaturale: bisogna stare molto attenti. Era un periodo di grande dibattito su questi
argomenti, infatti se prima la magia veniva considerata quasi una scienza, adesso invece diventa oggetto di
villeggiamento. Infatti dice che solo il verosimile può essere rappresentato.
I paggi e i servi non possono essere personaggi elevati (a differenza che in Shakespeare)

CRITERIO DELLA VEROSIMIGLIANZA


Si devono mescolare in scena momenti divertenti con momenti con versi eleganti, momenti sentenziosi
proprio perché l’uditorio deve essere colpito piacevolmente. Devono sciogliersi tutti i nodi della vicenda,
ma non prima della metà del terzo atto, non deve essere possibile intuire il finale.
Si inganni l’aspettativa del pubblico.
La commedia nueva è una commedia polimetrica, che prevede come sistema metrico la polimetria. Il metro
varia a seconda di ciò che si narra in scena e a seconda dell’obiettivo.
Il Romance: verso narrativo per raccontare
Sonetto: corrisponde ad un ritmo più pausato e quindi utile per mettere in scena un momento più
intimistico, di riflessione.
Redondillas: versi più ritmati e veloci da utilizzare ad esempio in un dibattito acceso tra due personaggi.
Il decoro si deve manifestare anche nella consonanza tra la forma metrica prescelta e gli oggetti delle
modalità del discorso.
Gli ottonari vanno bene per i lamenti, il sonetto per momenti di pausa, i momenti di racconto i romances, la
strofa più elevata è l’ottava di endecasillabi.
Principio di corrispondenza perfetta tra forma e contenuta.

Bisogna estrapolare i 9 precetti e capire qual è la ricetta che Lope offre, finalizzata a codificare un nuovo
modello di commedia in relazione a questo tentativo di migliorare ed elevare la commedia spagnola.

Esempio di commedia nueva: EL BURLADOR DE SEVILLA

Don Giovanni: un vero e proprio mito della cultura occidentale, si tratta di una figura che feconda
tutti gli ambiti della produzione artistica, si tratta dell’adulatore per eccellenza. E’ una figura assurta a vero
e proprio archetipo della cultura. Si tratta di un mito che è una vera e propria categoria che si mantiene nel
tempo, ma anche transgenerica che passa da un genere artistico all’altro, ma anche transnazionale, perché
arriva a tutte le latitudini geografiche. E’ una figura che viene declinata con estrema facilità in tutti gli ambiti
della tradizione artistica.
Prima del Don Giovanni di Mozart, quello di Cicognini o nei racconti di Auffmann. Addirittura è stato
oggetto di un’indagine clinica, allievi di Freud scrivono indagini sul tipo di disturbo psicotico di cui soffriva
questo personaggio letterario.
Mozart è importante perché è dalla sua versione del don Giovanni si è consolidato il vero e proprio modello
del don Giovanni come seduttore che poi abbandona le sue prede.
Questo elemento della seduzione nell’elaborazione originaria non voleva essere il tratto distintivo del
personaggio, che invece prevale nella lettura del 700 e 800. Cosa voleva essere il don Giovanni ce lo dice
Tirso de Molina.
Parliamo di una lettura impropria del mito della seduzione.
Ovviamente il don Giovanni è patrimonio dell’umanità, ma nasce in Spagna nella sua elaborazione primaria.
La prima scena del don Giovanni è ambientata a Napoli quindi addirittura potremmo dire che è napoletano.
Il mito nasce in Spagna ad opera di Tirso de Molina.
In realtà il mito è senza patria, nel senso che l’attribuzione a Tirso de Molina è incerta perché all’epoca in
anni vicini a quelli del Burlador de Sevilla, di un altro testo che si intitola “Tan largo me lo filiais” che
corrisponde al motto che pronuncia don Giovanni. Questo testo era molto simile, ma con varianti
significative al Burlador de Sevilla.
Abbiamo un termine ante quem: nel 1625 a Napoli viene rappresentata un’opera intitolata “Il convitato di
pietra” che sarebbe la trasposizione del Burlador de Sevilla in italiano, quindi all’epoca già esisteva.
Già nel 1630 era stata stampata una copia del Burlador attribuita a Pedro Calderon de la Barca. Queste false
attribuzioni erano molto frequenti soprattutto in campo teatrale, perché per richiamare il pubblico si dava
la falsa attribuzione ai grandi nomi della drammaturgia del momento.
Calderon non è autore del Burlator.
Poi esiste una raccolta miscellana di varie commedie di vari autori, che si chiamavano Partes, dove ci sono
in sequenza, il testo del Burlador, una commedia di Andres de Claramonte e il Carlan de lo fiares.
Questo ha suggerito che ci siano delle consonanze tra altre opere di Andres de Claramonte, stilemi, batutte
ed elementi testuali simili a quelle del Burlador che hanno fatto pensare che fose lui il vero autore.
Il dibattito è ancora aperto su que punti: chi è l’autore e in che rapporto stanno Il Burlador de Sevilla e la
versione del “Tan largo me lo filiais” (il burlador è la rivisitazione del primo o viceversa? Che rapporto
intercorre tra le due opere?)
I due testimoni più antichi non sono datati quindi è difficile stabilire quale delle due derivi dall’altra. Sono
molto simili ma hanno delle differenze importanti, per esempio non iniziano allo stesso modo, all’interno ci
sono delle dislocazioni di battute che appaiono in luoghi diversi, interpolazioni ecc.
La maggior parte degli studiosi non ha dubbi nell’attribuirla a Tirso de Molina, che oltre tutto è autore di
un’altra opera, “El cordenado por desponenciado” che tratta della stessa tematica del Burlador in maniera
trasversale.
Sapere se sia stato Tirso de Molina l’autore è importante, perché quest’ultimo era un religioso e l’opera è
strettamente connessa a problematiche di natura religiose, soprattutto il problema della purezza
dell’anima.
La lettura che si dà del mito di don Giovanni non era nelle intenzioni dell’autore che lo ha creato: don
Giovanni era un peccatore restio a pentirsi della sua immoralità e procrastina nel redimersi dai suoi peccati.
Risponde sempre “tan largo me lo fiais”: ci sta tempo e questo procrastinare sarà motivo della sua
punizione, infatti sul punto di morte chiede i conforti della confessione, ma siccome lo chiede troppo tardi,
Dio non lo salva e lo condanna al castigo eterno.
Quindi la tesi che è ricollegata al personaggio di don Juan è una tesi che ha a che vedere col problema della
salvezza dell’anima e alla possibilità che l’anima abbia di poter raggiungere la grazia divina.
In effetti si tratta di un tema piuttosto attuale al tempo, se pensiamo ad una Spagna prima controriformista,
ossessionata con il problema della salvezza, della grazia e della provvidenza e del libero arbitrio. L’uomo ha
la possibilità attraverso l’uso del libero arbitrio di salvare la propria anima riuscendo a scindere tra bene e
male, oppure la nostra anima è predestinata e quindi qualsiasi cosa facciamo non cambia nulla? E’ il tema
principale che porta la Chiesa a sgretolarsi nelle varie eterodossie proprio in quel tempo. Il dibattito
continua a maturare nella seconda metà del 500 e ha livelli di propagazione anche nelle opere letterarie e
nella produzione artistica.
Nel frattempo si generano conflitti enormi tra i diversi ordini religiosi.
Dal punto di vista teologico i diversi ordini, soprattutto i domenicani e gli Agostiniani che sancivano i vari
dogmi religiosi, sono quelli che mantengono le redini di questo dibattito, che assume nella tradizione
trattatistica il tipo di “Controversia de auxili” controversia sugli ausili dell’anima: la nostra anima è destinata
alla salvezza e quindi dio ci manda dei segnali per aiutarci, oppure il nostro destino è scritto e immutabile?
Le posizioni sono molto diverse. Le origini del mito di Don Giovanni sono legate a questo contesto sociale e
culturale: il problema legato alla grazia e alla salvezza dell’anima.

L’azione comincia in Medias Res con una scena di seduzione: don Giovanni Denorio (una famiglia molto in
vista a Siviglia e vicinissima al re) si trova a Napoli presso la corte vicereale dove il padre lo ha inviato
perché era dovuto scappare per una delle sue malefatte a Siviglia, dove aveva violato le doti delle donzelle
(fanciulle di livello infimo, monache ecc.). A Napoli suo zio Denorio era ambasciatore del re presso la corte
vicereale.

SUL TESTO

Don Juan Denorio si è sostituito al Duca Ottavio e prova a sedurre Isabella, promessa sposa di Ottavio.
Isabella accende una luce e si accorge che non si tratta del suo amante, così inizia ad urlare come
un’ossessa, così giungono nella stanza tantissimi personaggi.
Questa appropriazione di identità di Juan che tenta di sostituirsi all’amante legittimo continuerà. Si
appropria di identità aliene “bed twix”.
Non riesce a possedere sessualmente la fanciulla fino in fondo, Isabella fa accorrere tutta la gente del
palazzo, si vede una figura saltare dal balcone di Isabella. Lo zio lo riconosce e si rende complice del
ragazzo, facendolo scappare. Così resta impunito per questa azione. Mentre resta lì anche Isabella si è
comunque fatta trovare con un uomo nella sua stanza e lei allora dice che era il duca Ottavio, pensando che
il re gli avrebbe imposto di sposarla per recuperare il danno fatto, quindi mente anche lei.
Don Juan si definisce “un hombre sin nombre” un uomo senza nome, senza identità.
Don Juan prova a far cedere tutte le sue prede dietro promessa di matrimonio con questo elemento della
MANO. Stringe la mano e proclama il giuramento: dal punto di vista di legge, la donna non perdeva la sua
honra attraverso questo giuramento con un matrimonio clandestino.

Il duca Ottavio viene arrestato senza aver fatto niente e quindi è sconvolto, viene assalito dai dubbi: “allora
isabella mi tradiva, chi ci stava nella stanza?” ecc. dramma esistenziale del Duca

PASSAGGIO IN CUI DON PEDRO invita Don Juan a pentirsi: passaggio importante.
Don Juan si presenta in scena accompagnato da Catalinon, il suo fedele servo, “il fifone” nome parlante. E’
sciocco e ingenuo, ma rappresenta la voce della coscienza di don Juan è il deteragonista, il loro rapporto è
di interdipendenza. Anche lui lo invita continuamente a pentirsi, ma don Juan dice “c’è sempre tempo”ecc.
E’ questo atteggiamento che Don Giovanni avrà nei confronti di tutte le persone che gli muovono questi
inviti e lo avvisano rispetto alle conseguenze dei suoi misfatti. Attraverso questi avvisi dobbiamo
rintracciare gli ausili della grazia che Dio manda a don Giovanni per redipersi, che però preferisce non farlo
e per quando vorrà farlo sarà troppo tardi.
Quando è scappato da Napoli, l’azione si sposta sulle coste catalane. Nella seconda scena ritroviamo Don
Giovanni naufrago. Ovviamente quella caduta dal balcone del palazzo reale ha un valore simbolico
fortissimo.
Dislocazione della scena: si sarebbe imbarcato per fare ritorno perché appena il vicerè avrebbe scoperto
che non era stato ottavio sarebbe stato ricercato, quindi si imbarca e subisce un naufragio. Finisce sulle
sponde a nord della Spagna. Sulla spiaggia c’è una pescatrice che si chiama Tisbea, che soccorre lo
sventurato. Non fa in tempo ad accogliere lo sventurato svenuto che quando don Juan apre gli occhi e
comincia l’azione seduttiva. Don Juan persuade le sue vittime attraverso i discorsi. Quando ha blandido la
vittima, il colpo finale lo da chiedendo la mano, quindi facendo la promessa del matrimonio. Tisbea è una
povera pescatrice, dalla condizione sociale bassa e infima e con molta facilità cade vittima di don Giovanni.

Le vittime sono 4: Isabella, Tisbea, Domiana Eurioia, Aminta


4 vittime di cui 2 sono di estrazione bassa e 2 molto alta
Tisbea e Aminta sono una pescatrice e una contadina mentre Isabella era la figlia dei vicerè di Napoli e
Domiana era la figlia di un esponente importantissimo de los grandes de Espana.
Quindi per 4 volte la dinamica della seduzione si svolge nello stesso modo: omologia delle scene che è un
principio topico dell’opera, a cui corrisponde anche un’alternanza del ceto sociale delle sue vittime.
Coerentemente con la cultura dell’epoca il principio che anima l’azione seduttiva è un principio basato sul
pregiudizio di classe. Con le due donne dell’alta borghesia le seduce ma non riesce a deflorarle, mentre ci
riesce con le due fanciulle povere. Pregiudizio di classe perché gli spettatori dell’epoca non avrebbero
accettato che due donne di ceto così alto fossero state deflorate mentre le poverine si. Quindi da una parte
abbiamo un principio di serialità, però sono anche alternate.
28 LEZIONE
142 VERSI di Romance di settenari che Tisbea pronuncia, un romance piscatorio che segue il modello
dell’egloga piscatoria, un genere codificato proprio a Napoli da Sannazaro.

Tisbea dice di essere immune d’amore, si è difesa da attacchi d’amore fino ad’ora e subito dopo ascolta le
urla di don Juan che chiede aiuto perché sta per annegare.
Una volta che sente le grida chiama gli altri pescatori in soccorso.
Sono importanti le didascalie che ci fanno capire come evolve l’azione. La figura del servo prende nome di
gracioso perché pronuncia Gracias, battute facete e divertenti ed è un po’ il modello dei servi della natività
il servus fallax e il servus ingenui (tonto e scemo, ma sa essere anche astuto e opportunista) integra al suo
interno questa doppia tradizione, ma la spagna già conosce il modello di servo, quello del pastor bovo.
Nell’egloga drammatica di Juan de Vencina, il pastor bovo era il servo sciocco. Man mano che il teatro
spagnolo assimila dalla commedia dell’arte gli ingredienti della commedia moderna, prende anche le
caratteristiche di Zanni, che è il pastore della commedia che è un po’ più acuto, che esercita sempre un
principio di lealtà, come se nell’evoluzione ultima del personaggio del servo confluissero lo Zanni della
commedia dell’arte, il pastor bovo e la coppia di servi della commedia classica. I servi del 600 a differenza di
quelli della tradizioni che non avevano alcuno spessore psicologico (infatti veicolavano la commedia con il
riso) qua invece copulano le intenzioni dell’intreccio. Nel 600 la figura del servo diventa sempre più
complessa e acquisisce una consistenza psicologica molto alta. Spesso di Lope de Vega si ricordano proprio i
graciosos piuttosto che i personaggi principali. La commedia è tragicomica e resta la componente comica
assegnata al modello del gracioso, mentre chi renderà ancora più complessa la figura del Gracioso sarà
Calderon con il suo servo che addirittura finirà per avere una morte tragica, quindi assegna un protagonista
assoluto del gracioso, fino a farlo morire in battaglia in scena, diventa un eroe tragico.
Il gracioso acquisisce un protagonismo enorme.
Catalinon salva dalle acque don Juan ed esprime non solo il namento per aver ingurgitato acqua salata che
non è vino ed è preoccupato perché crede che don Juan sia morto.
Tisbea chiede dell’identità del cavaliere.
Don Juan non svela mai la sua vera identità e qui Catalinon invece svela l’identità del suo padrone quindi fa
un errore colossale. Catalinon va a chiamare i pescatori e Tisbea resta sola con don Juan che è tutto stordito
ma si rianima subito quando vede che sta da solo con Tisbea.
La seduzione passa dalla capacità oratoria di Don Juan che seduce con le parole.
Utilizza la stessa parola aliento-aliento ma con accezioni diverse: reflecsio (coraggio/azzardo-senza respiro).
“Avete bevuto tanta acqua salata che vi sta producendo la sal: doppia accezione sale ma anche
arguzie/acutezze” wit inglese
Riuscite a parlare in un certo modo nonostante abbiate subito un naufragio.

Se bagnato siete così spregiudicato, che farete quando sarete così asciutto, preso tra il fuoco dell’amore.
A Tisbea piace Juan
Arrivano gli altri pescatori a soccorrere Juan e ad un certo punto Tisbea dice: “portiamolo presso la mia
capanna dove gli daremo soccorso, lo faremo mangiare ecc.” mette in atto la legge dell’ospitalità.
Catalinon mente spudoratamente perché lui ha detto tutto su Juan.
Juan manifesta il proposito di godere di lei, non è mosso da nessun sentimento.

Cambio di scena: la commedia abbandona gli scambi di don Juan, Tisbea alimenta il gioco e così condanna
se stessa. La scena si sposta a Siviglia dove il padre viene a sapere dell’ulteriore misfatto del figlio, in
presenza del re.
Questa parte sarebbe stata interpolata in un momento successivo, dove fa gli elogi della città in cui si trova.
Sarebbe stato aggiunto per ingraziarsi il re di Portogallo che dal 1580 al 1640 era a pieno titolo nei domini
della monarchia spagnola per uscirne nel 1640 con una ribellione. Il re si spostava a Lisbona in questo
periodo. Crea però una specie di anacronismo perché l’azione del don juan sembra essere l’inizio del 16°
secolo quindi è un anacronismo. Fa un elogio alla città di Lisbona per ingraziarsi il re.

Scena in cui ci troviamo di nuovo Juan che dice a Catalinon di preparare i cavalli in modo tale che dopo aver
compiuto il misfatto si sarebbe dileguato. Questa tecnica si fuggire subito dopo fa in modo che il
personaggio si caratterizzi da questa incosistenza perché non si ferma mai, scappa sempre, ha questo tratto
aereo, è pura fuga, è incapace di restare in un luogo. Questa cosa si riverbera anche nella esiguità
dell’azione parlata di don Juan, infatti le sue battute sono pochissime e si pronuncia pochissimo. Parla solo
per sedurre, le sue battute sono poche e fugaci, come lui.

Juan è consapevole della sua natura e qualifica le sue azioni come BURLAR, è un inganno che perpetra a
discapito delle sue vittime, questa è la sua natura, non può agire contronatura. E’ vittima di questo
desiderio che lo obbliga ad ingannare le donne.
Catalinon come qualsiasi buon servo fa la voce della coscienza e gli fa notare che “Ripaghi bene la sua
ospitalità” cioè gli dice che sul piano etico la sta disonorando.
Ma Enea ha fatto la stessa cosa con Didone.
“Voi che fingete e ingannate le donne, lo pagherete con la morte” è un’anticipazione
Fijar el plato: in spagnolo vuol dire “porre la scadenza” “mettimi la scadenza il più lontano possibile” tan
largo me lo fijais
Tisbea per Catalinon è già sfortunata.
Tisbea aveva passato 200 e passa versi a dire che aveva preservato il suo fiore, ma basta don Juan.
Tisbea sa bene che don Juan è un nobile e sa bene che un matrimonio tra un rampollo di una famiglia
nobile e lei che è una pescatrice non sarà mai accettato da un re, lei lo sa che il matrimonio non è possibile.
“Ma è l’amore che disciplina queste cose unendo la seta al sacco”
Anche Tisbea così come Catalinon gli lamenta che esiste la legge divina che lo ripagherà, don Juan le porge
di nuovo la mano e Tisbea commette l’errore di credere alle buone intenzioni di don Juan sebbene ella
sappia che non può mantenere la promessa di matrimonio perché le nozze non sarebbero state accettate.
La scena si apre con il risveglio di Tisbea che apre con “Fuego fuego” il fuoco dell’amore sta incendiando la
sua capanna dove non resta più niente perché lei ha perso tutto.
Versi molto efficaci perché si rende conto di quello che ha fatto, di cui lei è responsabile.
Don Juan è immorale e trasgredisce tutte le leggi possibili sul piano civile e religioso, non rispetta di dare
riconoscenza a chi lo ha ospitato, non rispetta la superiorità e la legge per la quale bisogna preservare la
nobiltà, trasgredisce dalla legge del matrimonio, quindi tutti i codici di tipo etico morale e di tipo civile lui li
trasgredisce, ma c’è da dire che attorno a lui c’è un clima di cooperazione all’errore. Non è che il peccatore
è don Juan e tutti gli altri sono privi di macchia.
Isabella dà la colpa a Ottavio e mente, lo zio di Juan che dovrebbe essere il primo a consegnare Juan nelle
mani della giustizia, lo fa scappare, Tisbea sa chi è, sa che cosa fa perché Juan era famoso, sa che non si
possono sposare e nonostante questo si lascia andare. Nessuno si salva.
JORNADA SEGUNDA:
Siamo di nuovo alle prese di una dama dell’alta nobiltà. Don Juan incontra il marchese de la Mota, un altro
giovane come lui che passa la vita a ingannare, infatti per divertimento la sera andavano ad individuare
vittime designate, nei termini di una competizione fra loro, cercando di stabilire chi avesse ingannato più
donne, tanto è vero che questo sollecita il topos de catalogo delle conquiste.
La versione di Mozart si apre con la scena dei due amici che si rivedono dopo tanto tempo per confrontarsi
su chi ha vinto questa gara. Diventerà una costante tematica delle rielaborazioni del mito. Si rincontrano a
Siviglia.
vv. 1280 donne giudicate perché il re ha deciso la pena.
Don Juan chiede notizia di tutte le dame che ha sedotto.
si apre il dialogo tra il re e Gonzalo che gli porta le notizie da Napoli e il re stabilisce come pena per don
Juan il destierro presso Nebrija, che è una cittadina andalusa vicino Siviglia.
Don Juan tornato a Siviglia, deve andare a Nebrija. Nel recarsi da Siviglia a Nebrija, passa attraverso il
pueblo de los Hermanos, dove si ferma, attratto dal fatto che una comunità di pastori stia organizzando le
nozze di Aminta e un pastorello. Juan vede Aminta e non sa resistere.

Costanza si è ammalata di sifilide, ha perso i capelli e le ciglia, è una pena vederla senza capelli in fronte e
ciglia, in portoghese la chiamano vecchia, invece lei pensa di essere ancora bella. Gioca con le parole.
E’ il catalogo delle vittime di Juan
El barrio de Cantarranas è un quartiere emarginato.
Il marchese della Mota quando don Juan gli propone di andare a fare qualche scorribanda, gli confessa di
nno poter continuare a sedurre perché si è innamorato di un’impossibile.
Ana de Unoa è la figlia del consigliere del re ed è la cugina del marchese della Mota.
E’ bella in estremo.
Don Juan incalza l’amico e quanto più l’amico si sofferma nel riferirgli della bellezza della propria amata più
si accende il desiderio di don Juan. E’ sufficiente che il suo amico, un alter ego, desideri Ana, affinché in lui si
generi il desiderio per quello stesso oggetto, è un desiderio mediato.
Il marchese insiste e non si rende conto di che trappola sta preparando per se stesso.
Ana è già stata promessa in sposa.
1375
Don Juan chiede di seguire i passi dell’amico e si macchia di tradimento, non rispetta neanche le leggi
dell’amicizia che era molto importante all’poca. L’amicizia e la lealtà era un valore fondamentale.
Ana ricambia il marchese della Mota, quindi si avvicina alla grata convinta che ci sia il suo amato.
Sente la voce maschile, sa che non è il marchese ma pensa che sia qualche amico e gli chiede di consegnare
un biglietto perché contiene delle informazioni importantissime.
Don Juan interpreta la realtà come un invito ad agire come vuole agire.
Ana che lo ama gli chiede di porre rimedio a quella promessa che il padre aveva fatto e gli dà
appuntamento.
Ana ha scritto nel biglietto di indossare un mantello colorato in modo che la sua serva possa riconoscerlo.
Don Juan già ride della burla. Si inizia a manifestare il tratto quasi demoniaco del personaggio, è un sadico
che si compiace del male che fa. In questi termini emerge l’abiezione più totale del personaggio.
Godrò di lei con la stessa modalità con la quale ingannai Isabela: è lui stesso a creare una correlazione tra le
due.
“Vuoi vivere prendendo in giro gli altri ma finirai per pagare tutte le cattiverie che hai fatto tutte insieme”
Catalinon lo rimprovera e fa sempre questa sorta di previsioni profetiche.
Don Juan risponde male e continua la scaramuccia tra i due.

Don Juan chiede al marchese di prestargli il mantello e in assoluta ingenuità l’amico gli offre proprio
quell’elemento distintivo che serviva ad essere riconosciuto. In questo passaggio del mantello dobbiamo
immaginare uno scambio di identità, don Juan si impossessa della sua identità.
Don Juan gli dà effettivamente il biglietto ma sposta di un’ora l’orario dell’incontro con il marchese.

Don Juan Tenorio viejo è il padre di don Juan: il padre riferisce al figlio che la corte ormai sa tutto rispetto a
quello che lui ha fatto e quindi il re ha deciso di mandarlo al destierro a Lebrija.
“Non hai avuto rispetto neanche del palazzo reale, sebbene in apparenza Dio ti coccola e ti aspetta, il tuo
castigo non arriverà tardi.”
Da qua alla morte c’è una larga giornata, a te sembra breve: sono tutti riferimenti che dovrebbero invitarlo
a cambiare la propria mente, a redimersi, ma lui risponde sempre con fare superbo.

Gli Aparte erano fatti ad un angolo della scena solitamente dai servi e svolgevano o un commento su quello
che accadeva in scena, oppure dicevano cose che non si erano rappresentate in scena: sostituisce la
funzione del coro greco.
Incontro con Dona Ana: cantano un famoso villancico popolare.
Scena con Dona Ana.
Don Juan ha provato il bed twix, la sostituzione nel letto: “tu non sei il marchese!” “Ti dico che lo sono”
Dona Ana si rende conto che sta nella sua stanza con uno sconosciuto, quindi non è una scena molto
onorabile, così inizia ad urlare. Arriva il padre che si presenta ancora mezzo nudo in camera della figlia, con
uno scudo rotondo e con una spada.
Dona ana vede il suo onore compromesso.
Nasce un duello tra il padre di Ana e Juan, lui che si era nascosto dietro un tendaggio per non farsi vedere,
addirittura finisce per uccidere don Gonzalo che dice “ma a cosa mi serviva più la vita se ho perso tutto
l’onore”, Ana perde l’onore e lo fa perdere a tutta la famiglia.
Don Gonzalo muore e accusa don Juan di codardia perché non lo soccorre nemmeno e scappa.
Juan restituisce il mantello in modo tale che fosse il marchese ad essere incolpato.
L’ironia drammatica: Mota non sa che si tratta della propria amata.
Lasciano Siviglia nel caos della morte di don Gonzalo.
Si fermano nel villaggio di Dos Hermanas
Essendo un contesto rustico, tutto il linguaggio, anche le forme metriche diventano campestri.
Gazeno è il padre di Aminta. Stanno parlando del matrimonio quando piomba nel villaggio don Juan.
Batricio ha una corazonada, un’intuizione: è un cattivo segno, un cavaliere e corteggiatore in pieno
matrimonio. Batricio sente l’inquietudine dovuto all’arrivo di don Juan che sente come pericolo
incombente, invece Gazeno è eccitato all’idea che un cavaliere tanto ricco e famoso di alto rango possa
partecipare al matrimonio, lo fanno sedere vicino alla sposa.
“Non ho ancora goduto di mia moglie e già sto soffrendo”

Si siede accanto ad Aminta e inizia tutto un corteggiamento nei confronti della sposa, “se vi sedete al mio
posto, sarete voi lo sposo e non io” si vuole appropriare della sua identità.
Catalinon che parla con la wit, ovviamente gioca con il doppio significato di parole: correr + riflessivo
correrse: eiaculare quindi arrivare all’orgasmo.
In questo caso la perifrasi ESTAR CORRIDO AVUOL DIRE “ESSERE ARRABBIATO” Catalinon gioca con questa
cosa, certo che sta corrido, visto che lui è un toro: subisce una corrida, quindi è un cornuto.
“Sei finito nelle mani di Lucifero” natura demoniaca
Natura mediata del desiderio di don Juan: non si interessa di Aminta e delle sue qualità, ma il movente
profondo è quello di sottrarre Aminta al rivale del desiderio, si impossessa dell’oggetto del desiderio
dell’altro. E’ invidioso. Ma non desidera la donna direttamente.
Don Juan viene ospitato per la notte e Aminta cede alle sue avances: infatti lui dice “scusa ma sposa me,
che ci guadagni molto di più a diventare mia sposa che sposa di Batricio” e lei cede. In questo caso
possiamo dire che per certi versi un altro “complice” è Gazeno, il padre della sposa, che vede don Juan
come un partito migliore per la figlia, o comunque come un personaggio di alto rango e gli permette di
avvicinarsi a lei, partecipare alle nozze ecc. Gazeno spinge un po’ la situazione in quella direzione.
Ovviamente il tempo che albeggi, don Juan è già sparito.
Le vittime sono 4: Tisbea e Aminta vengono deflorate, mentre Isabel e dona Ana, vengono disonorate
perché si fanno trovare in presenza di un uomo durante la notte nelle loro stanze, ma il loro onore fisico è
preservato, quindi in un certo senso si “salvano”.
Don Juan nella notte torna clandestinamente a Siviglia per fare le sue scorribande, in una delle sue visite
notturne a Siviglia
Don Juan è richiamato a corte perché gli viene detto che deve riparare all’onore di Isabella, sposandola.
Tutte le vittime, arrivano a corte per denunicarlo.
Il re è una sorta di deus ex machina, colui che dovrebbe dispensare della giustizia in terra come dovrebbe
fare Dio, per questo è presente nella commedia.
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Mentre a corte si svolge tutta questa specie di processo che darà come esito che don Juan deve sposare
Isabella. Di notte decide di entrare in una chiesa e si imbatte in un sepolcro con una statua, che riproduce le
fattezze don Juan che aveva ucciso.
Il riconoscimento della statua e la lettura dell’epitaffio è un topos che si manterrà nella tradizione.
L’iscrizione recita che colui che è sepolto lì, è in attesa di vendetta.
Don Juan prende il mento della statua e lo sbeffeggia, fa l’oltraggio al morto.
Invito che don Juan muove al defunto: “vi invito a cenare a casa mia, lì faremo il duello e vediamo se la
vendetta è dalla vostra parte”
Riconoscimento + epitaffio + oltraggio + invito: tema che resta in tutte le versioni.

La scena si sposta a casa di don Giovanni dove appare il fantasma di don Juan.
Catalinon fa da contrappunto alla fine tragica: ha il compito di far ridere di più, fa da contrappunto con la
tragedia.
Il servo deve far ridere. Più si intensifica l’atmosfera di dramma e di tragedia, più si intensifica il riso.

Irrompe in scena la statua di pietra, nel modo in cui stava nel sepolcro.
Ci interessa la messa in scena. Si crea una specie di balletto dei corpi, per cui si vede una scena: don Juan
avanza allo stesso ritmo con cui avanza don Gonzalo. Immaginiamo la portata che questa scena dovesse
avere per il pubblico. Era tutto buio, illuminati con le candele, i due corpi si muovono allo stesso modo, ma
la statua dovrebbe ricondurre alla pietra, don Juan alla pura aria, è incosistente.

Don Juan era entrato nella chiesa di Siviglia e aveva visto il sepolcro di don Gonzalo, che aveva oltraggiato
facendogli l’invito e beffeggiandolo. Non si tratta di un’innovazione, ma nella nostra tradizione europea ci
sono tantissime leggende legate all’oltraggio al mondo dei morti e dei defuntri, ad esempio una delle più
consolidate racconta proprio di un giovane che doveva sposarsi il giorno dopo e per tutta la notte aveva
bevuto, era andato in giro per il villaggio, entrato nel cimitero aveva preso a calci un teschio. Questo
oltraggio aveva scatenato la reazione dell’oltretomba di un castigo: il giorno dopo il ragazzo viene avvolto
dalle fiamme che si innalzano da uno dei sepolcri e muore.
E’ legato al tema del castigo, alla punizione dell’oltraggio. Don Juan torna a casa e mentre sta per cenare
bussano alla porta: è la statua di don Gonzalo.
Si produce una sorta di balletto all’unisono.

Catalinon inizia ad interrogare il morto: non si vuole sedere perché è un cagasotto.


“Sciocco e villano, scortese convitato”
Don Juan cerca di calmarlo, dicendo che proprio perché è di pietra non dovrebbe avere paura.
Catalinon si rivolge con cortesia al morto.

Gli chiede se si beve il vino con il ghiaccio nell’aldilà.


Catalinon in momenti di estrema suspance offre una distensione comica.
Si sentono le voci della canzoncina provenire da dietro.
La canzone riprende le parole di don Juan pedissequamente.
Compare il termine PLAZO che è il problema di don Juan: lui ritarda la scadenza della conversione, e proprio
questo è il suo peccato.
Sono due redondillas sul tema dell’amore
“A quale delle donne si riferisce?” “A tutte” risponde con fare sferzante.
Parla con la statua e non capisce la natura ontologica di questo fantasma: sei fantasma, sei ombra, sei
visione? Comunque se devi passare definitivamente dall’altro lato, conta su di me che ti do la mia parola.
Ma don Juan ha proprio un problema con la parola, perché nonostante sia un personaggio altolocato, non
la mantiene mai. La sua parola non è garanzia di niente.
Don Gonzalo prende la parola: “Piano piano” come cosa di un altro mondo, è una presenza sovrannaturale
“Sarai capace di mantenere la parola come cavaliere?” “Mantengo le parole perché sono un cavaliere”
Rovesciamento del motivo topico che ha caratterizzato don Juan: don Gonzalo lo punisce con la sua stessa
tecnica, gli prende la mano.

Don Gonzalo è andato a casa sua per muovergli un contro invito.


E’ un discorso basato sull’idea dell’onorabilità e della parola da mantenere.
“Non c’è bisogno che tu mi faccia luce perché vivo nella grazia di Dio”.

Don Juan era caratterizzato da un’assenza di consistenza, si esprime poco e nelle poche manifestazioni
psicologiche che ha offerto si è sempre rivelato come manifestato da una tracotanza che lo porta ad agire
in maniera sprezzante nei confronti degli altri, invece adesso cambia completamente il suo linguaggio.
Don Juan per la prima volta ha paura.
E’ il primo e unico monodialogo di don Juan che parla con se stesso e non sa che fare, perché per la prima
volta ha paura e non sa cosa fare, però decide di andare, in modo tale che tutta la comunità di Siviglia possa
ancora ammirare, rimanere scioccata del suo comportamento.

La scena si sposta a corte per organizzare le nozze di don Juan LEGGERE CON CURA LE SCENE SALTATE.
SI RITROVANO TUTTI LI E IL RE in qualità di deus ex machina, cerca di riportare l’ordine nel caos generato da
don Juan nel realizzare le sue azioni turpi.

Catalinon dice che è sfortunato a sposarsi di martedì perché è lo stesso giorno in cui deve incontrare la
statua di pietra, ma lui risponde sempre in maniera sfacciata.

Anche con don Gonzalo, don Juan fa tutto lo sfacciato.


Questa scena è speculare a quella precedente di casa di don Juan, e anche qui ci sono le canzoncine,
elemento sovrannaturale che svelano i contenuti simbolici della scena.
“Che sappiano oloro che giudicano tardi i castighi di Dio, che non c’è scadenza che non arrivi né debito che
non si paghi”
Don Juan viene avvolto dal fuoco
Don Gonzalo: io sono l’emissario di Dio incaricato di farti pagare le tue colpe. La giustizia terrena è quella
che sta realizzando il re a palazzo, mentre quella divina è quella che realizza Gonzalo.
Cerca di salvarsi dando la colpa ad Isabella.
Chiede la confessione e l’assoluzione soltanto una volta che è avvolto dalle fiamme dell’inferno e perciò
muore.

Si chiude il dramma del burlador de Sevilla. La scena seguente vede Catalinon protagonista, è lui che deve
annunciare la morte di don Giovanni.
A fronte della lettura successiva, soprattutto quella 800esca che è veicolata al mito della seduzione, in
realtà nella concezione iniziale del mito, nella Spagna del 600, in realtà la seduzione è messa al servizio di
un’altra finalità: il tema è quello della salvezza. Il dramma è incentrato sulla necessità di pentirsi a tempo
debito e chi non ha saputo accogliere i suoi indizi, segnali e messaggi è destinato a morire.
Ovviamente facciamo riferimento alla discussione tra i due ordini di Domenicani e Agostiniani, che da
sempre mettono a punto il sustrato dottrinale su cui si costruisce il pensiero cattolico. Secondo i
domenicani la grazia è dono prerogativo di Dio: predestinazione. Gli Agostiniani, invece erano divisi in varie
fazioni: Francisco Zumèn e Bagnez teorizzano il tema degli auxsili e della grazia diversamente: alcuni
pensano che si più nascere senza la grazia divina, ma l’anima si può salvare se l’anima riesce ocmunque ad
essere predisposta a fare un cammino di redenzione. Parliamo di Grazia efficiente, che è quella che si ha sin
dalla nascita come dono di Dio e grazia efficace, che si guadagna attraverso la capacità di utilizzare gli auxilii
che Dio gli manda.
Don Giovanni non ha mai voluto servirsi degli ausilii, li ha sempre disdegnati e si è autocondannato alla
morte.
Quello che accade dopo rispetto a questo mito è naturale perché il contesto culturale cambia
completamente, non c’è più bisogno di ancorare il tessuto del don Giovanni al problema della salvezza, ma
si proietta sulla rappresentazione demoniaca del don Giovanni.
29 LEZIONE
Un problema simile a quello di don Giovanni, investe anche il protagonista de il CABALLERO DE OLMEDO, di
Lope de Vega.

Lope de Vega, come soleva fare, prende fatti realmente accaduti e rimaneggiava fonti e materiali che aveva
sotto mano.

Il caballero de olmedo è una storia a doppio intreccio: don Alonso e donna Isabel, da Olmeno e da Medina
del campo. Alonso si innamora di donna Ines al mercato di Medina e se ne innamora.

Interviene Fabia, la mezzana “figlia” di Celestina, che per poter portare a compimento la storia di amore
aiuta don Alonso.

Parallelamente matura la storia di rivalità di don Rodrigo che vuole concludere la stria di nozze con il padre
di lei, è sempre più accecato dalla gelosia nei confronti di don Alonso che pubblicamente lo sconfigge e lo
disonora e questa cosa acceca definitivamente don Rodrigo.

Quindi mette a punto un piano omicida, decide di tendere un’imboscata a don Alonso, in uno dei viaggi tra
Olmedo e Medina, gli tende un’imboscata con i suoi bravi.
Don Alonso ad un certo punto ha un sogno premonitore, non ci fa molto caso, mentre sta tornando ad
Olmedo durante la notte, gli si presenta la figura di un contadino che gli annuncia la sua morte. Grande
presenza di componente sovrannaturale: tutti segnali di incapacità di Alonso di cogliere questi segnali, sono
gli ausilii di Dio. Lui però non ci fa caso o non li coglie.
Restano dei segnali nella sua testa che lui non coglie, così si imbatte in questi ceffi e muore.
E’ una tragicommedia: commedia perché l’intreccio legato all’azione di Fabia e di Nebbio che sono i
protagonisti della commedia e tragedia perché muore, c’è il problema della salvezza perché don Alonso non
è un peccatore e tuttavia non riesce a cogliere gli ausilii e comunque muore.
Quindi in maniera diversa tratta lo stesso tema della salvezza dell’anima che si porta dietro l’altra grande
questione del 600: PREDESTINAZIONE O LIBERO ARBITRIO?
L’ultima opera, la vida es sueno del 35 è quella che descrive questa probematica nel migliore dei modi.

Il siglo de oro si fa terminare con il 1680: anno della morte di Calderon della Barca in cui si chiude l’auge
letterario e culturale di Spagna.
Il saggio di Josè Antonio Maravall verte sulle funzioni sociali del teatro barocco, che diventa un teatro di
propaganda, sulle questioni più urgenti. Si usa il teatro per plagiare un po’ il popolo ed è un teatro che ha
nella Chiesa e nell’assolutismo barocco i due presidi più forti. Le rappresentazioni teatrali rappresentano il
pensiero di monarchia e chiesa che sono due entità che hanno bisogno di ricreare unità e si servono del
teatro.
Quest’ultimo esplode come fenomeno sociale e culturale proprio perché chiesa e monarchia si rendono
conto che lo strumento migliore per indottrinare le coscienze e far passare messaggi utili per creare ordine
sociale secondo i principi della Monarchia e della Chiesa.
Mentalità repressiva e conservatrice che non può scardinare il sistema di idee e pensieri e dà invece
qualcosa di nuovo sul piano estetico e formale.
I drammi di Calderon, che non sono più commedie perché il prodotto è molto complesso e raffinata, hanno
una fattura talmente accurata da creare una distanza enorme con le opere del 500.
L’opera tratta del giovane Sigismondo che viene rinchiuso in un carcere sin da bambino. Non è mai uscito
da questa situazione. Suo padre è il re Basilio di , ambiente quasi esotico.
Quest’opera ha una peculiarità: il ragazzo e nato e cresciuto in una prigione e non si è mai integrato in una
società costruita. Tutta l’opera si struttura sul piano verticale della corte e di Sigismondo che sta sul fondo
di una torre ed è anche simbolico perché in qualche modo fa pensare al mondo dell’irrazionale.
Questo bambino è stato sottratto al diritto di crescere a corte èerchè il re Basilio è un astrologo che nello
studiare i cieli collegati alla nascita del figlio aveva messo a punto un oracolo che diceva che questo
bambino crescendo avrebbe rappresentato la sciagura del regno e la morte del padre. Fidandosi delle stello
lo tiene rinchiuso. Sigismondo nel venire al mondo fa morire la madre, che muore di parto e questa è la
conferma della validità dell’oracolo. Sigismondo porta con sé questo peccato, quello di essere l’assassino di
sua madre. Rispetto alle regole fissate da Lope de Vega, Calderon fa qualche passo avanti.
Non c’è più neanche unità d’azione perché l’opera si asticola su una doppia azione: una è quella della vita di
Sigismondo, l’altra è la vita di Rosaura che arriva in Polonia vestita con abiti maschili, per chiedere che
venga riparato il proprio onore perché lei nel suo paese è stata sedotta e abbandonata da Astolfo, il cugino
di Stella, la nipote di re Basilio, e quindi il successore al trono qualora avesse sposato stella.
Dramma identitario e sentimentale di Rosaura (che non ha mai conosciuto suo padre): dramma dell’honor
che si intreccia al dramma di Sigismondo a cui è stata negata la vita.

La scena si apre in medias res, viene raccontato l’antefatto.


Il teatro di Calderon de la Barca è molto ricercato dal punto di vista dei versi, linguaggio cultista che
risponde ad una serie di figuralità, quindi figure retoriche molto presenti.
Rosaura parla per prima: questa scena de la vida es sueno ha sempre opposto problemi perché non si
sapeva come rappresentarla. Rosaura cade da cavallo e pronuncia un’invettiva contro il cavallo che l’aveva
disarcionata.
Trattandosi di un’invettiva, che corrisponde ad uno stato psicologico di alterazione, viene scritta in silvas.
Chiama il cavallo hippogrifo: grifone (aquila e leone) + cavallo
Calderon condensa tutti i richiami simbolici utili alla lettura dell’opera intera in questi primi versi.
Una di questi è la natura ibrida del cavallo: il cavallo imbizzarrito simboleggia l’irrazionalità legata al fatto
che è privo di una guida. Il cavallo ha disarcionato chi lo controlla, quindi sprigiona in maniera incontrollata
i propri istinti. Quindi il cavallo simboleggia l’istinto puro, privo del controllo razionale.
“Ippogrifo violento che corresti in gara con il vento, dove raggio, tuono senza fiamma, uccello senza
piumaggio, pesce senza squame e bruto senza istinto naturale al confuso labirinto di queste nude rocce
(bellissima progressione) fuggi, ti trascini e precipiti? Resta qui su questo monte, dove le bestie come te
abbiano il loro Fetonte (il carro del sole trasportato da Apollo e Fetonte ha provato a guidare il carro del
sole è stato castigato). Si riferisce a tutti miti che hanno a che vedere con l’elemento della caduta.
“Che io senza le strade se non quella che mi hanno destinato il destino ceda disperata, abbasserà la testa
scomposta” scenderò la cima selvaggia del monte (capigliatura aggrovigliata) “di questo monte altro che
brucia al sole nel segno della” il monte viene baciato dal sole “ricevi male a uno straniero perché scrivi con
il sangue il proprio ingresso su queste tue spiagge” perché nel cadere si è ferite + annominatio gioca sulla
paronomasia tra penas e penas “arrivo appena ma piena di pene, ma lo dice bene il mio destino” l’ultimo
verso lo pronuncia perché sente dei lamenti provenire da lontano e a partire da questo momento proverà a
capire da dove provengono i lamenti, si avvicina al fondo della torre che funge da prigione per questo
infelice.
Rosaura si presenta accompagnata da Cladin: il chiacchierone che straparla e ne dice troppe.

La prima scena è archetipo del dramma perché abbiamo innanzitutto la disposizione tra le due immagini:
ASCESA E CADUTA + idea dell’imperfezione. Definisce l’ippogrifo un pesce senza squame, uccello senza
piumaggio ecc.
Ruio pez, bacaro bruto: sono i 4 elementi: simboleggiano il cosmo illuminato che però in questo momento
si presentano in disordine, privati delle loro qualità naturali. Il fulmine senza tuono, l’uccello senza piume, il
pesce senza squame, il bruto senza l’istinto naturale. Quindi la natura non è perfetta, ma scmposta: è tutto
caos. Già ad un animale ibrido si aggiunge in maniera metaforica il caos.
In più si aggiunge l’elemento della caduta fisica di Rosaura, ma etico/morale del cavallo perché viene
castigata la pretesa eccessiva di voler essere più di quello che è. Amartia: errore e ubris: tracotanza

Caduta: saggio di bruce vardonte che dice che tutta questa scena iniziale vuole essere allegoria del parto.
Proveniamo dal buio della caverna oscura, e nasciamo dalla caduta per arrivare alla luce. La caduta
rappresenta l’origine dell’umanità.

Rosaura sente queste voci e si avvicina, sente Sigismondo che si presenta incatenato alle braccia e alle
gambe ed è vestito solo di pelli di animali, quindi è assimilabile alla figura di un selvaggio.
I MONOLOGO DI SIGISMONDO:
sono decime di ottonari. “oh misero me, oh infelice” si rivolge ai cieli. Dal fondo di questa torre può vedere
l’esterno solo da una finestrella da dove vede il cielo, ma è l’unico ocntatto che ha con il creato e per di più
viene tenuto in una condizione di ferinità, non ha a che fare con nessuno tranne che con crotardo, il
siniscalco, che ha il compito di stare con lui, dargli da mangiare ecc. è l’unico esemplare con cui ha avuto a
che fare. Ovviamente Clotardo gli ha impartito una serie di strumenti e coordinate di tipo culturale, in
modo tale che avesse un minimo di conoscenze dell’episteme della sua società. E’ una besta perché nno ha
mai avuto a che fare con il mondo umano ma ha una serie di elementi che conosce che gli saranno utili più
tardi. “Cieli pretendo di appurare giacchè mi trattate così, che delitto ho commesso nascendo, sebbene, se
nacqui, già intendo che delitto ho commesso” richiama l’idea che siamo nati nel peccato originale, quindi
nascendo abbiamo commesso un peccato, in più nascendo ha ucciso sua madre.
“perché il reato maggiore dell’uomo è proprio quello di essere nato” “vorrei mettere fine alle miei
nquietudini notturne tralasciando il peccato originale” si chiede perché gli altri non vivano in questa
condizione “in che cosa vi ho potuto offendere di più per ricevere questo trattamento? Qual è la ragione
per la quale loro hanno goduto di privilegi di cui io non godrò mai?”
Tutto il monologo, scanzionato da riprese anaforiche riprende gli stessi elementi dell’invettiva iniziale.
Quindi questo monologo illumina la scena iniziale esattamente perché sfrutta gli stessi elementi, tranne
l’ultimo: nace el arroyo. L’arroyo non è il rayo, una cosa è il fulmine una cosa il ruscello, ma recupera quel
termine secondo assimilazione fonologica, per mezzo di paronomasia. Sfrutta l’assonanza. Sulla sua acqua
brillano i raggi del sole che creano una specie di scintille sulla pelle del serpente.
I 4 elementi risentono della scia dell’invettiva iniziale e Sigismondo sta osservando quel poco di natura che
riesce a vedere e registra la differenza con la propria condizione. Sono molto belle le interrogative che
chiudono queste sequenze. “Nasce l’uccello con gli ornamenti che conferiscono una bellezza somma,
appena è nato, un rametto con le ami, un fiore appena sbocciato ma con le piume, quando le tenere ali
cambiano velocità, io avendo più anima di questi esseri minuscoli, perché godo di minore libertà?”
Sigismondo registra lo scarto con gli elementi del reale.
Quello esterno a sé è il creato ordinato dove le cose vanno come devono andare quindi non usa il sin ma il
con.
Il caos è lui e non se lo spiega: dramma psicologico dell’individuo che vive una condizione di ferinità che
non riesce a spiegarsi. L’ippogrifo iniziale è Sigismondo, questa creatura fatta di puro istinto e pura
irrazionalità il cui dramma è quella di non disporre di una guida, un fantino, che sarebbe dovuto essere
stato suo padre.
Il monologo è in stretta relazione con la scena iniziale.
L’azione va avanti per le tre giornate: Rosaura scoprirà che Clotardo, il servo di re Colonio è suo padre.
Quindi Rosaura risolve il suo dramma esistenziale. Sua madre gli aveva regalato una spada, l’unica cosa che
restava di suo padre, quando sarebbe stata in grado di usarla, sarebbe stata sua (espediente di tipo
cavalleresco).
A un certo punto re Basilio, mosso da un certo stimolo decide di fare un esperimento. Si fa portavoce di una
mentalità di tipo scientifico, se non fosse che a questa altezza l’astrologia non veniva più trattata come una
scienza, ma siamo in anni in cui grazie al progresso scientifico, alla scoperta del nuovo cosmo secondo il
sistema copernicano, l’astrologia è passata ad essere assimilata alla magia. Quindi in realtà si fa portatore di
una mentalità un po’ attardata, fa passare le sue credenze come cosa scientifica.
Mette alla prova Sigismondo.
Nel regno nessuno sa che c’è un erede legittimo tenuto lontano dal re. Sigismondo viene sedato prima di
essere portato a corte, tutti restano scioccati dalla presenza di un selvaggio a corte.
La corte è simbolo della razionalità, di un pensiero sovrastrutturato, la prigione è un mondo irrazionale.
Sigismondo viene catapultato in una dimensione razionale. Vede Rosaura e la riconosce e senza mezzi
termini cerca di sedurla, il servo interviene e Sigismondo lo lancia dalla finestra.
Ciò comporta che Basilio si vede confermate le sue letture e lo fa rispedire di nuovo nella torre. Al risveglio
Sigismondo chiede a Clotardo se fosse successo davvero e lui gli risponde che ha solo sognato.

Il testo fa riferimento a Sigismondo attraverso delle espressioni che danno l’idea di ibrido, che richiamano
all’ippogrifo iniziale.
Scena III seconda giornata
Il dramma di Sigismondo si sposta ad un certo punto quando gli viene fatto credere che quello che ha
vissuto era solo un sogno, allora il suo dramma si sposta sulla natura ontologica della vita: se lui ha sentito e
provato tutto quello che ha sognato, allora la vita è un sogno?

Scena VI: confronto tra il padre e il figlio


Nel momento in cui un padre è stato capace di allontanarmi da lui, che mi tratta come un mostro e che mi
procura la morte, non è molto importante che mi abbracci, se mi ha privato di essere uomo. Si rende conto
che è il padre ad avergli tolto la possibilità di vivere come uomo.
Per Basilio la predestinazione è fondata perché Sigismondo sta dimostrando quello che è con l’uccisione del
servo defenestrato.

Il sadismo del padre persiste nel generare il disorientamento del figlio.


“E’ possibile che io stia sognando? Ma io mi tocco, mi vedo, sono in carne e ossa”

Sigismondo ha fatto un’esperienza a corte, gli viene fatto credere che fosse un sogno, ma lui attraverso quel
sogno, sa come deve comportarsi, apprende chi deve essere. Capisce di dover rinunciare al suo essere fiera.

Nel frattempo si è sparsa la voce nel regno dell’esistenza dell’erede legittimo tenuto segregato, e così viene
liberato.
Sigismondo viene riportato a corte, ma qui “avendo imparato dal sogno” non si comporterà più in maniera
irrazionale, ma eserciterà la sua razionalità tanto che il padre, che si aspettava di essere ucciso, viene
risparmiato. Infatti Sigismondo si sottrae alla vendetta di cui ha diritto perché se no sarebbe stata una
bestia davvero, invece si riscatta dalla sua condizione di belva.
Sposa Stella, mentre Astolfo deve conquistare Rosaura.
Scena XIX
Es verdad: concessiva
“L’esperienza della vita vissuta mi insegna che l’uomo vive quello che sogna fino al risveglio, allroa come me
anche in re sogna solamente di essere il re” è vera la sua condizione finchè non si sveglia.

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